500 anni fa moriva
LEONARDO
di Messer Piero da Vinci
[Anchiano, 15 aprile 1452 – Amboise,
2 maggio 1519]
a Lucia Deiana
Buon compleanno, cara!
Nel 1549, trenta
anni dopo la morte di Leonardo da Vinci, fu pubblicato un libello in cui si
studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in
massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più,
per essere ipso facto liberi.
“Che cosa è”,
parole di Etienne
de la Boétie, amico di Montaigne – “questa complicità degli oppressi con l’oppressore,
questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non
trova un nome abbastanza spregevole?”
Il nome – apparso,
allora, per la prima volta – è “servitù volontaria”.
In Fuga dalla
libertà, Erich Fromm si sofferma sui tentativi dell’Uomo di evitare l’angoscia
che gli deriva dalla possibilità di scegliere il suo Destino.
Il sentimento di
profonda inadeguatezza davanti al “potere soverchiante del mondo esterno” che è
tipico della condizione umana può essere affrontato con la rinuncia alla
integrità attraverso il meccanismo del sado-masochismo oppure con la
distruttività.
Ma un’altra
possibilità è divenuta attuale e sembra estendersi sempre più rapidamente: il
conformismo.
“Per dirla in
breve, l’individuo cessa di essere se stesso; adotta in tutto e per tutto il
tipo di personalità che gli viene offerto dai modelli culturali; e perciò
diventa esattamente come tutti gli altri, e come questi pretendono che egli
sia. Il divario tra “me” e il mondo scompare, e con esso la paura cosciente
della solitudine e della impotenza. Questo meccanismo può essere paragonato
alla colorazione protettiva che assumono certi animali. Somigliano talmente al
loro ambiente che li si può appena distinguere. La persona che rinuncia al suo
io individuale, e che diventa un automa, identico a milioni di altri automi che
lo circondano, non deve sentirsi più sola e ansiosa. Ma il prezzo che paga è
alto: è la perdita del suo io.”
Fromm si rende ben
conto che una affermazione del genere stride con la convinzione diffusa in
Occidente “che la maggioranza di noi sia composta di individui liberi di
pensare, sentire, agire come loro garba” .
Tuttavia “pur
essendoci certamente dei veri individui tra noi, nella maggior parte dei casi
questa convinzione è una illusione, ed è anzi una illusione pericolosa, giacché
impedisce la eliminazione di quelle condizioni che creano questo stato di
cose.”
Da questa diagnosi
discende la “cura” che Fromm illustra nel secondo sottocapitolo del capitolo 7:
“La libertà ha
raggiunto un punto critico in cui, spinta dalla logica del suo stesso
dinamismo, minaccia di convertirsi nel suo opposto. Il futuro della Democrazia
è affidato alla realizzazione di quell’individualismo che è stato l’obiettivo
ideologico del pensiero moderno dal Rinascimento in poi. La crisi culturale e
politica del nostro tempo non si deve al fatto che vi sia troppo
individualismo, ma al fatto che quello che crediamo individualismo è diventato
una conchiglia vuota. La vittoria della libertà è possibile solo se la Democrazia
si trasforma in una società in cui l’individuo, il suo sviluppo e la sua
felicità, siano il fine e l’obiettivo della civiltà, in cui la vita non debba
cercare giustificazioni nel successo o in altre cose, e in cui l’individuo non
sia subordinato a un Potere esterno, si tratti dello Stato o del meccanismo
dell’economia, né sia manipolato da esso; infine una società in cui la
coscienza e gli ideali dell’individuo non siano interiorizzazione di pretese
esterne, ma siano veramente suoi, ed esprimano i fini derivanti dalla
peculiarità del suo essere.”
Se la Democrazia
era in crisi all’epoca in cui Fuga dalla libertà è stato scritto, oggi la crisi
è più acuta per quanto mascherata da istituzioni che, nei Paesi Occidentali,
sono solide.
L’insicurezza, l’angoscia,
l’impotenza sono dilatate, sistematicamente, in conseguenza della
globalizzazione e della percezione di un mondo nel quale il liberismo economico
ha nettamente sopravanzato il potere politico nazionale.
I segnali più
inquietanti della crisi provengono dagli Stati Uniti, laddove una Nazione, scossa
dall’attacco terroristico dell’11 settembre del 2001, consegnò la sua sorte a
un uomo che prometteva di difendere con ogni mezzo la sua sicurezza e il suo
tenore di vita: la guerra preventiva, il misconoscimento della Convenzione di
Ginevra sui prigionieri di guerra, la violazione della privacy dei cittadini
statunitensi e non, l’indifferenza nei confronti dell’inquinamento climatico,
il mantenimento di un enorme debito pubblico.
Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, “immenso e tutelare”, è un uomo libero o è un bambino
fissato nell’età infantile?
Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque,
della libertà, i nemici che la insidiano “liberamente”, dall’interno del
carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all’apparenza; l’opportunista,
alla carriera; il gretto, all’egoismo; il debole, alla sicurezza.
La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle
azioni, è insidiata da queste ragioni di omologazione delle anime. Si potrebbe, perfino, sospettare che la lunga guerra contro le
arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei
diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà
di cedere liberamente la nostra libertà.
La libertà ha
bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi.
Il conformismo, si
combatte con l’amore per la diversità; l’opportunismo, con la legalità; la
grettezza, con la cultura; la debolezza, con il rigore.
Diversità,
legalità, cultura e rigore: ecco il necessario nutrimento della libertà.
Echo
Quand dans le charme
ardent
De ta pâle beauté
Je cherchais comme d’autres
Ton rire et ton regard,
A qui souriais-tu,
Dis, statue
terrifiante ?
Qui donc voyais-tu
Ne regardant
personne ?
Daniela Zini
Dit Léonard :
“Toutes nos connaissances découlent de ce qu’on
ressent.”
Eprouver par les
sens – au premier rang desquels il place la Vue – et discerner, juger,
réfléchir, tels sont pour lui les vecteurs fondamentaux de la “Sapieta”, de la Sapience, qui est à la fois Savoir
et Sagesse.
Il faut, dit-il, apprendre d’abord à séparer les parties
du tout :
“La Vue est une des opérations les plus
rapides qui soient; en un instant, elle accueille une infinité de formes, et
pourtant elle ne saisit qu’un objet à la fois.”
Pour lire un texte, on doit considérer les mots un à un,
puis les phrases que composent ces mots, et non, globalement, l’ensemble des
lettres inscrites sur la page.
De même, dit Léonard:
“Si tu veux avoir connaissance des formes
des choses, commence par leur détail, et ne passe d’un détail à un autre qu’après
avoir bien fixé le premier dans ta mémoire, et l’avoir longuement pratiqué.”
L’Artiste entraîne ses sens, il éduque ses facultés d’observation,
comme un sportif développe ses muscles. Il est sans cesse en avance sur son
Temps et sans cesse dérangé par un Avenir qui ne veut pas Lui obéir.
Ses yeux seuls subsistent, détachés de Lui. Tristes comme des lévriers sans
maître, déconcertés comme des Archanges a qui nul Dieu ne donne plus d’ordres.
Entre eux et les choses, on ne sert pas d’intermédiaires.
Percevoir, mais aussi conserver, transmettre l’Aventure
humaine, à la fois un peu plus âpre et un peu moins sombre.
Rien n’y réussit mieux qu’une Image.
Une seule Image égale souvent un Livre.
Là précisément est le Mystère de l’Art.
Noi tutti siamo
esiliati
entro lo cornici di
uno strano quadro.
Chi sa questo, viva da
grande,
Gli altri sono
insetti.
Leonardo
Ernesto Solari, artista e studioso
esperto di Leonardo, attribuisce al Maestro questa terracotta, raffigurante un
Gesù fanciullo, che avrebbe avuto come modello Salaì e di cui avrebbe fatto, in
più occasioni, una precisa descrizione il pittore Giovanni Paolo Lomazzo, che
ne sarebbe venuto in possesso.
PUBLIO ELIO TRAIANO ADRIANO
UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
1950 anni fa nasceva
Adriano l’Imperatore della Pax Romana
di Daniela Zini
AKHENATON
UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
Amenofi IV l’Apostata
di Daniela Zini
JULIAN PAUL ASSANGE
Se WikiLeaks?...
di Daniela Zini
MIKHAIL VASILYEVIC BEKETOV
Veni, Vidi, Vi[n]ci
I. Giornalista,
cronaca di una morte annunciata
di Daniela Zini
ZINE EL-ABIDINE BEN ALI
Ben Ali in fuga dalla
Craxi Avenue
di Daniela Zini
PAOLO BORSELLINO
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. MAFIA: “UN MUOITTU
SULU ‘UN BAISTA, NI SIEBBONO CHIOSSAI!” a. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
furono sacrificati alla Ragione di Stato?
di Daniela Zini
ANGELO BRUNETTI
UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
114 anni fa nascava
Ciceruacchio
di Daniela Zini
ANTONINO CAPONNETTO
Memento Memoriae di
Antonino Caponnetto
di Daniela Zini
ANTON PAVLOVIC CECHOV
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO SULLE
STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO
Sakhalin: l’Inferno
dei reclusi a vita
di Daniela Zini
BLAISE CENDRARS
Blaise Cendrars il soldato vagabondo che inventò la Poesia
Moderna
di Daniela Zini
CONFUCIO
Confucio e l’antica
cultura
di Daniela Zini
DONATIEN-ALPHONSE-FRANCOIS DE SADE
UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
Il Divino Marchese
di Daniela Zini
DARIO I IL GRANDE
La gloria di Re Dario
tramonta a Maratona
di Daniela Zini
CECCO D’ASCOLI
UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
Cecco d’Ascoli
astrologo senza paura
di Daniela Zini
DWIGHT DAVID EISENHOWER
50 anni fa il monito
di Eisenhower
di Daniela Zini
GIOVANNI FALCONE
Omaggio a Giovanni
Falcone
di Daniela Zini
Memento Memoriae
Giovanni Falcone ce l’ha
insegnato, la Mafia è un reato!
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. MAFIA: “UN MUOITTU
SULU ‘UN BAISTA, NI SIEBBONO CHIOSSAI!” a. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
furono sacrificati alla Ragione di Stato?
di Daniela Zini
MOHANDAS KARAMCHARD GANDHI
La non-violenza
sconfiggerà la violenza
di Daniela Zini
La non-violenza
sconfiggerà la violenza?
di Daniela Zini
GESU’
Gesù e le donne
di Daniela Zini
Gesù e i fanciulli
di Daniela Zini
… e abitò tra noi!
di Daniela Zini
FLAVIO CLAUDIO GIULIANO
Giuliano il
restauratore del Paganesimo
di Daniela Zini
JOHN
MAYNARD KEYNES
Keynes,
profeta del New Deal
di Daniela Zini
MARTIN LUTHER KING
I
have a dream…
di Daniela Zini
THOMAS EDWARD LAWRENCE
125 anni fa nasceva El
Aurens Lawrence d’Arabia
di Daniela Zini
LEONARDO DA VINCI
UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
500 anni fa moriva
Leonardo
1. Perché
Leonardo?
di Daniela Zini
UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
500 anni fa moriva
Leonardo
2. Monna Lisa
di Daniela Zini
MALCOLM
UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
Malcolm X
di Daniela Zini
NELSON ROLIHLAHLA MANDELA
Nelson Mandela una
candela nel vento
di Daniela Zini
BRADLEY EDWARD MANNING
Eroi o traditori?
I. Il processo di
Bradley Manning minaccia il giornalismo di inchiesta
di Daniela Zini
TOMAS GARRIGUE MASARYK
Dopo 60 anni ancora un
enigma la fine di Masaryk
di Daniela Zini
JAFAR PANAHI
Omaggio a Panahi
di Daniela Zini
JORGE RAFAEL VIDELA REDONDO
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO SULLA
ROTTA DI CRISTOFORO COLOMBO
Argentina I. La Tripla
A: un nome che semina morte
di Daniela Zini
LEV NICOLAEVIC TOLSTOJ
UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
105 anni fa moriva Lev
Nicolaevic Tolstoj
di Daniela Zini
“I moti del Vinci sono della nobiltà dell’animo, della facilità,
della chiarezza d’imaginare, della natura di sapere, pensare et fare, del
maturo consiglio, congiunto con la beltà delle faccie, della giustitia, della ragione, del
giuditio, del separamento delle cose ingiuste dalle rette, dell’altezza della
luce, della bassezza delle tenebre, dell’ignoranza, della gloria profonda della
verità, et della carità regina di tutte le virtù. Così Leonardo parea che d’ogni
hora tremasse, quando si ponea a dipingere, e però non diede mai fine ad alcuna
cosa cominciata, considerando quanto fosse la grandezza dell’arte, talché egli
scorgeva errori in quelle cose, che agli altri pareano miracoli. Leonardo nel
dar il lume mostra che habbi temuto sempre di non darlo troppo chiaro, per
riservarlo a miglior loco et ha cercato di far molto intenso lo scuro, per
ritrovarli suoi estremi.
Onde con tal arte ha conseguito
nelle faccie e corpi, che ha fatti veramente mirabili, tutto quello che può far
la natura. Et in questa parte è stato superiore a tutti, tal che in una parola
possiam dire che ‘l lume di Leonardo sia divino.”
Giovanni Paolo Lomazzo
[1538-1592]
Perché Leonardo?
Perché, oggi, Leonardo è tra noi con una vitalità che poche
figure della Storia, dell’Arte, della Scienza – anche di epoche ben più recenti
– possono vantare.
Di Leonardo, certamente uno dei più inquieti Geni dell’Umanità,
non si può considerare un aspetto se non intimamente connesso con gli altri.
Possiamo parlare delle Opere d’Arte sulle quali, esclusivamente,
la sua fama si è sostenuta, per circa tre secoli, o considerare la sua
artigiana genialità che mossa da una sfrenata curiosità, da una sconfinata sete
di conoscenza, quantunque “omo senza
lettere”, lo portò alle più geniali anticipazioni e intuizioni di scoperte
e Verità. Possiamo valutare, ancora, la fermezza d’animo dell’individuo che,
chiaramente controcorrente, per amore di vera Scienza si spinse avanti nelle
sue intenzioni, attitudini, pensieri e azioni, senza troppo preoccuparsi del
discredito tra i suoi contemporanei che, quando non lo accusavano di
profanazione e, perfino, di negromanzia, ne lamentavano che poco si dedicasse all’Arte
in cui appariva eccelso e che, invece, troppo amasse “i capricci del filosofar delle cose naturali”.
È questo “filosofar”
la chiave per penetrare, anche, gli altri molteplici aspetti di un geniale
eclettismo?
Se per filosofia si intende una concezione organica del reale,
una ricerca sistematica della Verità, la coscienza speculativa di Leonardo ha,
certamente, raggiunto l’ambita Verità non tanto con il potere riflessivo della
mente, quanto con l’oggettivo proiettarsi della mente nella Natura, con il
ritrovare nella esperienza le ragioni della Scienza e la via per attuare il
dominio dell’Uomo su questa Natura. Temi universali, senza confini di Spazio o
di Tempo. E da qui viene l’attualità di un messaggio che è rivolto al Futuro
dell’Uomo; da qui viene la profondità di una interpretazione che offre cerchi,
sempre, più ampi di ispirazione e di stimolo alle persone, anche dopo cinque
secoli dalla morte del Maestro.
In quel crogiolo di
menti eccelse che il Rinascimento è stato per il mondo dell’Arte e della
Cultura, la figura di Leonardo campeggia
dall’alto del suo incommensurabile bagaglio del sapere. È lui il Genio
Universale, nell’accezione sublime del termine, il poliedrico cervello cui
nulla sfugge, tutto compreso del mosaico di conoscenze che persegue, con una
profondità metodica, solo apparentemente scomposta.
Nella sua eccezionale
lungimiranza, Leonardo si rivela un portentoso innovatore, l’Uomo che “riprende
tutto da capo”, per penetrare il mistero dell’Universo Umano nei suoi più
reconditi aspetti, anticipando a tal punto i tempi da non essere compreso a
pieno dai suoi contemporanei.
Non vi è materia che
non abbia sviscerato, elaborando nuove e originali teorie che non sono state
alla base del moderno progresso scientifico.
I suoi progetti architettonici
si sono rivelati di una sorprendente attualità, perfino, in questo secolo che
brucia gli ingegni sull’altare del continuo rinnovamento.
Un Genio della sua
levatura è, davvero, una plurisecolare rarità dalle origini misteriose, che si
manifesta al genere umano con una frequenza tristemente rarefatta.
Una simile virtù,
condensata in somma misura, non segue, purtroppo, le leggi cromosomiche della
successione ereditaria.
Il dopo Leonardo si
configura come una coltre nebbiosa, dietro la quale vi è soltanto un vuoto
sconfortante, un buio quantificabile in anni luce di eclissi intellettuale.
In un film del 1967, I sovversivi dei fratelli Paolo e
Vittorio Taviani, appariva il personaggio di un regista cinematografico alle
prese con la biografia di Leonardo da Vinci. Al cineasta Ludovico interessava
soprattutto l’ultimo periodo della vita del Genio, nel quale si compiaceva di
rispecchiare, con effetto piuttosto grottesco, la propria crisi personale. E il
film nel film mostrava, così, un Leonardo morente, in fuga dalle corti che l’avevano
ospitato, animato da una smania tolstoiana di aria e di libertà.
A breve distanza da I sovversivi, un regista vero si trovava
nell’imbarazzante situazione dell’immaginario Ludovico, quella di confessarsi,
raccontando la vita di Leonardo: Renato Castellani – ligure, cinquantasette
anni, laureato in architettura, autore di films
famosi, Sotto il sole di Roma e Due soldi di speranza – stava
realizzando per la RAI-TV un Leonardo
in cinque puntate, dopo avere impiegato due anni a scrivere la sceneggiatura,
con la consulenza di Cesare Brandi.
Esistono figure della
Storia di cui è agevole ricostruire, sulle cronache e sui documenti, l’itinerario
biografico e psicologico; e altre, che viste da vicino, si rivelano ambigue e
misteriose.
Tra queste ultime è
Leonardo.
La sua biografia si
fonda su scarsi elementi, appare laconica e misteriosa, infarcita di leggende e
di inesattezze.
Giorgio Vasari, nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et
architettori fa morire l’artista “in
braccio” a Francesco I e “nell’età
sua d’anni settantacinque”.
“Mentre Leonardo”,
affermava Castellani,
“morì a sessantasette anni d’età e il giorno della sua morte
Francesco I si trovava a Saint-Germain.”
Nell’enumerare le
difficoltà incontrate il regista riferiva:
“Di Leonardo non possediamo lettere. L’unica che ci è pervenuta
quasi per intero è la famosa epistola a Ludovico il Moro ed è una lettera,
diciamo così, di affari. Anche della sua opera non conosciamo molto: poco più
di una decina di quadri sono sopravvissuti al loro tempo e di questi, almeno
quattro, sono d’incerta attribuzione.”
E non solo.
Del famoso cavallo per
il monumento a Francesco Sforza, scultura alta sette metri, non esistono più
che alcuni disegni; della grande Battaglia
di Anghiari è rimasta solo una una sanguigna di Pieter Paul Rubens e una
piccola copia; i ricchissimi Codici
furono smembrati e dispersi.
Definito “mirabile e
celeste” da Giogio Vasari, Leonardo “era
tanto piacevole nella conversazione che tirava a sé gli animi delle genti”:
eppure nelle memorie dei contemporanei è nominato ben poco e Leonardo stesso
parla pochissimo di sé. Appena qualche frase sintomatica, come quella famosa:
“E se tu sarai solo sarai tutto tuo.”,
da cui bisogna
ricostruirne il carattere con la bravura dell’archeologo, che da un residuo
frammento riesce a immaginare l’opera intera.
Così fece Sigmund
Freud, nel 1910, pubblicando il saggio, Un
ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, che fu accolto da proteste
indignate. Parve, infatti, che il fondatore della psicoanalisi avesse valicato
i limiti dell’osservazione scientifica analizzando un sogno infantile riferito
dall’artista: l’incubo di un nibbio che si avventava sul suo letto e con la
coda gli percuoteva la bocca. Da questa immagine notturna Freud risaliva alla
malcerta condizione del sognatore come “figliuolo
non legittimo” del notaio Ser Piero da Vinci, coccolato dalla madre
Caterina e troppo presto strappato a lei.
Per tutta la vita,
Leonardo sublimò in un ideale di bellezza androgino, che si evidenzia negli
ambigui sorrisi dei suoi ritratti, la carenza dell’affetto paterno e l’eccesso
di quello materno; il suo stesso eclettismo ossessivo si spiegherebbe, secondo
Freud, con i dati della sessualità infantile.
Per evitare i rischi
delle biografie romanzate, Castellani aveva scelto la mediazione di un
personaggio didascalico, interpretato dall’attore Giulio Bosetti, vestito, in
modo inappuntabile, in completo grigio e cravatta, per introdurre, commentare e
integrare lo sceneggiato, creando una curiosa commistione di epoche.
Quanto all’interprete
di Leonardo, la ricerca era stata lunga, aveva contemplato molti grandi nomi
del cinema dallo svedese Max von Sidow a Laurent Terzieff.
Sempre insoddisfatto,
il regista ripeteva ai suoi collaboratori:
“Leonardo era uno che piegava con le mani un ferro di cavallo e
che poi, con quelle stesse mani, ha dipinto la Gioconda.”
Dopo molti provini era
stato scelto l’attore francese Philippe Leroy, quaranta anni, nobile dei conti
Leroy-Beaulieu, ex-parà in Indocina, ex-giocatore di rugby, interprete di
cinquanta films dal giorno del 1960,
in cui il regista Jacques Becker lo “intrappolò” tra i carcerati de Il buco.
Non era mancino come
Leonardo, ma aveva promesso che si sarebbe esercitato, puntigliosamente, tutti
i giorni a scrivere e a disegnare con la mano sinistra.
E, il 24 ottobre 1971,
la RAI-TV mandava in onda la prima
delle cinque puntate dello sceneggiato La
vita di Leonardo da Vinci per la regia di Renato Castellani.
Era un’opera
ambiziosa, che aveva richiesto circa sei mesi di lavorazione e l’impiego di
oltre un centinaio di attori e cinquecento comparse ed era stata girata nelle
diverse città italiane, che il Sommo Leonardo aveva toccato nel corso della sua
vita, Roma, Firenze, Milano e Venezia, solo per citarne alcune.
Un’opera che si
discostava molto dalle produzioni televisive girate fino ad allora.
Lo sceneggiato si
apriva con le ultime ore di vita di Leonardo.
È il 2 maggio del
1519.
Il sessantasettenne
Leonardo è, dall’autunno del 1516, ospite del suo più grande estimatore, il Re
di Francia Francesco I, nel Castello di Clos Lucé.
Leonardo è nel suo
letto, indebolito da una probabile trombosi cerebrale, che gli ha tolto,
parzialmente, l’uso della mano destra e sta per ricevere la visita del Re in
persona, preoccupato per le sue condizioni di salute.
Tenta di sollevarsi
dal letto, ma il Sovrano lo esorta a non sforzarsi: “Come state, mon ami?”
chiede Francesco I a
Leonardo.
“Pensavo a quante cose non fatte, studiate, incominciate…”
“Quante cose che avete fatto, invece…”
risponde il Re.
Era un Uomo
affascinante, racconta Giulio Bosetti, citando Giorgio Vasari:
“Grandissimi doni si veggono piovere dagli influssi celesti ne’
corpi umani molte volte naturalmente, e sopra naturali, talvolta, strabocchevolmente
accozzarsi in un corpo solo bellezza, grazia e virtù, in una maniera, che
dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azzione è tanto divina, che
lasciandosi dietro tutti gl’altri uomini, manifestamente si fa conoscere per
cosa [come ella è] largita da Dio e non acquistata per arte umana. Questo lo
videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale oltra la bellezza del corpo,
non lodata mai a bastanza, era la grazia più che infinita in qualunque sua
azzione; e tanta e sì fatta poi la virtù, che dovunque l’animo volse nelle cose
difficili, con facilità le rendeva assolute. La forza in lui fu molta e
congiunta con la destrezza, l’animo e ‘l valore, sempre regio e magnanimo.”
3. LEONARDO E LE DONNE
“Della fallace
fisonomia e chiromanzia non mi estenderò, perché in esse non è verità; e questo
si manifesta perché tali chimere non hanno fondamenti scientifici. Vero è che i
segni de’ volti mostrano in parte la natura degli uomini, i loro vizi e
complessioni; ma nel volto i segni che separano le guancie dai labbri della
bocca, e le nari del naso e le casse degli occhi sono evidenti, se sono uomini
allegri e spesso ridenti; e quelli che poco li segnano sono uomini operatori
della cogitazione; e quelli che hanno le parti del viso di gran rilievo e
profondità sono uomini bestiali ed iracondi, con poca ragione; e quelli che
hanno le linee interposte infra le ciglia forte evidenti sono iracondi, e
quelli che hanno le linee trasversali della fronte forte lineate sono uomini
copiosi di lamentazioni occulte e palesi. E così si può dire di molte parti. Ma
della mano tu troverai grandissimi eserciti esser morti in una medesima ora di
coltello, che nessun segno della mano è simile l’uno all’altro, e così in un
naufragio.”
Leonardo,
dal Trattato della Pittura, Parte terza De’ vari accidenti e
movimenti dell’uomo e proporzione di membra , 288. Degli atti delle figure.
Leonardo, La Scapigliata.
Galleria Nazionale della Pilotta, Parma.
Leonardo, Studio per l’Angelo
della Vergine delle Rocce.
Biblioteca
Reale, Torino.
Leonardo, Studio per la
Madonna dei fusi.
Gabinetto
dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, Firenze.
Leonardo, Studio di
giovane donna di profilo.
Royal
Collection, Windsor.
Leonardo, Studio per la testa di Leda
Royal
Collection, Londra.
Leonardo, Studio per la
testa di Sant’Anna.
Royal
Collection, Windsor.
Leonardo, Studio di testa
femminile.
Gabinetto
dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, Firenze.
Leonardo, Studio di testa
femminile.
Louvre, Parigi.
Connue comme la Joconde: l’acquisizione del tema leonardesco da parte del linguaggio comune
basterebbe da sola a offrire ancora un’altra testimonianza della fama di un
capolavoro che, prescindendo dal suo ruolo di despota nella pittura mondiale,
ha avuto una propria “avventura” –come è stato, giustamente, scritto! – che non
trova riscontro in nessun’altra opera d’arte o meglio, in nessun altro ritratto
femminile.
Quale altra Donna,
infatti, tra tutte quelle tratteggiate dal sapiente pennello di un pittore, può
vantarsi di essere stata camuffata e trasformata come la Gioconda?
L’abbiamo vista
questa Dama dal sorriso enigmatico, ora con i baffi alla Dalì, ora con l’elmo
chiodato del Kaiser, ora con le fattezze di Stalin, ora con la testa di cane,
ora come teschio, ora “dattilografata”, ora scompostamente denudata, ora con il
viso di Fernandel, ora in vesti monacali – tanto per non ricordare che alcune
tra le tante metamorfosi – fino a sottolineare – con tre successivi mutamenti
su un trittico propagandistico – la particolarità di una famosa acqua minerale.
E passi finché siamo
nei limiti di un’acqua minerale da tavola.
Agli inizi del
Novecento Monna Lisa, detta la Gioconda, fu vista campeggiare su enormi poster
per reclamizzare ancora un’acqua minerale, ma questa volta purgativa. La qualcosa
autorizzò i Futuristi, capeggiati da Filippo Tommaso Marinetti – il quale, già,
a Parigi, dalle colonne del Figaro
aveva ammonito i francesi a non andare a visitare La Gioconda esposta al Louvre
più di una volta all’anno perché “quella donna
dal sorriso indisponente e melenso non meritava più della visita annuale che si
suol fare ai morti il 2 novembre” – a sbandierare, ai quattro
venti, la loro soddisfazione perché, finalmente, “la
moglie del Giocondo aveva trovato un ufficio confacente alla sua tediosa e
lassativa bellezza”.
Ma chi era nella
vita questa Dama dall’espressione eludente che ha fatto versare fiumi di
inchiostro nella puntigliosa ricerca della sua vera identità, perfino, della
sua reale esistenza?
Lisa era
semplicemente la terzogenita del nullatenente Anton Maria Gherardini, nata a
Firenze nel 1479 – come attesta il Registro del Catasto del 1480 – “senza principio di dote alcuna”. Qualche
anno dopo, Gherardini si trasferì a Napoli con la moglie Caterina Rucellai e i
tre figli, dando inizio a una attività di mercante di stoffe, che, con il tempo,
gli avrebbe procurato una certa agiatezza.
Nella cerchia di
quanti frequentavano abitualmente casa Gherardini vi era un loro parente,
Francesco del Giocondo, appartenente a una famiglia che aveva dato ben undici
priori alla Repubblica Fiorentina, da poco rimasto vedovo con un bambino di tre
anni e un altro appena di uno. La fresca e pensosa bellezza di Lisa, in quel
tempo quindicenne, non mancò di fare breccia nel cuore di Francesco del Giocondo,
che intuì come quella dolce creatura avrebbe potuto essere non solo una ottima
moglie per lui, ma anche una madre amorosa per i suoi due figli.
E non si sbagliava,
poiché Lisa, divenuta moglie di Francesco del Giocondo, non solo amò i figli
del marito come se fossero suoi, ma lo assecondò e lo seguì in tutte le opere
di misericordia che lui espletava, quotidianamente, quale membro della Confraternita della Pietà.
Quattro anni dopo le
nozze, nel 1499, anche Lisa dette alla luce una bambina, che morì dopo appena
qualche mese di vita. Lisa ne fu inconsolabile e cadde in uno stato di profonda
prostrazione. Per farla distrarre il marito, che era amatore d’arte, pregò Leonardo,
che era tornato a Firenze dopo il soggiorno milanese alla corte di Ludovico il
Moro e la breve sosta a Venezia, di
eseguire il ritratto di sua moglie.
E Leonardo, che,
vedremo, non era facile nella scelta dei suoi soggetti, al punto da rifiutarsi di
ritrarre, perfino, Isabella d’Este, duchessa di Mantova, si dedicò, invece, con
tutto se stesso a fissare sulla tela l’immagine di quella giovane donna, di cui
l’avevano colpito il sorriso e lo sguardo che gli sembravano trasmettere l’inviolabile
riflesso di un sogno segreto.
Per tre anni, dal
1503 al 1506, l’artista lavorò intorno al volto di Monna Lisa, volto animato
dall’ombra di un sorriso pressoché inesistente, come chi insegue una visione
nota solo a se stesso, quel quid
indecifrabile che, forse Leonardo stesso aveva, sempre, cercato. Vi è, infatti,
chi ha scritto che “La Gioconda “cosa bellissima” è il
ritratto di Leonardo medesimo, un’autoconfessione. È il ritratto della sua
anima”.
Leonardo,
Monna Lisa
Louvre,
Parigi
Ma Lisa non riuscì a vedere finito il suo
ritratto. L’anno prima che questo fosse perfezionato, mentre accompagnava il
marito in un viaggio di affari in Calabria, giunta a Lagonegro, vicino a
Potenza, fu assalita da una violentissima febbre, forse, un attacco malarico,
che ne causò la morte in pochi giorni.
Ma torniamo indietro
nel tempo, precisamente nel 1492, e trasferiamoci da Firenze a Milano con
Leonardo allora trentenne, il quale, da quel momento, rimarrà per circa venti
anni al servizio di Ludovico Sforza, che aveva fatto di Milano una delle più
eleganti e raffinate città d’Italia. Signore degli Amori, come era stato
definito, Ludovico il Moro si circondava nella sua corte di donne giovani e
bellissime, famose per la loro grazia ed eleganza. Tra queste, due colpirono,
in particolare, Leonardo: Cecilia Gallerani e Lucrezia Crivelli, nelle cui
sembianze gli sembrava di intravedere quel particolare tipo di bellezza
femminile che, come abbiamo visto, troverà realizzato solo venti anni più tardi
nelle fattezze di Monna Lisa. Che la corte di Milano fosse, essenzialmente, una
corte di donne ebbe, senza dubbio, una grande influenza sulla pittura di
Leonardo; a loro volta, le donne erano attratte dal dualismo di questo artista
dall’intelligenza e dalle tendenze scientifiche decisamente maschili, ma anche
dalle inclinazioni squisitamente femminili verso i profumi, la voce languida
del liuto, le vesti di seta frusciante. Questo artista che non le guardava come
si guarda una donna, ma le osservava, con puntigliosa attenzione, spiandone,
attentamente, tutte le sfumature dell’espressione alla scoperta del mistero
della loro personalità nascosta. Quando Leonardo arrivò a Milano, Cecilia
Gallerani era una regina nella corte sforzesca. Nata nel 1495 da Fazio, un
nobile milanese varie volte incaricato di ambascerie a Firenze, aveva appena
sedici anni quando diventò l’amante ufficiale di Ludovico il Moro che, come
primo dono, la investì del feudo di Saronno. Ludovico l’amava tanto da pensare
anche di farla sua legittima sposa, dopo avergli dato un figlio, Cesare; ma,
poi, con il tempo, come sempre avviene a certi livelli, era prevalsa la Ragione
di Stato e inevitabili opportunità politiche avevano fatto scartare il
progetto. Leonardo fu, subito, colpito dall’espressione della giovanissima
donna, che aveva il raro dono di trasfondere serenità in coloro che la
guardavano e ideò un particolare personalissimo, ponendo tra le braccia della
giovane un ermellino. Dal quadro, detto, appunto, Ritratto di Dama con ermellino, la bestiola dall’arguto musetto
appuntito guarda nella stessa direzione e con la stessa malcelata espressione
di curiosità della splendida creatura dal collo esile, dal naso perfetto, dalla
bocca con gli angoli leggermente rivolti all’insù, dagli occhi interroganti,
come volti a cogliere un suono o un passo, ad aspettare con fiducia ciò che
accadrà domani.
“Madonna
Cecilia, Amatissima mia Diva…”
Il rigo incompiuto
del Codice Atlantico apre, così, uno dei tanti interrogativi della misteriosa
vita sentimentale dell’artista.
Ma, nel 1491,
Ludovico il Moro sposava Beatrice d’Este, giovane figlia del duca di Ferrara
Ercole I e sorella di Isabella, affascinato dal momento in cui l’aveva
conosciuta, dal suo viso irregolare di bambina, dal suo modo di essere, ora
infantile e ora appassionato, dai suoi capricci, dalle sue gelosie, dai suoi
maldestri slanci di affetto, senza contare l’indiscutibile inclinazione al
culto delle lettere e delle arti e quella istintiva ricerca dell’eleganza e dei
gioielli più preziosi che avrebbero fatto, poi, di lei la splendida Signora
della corte di Milano. Non fu, dunque, difficile per Ludovico il Moro cedere a
una delle prime richieste della sposa-bambina: allontanare Cecilia Gallerani
dal castello e perfino da Milano. E a Cecilia non rimase che obbedire e uscire
per sempre dalla vita di Ludovico il Moro. Con una cospicua dote e con i bauli
nuziali stipati di splendide vesti e drappi andò sposa al conte Bergamini di
Cremona.
Leonardo,
Ritratto di Dama
Louvre,
Parigi
Leonardo,
La Dama con l’ermellino
Museo
Nazionale, Cracovia
Beatrice non amava Leonardo. La irritava
il non riuscire a comprendere a fondo “quello strano uomo”, cui non perdonava
di avere eseguito lo splendido ritratto di colei che l’aveva preceduta nel
cuore del marito.
Leonardo, invece, si ingegnava a
ideare per lei cento minuzie e frivolezze: nel giardino del Castello le fece
costruire – dopo averlo disegnato fino nei minimi particolari – un pavillon per le sue abluzioni: rosa il
marmo delle pareti, bianco quello della vasca; i rubinetti per l’acqua calda e
fredda rappresentavano teste di anguille; sul fondo un mosaico con la figura di
Diana. Ma, neppure questo riuscì a scalfire la diffidente ostilità della
giovane duchessa nei confronti di Leonardo.
Tra loro si ergeva sempre, come un
muro di ghiaccio, La Dama con l’ermellino.
E frattanto Beatrice non si accorgeva
che lo sguardo di Ludovico il Moro indugiava sempre più insistentemente su una
delle sue damigelle, quella Lucrezia Crivelli dall’aria dolce e schiva, anche troppo
introversa, il cui contegno creava un contrasto con l’eccessiva vitalità di
Beatrice, che, con il suo temperamento capriccioso e poco disponibile nell’intimità,
costringeva Ludovico più volte a tornare con il pensiero a chi sapeva amarlo
con tenerezza e dedizione.
Visti i rapporti della duchessa con l’artista,
molto incerta e contrastata è stata, quindi, l’identificazione con Beatrice d’Este
– anche se, oramai, accettata da larga parte dei critici – della figura del Ritratto di Donna, che ci rimanda una
donna giovane, dal nasetto capriccioso, bocca morbida, i capelli giovanilmente
vivi trattenuti da una cuffietta di rete d’oro, orlata di perle.
Beatrice morì a soli ventidue anni,
il 2 gennaio del 1479, dando alla luce una bambina morta.
Ludovico, il principe terribile e
crudele, per anni despota delle sorti d’Italia, per la prima volta, conobbe il
sapore delle lacrime, nell’angolo più remoto del suo castello.
Scrive Mariana Frigeni nella sua biografia
di Ludovico il Moro,
“Quella giovane di
ventidue anni che aveva portato sposa alla sua corte ancora bambina, aveva
riempito la sua vita in modo straordinario. Da italiano tipico quale egli è, l’aveva
spesso trascurata, aveva avuto due amanti ufficiali; Cecilia Gallerani e
Lucrezia Crivelli e un piccolo caleidoscopio di altre donne; spesso aveva
dimenticato, con le stesse Dame della moglie, i malumori e i furori provocati
dalla politica, ma, nonostante tutto, s’era abituato a considerare la ragazza
che aveva a fianco come la sua vera, la sua sola compagna. Beatrice aveva
riscaldato con la sua luminosa presenza la corte di Milano, era stata l’ineguagliabile
amica degli artisti e dei geni, aveva richiamato in Lombardia tutto ciò che di
grande e di sensibile vi era nel mondo.”
La disperazione di Ludovico, tuttavia,
per quanto inizialmente sincera, non durò a lungo.
Alla fine dell’anno Lucrezia Crivelli,
che, già, da tempo, aveva con lui una relazione e che, dopo la morte di
Beatrice, ne era divenuta l’amante ufficiale, gli dava un figlio, Gian Paolo,
quasi a suggellare morganaticamente un legame che non aveva nessuna speranza di
ricevere il crisma dell’ufficialità.
È, dunque, lei la splendida creatura
che nello sguardo, già, anticipa il mistero de La Gioconda, ritratta nel quadro La Belle Ferronière, denominazione nata dal nastro che, nel 1500,
usava cingere la fronte delle donne per trattenerne i capelli, detto, appunto, ferronière?
Larga parte dei critici propende per
il sì; anzi vi è chi vede nella malinconia dello sguardo della donna – così
diverso da quello luminoso e interrogativo di Cecilia Gallerani – come la
consapevolezza che gli anni d’oro di Ludovico il Moro stiano per tramontare e
che il destino stia preparando la sua decadenza.
Preceduto da una fama che aveva,
oramai, varcato i confini d’Italia, Leonardo, dopo venti anni di soggiorno a
Milano, lascia la città per fare ritorno a Firenze, via Mantova.
Del Ducato di Mantova era Signora
Isabella d’Este, sorella di Beatrice, che, sposata giovanissima a Francesco
Gonzaga aveva fatto della corte mantovana, come già sua sorella Beatrice a
Milano, uno dei centri più splendidi del Rinascimento italiano.
Con l’arrivo dell’artista, Isabella d’Este
sperò di vedere appagato un sogno ambizioso, inseguito, inutilmente, per anni: essere
ritratta da Leonardo.
Ma fu delusa!
La bella duchessa, squisita nel
profilo e nei modi di corte, era, per Leonardo, un modello detestabile.
Non riusciva a stare ferma per le ore
di posa indispensabili a un “pittore lento” come lui.
Si mostrava irritata e delusa degli
abbozzi.
Il ritratto non fu mai compiuto.
Quello che si conserva al Louvre, schizzato a carboncino e a
pastello e bucherellato per lo spolvero, non è che un abbozzo che Leonardo non
finirà perché Isabella – come osserva un suo biografo – era per lui una donna
“disturbante”, una donna immoderata nei piaceri della mente.
E Leonardo, che non amava le donne,
si trovava in sua presenza a disagio, inutilmente cercando quella dolcezza che
lei non aveva e che per lui era come un incantesimo.
Leonardo,
Studio per Leda e il Cigno.
Leonardo,
Studio per Leda e il Cigno.
Leda e il Cigno è un dipinto a olio e resine su tavola
(130x77,5 cm) di un pittore leonardesco, forse Francesco Melzi, databile
al 1505-1507 circa e conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze. Si
tratta di una delle migliori copie della perduta Leda di Leonardo.
Bellissimo, elegante, gentile nei
modi: è naturale pensare che su Leonardo si siano soffermati gli sguardi di
molte Dame.
Ma, qui, si tocca una delle questioni
più delicate nella biografia di Leonardo.
Nella sua vita non vi è mai stato – o
almeno non si conosce – l’amore di una donna.
Anche se, come argomenta Sigmund
Freud, l’istinto sessuale pare essere stato molto precoce in Leonardo. Un
istinto localizzato in una “zona erotica
labiale”: ne sarebbe testimonianza quel sogno del nibbio, già,
ricordato, ma anche l’insistenza di un misterioso sorriso in molte figure
leonardesche.
Una inclinazione nata chissà come.
Si può fantasticare sui sorrisi
materni, così precocemente cancellati, ma è pur sempre un forzato ricorrere
alla fantasia.
Una inclinazione repressa.
E “quando
Leonardo, giunto all’apogeo della sua esistenza”,
scrive Freud,
“incontrò
nuovamente quel sorriso di estatica beatitudine, era già egli stesso da lungo
tempo preda di un’inibizione che gli proibiva di chiedere mai più simili
tenerezze a labbra di una donna. Ma egli era pittore, e ricreò.”
Vi sono testimonianze dirette di quel
che Leonardo pensava del sesso?
Nei suoi scritti, qui e là, si
rintracciano pensieri su questo tema.
E sono sempre sprezzanti, di
condanna.
“Se piglierai il
piacere, sappi che lui ha dirieto a sé che ti porgerà tribolazione e
pentimento.”
L’erotismo, ammonisce, è nemico dell’Arte,
toglie ogni possibilità di grandezza.
“E se tu dirai
potere satisfare più a’ tuoi desideri della gola e lussuria mediante esso
tesoro e no’ per la virtù, va considerando li altri che sol han servito a li
sozzi desideri del corpo, come li altri brutti animali: qual fama resta di
loro?”
Freud parla di omosessualità.
E di omosessualità si parla in una
denuncia del 1476, che riguarda Leonardo e altri giovani di Firenze.
La denuncia è inoltrata il 9 aprile
di quell’anno agli Officiali di notte e
de’ monasteri, una specie di squadra del buon costume del tempo.
Nel documento, deposto nel tamburo –
una cassetta per le lettere a forma di cilindro – di via Vacchereccia, si
legge:
Notifico a Voi Signori
Officiali come egli è vera cosa che Iacopo Saltarelli, (che) sta con lui all’orafo
in Vacchereccia, dirimpetto al buco (delle denunce): veste nero d’età d’anni 17
o circa. Il quale Iacopo va dietro a molte miserie e consente compiacere a
quelle persone che lo richiedono di simili tristizie. Et a questo modo à avuto
a fare di molte cose, cioè servito parecchie dozine di persone delle quali ne
so buon date, et al presente dirò d’alchuno:
- Bartholomeo di
Pasquino orafo, sta in Vacchereccia.
- Lionardo di Ser
Piero da Vinci, sta con Andrea del Verrocchio.
- Baccino
farsettaio, sta da Orsanmichele in quella via che v’è due botteghe di cimatori,
che va alla loggia de’ Cierchi: ha aperto bottega di nuovo da farsettaio.
- Lionardo
Tornabuoni, dicto il Teri: veste nero.
Questi hanno avuto a sodomizzare decto Iacopo. Et così vi fo
fede.
La denuncia è anonima, ma questo non
toglie che si proceda a minuziose investigazioni.
Occorrono, tuttavia, testimoni perché
si arrivi a un vero processo e, poiché i testimoni non si trovano, gli imputati
vengono assolti cum conditione ut retamburentur,
vale a dire a patto che i loro nomi non ricompaiano nel tamburo, in un’altra
denuncia.
E, il 7 giugno del 1476, i nomi
ricompaiono, denunciati molto probabilmente dalla stessa persona.
Di nuovo, gli accusati compaiono in
tribunale.
E, di nuovo, non si trovano testimoni
che confermino che quel Iacopo Saltarelli non fa soltanto da modello a Leonardo
e ai suoi compagni.
Quindi: assoluzione.
È stato solo sollevato un dubbio non
irragionevole: che al felice esito dei procedimenti giudiziari abbia concorso
il fatto che uno degli imputati appartenesse a una delle più nobili famiglie di
Firenze, i Tornabuoni.
È pensabile che, anche, Ser Piero,
all’epoca notaio presso la Signoria, abbia fatto pesare la propria influenza.
Che, a ogni modo, Leonardo abbia
dovuto soffrire alcuni giorni di prigione, sembra testimoniato anche da una
nota da lui scritta anni dopo:
“Quando io feci
Domene Dio putto, voi mi metteste in prigione; ora s’io lo fo da grande, voi mi
farete peggio.”
Una scritta misteriosa, ma in base
alla quale alcuni pensano che Iacopo Saltarelli abbia posato come modello per Domene Dio.
Il giudizio sull’omosessualità, nella
Firenze del Quattrocento, pencola tra terribili condanne ed esaltazioni – anche
se, forse, solo apparenti –.
È usuale, per i colpevoli di sodomia,
la pena di morte.
E si parla anche di atroci torture,
quali l’evirazione dei corruttori e il taglio di un piede per i mezzani.
Ma, negli stessi anni, i neoplatonici
affermano che “dall’amore pei giovinetti si conoscono
coloro che Eros celeste veramente incita” e che “nessuna anima ritorna prima che sian passati diecimila
anni al punto di partenza, perché prima di questo tempo non recupera le sue
ali, a meno che sia stata l’anima d’un leale filosofo, o quella d’un uomo preso
d’amore per i giovinetti”.
Parole che non andrebbero prese nel
loro suono più volgare, ma è questo il suono che i più intendono.
L’intuizione, più che la
comprensione, della sua grandezza ha fatto germogliare attorno alla figura di
Leonardo infinite leggende.
Il Mito, spesso, ha cancellato la
Storia.
In questa biografia ho voluto seguire
il filo delle vicende accertate, accennando alle dicerie e rapportando le
cronache di Leonardo alle cronache dei personaggi che hanno avuto la ventura di
vivergli accanto.
Daniela
Zini
Copyright © 18
maggio 2019 ADZ
Nessun commento:
Posta un commento