“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

sabato 18 maggio 2019

UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI 500 ANNI FA MORIVA LEONARDO 3. LEONARDO E LE DONNE di Daniela Zini


500 anni fa moriva

LEONARDO
 di Messer Piero da Vinci
[Anchiano, 15 aprile 1452 – Amboise, 2 maggio 1519]

a Lucia Deiana
Buon compleanno, cara!

Nel 1549, trenta anni dopo la morte di Leonardo da Vinci, fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi.
“Che cosa è”,
parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne – “questa complicità degli oppressi con l’oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?”
Il nome – apparso, allora, per la prima volta – è “servitù volontaria”.
In Fuga dalla libertà, Erich Fromm si sofferma sui tentativi dell’Uomo di evitare l’angoscia che gli deriva dalla possibilità di scegliere il suo Destino.
Il sentimento di profonda inadeguatezza davanti al “potere soverchiante del mondo esterno” che è tipico della condizione umana può essere affrontato con la rinuncia alla integrità attraverso il meccanismo del sado-masochismo oppure con la distruttività.
Ma un’altra possibilità è divenuta attuale e sembra estendersi sempre più rapidamente: il conformismo.
“Per dirla in breve, l’individuo cessa di essere se stesso; adotta in tutto e per tutto il tipo di personalità che gli viene offerto dai modelli culturali; e perciò diventa esattamente come tutti gli altri, e come questi pretendono che egli sia. Il divario tra “me” e il mondo scompare, e con esso la paura cosciente della solitudine e della impotenza. Questo meccanismo può essere paragonato alla colorazione protettiva che assumono certi animali. Somigliano talmente al loro ambiente che li si può appena distinguere. La persona che rinuncia al suo io individuale, e che diventa un automa, identico a milioni di altri automi che lo circondano, non deve sentirsi più sola e ansiosa. Ma il prezzo che paga è alto: è la perdita del suo io.”
Fromm si rende ben conto che una affermazione del genere stride con la convinzione diffusa in Occidente “che la maggioranza di noi sia composta di individui liberi di pensare, sentire, agire come loro garba” .
Tuttavia “pur essendoci certamente dei veri individui tra noi, nella maggior parte dei casi questa convinzione è una illusione, ed è anzi una illusione pericolosa, giacché impedisce la eliminazione di quelle condizioni che creano questo stato di cose.”
Da questa diagnosi discende la “cura” che Fromm illustra nel secondo sottocapitolo del capitolo 7:
“La libertà ha raggiunto un punto critico in cui, spinta dalla logica del suo stesso dinamismo, minaccia di convertirsi nel suo opposto. Il futuro della Democrazia è affidato alla realizzazione di quell’individualismo che è stato l’obiettivo ideologico del pensiero moderno dal Rinascimento in poi. La crisi culturale e politica del nostro tempo non si deve al fatto che vi sia troppo individualismo, ma al fatto che quello che crediamo individualismo è diventato una conchiglia vuota. La vittoria della libertà è possibile solo se la Democrazia si trasforma in una società in cui l’individuo, il suo sviluppo e la sua felicità, siano il fine e l’obiettivo della civiltà, in cui la vita non debba cercare giustificazioni nel successo o in altre cose, e in cui l’individuo non sia subordinato a un Potere esterno, si tratti dello Stato o del meccanismo dell’economia, né sia manipolato da esso; infine una società in cui la coscienza e gli ideali dell’individuo non siano interiorizzazione di pretese esterne, ma siano veramente suoi, ed esprimano i fini derivanti dalla peculiarità del suo essere.”
Se la Democrazia era in crisi all’epoca in cui Fuga dalla libertà è stato scritto, oggi la crisi è più acuta per quanto mascherata da istituzioni che, nei Paesi Occidentali, sono solide.
L’insicurezza, l’angoscia, l’impotenza sono dilatate, sistematicamente, in conseguenza della globalizzazione e della percezione di un mondo nel quale il liberismo economico ha nettamente sopravanzato il potere politico nazionale.
I segnali più inquietanti della crisi provengono dagli Stati Uniti, laddove una Nazione, scossa dall’attacco terroristico dell’11 settembre del 2001, consegnò la sua sorte a un uomo che prometteva di difendere con ogni mezzo la sua sicurezza e il suo tenore di vita: la guerra preventiva, il misconoscimento della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, la violazione della privacy dei cittadini statunitensi e non, l’indifferenza nei confronti dell’inquinamento climatico, il mantenimento di un enorme debito pubblico.
Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, “immenso e tutelare”, è un uomo libero o è un bambino fissato nell’età infantile?
Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque, della libertà, i nemici che la insidiano “liberamente”, dall’interno del carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all’apparenza; l’opportunista, alla carriera; il gretto, all’egoismo; il debole, alla sicurezza.
La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle azioni, è insidiata da queste ragioni di omologazione delle anime. Si potrebbe, perfino, sospettare che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà.
La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi.
Il conformismo, si combatte con l’amore per la diversità; l’opportunismo, con la legalità; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con il rigore.
Diversità, legalità, cultura e rigore: ecco il necessario nutrimento della libertà.





 Echo

Quand dans le charme ardent
De ta pâle beauté
Je cherchais comme d’autres
Ton rire et ton regard,
A qui souriais-tu,
Dis, statue terrifiante ?
Qui donc voyais-tu
Ne regardant personne ?

Daniela Zini



Dit Léonard :
Toutes nos connaissances découlent de ce qu’on ressent.
 Eprouver par les sens – au premier rang desquels il place la Vue – et discerner, juger, réfléchir, tels sont pour lui les vecteurs fondamentaux de la Sapieta, de la Sapience, qui est à la fois Savoir et Sagesse.
Il faut, dit-il, apprendre d’abord à séparer les parties du tout :
La Vue est une des opérations les plus rapides qui soient; en un instant, elle accueille une infinité de formes, et pourtant elle ne saisit qu’un objet à la fois.
Pour lire un texte, on doit considérer les mots un à un, puis les phrases que composent ces mots, et non, globalement, l’ensemble des lettres inscrites sur la page.
De même, dit Léonard:
Si tu veux avoir connaissance des formes des choses, commence par leur détail, et ne passe d’un détail à un autre qu’après avoir bien fixé le premier dans ta mémoire, et l’avoir longuement pratiqué.
L’Artiste entraîne ses sens, il éduque ses facultés d’observation, comme un sportif développe ses muscles. Il est sans cesse en avance sur son Temps et sans cesse dérangé par un Avenir qui ne veut pas Lui obéir.
Ses yeux seuls subsistent, détachés de Lui. Tristes comme des lévriers sans maître, déconcertés comme des Archanges a qui nul Dieu ne donne plus d’ordres. Entre eux et les choses, on ne sert pas d’intermédiaires.
Percevoir, mais aussi conserver, transmettre l’Aventure humaine, à la fois un peu plus âpre et un peu moins sombre.
Rien n’y réussit mieux qu’une Image.
Une seule Image égale souvent un Livre.
Là précisément est le Mystère de l’Art.



Noi tutti siamo esiliati
entro lo cornici di uno strano quadro.
Chi sa questo, viva da grande,
Gli altri sono insetti.
Leonardo



Ernesto Solari, artista e studioso esperto di Leonardo, attribuisce al Maestro questa terracotta, raffigurante un Gesù fanciullo, che avrebbe avuto come modello Salaì e di cui avrebbe fatto, in più occasioni, una precisa descrizione il pittore Giovanni Paolo Lomazzo, che ne sarebbe venuto in possesso. 




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La non-violenza sconfiggerà la violenza?
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GESU’
Gesù e le donne
di Daniela Zini

Gesù e i fanciulli
di Daniela Zini

… e abitò tra noi!
di Daniela Zini

FLAVIO CLAUDIO GIULIANO
Giuliano il restauratore del Paganesimo
di Daniela Zini

JOHN MAYNARD KEYNES
Keynes, profeta del New Deal
di Daniela Zini

MARTIN LUTHER KING
I have a dream…
di Daniela Zini

THOMAS EDWARD LAWRENCE
125 anni fa nasceva El Aurens Lawrence d’Arabia
di Daniela Zini

LEONARDO DA VINCI
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
500 anni fa moriva Leonardo
1. Perché Leonardo?
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UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
500 anni fa moriva Leonardo
2. Monna Lisa
di Daniela Zini

MALCOLM
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
Malcolm X
di Daniela Zini

NELSON ROLIHLAHLA MANDELA
Nelson Mandela una candela nel vento
di Daniela Zini

BRADLEY EDWARD MANNING
Eroi o traditori?
I. Il processo di Bradley Manning minaccia il giornalismo di inchiesta
di Daniela Zini

TOMAS GARRIGUE MASARYK
Dopo 60 anni ancora un enigma la fine di Masaryk
di Daniela Zini

JAFAR PANAHI
Omaggio a Panahi
di Daniela Zini

JORGE RAFAEL VIDELA REDONDO
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO SULLA ROTTA DI CRISTOFORO COLOMBO
Argentina I. La Tripla A: un nome che semina morte
di Daniela Zini

LEV NICOLAEVIC TOLSTOJ
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
105 anni fa moriva Lev Nicolaevic Tolstoj
di Daniela Zini






“I moti del Vinci sono della nobiltà dell’animo, della facilità, della chiarezza d’imaginare, della natura di sapere, pensare et fare, del maturo consiglio, congiunto con la beltà delle faccie, della giustitia, della ragione, del giuditio, del separamento delle cose ingiuste dalle rette, dell’altezza della luce, della bassezza delle tenebre, dell’ignoranza, della gloria profonda della verità, et della carità regina di tutte le virtù. Così Leonardo parea che d’ogni hora tremasse, quando si ponea a dipingere, e però non diede mai fine ad alcuna cosa cominciata, considerando quanto fosse la grandezza dell’arte, talché egli scorgeva errori in quelle cose, che agli altri pareano miracoli. Leonardo nel dar il lume mostra che habbi temuto sempre di non darlo troppo chiaro, per riservarlo a miglior loco et ha cercato di far molto intenso lo scuro, per ritrovarli suoi estremi.
Onde con tal arte ha conseguito nelle faccie e corpi, che ha fatti veramente mirabili, tutto quello che può far la natura. Et in questa parte è stato superiore a tutti, tal che in una parola possiam dire che ‘l lume di Leonardo sia divino.”
Giovanni Paolo Lomazzo [1538-1592]

Perché Leonardo?
Perché, oggi, Leonardo è tra noi con una vitalità che poche figure della Storia, dell’Arte, della Scienza – anche di epoche ben più recenti – possono vantare.
Di Leonardo, certamente uno dei più inquieti Geni dell’Umanità, non si può considerare un aspetto se non intimamente connesso con gli altri.
Possiamo parlare delle Opere d’Arte sulle quali, esclusivamente, la sua fama si è sostenuta, per circa tre secoli, o considerare la sua artigiana genialità che mossa da una sfrenata curiosità, da una sconfinata sete di conoscenza, quantunque “omo senza lettere”, lo portò alle più geniali anticipazioni e intuizioni di scoperte e Verità. Possiamo valutare, ancora, la fermezza d’animo dell’individuo che, chiaramente controcorrente, per amore di vera Scienza si spinse avanti nelle sue intenzioni, attitudini, pensieri e azioni, senza troppo preoccuparsi del discredito tra i suoi contemporanei che, quando non lo accusavano di profanazione e, perfino, di negromanzia, ne lamentavano che poco si dedicasse all’Arte in cui appariva eccelso e che, invece, troppo amasse “i capricci del filosofar delle cose naturali”. 
È questo “filosofar” la chiave per penetrare, anche, gli altri molteplici aspetti di un geniale eclettismo?
Se per filosofia si intende una concezione organica del reale, una ricerca sistematica della Verità, la coscienza speculativa di Leonardo ha, certamente, raggiunto l’ambita Verità non tanto con il potere riflessivo della mente, quanto con l’oggettivo proiettarsi della mente nella Natura, con il ritrovare nella esperienza le ragioni della Scienza e la via per attuare il dominio dell’Uomo su questa Natura. Temi universali, senza confini di Spazio o di Tempo. E da qui viene l’attualità di un messaggio che è rivolto al Futuro dell’Uomo; da qui viene la profondità di una interpretazione che offre cerchi, sempre, più ampi di ispirazione e di stimolo alle persone, anche dopo cinque secoli dalla morte del Maestro. 


In quel crogiolo di menti eccelse che il Rinascimento è stato per il mondo dell’Arte e della Cultura, la figura di Leonardo campeggia  dall’alto del suo incommensurabile bagaglio del sapere. È lui il Genio Universale, nell’accezione sublime del termine, il poliedrico cervello cui nulla sfugge, tutto compreso del mosaico di conoscenze che persegue, con una profondità metodica, solo apparentemente scomposta.
Nella sua eccezionale lungimiranza, Leonardo si rivela un portentoso innovatore, l’Uomo che “riprende tutto da capo”, per penetrare il mistero dell’Universo Umano nei suoi più reconditi aspetti, anticipando a tal punto i tempi da non essere compreso a pieno dai suoi contemporanei.
Non vi è materia che non abbia sviscerato, elaborando nuove e originali teorie che non sono state alla base del moderno progresso scientifico.
I suoi progetti architettonici si sono rivelati di una sorprendente attualità, perfino, in questo secolo che brucia gli ingegni sull’altare del continuo rinnovamento.
Un Genio della sua levatura è, davvero, una plurisecolare rarità dalle origini misteriose, che si manifesta al genere umano con una frequenza tristemente rarefatta.
Una simile virtù, condensata in somma misura, non segue, purtroppo, le leggi cromosomiche della successione ereditaria.
Il dopo Leonardo si configura come una coltre nebbiosa, dietro la quale vi è soltanto un vuoto sconfortante, un buio quantificabile in anni luce di eclissi intellettuale.
In un film del 1967, I sovversivi dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, appariva il personaggio di un regista cinematografico alle prese con la biografia di Leonardo da Vinci. Al cineasta Ludovico interessava soprattutto l’ultimo periodo della vita del Genio, nel quale si compiaceva di rispecchiare, con effetto piuttosto grottesco, la propria crisi personale. E il film nel film mostrava, così, un Leonardo morente, in fuga dalle corti che l’avevano ospitato, animato da una smania tolstoiana di aria e di libertà.
A breve distanza da I sovversivi, un regista vero si trovava nell’imbarazzante situazione dell’immaginario Ludovico, quella di confessarsi, raccontando la vita di Leonardo: Renato Castellani – ligure, cinquantasette anni, laureato in architettura, autore di films famosi, Sotto il sole di Roma e Due soldi di speranza – stava realizzando per la RAI-TV un Leonardo in cinque puntate, dopo avere impiegato due anni a scrivere la sceneggiatura, con la consulenza di Cesare Brandi. 
Esistono figure della Storia di cui è agevole ricostruire, sulle cronache e sui documenti, l’itinerario biografico e psicologico; e altre, che viste da vicino, si rivelano ambigue e misteriose.
Tra queste ultime è Leonardo.
La sua biografia si fonda su scarsi elementi, appare laconica e misteriosa, infarcita di leggende e di inesattezze.
Giorgio Vasari, nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori fa morire l’artista “in braccio” a Francesco I e “nell’età sua d’anni settantacinque”.
“Mentre Leonardo”,
affermava Castellani,
“morì a sessantasette anni d’età e il giorno della sua morte Francesco I si trovava a Saint-Germain.”
Nell’enumerare le difficoltà incontrate il regista riferiva:
“Di Leonardo non possediamo lettere. L’unica che ci è pervenuta quasi per intero è la famosa epistola a Ludovico il Moro ed è una lettera, diciamo così, di affari. Anche della sua opera non conosciamo molto: poco più di una decina di quadri sono sopravvissuti al loro tempo e di questi, almeno quattro, sono d’incerta attribuzione.”
E non solo.
Del famoso cavallo per il monumento a Francesco Sforza, scultura alta sette metri, non esistono più che alcuni disegni; della grande Battaglia di Anghiari è rimasta solo una una sanguigna di Pieter Paul Rubens e una piccola copia; i ricchissimi Codici furono smembrati e dispersi.
Definito “mirabile e celeste” da Giogio Vasari, Leonardo “era tanto piacevole nella conversazione che tirava a sé gli animi delle genti”: eppure nelle memorie dei contemporanei è nominato ben poco e Leonardo stesso parla pochissimo di sé. Appena qualche frase sintomatica, come quella famosa:
“E se tu sarai solo sarai tutto tuo.”,
da cui bisogna ricostruirne il carattere con la bravura dell’archeologo, che da un residuo frammento riesce a immaginare l’opera intera.
Così fece Sigmund Freud, nel 1910, pubblicando il saggio, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, che fu accolto da proteste indignate. Parve, infatti, che il fondatore della psicoanalisi avesse valicato i limiti dell’osservazione scientifica analizzando un sogno infantile riferito dall’artista: l’incubo di un nibbio che si avventava sul suo letto e con la coda gli percuoteva la bocca. Da questa immagine notturna Freud risaliva alla malcerta condizione del sognatore come “figliuolo non legittimo” del notaio Ser Piero da Vinci, coccolato dalla madre Caterina e troppo presto strappato a lei.
Per tutta la vita, Leonardo sublimò in un ideale di bellezza androgino, che si evidenzia negli ambigui sorrisi dei suoi ritratti, la carenza dell’affetto paterno e l’eccesso di quello materno; il suo stesso eclettismo ossessivo si spiegherebbe, secondo Freud, con i dati della sessualità infantile.    
Per evitare i rischi delle biografie romanzate, Castellani aveva scelto la mediazione di un personaggio didascalico, interpretato dall’attore Giulio Bosetti, vestito, in modo inappuntabile, in completo grigio e cravatta, per introdurre, commentare e integrare lo sceneggiato, creando una curiosa commistione di epoche.
Quanto all’interprete di Leonardo, la ricerca era stata lunga, aveva contemplato molti grandi nomi del cinema dallo svedese Max von Sidow a Laurent Terzieff.
Sempre insoddisfatto, il regista ripeteva ai suoi collaboratori:
“Leonardo era uno che piegava con le mani un ferro di cavallo e che poi, con quelle stesse mani, ha dipinto la Gioconda.”
Dopo molti provini era stato scelto l’attore francese Philippe Leroy, quaranta anni, nobile dei conti Leroy-Beaulieu, ex-parà in Indocina, ex-giocatore di rugby, interprete di cinquanta films dal giorno del 1960, in cui il regista Jacques Becker lo “intrappolò” tra i carcerati de Il buco.
Non era mancino come Leonardo, ma aveva promesso che si sarebbe esercitato, puntigliosamente, tutti i giorni a scrivere e a disegnare con la mano sinistra.  
E, il 24 ottobre 1971, la RAI-TV mandava in onda la prima delle cinque puntate dello sceneggiato La vita di Leonardo da Vinci per la regia di Renato Castellani.
Era un’opera ambiziosa, che aveva richiesto circa sei mesi di lavorazione e l’impiego di oltre un centinaio di attori e cinquecento comparse ed era stata girata nelle diverse città italiane, che il Sommo Leonardo aveva toccato nel corso della sua vita, Roma, Firenze, Milano e Venezia, solo per citarne alcune.
Un’opera che si discostava molto dalle produzioni televisive girate fino ad allora.
Lo sceneggiato si apriva con le ultime ore di vita di Leonardo.
È il 2 maggio del 1519.
Il sessantasettenne Leonardo è, dall’autunno del 1516, ospite del suo più grande estimatore, il Re di Francia Francesco I, nel Castello di Clos Lucé.
Leonardo è nel suo letto, indebolito da una probabile trombosi cerebrale, che gli ha tolto, parzialmente, l’uso della mano destra e sta per ricevere la visita del Re in persona, preoccupato per le sue condizioni di salute.
Tenta di sollevarsi dal letto, ma il Sovrano lo esorta a non sforzarsi: “Come state, mon ami?”
chiede Francesco I a Leonardo.
“Pensavo a quante cose non fatte, studiate, incominciate…”
“Quante cose che avete fatto, invece…”
risponde il Re.
Era un Uomo affascinante, racconta Giulio Bosetti, citando Giorgio Vasari:

“Grandissimi doni si veggono piovere dagli influssi celesti ne’ corpi umani molte volte naturalmente, e sopra naturali, talvolta, strabocchevolmente accozzarsi in un corpo solo bellezza, grazia e virtù, in una maniera, che dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azzione è tanto divina, che lasciandosi dietro tutti gl’altri uomini, manifestamente si fa conoscere per cosa [come ella è] largita da Dio e non acquistata per arte umana. Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale oltra la bellezza del corpo, non lodata mai a bastanza, era la grazia più che infinita in qualunque sua azzione; e tanta e sì fatta poi la virtù, che dovunque l’animo volse nelle cose difficili, con facilità le rendeva assolute. La forza in lui fu molta e congiunta con la destrezza, l’animo e ‘l valore, sempre regio e magnanimo.”
 


3. LEONARDO E LE DONNE
“Della fallace fisonomia e chiromanzia non mi estenderò, perché in esse non è verità; e questo si manifesta perché tali chimere non hanno fondamenti scientifici. Vero è che i segni de’ volti mostrano in parte la natura degli uomini, i loro vizi e complessioni; ma nel volto i segni che separano le guancie dai labbri della bocca, e le nari del naso e le casse degli occhi sono evidenti, se sono uomini allegri e spesso ridenti; e quelli che poco li segnano sono uomini operatori della cogitazione; e quelli che hanno le parti del viso di gran rilievo e profondità sono uomini bestiali ed iracondi, con poca ragione; e quelli che hanno le linee interposte infra le ciglia forte evidenti sono iracondi, e quelli che hanno le linee trasversali della fronte forte lineate sono uomini copiosi di lamentazioni occulte e palesi. E così si può dire di molte parti. Ma della mano tu troverai grandissimi eserciti esser morti in una medesima ora di coltello, che nessun segno della mano è simile l’uno all’altro, e così in un naufragio.”
Leonardo, dal Trattato della Pittura, Parte terza De’ vari accidenti e movimenti dell’uomo e proporzione di membra , 288. Degli atti delle figure. 






Leonardo, La Scapigliata.
Galleria Nazionale della Pilotta, Parma.


Leonardo, Studio per l’Angelo della Vergine delle Rocce.
Biblioteca Reale, Torino.

Leonardo, Studio per la Madonna dei fusi.
Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, Firenze.


Leonardo, Studio di giovane donna di profilo.
Royal Collection, Windsor. 

Leonardo, Studio per la testa di Leda
Royal Collection, Londra.

Leonardo, Studio per la testa di Sant’Anna.
Royal Collection, Windsor.






 
Leonardo, Studio di testa femminile.
Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, Firenze.



Leonardo, Studio di testa femminile.
Louvre, Parigi.


Connue comme la Joconde: l’acquisizione del tema leonardesco da parte del linguaggio comune basterebbe da sola a offrire ancora un’altra testimonianza della fama di un capolavoro che, prescindendo dal suo ruolo di despota nella pittura mondiale, ha avuto una propria “avventura” –come è stato, giustamente, scritto! – che non trova riscontro in nessun’altra opera d’arte o meglio, in nessun altro ritratto femminile.
Quale altra Donna, infatti, tra tutte quelle tratteggiate dal sapiente pennello di un pittore, può vantarsi di essere stata camuffata e trasformata come la Gioconda?
L’abbiamo vista questa Dama dal sorriso enigmatico, ora con i baffi alla Dalì, ora con l’elmo chiodato del Kaiser, ora con le fattezze di Stalin, ora con la testa di cane, ora come teschio, ora “dattilografata”, ora scompostamente denudata, ora con il viso di Fernandel, ora in vesti monacali – tanto per non ricordare che alcune tra le tante metamorfosi – fino a sottolineare – con tre successivi mutamenti su un trittico propagandistico – la particolarità di una famosa acqua minerale.
E passi finché siamo nei limiti di un’acqua minerale da tavola.
Agli inizi del Novecento Monna Lisa, detta la Gioconda, fu vista campeggiare su enormi poster per reclamizzare ancora un’acqua minerale, ma questa volta purgativa. La qualcosa autorizzò i Futuristi, capeggiati da Filippo Tommaso Marinetti – il quale, già, a Parigi, dalle colonne del Figaro aveva ammonito i francesi a non andare a visitare La Gioconda esposta al Louvre più di una volta all’anno perché “quella donna dal sorriso indisponente e melenso non meritava più della visita annuale che si suol fare ai morti il 2 novembre” – a sbandierare, ai quattro venti, la loro soddisfazione perché, finalmente, “la moglie del Giocondo aveva trovato un ufficio confacente alla sua tediosa e lassativa bellezza”.
Ma chi era nella vita questa Dama dall’espressione eludente che ha fatto versare fiumi di inchiostro nella puntigliosa ricerca della sua vera identità, perfino, della sua reale esistenza?
Lisa era semplicemente la terzogenita del nullatenente Anton Maria Gherardini, nata a Firenze nel 1479 – come attesta il Registro del Catasto del 1480 – “senza principio di dote alcuna”. Qualche anno dopo, Gherardini si trasferì a Napoli con la moglie Caterina Rucellai e i tre figli, dando inizio a una attività di mercante di stoffe, che, con il tempo, gli avrebbe procurato una certa agiatezza.
Nella cerchia di quanti frequentavano abitualmente casa Gherardini vi era un loro parente, Francesco del Giocondo, appartenente a una famiglia che aveva dato ben undici priori alla Repubblica Fiorentina, da poco rimasto vedovo con un bambino di tre anni e un altro appena di uno. La fresca e pensosa bellezza di Lisa, in quel tempo quindicenne, non mancò di fare breccia nel cuore di Francesco del Giocondo, che intuì come quella dolce creatura avrebbe potuto essere non solo una ottima moglie per lui, ma anche una madre amorosa per i suoi due figli.
E non si sbagliava, poiché Lisa, divenuta moglie di Francesco del Giocondo, non solo amò i figli del marito come se fossero suoi, ma lo assecondò e lo seguì in tutte le opere di misericordia che lui espletava, quotidianamente, quale membro della Confraternita della Pietà.
Quattro anni dopo le nozze, nel 1499, anche Lisa dette alla luce una bambina, che morì dopo appena qualche mese di vita. Lisa ne fu inconsolabile e cadde in uno stato di profonda prostrazione. Per farla distrarre il marito, che era amatore d’arte, pregò Leonardo, che era tornato a Firenze dopo il soggiorno milanese alla corte di Ludovico il Moro e la breve sosta  a Venezia, di eseguire il ritratto di sua moglie.
E Leonardo, che, vedremo, non era facile nella scelta dei suoi soggetti, al punto da rifiutarsi di ritrarre, perfino, Isabella d’Este, duchessa di Mantova, si dedicò, invece, con tutto se stesso a fissare sulla tela l’immagine di quella giovane donna, di cui l’avevano colpito il sorriso e lo sguardo che gli sembravano trasmettere l’inviolabile riflesso di un sogno segreto.
Per tre anni, dal 1503 al 1506, l’artista lavorò intorno al volto di Monna Lisa, volto animato dall’ombra di un sorriso pressoché inesistente, come chi insegue una visione nota solo a se stesso, quel quid indecifrabile che, forse Leonardo stesso aveva, sempre, cercato. Vi è, infatti, chi ha scritto che “La Gioconda “cosa bellissima” è il ritratto di Leonardo medesimo, un’autoconfessione. È il ritratto della sua anima”.

 Leonardo, Monna Lisa
Louvre, Parigi
   


Ma Lisa non riuscì a vedere finito il suo ritratto. L’anno prima che questo fosse perfezionato, mentre accompagnava il marito in un viaggio di affari in Calabria, giunta a Lagonegro, vicino a Potenza, fu assalita da una violentissima febbre, forse, un attacco malarico, che ne causò la morte in pochi giorni.  
    





     








 
 
Ma torniamo indietro nel tempo, precisamente nel 1492, e trasferiamoci da Firenze a Milano con Leonardo allora trentenne, il quale, da quel momento, rimarrà per circa venti anni al servizio di Ludovico Sforza, che aveva fatto di Milano una delle più eleganti e raffinate città d’Italia. Signore degli Amori, come era stato definito, Ludovico il Moro si circondava nella sua corte di donne giovani e bellissime, famose per la loro grazia ed eleganza. Tra queste, due colpirono, in particolare, Leonardo: Cecilia Gallerani e Lucrezia Crivelli, nelle cui sembianze gli sembrava di intravedere quel particolare tipo di bellezza femminile che, come abbiamo visto, troverà realizzato solo venti anni più tardi nelle fattezze di Monna Lisa. Che la corte di Milano fosse, essenzialmente, una corte di donne ebbe, senza dubbio, una grande influenza sulla pittura di Leonardo; a loro volta, le donne erano attratte dal dualismo di questo artista dall’intelligenza e dalle tendenze scientifiche decisamente maschili, ma anche dalle inclinazioni squisitamente femminili verso i profumi, la voce languida del liuto, le vesti di seta frusciante. Questo artista che non le guardava come si guarda una donna, ma le osservava, con puntigliosa attenzione, spiandone, attentamente, tutte le sfumature dell’espressione alla scoperta del mistero della loro personalità nascosta. Quando Leonardo arrivò a Milano, Cecilia Gallerani era una regina nella corte sforzesca. Nata nel 1495 da Fazio, un nobile milanese varie volte incaricato di ambascerie a Firenze, aveva appena sedici anni quando diventò l’amante ufficiale di Ludovico il Moro che, come primo dono, la investì del feudo di Saronno. Ludovico l’amava tanto da pensare anche di farla sua legittima sposa, dopo avergli dato un figlio, Cesare; ma, poi, con il tempo, come sempre avviene a certi livelli, era prevalsa la Ragione di Stato e inevitabili opportunità politiche avevano fatto scartare il progetto. Leonardo fu, subito, colpito dall’espressione della giovanissima donna, che aveva il raro dono di trasfondere serenità in coloro che la guardavano e ideò un particolare personalissimo, ponendo tra le braccia della giovane un ermellino. Dal quadro, detto, appunto, Ritratto di Dama con ermellino, la bestiola dall’arguto musetto appuntito guarda nella stessa direzione e con la stessa malcelata espressione di curiosità della splendida creatura dal collo esile, dal naso perfetto, dalla bocca con gli angoli leggermente rivolti all’insù, dagli occhi interroganti, come volti a cogliere un suono o un passo, ad aspettare con fiducia ciò che accadrà domani.

“Madonna Cecilia, Amatissima mia Diva…”

Il rigo incompiuto del Codice Atlantico apre, così, uno dei tanti interrogativi della misteriosa vita sentimentale dell’artista.
Ma, nel 1491, Ludovico il Moro sposava Beatrice d’Este, giovane figlia del duca di Ferrara Ercole I e sorella di Isabella, affascinato dal momento in cui l’aveva conosciuta, dal suo viso irregolare di bambina, dal suo modo di essere, ora infantile e ora appassionato, dai suoi capricci, dalle sue gelosie, dai suoi maldestri slanci di affetto, senza contare l’indiscutibile inclinazione al culto delle lettere e delle arti e quella istintiva ricerca dell’eleganza e dei gioielli più preziosi che avrebbero fatto, poi, di lei la splendida Signora della corte di Milano. Non fu, dunque, difficile per Ludovico il Moro cedere a una delle prime richieste della sposa-bambina: allontanare Cecilia Gallerani dal castello e perfino da Milano. E a Cecilia non rimase che obbedire e uscire per sempre dalla vita di Ludovico il Moro. Con una cospicua dote e con i bauli nuziali stipati di splendide vesti e drappi andò sposa al conte Bergamini di Cremona.   
 



 
Leonardo, Ritratto di Dama
Louvre, Parigi
 





  Leonardo, La Dama con l’ermellino
Museo Nazionale, Cracovia

 

 










































 
Beatrice non amava Leonardo. La irritava il non riuscire a comprendere a fondo “quello strano uomo”, cui non perdonava di avere eseguito lo splendido ritratto di colei che l’aveva preceduta nel cuore del marito.
Leonardo, invece, si ingegnava a ideare per lei cento minuzie e frivolezze: nel giardino del Castello le fece costruire – dopo averlo disegnato fino nei minimi particolari – un pavillon per le sue abluzioni: rosa il marmo delle pareti, bianco quello della vasca; i rubinetti per l’acqua calda e fredda rappresentavano teste di anguille; sul fondo un mosaico con la figura di Diana. Ma, neppure questo riuscì a scalfire la diffidente ostilità della giovane duchessa nei confronti di Leonardo.
Tra loro si ergeva sempre, come un muro di ghiaccio, La Dama con l’ermellino.
E frattanto Beatrice non si accorgeva che lo sguardo di Ludovico il Moro indugiava sempre più insistentemente su una delle sue damigelle, quella Lucrezia Crivelli dall’aria dolce e schiva, anche troppo introversa, il cui contegno creava un contrasto con l’eccessiva vitalità di Beatrice, che, con il suo temperamento capriccioso e poco disponibile nell’intimità, costringeva Ludovico più volte a tornare con il pensiero a chi sapeva amarlo con tenerezza e dedizione.   
Visti i rapporti della duchessa con l’artista, molto incerta e contrastata è stata, quindi, l’identificazione con Beatrice d’Este – anche se, oramai, accettata da larga parte dei critici – della figura del Ritratto di Donna, che ci rimanda una donna giovane, dal nasetto capriccioso, bocca morbida, i capelli giovanilmente vivi trattenuti da una cuffietta di rete d’oro, orlata di perle.
Beatrice morì a soli ventidue anni, il 2 gennaio del 1479, dando alla luce una bambina morta.
Ludovico, il principe terribile e crudele, per anni despota delle sorti d’Italia, per la prima volta, conobbe il sapore delle lacrime, nell’angolo più remoto del suo castello.
Scrive Mariana Frigeni nella sua biografia di Ludovico il Moro,

“Quella giovane di ventidue anni che aveva portato sposa alla sua corte ancora bambina, aveva riempito la sua vita in modo straordinario. Da italiano tipico quale egli è, l’aveva spesso trascurata, aveva avuto due amanti ufficiali; Cecilia Gallerani e Lucrezia Crivelli e un piccolo caleidoscopio di altre donne; spesso aveva dimenticato, con le stesse Dame della moglie, i malumori e i furori provocati dalla politica, ma, nonostante tutto, s’era abituato a considerare la ragazza che aveva a fianco come la sua vera, la sua sola compagna. Beatrice aveva riscaldato con la sua luminosa presenza la corte di Milano, era stata l’ineguagliabile amica degli artisti e dei geni, aveva richiamato in Lombardia tutto ciò che di grande e di sensibile vi era nel mondo.”

La disperazione di Ludovico, tuttavia, per quanto inizialmente sincera, non durò a lungo.
Alla fine dell’anno Lucrezia Crivelli, che, già, da tempo, aveva con lui una relazione e che, dopo la morte di Beatrice, ne era divenuta l’amante ufficiale, gli dava un figlio, Gian Paolo, quasi a suggellare morganaticamente un legame che non aveva nessuna speranza di ricevere il crisma dell’ufficialità.
È, dunque, lei la splendida creatura che nello sguardo, già, anticipa il mistero de La Gioconda, ritratta nel quadro La Belle Ferronière, denominazione nata dal nastro che, nel 1500, usava cingere la fronte delle donne per trattenerne i capelli, detto, appunto, ferronière?
Larga parte dei critici propende per il sì; anzi vi è chi vede nella malinconia dello sguardo della donna – così diverso da quello luminoso e interrogativo di Cecilia Gallerani – come la consapevolezza che gli anni d’oro di Ludovico il Moro stiano per tramontare e che il destino stia preparando la sua decadenza.   
Preceduto da una fama che aveva, oramai, varcato i confini d’Italia, Leonardo, dopo venti anni di soggiorno a Milano, lascia la città per fare ritorno a Firenze, via Mantova.
Del Ducato di Mantova era Signora Isabella d’Este, sorella di Beatrice, che, sposata giovanissima a Francesco Gonzaga aveva fatto della corte mantovana, come già sua sorella Beatrice a Milano, uno dei centri più splendidi del Rinascimento italiano.
Con l’arrivo dell’artista, Isabella d’Este sperò di vedere appagato un sogno ambizioso, inseguito, inutilmente, per anni: essere ritratta da Leonardo.
Ma fu delusa!
La bella duchessa, squisita nel profilo e nei modi di corte, era, per Leonardo, un modello detestabile.
Non riusciva a stare ferma per le ore di posa indispensabili a un “pittore lento” come lui.
Si mostrava irritata e delusa degli abbozzi.
Il ritratto non fu mai compiuto.
Quello che si conserva al Louvre, schizzato a carboncino e a pastello e bucherellato per lo spolvero, non è che un abbozzo che Leonardo non finirà perché Isabella – come osserva un suo biografo – era per lui una donna “disturbante”, una donna immoderata nei piaceri della mente.
E Leonardo, che non amava le donne, si trovava in sua presenza a disagio, inutilmente cercando quella dolcezza che lei non aveva e che per lui era come un incantesimo.
 


Leonardo, Studio per Leda e il Cigno.
  


Leonardo, Studio per Leda e il Cigno.
 


Leda e il Cigno è un dipinto a olio e resine su tavola (130x77,5 cm) di un pittore leonardesco, forse Francesco Melzi, databile al 1505-1507 circa e conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze. Si tratta di una delle migliori copie della perduta Leda di Leonardo.

Bellissimo, elegante, gentile nei modi: è naturale pensare che su Leonardo si siano soffermati gli sguardi di molte Dame.
Ma, qui, si tocca una delle questioni più delicate nella biografia di Leonardo.
Nella sua vita non vi è mai stato – o almeno non si conosce – l’amore di una donna.
Anche se, come argomenta Sigmund Freud, l’istinto sessuale pare essere stato molto precoce in Leonardo. Un istinto localizzato in una “zona erotica labiale”: ne sarebbe testimonianza quel sogno del nibbio, già, ricordato, ma anche l’insistenza di un misterioso sorriso in molte figure leonardesche.
Una inclinazione nata chissà come.
Si può fantasticare sui sorrisi materni, così precocemente cancellati, ma è pur sempre un forzato ricorrere alla fantasia.
Una inclinazione repressa.
E “quando Leonardo, giunto all’apogeo della sua esistenza”,
scrive Freud,
“incontrò nuovamente quel sorriso di estatica beatitudine, era già egli stesso da lungo tempo preda di un’inibizione che gli proibiva di chiedere mai più simili tenerezze a labbra di una donna. Ma egli era pittore, e ricreò.”
Vi sono testimonianze dirette di quel che Leonardo pensava del sesso?
Nei suoi scritti, qui e là, si rintracciano pensieri su questo tema.
E sono sempre sprezzanti, di condanna.
“Se piglierai il piacere, sappi che lui ha dirieto a sé che ti porgerà tribolazione e pentimento.”
L’erotismo, ammonisce, è nemico dell’Arte, toglie ogni possibilità di grandezza.

“E se tu dirai potere satisfare più a’ tuoi desideri della gola e lussuria mediante esso tesoro e no’ per la virtù, va considerando li altri che sol han servito a li sozzi desideri del corpo, come li altri brutti animali: qual fama resta di loro?”     

Freud parla di omosessualità.
E di omosessualità si parla in una denuncia del 1476, che riguarda Leonardo e altri giovani di Firenze.
La denuncia è inoltrata il 9 aprile di quell’anno agli Officiali di notte e de’ monasteri, una specie di squadra del buon costume del tempo.
Nel documento, deposto nel tamburo – una cassetta per le lettere a forma di cilindro – di via Vacchereccia, si legge:

Notifico a Voi Signori Officiali come egli è vera cosa che Iacopo Saltarelli, (che) sta con lui all’orafo in Vacchereccia, dirimpetto al buco (delle denunce): veste nero d’età d’anni 17 o circa. Il quale Iacopo va dietro a molte miserie e consente compiacere a quelle persone che lo richiedono di simili tristizie. Et a questo modo à avuto a fare di molte cose, cioè servito parecchie dozine di persone delle quali ne so buon date, et al presente dirò d’alchuno:
- Bartholomeo di Pasquino orafo, sta in Vacchereccia.
-  Lionardo di Ser Piero da Vinci, sta con Andrea del Verrocchio.
- Baccino farsettaio, sta da Orsanmichele in quella via che v’è due botteghe di cimatori, che va alla loggia de’ Cierchi: ha aperto bottega di nuovo da farsettaio.
-  Lionardo Tornabuoni, dicto il Teri: veste nero.
Questi hanno avuto a sodomizzare decto Iacopo. Et così vi fo fede.

La denuncia è anonima, ma questo non toglie che si proceda a minuziose investigazioni.
Occorrono, tuttavia, testimoni perché si arrivi a un vero processo e, poiché i testimoni non si trovano, gli imputati vengono assolti cum conditione ut retamburentur, vale a dire a patto che i loro nomi non ricompaiano nel tamburo, in un’altra denuncia.
E, il 7 giugno del 1476, i nomi ricompaiono, denunciati molto probabilmente dalla stessa persona.
Di nuovo, gli accusati compaiono in tribunale.
E, di nuovo, non si trovano testimoni che confermino che quel Iacopo Saltarelli non fa soltanto da modello a Leonardo e ai suoi compagni.
Quindi: assoluzione.
È stato solo sollevato un dubbio non irragionevole: che al felice esito dei procedimenti giudiziari abbia concorso il fatto che uno degli imputati appartenesse a una delle più nobili famiglie di Firenze, i Tornabuoni.
È pensabile che, anche, Ser Piero, all’epoca notaio presso la Signoria, abbia fatto pesare la propria influenza.
Che, a ogni modo, Leonardo abbia dovuto soffrire alcuni giorni di prigione, sembra testimoniato anche da una nota da lui scritta anni dopo:

“Quando io feci Domene Dio putto, voi mi metteste in prigione; ora s’io lo fo da grande, voi mi farete peggio.”

Una scritta misteriosa, ma in base alla quale alcuni pensano che Iacopo Saltarelli abbia posato come modello per Domene Dio. 

 
Il giudizio sull’omosessualità, nella Firenze del Quattrocento, pencola tra terribili condanne ed esaltazioni – anche se, forse, solo apparenti –.
È usuale, per i colpevoli di sodomia, la pena di morte.
E si parla anche di atroci torture, quali l’evirazione dei corruttori e il taglio di un piede per i mezzani.
Ma, negli stessi anni, i neoplatonici affermano che “dall’amore pei giovinetti si conoscono coloro che Eros celeste veramente incita” e che “nessuna anima ritorna prima che sian passati diecimila anni al punto di partenza, perché prima di questo tempo non recupera le sue ali, a meno che sia stata l’anima d’un leale filosofo, o quella d’un uomo preso d’amore per i giovinetti”.
Parole che non andrebbero prese nel loro suono più volgare, ma è questo il suono che i più intendono.
L’intuizione, più che la comprensione, della sua grandezza ha fatto germogliare attorno alla figura di Leonardo infinite leggende.
Il Mito, spesso, ha cancellato la Storia.
In questa biografia ho voluto seguire il filo delle vicende accertate, accennando alle dicerie e rapportando le cronache di Leonardo alle cronache dei personaggi che hanno avuto la ventura di vivergli accanto.


Daniela Zini
Copyright © 18 maggio 2019 ADZ

    

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