“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

mercoledì 15 maggio 2019

UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI 500 ANNI FA MORIVA LEONARDO 2. MONNA LISA di Daniela Zini


500 anni fa moriva
LEONARDO
 di Messer Piero da Vinci
[Anchiano, 15 aprile 1452 – Amboise, 2 maggio 1519]


a Valerio Carolei e a Suo Nipote David

“Non troverai mai la verità, se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspettavi di trovare.”
Eraclito di Efeso

Vi è un’armonia nascosta e ineffabile nel rinnovarsi a ogni istante dell’esperienza, di ogni esperienza, mai eguale a se stessa.
È il messaggio fondamentale del “Panta rei”, “Tutto scorre”, di Eraclito di Efeso, di cui, secondo Friedrich Wilhelm Nietzsche, il Mondo avrebbe “eternamente bisogno”, così come ha, eternamente, bisogno di Verità.   
Perché “armonia”?
Il conflitto, polemos, è “di tutte le cose il padre, di tutte le cose il re” [Fr. 22].
Provoca il cambiamento.
Ma il gioco del continuo mutamento lascia intravedere uno “sfondo” unitario: il mistero della Vita, che “mutando riposa ”[Fr. 33].
Ha scritto Nietzsche:
“Luce e ombra, amaro e dolce, sono in ogni momento vicini e avvinghiati l’uno all’altro come due lottatori, dei quali ora questo ora quello prende il sopravvento. Dalla guerra dei contrari nasce ogni divenire: le qualità determinate che ci appaiono come durevoli esprimono solo la momentanea preponderanza di un lottatore, con ciò, tuttavia, la guerra non è mai finita, questo lottare si protrae in eterno.”
E a questa sfida della conoscenza, che è una sfida ardua, noi non possiamo sottrarci.



Noi tutti siamo esiliati
entro lo cornici di uno strano quadro.
Chi sa questo, viva da grande,
Gli altri sono insetti.
Leonardo



Ernesto Solari, artista e studioso esperto di Leonardo, attribuisce al Maestro questa terracotta, raffigurante un Gesù fanciullo, che avrebbe avuto come modello Salaì e di cui avrebbe fatto, in più occasioni, una precisa descrizione il pittore Giovanni Paolo Lomazzo, che ne sarebbe venuto in possesso. 


PUBLIO ELIO TRAIANO ADRIANO
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
1950 anni fa nasceva Adriano l’Imperatore della Pax Romana
di Daniela Zini

AKHENATON
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
Amenofi IV l’Apostata
di Daniela Zini

JULIAN PAUL ASSANGE
Se WikiLeaks?...
di Daniela Zini

MIKHAIL VASILYEVIC BEKETOV
Veni, Vidi, Vi[n]ci
I. Giornalista, cronaca di una morte annunciata
di Daniela Zini

ZINE EL-ABIDINE BEN ALI
Ben Ali in fuga dalla Craxi Avenue
di Daniela Zini

PAOLO BORSELLINO
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. MAFIA: “UN MUOITTU SULU ‘UN BAISTA, NI SIEBBONO CHIOSSAI!” a. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono sacrificati alla Ragione di Stato?
di Daniela Zini

ANGELO BRUNETTI
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
114 anni fa nascava Ciceruacchio
di Daniela Zini

ANTONINO CAPONNETTO
Memento Memoriae di Antonino Caponnetto
di Daniela Zini

ANTON PAVLOVIC CECHOV
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO
Sakhalin: l’Inferno dei reclusi a vita
di Daniela Zini

BLAISE CENDRARS
Blaise Cendrars il soldato vagabondo che inventò la Poesia Moderna
di Daniela Zini

CONFUCIO 
Confucio e l’antica cultura
di Daniela Zini

DONATIEN-ALPHONSE-FRANCOIS DE SADE
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
Il Divino Marchese
di Daniela Zini

DARIO I IL GRANDE
La gloria di Re Dario tramonta a Maratona
di Daniela Zini

CECCO D’ASCOLI
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
Cecco d’Ascoli astrologo senza paura
di Daniela Zini

DWIGHT DAVID EISENHOWER
50 anni fa il monito di Eisenhower
di Daniela Zini

GIOVANNI FALCONE
Omaggio a Giovanni Falcone
di Daniela Zini

Memento Memoriae
Giovanni Falcone ce l’ha insegnato, la Mafia è un reato!
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. MAFIA: “UN MUOITTU SULU ‘UN BAISTA, NI SIEBBONO CHIOSSAI!” a. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono sacrificati alla Ragione di Stato?
di Daniela Zini

MOHANDAS KARAMCHARD GANDHI
La non-violenza sconfiggerà la violenza
di Daniela Zini

La non-violenza sconfiggerà la violenza?
di Daniela Zini

GESU’
Gesù e le donne
di Daniela Zini

Gesù e i fanciulli
di Daniela Zini

… e abitò tra noi!
di Daniela Zini

FLAVIO CLAUDIO GIULIANO
Giuliano il restauratore del Paganesimo
di Daniela Zini

JOHN MAYNARD KEYNES
Keynes, profeta del New Deal
di Daniela Zini

MARTIN LUTHER KING
I have a dream…
di Daniela Zini

THOMAS EDWARD LAWRENCE
125 anni fa nasceva El Aurens Lawrence d’Arabia
di Daniela Zini

LEONARDO
1.         Perché Leonardo?
di Daniela Zini

MALCOLM
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
Malcolm X
di Daniela Zini

NELSON ROLIHLAHLA MANDELA
Nelson Mandela una candela nel vento
di Daniela Zini

BRADLEY EDWARD MANNING
Eroi o traditori?
I. Il processo di Bradley Manning minaccia il giornalismo di inchiesta
di Daniela Zini

TOMAS GARRIGUE MASARYK
Dopo 60 anni ancora un enigma la fine di Masaryk
di Daniela Zini

JAFAR PANAHI
Omaggio a Panahi
di Daniela Zini

JORGE RAFAEL VIDELA REDONDO
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO SULLA ROTTA DI CRISTOFORO COLOMBO
Argentina I. La Tripla A: un nome che semina morte
di Daniela Zini

LEV NICOLAEVIC TOLSTOJ
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
105 anni fa moriva Lev Nicolaevic Tolstoj
di Daniela Zini

 
 

“I moti del Vinci sono della nobiltà dell’animo, della facilità, della chiarezza d’imaginare, della natura di sapere, pensare et fare, del maturo consiglio, congiunto con la beltà delle faccie, della giustitia, della ragione, del giuditio, del separamento delle cose ingiuste dalle rette, dell’altezza della luce, della bassezza delle tenebre, dell’ignoranza, della gloria profonda della verità, et della carità regina di tutte le virtù. Così Leonardo parea che d’ogni hora tremasse, quando si ponea a dipingere, e però non diede mai fine ad alcuna cosa cominciata, considerando quanto fosse la grandezza dell’arte, talché egli scorgeva errori in quelle cose, che agli altri pareano miracoli. Leonardo nel dar il lume mostra che habbi temuto sempre di non darlo troppo chiaro, per riservarlo a miglior loco et ha cercato di far molto intenso lo scuro, per ritrovarli suoi estremi.
Onde con tal arte ha conseguito nelle faccie e corpi, che ha fatti veramente mirabili, tutto quello che può far la natura. Et in questa parte è stato superiore a tutti, tal che in una parola possiam dire che ‘l lume di Leonardo sia divino.”
Giovanni Paolo Lomazzo [1538-1592]

Perché Leonardo?
Perché, oggi, Leonardo è tra noi con una vitalità che poche figure della Storia, dell’Arte, della Scienza – anche di epoche ben più recenti – possono vantare.
Di Leonardo, certamente uno dei più inquieti Geni dell’Umanità, non si può considerare un aspetto se non intimamente connesso con gli altri.
Possiamo parlare delle Opere d’Arte sulle quali, esclusivamente, la sua fama si è sostenuta, per circa tre secoli, o considerare la sua artigiana genialità che mossa da una sfrenata curiosità, da una sconfinata sete di conoscenza, quantunque “omo senza lettere”, lo portò alle più geniali anticipazioni e intuizioni di scoperte e Verità. Possiamo valutare, ancora, la fermezza d’animo dell’individuo che, chiaramente controcorrente, per amore di vera Scienza si spinse avanti nelle sue intenzioni, attitudini, pensieri e azioni, senza troppo preoccuparsi del discredito tra i suoi contemporanei che, quando non lo accusavano di profanazione e, perfino, di negromanzia, ne lamentavano che poco si dedicasse all’Arte in cui appariva eccelso e che, invece, troppo amasse “i capricci del filosofar delle cose naturali”. 
È questo “filosofar” la chiave per penetrare, anche, gli altri molteplici aspetti di un geniale eclettismo?
Se per filosofia si intende una concezione organica del reale, una ricerca sistematica della Verità, la coscienza speculativa di Leonardo ha, certamente, raggiunto l’ambita Verità non tanto con il potere riflessivo della mente, quanto con l’oggettivo proiettarsi della mente nella Natura, con il ritrovare nella esperienza le ragioni della Scienza e la via per attuare il dominio dell’Uomo su questa Natura. Temi universali, senza confini di Spazio o di Tempo. E da qui viene l’attualità di un messaggio che è rivolto al Futuro dell’Uomo; da qui viene la profondità di una interpretazione che offre cerchi, sempre, più ampi di ispirazione e di stimolo alle persone, anche dopo cinque secoli dalla morte del Maestro. 


In quel crogiolo di menti eccelse che il Rinascimento è stato per il mondo dell’Arte e della Cultura, la figura di Leonardo campeggia  dall’alto del suo incommensurabile bagaglio del sapere. È lui il Genio Universale, nell’accezione sublime del termine, il poliedrico cervello cui nulla sfugge, tutto compreso del mosaico di conoscenze che persegue, con una profondità metodica, solo apparentemente scomposta.
Nella sua eccezionale lungimiranza, Leonardo si rivela un portentoso innovatore, l’Uomo che “riprende tutto da capo”, per penetrare il mistero dell’Universo Umano nei suoi più reconditi aspetti, anticipando a tal punto i tempi da non essere compreso a pieno dai suoi contemporanei.
Non vi è materia che non abbia sviscerato, elaborando nuove e originali teorie che non sono state alla base del moderno progresso scientifico.
I suoi progetti architettonici si sono rivelati di una sorprendente attualità, perfino, in questo secolo che brucia gli ingegni sull’altare del continuo rinnovamento.
Un Genio della sua levatura è, davvero, una plurisecolare rarità dalle origini misteriose, che si manifesta al genere umano con una frequenza tristemente rarefatta.
Una simile virtù, condensata in somma misura, non segue, purtroppo, le leggi cromosomiche della successione ereditaria.
Il dopo Leonardo si configura come una coltre nebbiosa, dietro la quale vi è soltanto un vuoto sconfortante, un buio quantificabile in anni luce di eclissi intellettuale.
In un film del 1967, I sovversivi dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, appariva il personaggio di un regista cinematografico alle prese con la biografia di Leonardo da Vinci. Al cineasta Ludovico interessava soprattutto l’ultimo periodo della vita del Genio, nel quale si compiaceva di rispecchiare, con effetto piuttosto grottesco, la propria crisi personale. E il film nel film mostrava, così, un Leonardo morente, in fuga dalle corti che l’avevano ospitato, animato da una smania tolstoiana di aria e di libertà.
A breve distanza da I sovversivi, un regista vero si trovava nell’imbarazzante situazione dell’immaginario Ludovico, quella di confessarsi, raccontando la vita di Leonardo: Renato Castellani – ligure, cinquantasette anni, laureato in architettura, autore di films famosi, Sotto il sole di Roma e Due soldi di speranza – stava realizzando per la RAI-TV un Leonardo in cinque puntate, dopo avere impiegato due anni a scrivere la sceneggiatura, con la consulenza di Cesare Brandi. 
Esistono figure della Storia di cui è agevole ricostruire, sulle cronache e sui documenti, l’itinerario biografico e psicologico; e altre, che viste da vicino, si rivelano ambigue e misteriose.
Tra queste ultime è Leonardo.
La sua biografia si fonda su scarsi elementi, appare laconica e misteriosa, infarcita di leggende e di inesattezze.
Giorgio Vasari, nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori fa morire l’artista “in braccio” a Francesco I e “nell’età sua d’anni settantacinque”.
“Mentre Leonardo”,
affermava Castellani,
“morì a sessantasette anni d’età e il giorno della sua morte Francesco I si trovava a Saint-Germain.”
Nell’enumerare le difficoltà incontrate il regista riferiva:
“Di Leonardo non possediamo lettere. L’unica che ci è pervenuta quasi per intero è la famosa epistola a Ludovico il Moro ed è una lettera, diciamo così, di affari. Anche della sua opera non conosciamo molto: poco più di una decina di quadri sono sopravvissuti al loro tempo e di questi, almeno quattro, sono d’incerta attribuzione.”
E non solo.
Del famoso cavallo per il monumento a Francesco Sforza, scultura alta sette metri, non esistono più che alcuni disegni; della grande Battaglia di Anghiari è rimasta solo una una sanguigna di Pieter Paul Rubens e una piccola copia; i ricchissimi Codici furono smembrati e dispersi.
Definito “mirabile e celeste” da Giogio Vasari, Leonardo “era tanto piacevole nella conversazione che tirava a sé gli animi delle genti”: eppure nelle memorie dei contemporanei è nominato ben poco e Leonardo stesso parla pochissimo di sé. Appena qualche frase sintomatica, come quella famosa:
“E se tu sarai solo sarai tutto tuo.”,
da cui bisogna ricostruirne il carattere con la bravura dell’archeologo, che da un residuo frammento riesce a immaginare l’opera intera.
Così fece Sigmund Freud, nel 1910, pubblicando il saggio, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, che fu accolto da proteste indignate. Parve, infatti, che il fondatore della psicoanalisi avesse valicato i limiti dell’osservazione scientifica analizzando un sogno infantile riferito dall’artista: l’incubo di un nibbio che si avventava sul suo letto e con la coda gli percuoteva la bocca. Da questa immagine notturna Freud risaliva alla malcerta condizione del sognatore come “figliuolo non legittimo” del notaio Ser Piero da Vinci, coccolato dalla madre Caterina e troppo presto strappato a lei.
Per tutta la vita, Leonardo sublimò in un ideale di bellezza androgino, che si evidenzia negli ambigui sorrisi dei suoi ritratti, la carenza dell’affetto paterno e l’eccesso di quello materno; il suo stesso eclettismo ossessivo si spiegherebbe, secondo Freud, con i dati della sessualità infantile.     
Per evitare i rischi delle biografie romanzate, Castellani aveva scelto la mediazione di un personaggio didascalico, interpretato dall’attore Giulio Bosetti, vestito, in modo inappuntabile, in completo grigio e cravatta, per introdurre, commentare e integrare lo sceneggiato, creando una curiosa commistione di epoche.
Quanto all’interprete di Leonardo, la ricerca era stata lunga, aveva contemplato molti grandi nomi del cinema dallo svedese Max von Sidow a Laurent Terzieff.
Sempre insoddisfatto, il regista ripeteva ai suoi collaboratori:
“Leonardo era uno che piegava con le mani un ferro di cavallo e che poi, con quelle stesse mani, ha dipinto la Gioconda.”
Dopo molti provini era stato scelto l’attore francese Philippe Leroy, quaranta anni, nobile dei conti Leroy-Beaulieu, ex-parà in Indocina, ex-giocatore di rugby, interprete di cinquanta films dal giorno del 1960, in cui il regista Jacques Becker lo “intrappolò” tra i carcerati de Il buco.
Non era mancino come Leonardo, ma aveva promesso che si sarebbe esercitato, puntigliosamente, tutti i giorni a scrivere e a disegnare con la mano sinistra.   
E, il 24 ottobre 1971, la RAI-TV mandava in onda la prima delle cinque puntate dello sceneggiato La vita di Leonardo da Vinci per la regia di Renato Castellani.
Era un’opera ambiziosa, che aveva richiesto circa sei mesi di lavorazione e l’impiego di oltre un centinaio di attori e cinquecento comparse ed era stata girata nelle diverse città italiane, che il Sommo Leonardo aveva toccato nel corso della sua vita, Roma, Firenze, Milano e Venezia, solo per citarne alcune.
Un’opera che si discostava molto dalle produzioni televisive girate fino ad allora.
Lo sceneggiato si apriva con le ultime ore di vita di Leonardo.
È il 2 maggio del 1519.
Il sessantasettenne Leonardo è, dall’autunno del 1516, ospite del suo più grande estimatore, il Re di Francia Francesco I, nel Castello di Clos Lucé.
Leonardo è nel suo letto, indebolito da una probabile trombosi cerebrale, che gli ha tolto, parzialmente, l’uso della mano destra e sta per ricevere la visita del Re in persona, preoccupato per le sue condizioni di salute.
Tenta di sollevarsi dal letto, ma il Sovrano lo esorta a non sforzarsi: “Come state, mon ami?”
chiede Francesco I a Leonardo.
“Pensavo a quante cose non fatte, studiate, incominciate…”
“Quante cose che avete fatto, invece…”
risponde il Re.
Era un Uomo affascinante, racconta Giulio Bosetti, citando Giorgio Vasari:

“Grandissimi doni si veggono piovere dagli influssi celesti ne’ corpi umani molte volte naturalmente, e sopra naturali, talvolta, strabocchevolmente accozzarsi in un corpo solo bellezza, grazia e virtù, in una maniera, che dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azzione è tanto divina, che lasciandosi dietro tutti gl’altri uomini, manifestamente si fa conoscere per cosa [come ella è] largita da Dio e non acquistata per arte umana. Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale oltra la bellezza del corpo, non lodata mai a bastanza, era la grazia più che infinita in qualunque sua azzione; e tanta e sì fatta poi la virtù, che dovunque l’animo volse nelle cose difficili, con facilità le rendeva assolute. La forza in lui fu molta e congiunta con la destrezza, l’animo e ‘l valore, sempre regio e magnanimo.”
 


2.             MONNA LISA


 

La Monna Lisa, nell’inventario del Louvre, è, semplicemente, catalogata con il numero 779, ma di lei si sono “invaghiti” re e scalpellini, grandi artisti e uomini comuni…
 




 
Bozza su cartone de La Gioconda, attribuita a Leonardo.




Quell’ambiguo sorriso attraverso i secoli…


“Do you smile to tempt a lover, Mona Lisa.
Or is this you way ti hide a broken heart?”
così la calda voce dell’oramai classico Nat King Cole intona i versi di una canzone composta a Hollywood, nel 1949, e canta l’antico, irrisolto quesito de La Gioconda.
Leonardo non era più tanto giovane, quando la ritrasse, a Firenze, tra il 1503 e il 1507, aveva poco più di cinquanta anni. Portò con sé questo capolavoro – un dipinto di centimetri 53 x 77 su pannello di legno di pioppo – ovunque: a Roma, dove lavorò, tra il 1513 e il 1516, per Giuliano de’ Medici figlio di Lorenzo il Magnifico e fratello di papa Leone X e, in Francia, dove, ospite del re Francesco I, concluse la sua vita di genio e di artista inimitabile.
Perché questo amore?
Forse, la risposta, che non conosceremmo mai con certezza, è la stessa che potrebbe mettere fine agli infiniti interrogativi suscitati dall’ambiguo e seducente sorriso di questa Dama misteriosa di cinque secoli fa.
Leonardo era, anche, uno scienziato e l’origine del suo amore per Monna Lisa potrebbe essere legata alla consapevolezza di avere realizzato un capolavoro di tecnica pittorica, ma non è detto!
Le ipotesi sono infinite. Dalla più naturale dell’innamoramento del pittore per la sua bella modella, alla meno credibile che vuole ravvisare nelle fattezze de La Gioconda quelle di un allievo caro al Maestro più di ogni altro, alla più inquietante, quella di uno straordinario “enigma”, un geniale rebus, nascosto tra le linee che ne compongono i tratti del viso o tra quelle che creano l’innaturale e “geologico” paesaggio dello sfondo. Forse, semplicemente, l’Autore stesso fu il primo a essere rapito da quel sorriso colmo di misteri che aveva fissato sulla tavola con le proprie mani. 
Dopo la morte di Leonardo, il dipinto fu ereditato dall’allievo Francesco Melzi, il quale lo vendette, per 4mila scudi d’oro, al re di Francia, Francesco I, che lo collocò nelle splendide stanze dell’appartamento da bagno a Fontainebleau, tra le ninfe di stucco che gli facevano da stupenda cornice.
Il sovrano, incondizionato estimatore di Leonardo, se ne era “invaghito”, durante le frequenti visite al Maestro, nel Castello di Clos Lucé, poco distante dal reale Castello di Amboise, cui era collegato da un lungo corridoio sotterraneo.
Ma quella di Francesco I fu solo la prima delle numerose teste coronate “invaghitesi” di Monna Lisa, che, seppure priva di qualsiasi gioiello e vestita di un abito estremamente modesto, rivela l’appartenenza a una classe sociale elevata dal portamento e, in particolare, dalla disposizione delle mani, tipico delle Dame di alto rango del tempo.
Anche Luigi XIV, il re Sole, fu orgoglioso di esibirla tra le opere d’arte più preziose che aveva collezionato a Versailles. Napoleone, poi, la volle nella camera da letto alle Tuileries, dove rimase finché non venne esposta all’ammirazione del pubblico al Louvre, trasformato in museo dopo la Rivoluzione.
Ma quale Dama poteva avere ispirato al Sommo Genio un’opera così straordinaria?
Su questo interrogativo è sorta tutta una letteratura.
Scrive Giorgio Vasari, ne Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori [http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_5/t129.pdf]:

“Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Monna Lisa sua moglie, e quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto, la quale opera oggi è appresso Francesco il re di Francia in Fontanableò; nella qual testa chi voleva veder quanto l’arte potesse imitare la natura, agevolmente si poteva comprendere, perché quivi erano contraffatte tutte quelle minuzie che si possono con sottigliezza dipingere. Avvenga che gli occhi avevano que’ lustri e quelle acquitrine, che di continuo si veggono nel vivo… il naso con tutte quelle belle aperture rossette e tenere, si vedeva essere vivo. La bocca con quella sua sfenditura con le sue fini unite dal rosso della bocca con l’incarnazione del viso, che non colori, ma carne pareva veramente. Nella fontanella della gola, chi intensissimamente la guardava, vedea battere i polsi: e nel vero si può dire che questa fussi dipinta d’una maniera da far tremare e temere ogni gagliardo artefice e sia qual si vuole. Usovvi ancora questa arte, che essendo Monna Lisa bellissima, teneva mentre che la ritraeva, chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facessino stare allegra, per levar via quel malinconico, che suol dar spesso la pittura a’ ritratti che si fanno. Et in questo di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, et era tenuta cosa meravigliosa, per non essere il vivo altrimenti…”

In questo modo fu Vasari a identificare nella Dama ritratta da Leonardo, alcuni anni prima del 1550, a quasi trent’anni dalla morte del Genio vinciano, Lisa del Giocondo, nata nel 1479. Vasari non conobbe Leonardo, né vide, mai, la Gioconda, ma visitò a Milano Francesco Melzi, l’erede del Maestro, che era stato con lui giusto in tempo per conoscere la Dama che aveva posato. Inoltre, negli anni in cui Giorgio Vasari pubblicò la sua opera, sicuramente, vivevano, ancora, a Firenze, molti membri della famiglia del Giocondo e di casa Gherardini, cui apparteneva Monna Lisa, che Francesco, ricco mercante di seta e uomo politico fiorentino, aveva sposato in terze nozze.
La Gioconda non è un ritratto convenzionale.
Come si è, già, detto, niente gioie, nessun ricco drappo e, in luogo delle elaborate pettinature rinascimentali, una cascata di bruni capelli lisci, che cadono a inanellarsi sulle rotonde spalle.  
Antonio De Beatis, segretario del cardinale Luigi d’Aragona, zio di Isabella d’Aragona duchessa di Milano, prendendo nota delle cose viste al Castello di Clos Lucé, durante una visita al Maestro, nel 1517, a seguito del prelato, descrive tre dipinti:

“… uno di certa Dona fiorentina facta di naturale ad istantia del quondam Magnifico Juliano de’ Medici, l’altro di San Joane Baptista giovane et uno de la Madona et del figliolo che stan posti in grembo di S.ta Anna, tucti perfectissimi.”  
 
    
 


  

 


















Non vi è dubbio che la “Dona fiorentina” debba essere stata la Gioconda, cui Leonardo lavorò fino alla fine dei suoi giorni, studiando gli effetti di quel suo magico “sfumato”.
Ma, in questo caso, quante probabilità vi sono che la Dama ritratta da Leonardo sia Monna Lisa del Giocondo e non un’amante di Giuliano de’ Medici, il cui ritratto fu restituito al suo Sommo Artefice, dopo il matrimonio del committente con Filiberta di Savoia?
Tutto è possibile!
Anche che Monna Lisa sia stata l’amante di Giuliano de’ Medici.
Ma, in fondo, la vera identità di questa straordinaria modella ha poca importanza, se per identità si intende quella storica e anagrafica. È, invece, la “figura” che i pennelli di Leonardo hanno reso palpitante e seducente in modo immutabile nei secoli e che, forse, è nata, perfino, come creazione sublime della sua fantasia di uomo, di artista e di scienziato insieme, che continua ad affascinare e suscitare interesse.
Fiumi di visitatori, provenienti da tutto il mondo, si accalcano, quotidianamente, al Louvre, per sostare dinanzi al più famoso ritratto del mondo – probabilmente, all’origine più largo di 7 centimetri –, dal quale, seduta su una seggiola, tra due colonnine appena visibili  di un loggiato, dietro il quale si stende il caratteristico paesaggio leonardesco, La Gioconda continua a guardare con distacco il mondo, quasi con ironia.
A coloro che nell’antica Bisanzio si accanivano nel distruggere le immagini sacre, perché le ritenevano oggetto di un culto feticista, la Curia Romana rispondeva che “in pictura legunt qui litteras nesciunt”, “chi non sa leggere la scrittura legge la pittura”. Le rappresentazioni medioevali specificate da tituli e superscriptiones, simili alle didascalie che accompagnano le foto dei moderni rotocalchi, costituivano un vero e proprio catechismo illustrato.
La pittura era in funzione dell’apprendimento, del sapere.
Già, Alcuino, l’acuto consigliere della politica culturale di Carlo Magno, aveva notato che il valore di un quadro o di una statua non è dato dal titulus.
Un’opera d’arte vale di per sé, indipendentemente da qualsivoglia contenuto storico, religioso, culturale, formale. Un’opera d’arte è là per essere goduta, non per essere compresa. Un quadro deve essere soggetto di godimento estetico e non di discussione ragionata, a esempio, in una Donna con Bambino, il titulus può dirmi che è l’immagine  veneranda della Madre di Dio; il critico positivista può, invece, dimostrarmi che è Alcmena con il piccolo Ercole in grembo…
Cambia, forse, il valore dell’immagine con il cambiare del titulus?
Gli esperti d’arte, in genere, e gli esperti di Leonardo in specie, in realtà, non si occupano affatto di Arte, ma di un qualcosa che aderisce al quadro o alla scultura, quel qualcosa che tentano di scrostare in vista di un’analisi conoscitiva.
È legittimo adoperare l’Arte per “sapere”?
Il problema è vecchio di millenni.
La distinzione agostiniana tra frui e uti deve essere tenuta presente per consentire a tutti di “fruire”, ossia di godere un’opera d’arte, senza sentirsi bloccati perché non si conoscono dell’opera tutti quei dati “scientifici” sotto i quali gli studiosi, a volte avidi di Poesia, tentano di coprirla.
Come se gli scienziati della NASA pretendessero dagli innamorati la perfetta conoscenza scientifica della Luna per potere godere la bellezza dell’argenteo astro che illuina la loro passeggiata notturna in riva al mare!
Leonardo, in particolare, è un artista che va assaporato guardandolo. Volerlo comprendere significa, spesso, perdersi dietro a una infinita varietà di piste concettuali che deviano dal frui dell’opera d’arte.    
Cambia, forse, qualcosa se anziché essere il ritratto di Monna Lisa fosse il ritratto di un efebo travestito?
Il fascino che emana dal dipinto non è legato all’oggetto della rappresentazione. Alcuni critici contemporanei giurano che sia una donna incinta, simbolo della vitalità della natura e, in tal senso, leggono la posizione delle mani e la misteriosa lucentezza dello sguardo; gli storici di domani potrebbero, invece, scoprire che sia una delle tanti amanti di Ludovico il Moro e, in tale chiave, interpretare la sempre misteriosa espressione del volto ambiguo, cui fa da contrappunto la movimentata, instabile, eloquente posizione delle mani.
Il fascino di quel sorriso, forse, non sarebbe più tale se si venisse a sapere con certezza quello che alcuni suppongono, vale a dire che sarebbe dovuto a un’affezione asmatica della modella?

La Mona Lisa di Isleworth o Earlier Mona Lisa, è un dipinto attribuito a Leonardo, che rappresenta un busto di donna avente notevoli elementi di somiglianza con La Gioconda esposta al Louvre di Parigi. Secondo alcuni studi accademici, questo dipinto sarebbe stato realizzato da Leonardo una decina di anni prima del dipinto del Louvre, quando Leonardo era a Milano da circa dieci anni e, dunque, fortemente improbabile.
 

Copia seicentesca de La Gioconda, esposta nellaWalters Art Gallery, a Baltimora.
 
Nella stessa bottega e negli stessi anni, fu dipinta una seconda Gioconda, conservata oggi al Prado di Madrid. Il secondo quadro venne dipinto, con grandi probabilità, da uno degli allievi di Leonardo, forse dagli italiani Francesco Melzi o Gian Giacomo Caprotti, noto come Salaì, o da uno dei due spagnoli, Fernando Yáñez de la Almedina o Hernando de los Llanos, che assistevano in quel periodo il Maestro italiano.
  


Il 21 agosto 1911, Vincenzo Perugia, italiano, emigrato a Parigi e decoratore al Louvre, la staccò dalla parete e se ne impadronì. Sembra che il suo scopo fosse quello di riportare La Gioconda in Italia, convinto per errore, che fosse una delle tante opere d’arte depredate al nostro Paese da Napoleone.
Venne ritrovata, nel dicembre del 1913, a Firenze, dove Vincenzo Perugia aveva pensato di venderla, e, quindi, restituita alla Francia.
Il singolare episodio suscitò un vasto clamore.
Il ladro, dopo poco più di un anno di carcere, terminò i suoi giorni in un oscuro paesino della Savoia, raccontando sempre la sua mitica avventura e ammettendo che unitamente alle ragioni patriottiche ve ne era una straordinariamente sentimentale: il sorriso de La Gioconda gli ricordava quello di una ragazza che in gioventù aveva molto e invano amato. 
 






Gabriel Joseph Marie Augustin Ferrier [1847-1914], copia de La Gioconda, conservata alla Maher Art Gallery del Cairo.
Sir Joshua Reynolds [1723-1792], copia de La Gioconda, attualmente esposta nella Dulwich Picture Gallery, a Londra.


Nei primi decenni del secolo scorso, sull’onda dei ribelli alle tradizioni dell’Arte, Marcel Duchamp [1887-1968], capofila del movimento dadaista, realizza, nel 1919, un ready-made, L.H.O.O.Q., più conosciuto come La Gioconda con i baffi, conservata al Centre George Pompidou di Parigi, dissacrando, così, uno dei miti artistici più consolidati.
“La Gioconda è così universalmente nota e ammirata da tutti che sono stato molto tentato di utilizzarla per dare scandalo. Ho cercato di rendere quei baffi davvero artistici.”
Il titolo è sostanzialmente un gioco di parole, infatti, le lettere L.H.O.O.Q. pronunciate in francese danno origine alla frase Elle a chaud au cul, che significa Lei è molto eccitata, ma si possono, anche, leggere come la parola inglese look, guarda.

L’Arte per Leonardo è un linguaggio con cui esprimere cose inesprimibili con le parole, non è una trasposizione visiva di concetti o di idee o di fatti attinenti alla Storia e ad altre discipline.
Un’opera d’arte va assaporata, goduta, amata.
Vi sono leggi razionali per spiegare e suscitare l’amore?
Le molte, troppe parole sull’amore, dimostrano semplicemente che vi è mancanza di amore e si ricerca là dove non può essere.
L’Uomo moderno è, sempre, meno capace di immergersi nell’estasi della contemplazione artistica, di qui il proliferare di critici che “spiegano” l’Arte con le parole, continuano a mettere tituli di marchio medioevale sotto ogni quadro e scultura.
Le parole sono divenute pressoché indispensabili all’Uomo moderno così distratto che, se una precisa indicazione scritta non lo avvertisse della sua straordinaria bellezza e unicità passerebbe dalla Porta del Paradiso di Lorenzo Ghiberti, senza degnarla di uno sguardo! 
Una sola speranza: che attraverso i tituli, i libri, le parole, si riesca a fare avvicinare le persone all’opera d’arte per curiosità, dapprima, e per amore, in seguito.
Leonardo rappresenta una grande “provocazione”, ma il Sommo Artefice ha saputo indicare all’osservatore attento la via per penetrare il mistero di un’opera solo apparentemente figurativa.
È il compito che si dovrebbe prefiggere la Scuola, è la speranza mia nello scrivere su una delle opere leonardesche che più mi hanno incantato sino da bambina, al punto da fare mie le parole di Théophile Gautier:

“È la sua bellezza?... Non è nemmeno più tanto giovane… le dita della vita hanno lasciato la loro impronta sulle guance di pesca… ma l’espressione saggia, profonda, vellutata, piena di promesse, ti attrae irresistibilmente e ti avvelena, mentre la bocca sinuosa, serpentina, sollevata agli angoli, nelle ombre viola, si prende gioco di te con tale delicatezza, grazia e superiorità che ti senti improvvisamente intimidito, come uno scolaretto di fronte a una duchessa… desideri repressi, speranze che portano alla disperazione si agitano disperatamente nell’ombra trafitta da raggi di luce; e scopri che la tua malinconia deriva dal fatto che la Gioconda trecento anni fa accolse la sua dichiarazione d’amore con lo stesso sorriso canzonartorio che ancora adesso ha sulle labbra…”
   
Daniela Zini
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