“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In politics, nothing
happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D.
Roosevelt
à mon Père, le
premier Homme de ma vie, qui a fait de moi un Homme.
Merci, Papa.
La vraie Mort, c’est le rien.
Il faut résister à cela, que la Mort soit
quelque chose, qu’elle fasse partie de la Vie, qu’elle soit en état de
complicité incessante.
Notre façon d’être avec la Mort, de
rencontrer la Mort, est toujours une répétition. C’est à la fois la répétition
d’une Mort, la répétition du Passé et du Futur.
Et chaque Mort qui nous arrive est
alimentée par la source, le torrent des autres Morts.
Et ce que nous perdons, à chaque fois, c’est
un Enfant.
Lorsque mon Père… – je crois que je ne
parviendrai jamais à articuler ces quatre petits mots si lourds:
“Mon père est
mort.”
– j’ai perdu l’enfant qu’il était pour moi,
l’Enfant que j’étais pour Lui, l’Enfant que je suis pour moi.
Tout pour moi dans la Vie s’accompagne d’un
indice de “encore”.
Ainsi, mon Père est encore là.
Je ne peux pas traverser un jardin avec Lui
et regarder un fil d’herbe pousser, sans me dédoubler et me voir, à ce moment
même, regarder ce fil d’herbe avec mon Père, bercée par les notes d’une Musique
ouvrant un Passé-Futur.
Nous pouvons vivre notre Mort dans la fin
brutale d’un Amour, dans la perte narcissique. Nous devenons mortels et faisons
la connaissance de la mortalité dans ce rapport à l’Autre. De telle sorte que
la moitié sera séparée de la moitié et devra la garder.
Quant à ceux
qui emportent un morceau de
nous-mêmes, il y a un
tissage à faire, c’est un immense travail.
Renouer sans cesse, tendre l’oreille,
tendre l’attention.
Ce n’est pas un se rappeler, mais appeler,
évoquer.
Notre Sort, c’est de ne pas laisser
derrière nous.
D
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò
che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo
piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi
esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in
questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi
stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di
gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società
segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti.
La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li
obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e
mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy
tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla
analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più
pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza”
è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come
popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle
procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino,
di gran lunga, i pericoli che vengono
invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno
alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche,
sociali, politiche o di clubs privati
riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono state, in
un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni
dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto
a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si
ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo
mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle
società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si
pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una
appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della
storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle
società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti
di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società
segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla
nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non
critico, che degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle società segrete
in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare,
ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini,
noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti”
[capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è
sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei
predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo
un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente
scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle
società segrete è che
le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per
così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale
resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde,
necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più
lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla
fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui
veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali
della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero
divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i
due poli della sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto
al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un
inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo
iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben
presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la
trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni
abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O
che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la
materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono
e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre
di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete
assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e,
soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra
svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario,
legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità
scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una
moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con
possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una
importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia,
versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono,
sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le
ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia
esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente,
legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne
ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su
Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema,
esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali,
basati sul controllo, il potere e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in
cui viviamo!
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
3. SI UCCIDE UN MINISTRO
CAMORRA SOTTO ACCUSA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
4. I RIFIUTI TOSSICI IN
CAMPANIA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO
STATO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA
3. LA
QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Prima -
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA
3. LA
QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Seconda -
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA
3. LA
QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Terza -
Roma
Caput Immondum
A. La
Banca Romana
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA
3. LA
QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Terza -
Roma
Caput Immondum
B. Il
banchiere di Dio
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO
VA E FA’
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA
5.
TURIDDU 65 ANNI DOPO
di
Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. UN MUOITTU SULU UN
BAISTA NI SIEBBONO CHIOSSAI!
di Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
III. I
SAMURAI
1. LA
SPADA E IL CILIEGIO
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
III. I
SAMURAI
2. IL
LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN IN
ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
III. I
SAMURAI
3.
CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
di
Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI
CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL
PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di
Daniela Zini
II. LA MAFIA
“The
law of the street was take or be taken.”
Charles “Lucky” Luciano [1897-1962]
di
Daniela Zini
Benedetto Croce [1866-1952]
Lettera di Benedetto Croce a
Walter Lippmann
Sorrento, 8 novembre 1943
Caro signor Lippmann,
io non ho mai dimenticato la visita che Ella mi fece a Napoli
tanti anni or sono, come sempre ho seguito l’opera Sua nei volumi che ha avuto
l’amabilità di inviarmi. Mi permetta di ripigliare ora con Lei la conversazione
su cosa che assai mi sta a cuore e che sono sicuro che anche Lei prenderà a
cuore.
Gli alleati anglo – americani, nel dichiarare ripetutamente i
fini della guerra, ponevano a capo di tutti quello di sradicare il fascismo e
il nazismo, e di punire severamente i loro autori e rappresentanti, proposito
che per lo meno dovrebbe significare questo: che essi siano esclusi dalla vita
pubblica.
Orbene, come mai in Italia rimane ancora a capo dello Stato la
persona del principale responsabile del fascismo, che è il re Vittorio Emanuele
III? Del re che non volle firmare lo stato di assedio deliberato dal suo
Ministero e aprì la porta a Mussolini, e con ciò, data la stima che si aveva di
lui che aveva fatto sempre dichiarazioni democratiche, lasciò credere al Paese
che egli dominasse la situazione ed adottasse un espediente transitorio per
evitare repressioni sanguinose e conflitti? Del re che da allora in poi ha
violato tutti i patti della costituzione da lui giurata, ha troncato ogni
relazione con gli oppositori e con coloro che erano oppressi e protestavano, si
è asservito interamente al regime, e, in ultimo, ha dichiarato la stolta
guerra, conferendo il comando dell’esercito italiano, che dall’articolo 5 dello
Statuto era affidato a lui, al Mussolini?
È vero che, troppo tardi, nel luglio scorso, egli mandò via il
Mussolini e poi concluse l’armistizio; ma ciò fece soltanto quando si avvide
che il fascismo era finito e non poteva più porgere alcun appoggio ai suoi
interessi dinastici.
E, mirando unicamente a questi interessi e non curando né la
giurata libertà né i suoi doveri verso il popolo di cui è cittadino e sovrano,
d’allora in poi la sua politica è stata di mantenere in vita quanto più poteva
delle istituzioni e degli uomini del fascismo, proteggendoli in modo da avere
nel Paese un partito che, favorito nei suoi interessi materiali, l’appoggiasse.
Anche quando ha dichiarato la guerra alla Germania, e viene
preparando forze militari a questo fine, egli si studia di formarle tali che
servano a lui come sostegno per mantenersi sul trono; e perciò non solo
accoglie tutti i fascisti, anche quelli più compromessi e colpevoli di essere
andati a gettare bombe in Spagna o in Croazia, e con loro i comunisti, purché
si dichiarino monarchici e giurino, ma – cosa più grave ancora – in modo
diretto e indiretto, con manifesti affissi o con manovre insidiose, vieta ogni
levata di volontari; ed è una pena vedere i giovani che giungono qui a Napoli,
dall’alta Italia e da Roma, dopo avere attraversato con grande ardimento le
linee tedesche, rimanere delusi e oziosi, e sentire spento il loro ardore.
Per il passato del re e per il suo presente atteggiamento le
personalità politiche, che sono state da lui officiate, hanno ricusato di
formare un Ministero, non potendo in coscienza giurargli fedeltà e non avendo
nessun mezzo di rialzare il prestigio che egli ha perduto, anche nelle più
umili classi popolari. Essendosi testé presentato a Napoli, sulle vie da lui
percorse è stato accolto dalla gelida indifferenza generale.
La mancanza di un ministero formato da vecchi e provati uomini
politici insieme con i più giovani rappresentanti dei vari partiti antifascisti
e antitedeschi, è gravissima, mancando così ogni indirizzo e ogni vigore alle
autorità locali dipendenti; né alle stesse autorità della occupazione militare
può giovare questa paralisi della vita italiana, che, mentre accresce le
sofferenze di un popolo che ha viste distrutte le sue case ed è affamato,
prepara la ribellione e la delinquenza. E tutto questo perché il re deve
cercare di restare al posto dove egli, in definitiva, non potrà in alcun modo
restare!
A questo risoluto atteggiamento di biasimo al re, che è anche il
mio che sono fra i vecchi uomini politici, già ministro nel gabinetto liberale
del Giolitti, è stato risposto dal ministro di casa reale, che era venuto qui a
chiedere la mia cooperazione al ministero, che invano noi pretendevamo l’abdicazione
del re, perché gli inglesi e gli americani vogliono che in Italia si conservi
la monarchia, pur lasciando che dopo la guerra il popolo italiano scelga la
forma di governo che gli conviene.
A ciò abbiamo replicato che nessuno di noi pensava di aprire,
mentre dura la guerra e abbiamo i tedeschi nel nostro territorio, un dibattito
su monarchia e repubblica, e che eravamo di intesa a rimandare questo problema
alla fine della guerra; ma che altra era la questione istituzionale e altra
quella personale, e che il re rappresentava la prosecuzione del fascismo e l’ostacolo
a provvedere alle cose italiane e anche alla cobelligeranza con gli
anglo-americani.
La proposta dunque da noi sostenuta, era, ed è, che il re e suo
figlio, principe di Piemonte, corresponsabile con lui per il contegno tenuto,
abdichino e sia dichiarato re il minorenne Principe di Napoli, con una reggenza
a capo della quale si ponga il Maresciallo Badoglio. Questo mutamento, fatto
ora, salverebbe l’istituto monarchico o ne prolungherebbe, e forse ne
accrescerebbe, le speranze, e in Italia la concordia degli spiriti e il
sentimento del compiuto distacco dal passato fascistico.
Ora io non so, mentre Le scrivo, se la nostra proposta finirà
per prevalere. Per intanto, il maresciallo Badoglio l’ha resa pubblica ed ha
annunziato che il re, non potendo comporre un Ministero di uomini politici per il
rifiuto incontrato, nominerebbe un ministero di funzionari e di tecnici. Quale
autorità e quale vigore possa avere un simile ministero è superfluo dire; e con
quale animo sarà composto si può desumere dai primi nomi che sono stati
annunciati, tra i quali quello del Jung, che fu ministro delle finanze del
Mussolini e che dava segni di fanatico attaccamento a costui.
Quanto all’atteggiamento delle autorità anglo-americane, sta di
fatto che esse finora hanno impedito ogni manifestazione per l’abdicazione del
re e ogni discussione nei giornali che controllano; e tutto ciò non è
certamente incoraggiante. Se gli italiani avessero in questa questione piena
libertà di esprimere il loro voto, l’abdicazione e l’assetto di sopra proposto
si attuerebbero senz’altro, col consenso generale, e sarebbe una questione
chiusa.
Questo è il problema urgente di noi italiani; ma io non gliene
avrei scritto, se essa non si congiungesse nella mia mente con la guerra e con
l’avvenire che la fine della guerra prepara. Ho avuto occasione di scrivere pel
New York Times, che me ne fece richiesta, un articolo sul Fascismo come
pericolo mondiale, che a quest’ora dovrebbe essere stato pubblicato. Ma in
quell’articolo, scritto a metà ottobre, lumeggiando alcuni aspetti del
problema, non potei fermarmi sopra un altro di essi che mi si è andato svelando
da quando gli anglo-americani sono in Napoli. In Italia, il fascismo è una
malattia per sempre superata e non tornerà più, e tutto fa sperare che l’unica
forza, viva e seria, che creò il nostro risorgimento nazionale nel secolo
passato e che governò beneficamente i sessanta e più anni che corsero dal 1860
all’avvento del fascismo, ripiglierà il dominio, come già ne diè indizio l’esplosione
liberale che seguì alla caduta del fascismo, durante i quaranta giorni
precedenti all’armistizio e all’occupazione tedesca. Chiesa cattolica e
comunismo, per ragioni diverse od opposte, non hanno né l’una né l’altra forza
costruttiva; l’esercito è sempre stato disciplinato e sottomesso al potere
politico, né mai ha tentato pronunciamenti. Ma si può dire lo stesso delle
tendenze e delle disposizioni politiche che vengono mostrando, nel campo dei
fatti, gli angloamericani?
Quel che è accaduto nell’Africa francese del Nord, dove uomini e
partiti, fascisti non di nome ma nel carattere, hanno avuto il sopravvento e
hanno perseguito i democratici; o nella Sicilia, dove l’amministrazione è – per
colpa precipua del capo americano Poletti – nelle mani degli ex fascisti; ma
soprattutto quel che ne vedo e ne osservo qui a Napoli, da quando vi sono
giunti gli americani e gli inglesi io sono venuto al convincimento che, se la
bandiera innalzata dagli Alleati nella guerra era la restaurazione e lo
stabilimento della libertà, nella pratica ci si orienta verso un assetto
fascistico o semi fascistico per effetto dei circoli politici e degli interessi
economici prevalenti nei rispettivi Paesi, e soprattutto per la paura del
comunismo verso il quale il fascismo non è già una difesa, come si immagina o
come le menzogne di Mussolini hanno fatto credere al mondo, ma una
preparazione, o un sostituto, che ne raccoglie il peggio. Basta, del resto,
leggere il programma venuto fuori in questi giorni, della nuova Repubblica
italiana fascista, ideata dal Mussolini, per leggervi che sarà una Repubblica
sociale, con l’abolizione del capitalismo et similia.
Come studioso di storia non sono e non posso essere ingenuo, e
mi è ben noto che le guerre non si fanno per ideali morali, ma per la difesa e
l’ampliamento dei singoli Stati, e che gli uomini politici che rappresentano
gli Stati debbono adempiere a questo solo, che è il loro proprio e diretto
dovere. Ma so anche che essi non possono passar sopra agli ideali morali quando
questi si convertono in forze politiche e formano richieste e stati d’animo e
volontà della pubblica opinione. E so che in America e in Inghilterra questa
pubblica opinione è ancora potente e se in certi casi non interviene come in
questo che le ho descritto dell’Italia e come nei sintomi che si notano di un
avviamento pericoloso per l’Europa e anzi per il mondo tutto, è perché non è
informata. Ella è uno di coloro la cui parola è ascoltata dalla pubblica
opinione in America e oltre l’America; come io, in un campo più ristretto,
durante e contro il fascismo, mi sono fatto ascoltare e ho operato sulla
pubblica opinione e ho conseguito buoni effetti. Vorrà dunque prendere in
considerazione le cose che le ho esposte e le altre che le ho accennato, e che
sono più gravi perché hanno una estensione e una importanza internazionale?
Con questa speranza ho ripreso con Lei la vecchia conversazione,
nella quale ricordo che ebbi occasione di dirLe, alla Sua meraviglia sullo
stato di acquiescenza in cui aveva trovato l’Italia sotto il fascismo, che se
in altri Paesi, se nella stessa America il popolo si lasciasse sfuggire di mano
il congegno liberale, si sarebbe visto assai di peggio, perché l’Italia è pur
sempre un Paese di antichissima civiltà, e che più facilmente di altri si
ripiglia e si rialza. Quel che avvenne qualche anno dopo, all’avvento del
nazismo in Germania, fu la conferma del mio giudizio. Il nazismo si tirò dietro
non solo la politica e l’economia, ma la scienza stessa e il pensiero tedesco,
e distrusse nei tedeschi l’umanità, riducendoli a macchine; ma gli italiani,
anche sotto il fascismo, macchine non diventarono.
Mi abbia con cordiali saluti e con la speranza che questa
lettera Le giunga e che io possa ricevere da Lei un cenno di risposta.
Suo,
Benedetto Croce
7. OPERATION HUSKY
Dal carcere di Great Meadow, dove scontava una
lunga pena, il gangster Lucky Luciano
collaborò con gli Alleati a preparare il terreno di una complessa operazione:
lo sbarco in Sicilia del 1943. Poi, la Mafia, la fame e i pochi cannoni del
nostro esercito fecero il resto.
La mattina del 10 luglio 1943, alle prime
luci dell’alba, a un ordine convenuto, lungo la fascia costiera Sud-Orientale
della Sicilia, più esattamente da Licata, Gela, Scoglitti attraverso Pozzallo,
Pachino fino a Capo Murro di Porco, per circa 300 chilometri, ebbe inizio l’attacco
degli Alleati all’isola.
L’operazione militare non costituì una
sorpresa per nessuno, né per i comandi locali italiani e tedeschi, né per
quelli supremi. Perfino le autorità politiche attendevano lo sbarco.
Un
mese prima, l’11-12 giugno, come preludio ad azioni di maggiore portata, erano
cadute le Isole di Pantelleria e di Lampedusa.
I nostri
ricognitori, spintisi lungo la costa dell’Africa Settentrionale, avevano notato
che porti grandi e piccoli rigurgitavano di navi di ogni genere, mentre nei
campi esistenti e negli altri improvvisati, le truppe raccolte erano aumentate
di numero nelle ultime settimane. L’operazione, dal nome convenzionale Husky,
decisa, il 18 maggio, dai Capi di Stato Maggiore alleati, si traduceva in
realtà, concretando, dopo sette mesi, il famoso telegramma di Roosevelt a
Stalin:
“Stiamo per scacciare i tedeschi dall’Africa e faremo sentire ai
fascisti di Mussolini il sapore di qualche autentico bombardamento. Sono
sicurissimo che non sopporteranno mai questo genere di pressione.”
Il giorno dello sbarco era un sabato
diverso dagli altri a causa del vento continuo, proveniente dal mare. Negli
appostamenti costieri si era all’erta, quando, in breve tempo, poderose forze
navali e aeree avversarie apparvero all’orizzonte. Le incursioni, da mesi
ormai, seminavano la morte tra militari e civili. Si dormiva nei ritagli di
tempo, si mangiava cibo freddo; ma, quella mattina, il bombardamento raggiunse
una intensità mai udita. La reazione antiaerea, prima disordinata, in seguito, più metodica, si dimostrava
tuttavia inadeguata. La terra, per un raggio di 40 chilometri, sussultava come
un cataclisma naturale.
Nella zona di operazione vera e propria, in
quella che si poteva considerare ormai una bolgia d’inferno, iniziarono ad
apparire i primi paracadutisti, in gruppi folti. Il cannoneggiamento navale si
era attenuato e diramato, il resto del compito veniva affidato all’aviazione,
da un lato, e ai mezzi da sbarco, dall’altro.
La luce del mattino si era fatta chiara e
lungo le spiagge battute dal fuoco, deserte per chilometri, approdavano mezzi
anfibi di ogni sorta, motozattere, imbarcazioni leggere da cui uscivano i marines. Il loro primo compito era
quello di superare, immediatamente, la battigia, raggiungere i viottoli o le
strade di terraferma, mimetizzarsi sotto gli alberi, riparare nei casolari
sparsi. Di tanto in tanto, le loro mitragliatrici rispondevano al fuoco dei
difensori. Ma si muovevano maldestramente, creando putiferio e confusione e,
soprattutto, urlavano come ossessi. Davanti ai fortini, alle casematte, ai
trinceroni improvvisati nelle ultime settimane, si fermavano e ai soldati
sfiniti, con gli occhi sbarrati, quasi inebetiti e ai feriti, che si
lamentavano, gridavano quasi sillabandole, stentate parole dialettali:
“Jitivinni a casa, chi ci
stati a fari? Semu paisani, da vostra stissa terra.”
Ai siciliani, soldati o civili, questo
annuncio non pareva vero, dopo un tale uragano di fuoco, e, come dinanzi a
esseri diabolici, fuggivano terrorizzati.
Nei giorni immediatamente successivi allo
sbarco, a oltre 150 chilometri dove era avvenuto, fu ascoltato dalla viva voce
di un giovane marinaio il racconto di quelle prime ore drammatiche. Ciò che,
soprattutto , lo aveva colpito era l’incitamento alla fuga, pronunciato in
perfetto siciliano.
Era la prima non trascurabile vittoria che
i combattenti della Psychological Warfare
Branch registravano toccando il suolo del Vecchio Continente.
Le nostre forze, in Sicilia, erano così
dislocate: a Occidente [primo settore] il 12° Corpo di Armata, dapprima comandato
dal generale Mario Arisio, in seguito dal generale Francesco Zingales; a Oriente
[secondo settore] il 16° Corpo di Armata, agli ordini del generale Carlo Rossi.
Lungo le coste erano schierate 6 divisioni costiere e 2 brigate, ciascuna
copriva una estensione di 140 chilometri in media. Era una occupazione troppo
rada di gruppi di uomini largamente intervallati. La 206^ Divisione [Achille d’Havet],
la quale dovette sostenere l’urto dell’intera 8^ Armata britannica e aveva la
maggiore proporzione di forze, poteva contare su 36 uomini per chilometro, 2
fucili mitragliatori e 3 mitragliatrici, mentre disponeva di un mortaio da 81,
ogni 4 chilometri, e una batteria [4 pezzi] ogni 9 chilometri.
Le forze italiane che, dal 10 al 15 luglio,
poterono agire là dove avvenne lo sbarco, erano composte da 70mila uomini,
mentre le due divisioni tedesche non superavano i 28mila. In definitiva, l’urto
avversario fu sostenuto da circa 98mila uomini, appoggiati da circa 500 cannoni
e da 250 carri armati, di cui un centinaio italiani.
Quanto agli angloamericani – secondo
dichiarazioni di Franklin Delano Roosevelt del 28 luglio – parteciparono
alle operazioni con 3mila navi e con 160mila uomini, 1400 autoveicoli, 600
carri armati, 1800 cannoni.
La Marina da guerra alleata intervenne con
6 navi da battaglia, 3 portaerei, 20 incrociatori, 100 cacciatorpediniere,
numerose motosiluranti e unità sottili, centinaia di natanti a motore.
Il morale dei siciliani, da qualche anno,
era alquanto depresso.
Da 6 mesi, ormai, la vita dell’isola era
affidata al caso e all’arbitrio del destino. Si dormiva a intervalli. Mancavano
i generi di prima necessità, dal pane alla pasta, al vestiario. Le tessere
annonarie erano una beffa. Scarseggiava lo zucchero e l’olio, ma fioriva, già,
il mercato nero che forniva, a prezzi maggiorati, i generi razionati e
spettanti per legge. Le autorità locali o provinciali aiutavano, passivamente,
gli evasori e gli intrallazzatori, talvolta, divenivano loro complici.
Dopo Natale e il Capodanno del 1943, la
guerra entrò nella fase più acuta. Nei pomeriggi luminosi dei primi di gennaio,
apparvero i ricognitori, cui, giorni dopo, seguirono i quadrimotori americani.
Sorvolate alcune città isolane, puntarono, decisamente, su Palermo e vi
colpirono le postazioni militari, la centrale di tiro, la zona portuale e i
quartieri popolosi dell’Acquasanta, da un lato, e della Kalsa, da quello
opposto. Finivano, da quel giorno, i bombardamenti lenti e compassati di marca
inglese, autentico stillicidio, che mettevano, a dura prova, i nervi per notti
intere e si concludevano con il lancio calcolatissimo di proiettili, che
andavano su una nave mercantile o su una caserma semivuota.
La guerra non era più il diversivo, che
aveva scosso il torpore secolare della Sicilia. All’insolito movimento, in
determinate ore, nelle strade e nelle piazze, erano subentrati l’apprensione e
il silenzio, interrotti da modeste manifestazioni, organizzate da gerarchi
fascisti scrupolosi e zelanti, i quali tentavano di imporre la disciplina con l’applicazione
di circolari ciclostilate o di note di servizio.
La marcia vittoriosa verso Alessandria
apparteneva al passato.
A Catania, Messina e Palermo, erano
scomparsi d’incanto, dopo che i primi spostamenti d’aria li avevano danneggiati
o abbattuti, enormi cartelloni, 4 metri per 2, su cui erano attaccate grandi
cartine multicolori, a rilievo, che riproducevano, in modo vistoso, la zona del
bacino del Mediterraneo, da Gibilterra a Suez. Tutte le mattine, per tempo, un
incaricato, un po’ dietro istruzioni e un po’ a suo arbitrio, spostava, solitamente,
in avanti, sul teatro delle operazioni, le bandiere tricolori. Quei tabelloni,
ideati e realizzati a Roma, erano costati alcuni milioni di allora; dopo i
recenti avvenimenti, denunciati dagli stessi bollettini, furono smontati alla
chetichella e sparirono.
Nei centri principali dell’isola, da quando
il comando dell’armata si era trasferito a Enna e quelli del XII° e XVI°,
rispettivamente a Corleone e a Piazza Armerina, le forze armate erano sparite
dalla circolazione e quelle della difesa contraerea si erano, definitivamente,
taciute. La loro attrezzatura era stata, fino dall’inizio, modesta e tutt’al
più rumorosa e appariscente.
Era l’epoca nella quale, per un ricognitore
inglese abbattuto, il comando della DICAT, spediva fonogrammi di elogio agli 8 comandi
batteria, installati sui monti che circondavano Palermo.
Dal gennaio del 1943 allo sbarco, si erano
succeduti al comando tre generali: Ezio Rosi, Mario Roatta, Alfredo Guzzoni. Il
primo, rimastovi più a lungo, passava, in febbraio, l’incarico a Roatta che,
nel volgere di 4 mesi, tentava ogni accorgimento e giocava le ultime carte.
Improvvisamente, veniva sostituito da Guzzoni, il primo di giugno.
Fino dal principio del conflitto le
deficienze si erano manifestate in molti settori: mancanza di scarpe per le
truppe [nei depositi ne esistevano di misura sproporzionata, dal 44 in su;
migliaia di paia furono, in un secondo tempo, scucite per essere rifabbricate],
scarsezza di quadrupedi e mezzi di trasporto.
L’età dei soldati delle divisioni costiere
era piuttosto avanzata. I richiamati non conoscevano le nuove armi automatiche,
molti ufficiali erano impreparati e il generale Emilio De Bono, dopo una
ispezione, citava il caso, in un suo rapporto, di due sottotenenti, i quali,
congedati con tale grado, nella guerra del 1918, fossero divenuti comandanti di
battaglione. Nel febbraio, quando Roatta assume il comando, lo stato dell’isola
era tutt’altro che edificante.
Conviene precisare.
Sia i trasporti sia i rifornimenti – punti
chiave – erano pressoché impossibili perché gli Alleati, padroni incontrastati
del mare e del cielo, colpivano inesorabilmente. Il comando tedesco,
ammaestrato dai nostri ripetuti insuccessi, fece costruire, in tutta fretta,
alcune zattere a motore, con le quali trasportò lungo lo Stretto quanto
occorreva.
Non pensammo, mai, di imitarli e, invece,
in Sicilia occorrevano: carbone, viveri, cemento, ferro, attrezzi per
fortificazione.
Del resto, il poco che giungeva sulla costa,
difficilmente perveniva all’interno della Sicilia.
Anche in materia di organizzazione di
comando vi era molto da fare: militari e civili procedevano ciascuno per
proprio conto e, così, emerse che per i 160mila uomini, dislocati in tutta l’isola,
restavano viveri per 40 giorni, mentre, per i 4 milioni di civili, i viveri sarebbero
bastati per 2 o 3 mesi.
Gli sbarramenti esistevano in misura
ridotta, i lavori difensivi insufficienti e, così, la difesa anticarro e quella
costiera del litorale che avrebbe dovuto ritardare lo sbarco. Le costruzioni
erano state eseguite con terra anziché con calcestruzzo e ciò perché, da
qualche anno, il cemento scarseggiava. Né meglio si presentava l’artiglieria,
costituita dai soliti calibri divisionali, che avevano fatto il loro tempo, relitti delle
nostre batterie di corpo d’armata. In queste condizioni si dimostrava
perfettamente inutile effettuare il tiro antinave per la scarsa gittata.
I collegamenti tra le unità, a mezzo radio,
si limitavano ai comandi, le comunicazioni telefoniche, dove vi erano, erano
difficili e laboriose. Per parlare dal comando di compagnia con quello di
battaglione, spesso, bisognava passare per due o tre comunicazioni intermedie
che arrivavano fino al reggimento. A Nord-Ovest di Pachino – la zona presa di
mira per lo sbarco – i plotoni di una stessa compagnia, per tenersi in
contatto, dovevano affidarsi alle gambe e ai polmoni di portaordini. Nessuno
ebbe il sospetto che lo sbarco potesse essere effettuato dal cielo e quei pochi
nuclei antiparacadutisti, piuttosto laceri e sfiniti, male in arnese, che, più
volte, fecero delle apparizioni, erano forniti di armi automatiche, ma
sprovvisti di mezzi propri di collegamento e di trasporto. Il fante, poi, aveva
un vitto scarso, peggiore di altri camerati. A Palermo, la cosa era risaputa
dalla popolazione, vi erano due batterie contraeree: marinai nell’una, soldati
nell’altra. I primi, perché considerati in zona di operazione, usufruivano di
vitto e indennità superiori di un terzo circa, rispetto ai secondi, cosicché
questi, quando si recavano a visitare i marinai, dicevano con un ghigno amaro:
“Be’, andiamo in zona d’operazione.”
Max Corvo, Victor Anfuso,
Vincent J. Scamporino
Vi era,
poi, stata la Circolare “S” di Roatta
che diceva:
“Siamo fermi da una settimana per mancanza di filo spinato,
mandateci armi anticarro.”
Si
riuscì a ottenere l’organizzazione del comando. I prefetti sarebbero stati posti
alle dipendenze di un alto commissario, che avrebbe agito agli ordini del comando
d’armata.
Ma era
troppo tardi!
Il
coprifuoco, imposto all’improvviso, non fu né poteva essere accettato. Le norme
restrittive per la circolazione crearono maggiore confusione, l’obbligo ai
cittadini non occupati in lavori agricoli di prestare la loro opera per le
fortificazioni militari suscitò ondate di proteste. Quel crescendo toccò il
diapason con il proclama del 9 maggio, firmato da Roatta, nell’atto di assumere
i pieni poteri.
“Con esso significando che contavo sulla comprensione e
collaborazione della popolazione tutta circa l’applicazione di misure
restrittive inerenti alla situazione e alla presumibile prossimità dell’attacco
avversario, invitavo gli individui validi non richiamati sotto le armi a concorrere
alla difesa, incorporandosi in battaglioni volontari dell’esercito, denominati
Vespri.”
Il
bando concludeva così – e lo riproduco fedelmente perché ha subito variazioni e
mutilazioni:
“Strettamente fiduciosi e fraternamente uniti, voi, fieri siciliani,
e, noi, militari italiani e germanici delle FF.AA. Sicilia, dimostreremo al
nemico che di qui non si passa.”
La
protesta fu enorme.
Il
manifesto venne strappato dai muri delle città.
Per la
seconda volta, nel volgere di pochi anni, veniva operata una assurda
discriminazione; la prima aveva visto funzionari statali e parastatali, quasi
per punizione, trasferiti, a un segno di bacchetta, dall’isola in tutto il
resto d’Italia.
Il
generale Roatta, 22 giorni dopo, lasciava il comando della Sicilia.
La Mafia
locale, quella di oltre Atlantico e la mala di ogni risma, non erano rimaste,
negli ultimi anni del conflitto, inoperose.
I
siciliani, residenti in patria superano di poco i 4 milioni, altrettanti sono
sparsi per il mondo soprattutto nel Nord America. Questa gente, emigrata laggiù,
alla fine del XIX° secolo e all’inizio del XX°, non ha mai perso i contatti con
la madre patria, ma li ha piuttosto rafforzati con frequenti rimesse di
dollari.
Salvatore Giuliano e il
capomafia Vito Genovese
Salvatore Giuliano e Karin Tekla Maria Lannby Cyliacus [8 maggio 1947]
Karin Tekla
Maria Lannby Cyliacus
Gli
uomini della mano nera si misero subito all’opera, ai quali si aggiunsero i
primi mafiosi, perseguitati dalla giustizia e dalle bande avversarie e, quindi,
i molti colpiti dalle drastiche misure del prefetto Cesare Mori che, invano,
aveva tentato di estirpare la mala pianta della Mafia.
Nel
giro di 6 anni, dal 1924 al 1930, gli uomini più pericolosi e sanguinari, sia
clandestinamente sia con il beneplacito delle autorità, avevano abbandonato
case, averi, prestigio, riacquistandoli ben presto all’ombra della Repubblica
stellata.
La
loro avversione al fascismo era cieca, totale!
Non ne
fecero mistero al momento opportuno, quando l’America si vide minacciata in
casa propria, in quella zona della costa – circa 500 miglia – da Long Island a
New Jersey, fino alla vicina New England.
Sabotatori,
spie di origine germanica e, quindi, hitleriani, erano divenuti, senza averne l’aria,
gli arbitri della situazione. Con l’allettamento del danaro e quello non meno
attraente delle “pupe”, dominavano tutti gli emigrati.
I
rifornimenti che gli Stati Uniti avviavano verso l’Europa, destinati agli
Alleati, finivano, per il 90%, in fondo all’Oceano.
Gli U-Boot tedeschi non esitavano a emergere
nei pressi delle coste e i loro micidiali siluri, nei primi 10 mesi dall’inizio
della guerra, avevano affondato 500 navi americane.
La
marina, nonostante attenta sorveglianza, non sapeva a quale rimedio ricorrere,
moli e banchine rigurgitavano di traditori i quali, a mano a mano, avevano
corrotto e guadagnato alla loro causa padroni di barche adibite al trasporto di
pesce, custodi di stazioni di rifornimento di carburante.
Fu
chiaro che i sottomarini si rifornivano di viveri e di nafta, senza ricorrere
ai porti tedeschi e che disponevano di compiacenti fornitori.
I
sabotaggi, all’interno del porto, non erano un mistero; il transatlantico Normandie, che stava per essere
trasformato in nave ausiliaria, fu bruciato, perfino, all’ancora, nell’Hudson.
Questo
episodio e quello non meno grave della scoperta di alcune spie sbarcate da
sottomarini ad Amagansett, su Long Island, indussero i responsabili a creare
una organizzazione apposita per combattere il nemico interno. La sede fu posta
nel Down Town di New York, al numero 90 di Church Street. Qui, si installò il
Quartiere Generale del Office of Naval
Intelligence per il III° Distretto Navale, diretto dal capitano Roscoe C. McFall,
il quale quotidianamente teneva stretti contatti con ufficiali del controspionaggio:
il luogotenente James O’Malley e il comandante Anthony Marsloe, il primo, già,
alle dipendenze del prosecutor Frank Smithwick Hogan, il secondo perfetto
conoscitore del dialetto siciliano e caposettore linguistico del III°
Distretto.
McFall
e O’Malley andarono, un giorno, da Hogan, che dirigeva un ufficio efficiente e,
con Marry I. Gurfein, conosceva tutto della malavita mondiale. Fu chiesto a
Hogan di servirsi della “mala” per proteggere la marina dai sabotaggi. Gli
interpellati non batterono ciglio, promisero appoggio e, poiché McFall nominò,
come rappresentante della marina, il comandante Charles Haffenden, Hogan fece
il nome, come rappresentante distrettuale, di Murray I. Gurfein.
I
nuovi incaricati non esitarono a mettersi in contatto con i gangsters del porto attraverso i loro
legali.
Non fu
difficile trovare l’uomo adatto, si trattava di Joseph Lanza, il quale
controllava tutti i rackets dell’industria
del pesce e, quindi, agli occhi dei pescatori e dei commercianti, era
considerato una vera potenza. In quel momento si trovava nei pasticci con la
giustizia e aveva bisogno di una mano. Il suo avvocato, Joseph K. Guerin,
interpellato al riguardo, chiese solo di conferire con il suo cliente e non
escluse che questi avrebbe accettato. A questo punto Gurfein precisò che Lanza
non avrebbe goduto di alcun privilegio per quanto riguardava l’imminente
processo e che avrebbe dovuto collaborare nella sua qualità di cittadino
americano. L’avvocato svolse la delicata missione, Lanza accettò e si mise al
lavoro.
Un
mese dopo, nell’aprile del 1942, dichiarò fallita la propria missione. Per un
lavoro del genere non vi era che un uomo e occorreva il suo benestare: Lucky
Luciano.
Haffenden,
Hogan, Gurfein non si perdono d’animo, quest’ultimo telefona a Moses Polakoff,
legale di Luciano al processo, fissano un appuntamento in un ristorante di
lusso della 58^ strada.
L’avvocato
è con un amico e quando il poliziotto arriva glielo presenta: Meyer Lansky, uno
dei criminali più noti, appartenente, in passato, al gruppo dei Costello e
degli Adonis. Si dice disposto, come vecchio amico, a parlare con Lucky, a
convincerlo ad accettare il delicato incarico. Di fronte a qualche esitazione
di Gurfein, il quale chiede garanzie, il gangster
senza esitare afferma:
“Vi aiuterà senz’altro. Lui non ha nessuno in Italia, né in
Sicilia, tutta la sua famiglia è qui, i genitori, i fratelli, la sorella.”
Il
problema, ora, è un altro, mettersi in contatto con Luciano, rinchiuso nel
penitenziario di Clinton a Dannemora, per scontare una pena inflittagli, nel
1936, variante, secondo una consuetudine americana, tra i 30 e i 50 anni.
Dannemora
è molto lontana da raggiungere, non sarebbe meglio trasferire il bandito a
Sing-Sing, a due passi da New York?
Haffenden
non esita, scrive al direttore del penitenziario, Lyons, in questi termini:
“In relazione a una missione segreta, la Marina apprezzerebbe
molto la sua collaborazione nel volere concedere il trasferimento di Charlie
Luciano dal penitenziario Clinton a quello di Sing-Sing. Si prospettano
contatti privati e confidenziali con diverse persone che lavorano per lo
spionaggio della Marina. Questa lettera, appena letta, deve essere bruciata.”
Lucky
è condotto, invece, nel carcere di Great Meadow, a Comstock, 60 miglia a Nord
di Albany.
È più
sicuro da molti punti di vista, offre garanzie di ogni genere. Per stornare i
sospetti, altri componenti della malavita sono trasferiti con lui.
Calogero Vizzini [1877-1954]
“Calogero Vizzini con abilità di un genio alzò le sorti del
distinto casato, operando sempre il bene e si fece un nome apprezzato in Italia
e fuori. Fu un galantuomo.”
[dal manifesto funebre di Calogero Vizzini]
Nel 1949, Calogero Vizzini
era uno degli intestatari di una fabbrica di confetti e dolciumi di Palermo,
creata da Lucky Luciano, la quale riuscì a esportare confetti in Germania,
Francia, Irlanda, Canada, Messico e Stati Uniti. Ma, l’11 aprile 1954, il
quotidiano Avanti! pubblicò un
articolo, che denunciava che, nei confetti prodotti nella fabbrica di Luciano e
Vizzini, “due o tre grammi di eroina
potevano prendere il posto della mandorla”. Quella notte stessa, la
fabbrica venne chiusa e i macchinari smontati e portati via.
Al
direttore del penitenziario viene comunicato che Luciano deve collaborare con
lo spionaggio della Marina, quindi, potrà ricevere altre visite, oltre a quelle
dei parenti e degli amici.
L’accordo
è perfetto, le precauzioni opportune.
Quando,
qualche giorno dopo, il bandito si incontra con l’avvocato Polakoff e Meyer
Lansky, pone delle condizioni circa la sua estradizione che non deve mai avere
luogo, poi, passa al concreto e ordina di chiamargli Lanza. Questi riferisce i
tentativi infruttuosi compiuti in precedenza e gli ostacoli frapposti da tipi,
quali Johnny Dunn o i fratelli Camardos. Luciano ordina di rivolgersi a Joe
Adonis per “sistemare” i testardi, per gli altri di passare voce che dietro la
facciata vi è lui.
Il
penitenziario di Great Meadow diviene da quel momento uno dei posti più
importanti di America, la centrale alla quale convengono persone di ogni rango,
che portano a compimento uno dei compiti spionistici di maggiore
responsabilità.
Il
capo impartisce gli ordini e ne pretende la più fedele attuazione, i suoi
uomini sembrano invasati nell’espletamento del dovere.
Nella
zona del porto, nelle banchine militari, i despoti divengono – sostituendosi ai
papaveri della Marina e dello spionaggio – i fratelli Camardos e Frank
Costello. Il risultato è immediato: cessa il sabotaggio, cessa l’ostruzionismo,
non un solo quintale di merce perduto, non un solo trabiccolo affondato. I
tedeschi e i filonazisti vengono neutralizzati e, in seguito, dispersi.
Ma vi
è ancora altro da fare!
Lo
sbarco angloamericano nell’Africa del Nord è avvenuto felicemente, occorre
provvedere ora alla Operazione Husky, al piano per la Sicilia.
E
Luciano può riuscire utile con le sue amicizie e conoscenze al di là dell’Atlantico.
Al quartiere
generale viene costituita una squadra del servizio di spionaggio la F Section, affidata a un uomo che ha
fornito in passato brillanti prove di sé, il comandante Charles Haffenden.
La
Marina, chiamata a una prova decisiva, lancia un ennesimo SOS.
Vuole
sapere tutto sulla Sicilia, vie, porti, terreno, zone montuose, caratteristiche
dei villaggi, tutto ciò che può servire alla occupazione.
Luciano
è di nuovo interpellato, si sente lusingato, vuole impegnarsi a fondo, come
sempre, ritenendo questo incarico della massima fiducia. Amici, dipendenti,
emigrati e, soprattutto, clandestini degli ultimi tempi, che hanno lasciato l’isola
per contrasti con i gerarchi fascisti oltre che con la legge, sono prodighi di
notizie. Nella liberazione della Sicilia vedono la salvezza dei loro congiunti,
la fine di un conflitto, che sconquassa case e poderi.
Luciano
raccoglie, con i suoi accoliti, il materiale e lo passa a Haffenden, vuole
spingersi più oltre, organizzando un vero e proprio servizio di spionaggio con
i mafiosi isolani, impegnandoli in pieno, promettendo aiuti e agevolazioni. Le
sue parole di incitamento e di esortazione non cadono nel vuoto, sono accolte
in alto e in basso, tra la Mafia del feudo e dei giardini, tra le personalità
della politica che, dopo 20 anni, riaffiorano dal buio. Le manifestazioni
separatistiche, prima in sordina, poi, sempre più palesemente, hanno questa
origine.
Pochi
giorni dopo lo sbarco, gli uomini della 7^ Armata americana, comandata dal
generale George Smith Patton raggiungono la provincia di Palermo, dopo qualche
puntata nel Trapanese. A Villalba, un piccolo comune agricolo, centro attivo
della Mafia, si incontrano con il numero uno locale, don Calogero Vizzini,
considerato da decenni uno degli esponenti massimi della Mafia. È aitante, di
aspetto bonario, ma deciso e autoritario, al momento giusto: lo nominano
sindaco del paese.
Ma
anche Lucky Luciano avrà la sua ricompensa.
Nel
febbraio del 1946, il sovrano del racket
lascia New York, a bordo della motonave Laura Keene, diretta in Italia.
Punizione
o premio?
Daniela Zini
Copyright © 22 gennaio 2017 ADZ
President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria
Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be
here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an
article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the
burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New
York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace
Greeley, employed as its London
correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone
broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing
editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per
instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest
petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx
looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating
his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the
cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism,
revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more
kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have
been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the
next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the
expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight
“The President and the Press.” Some may suggest that this would be more
naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my
sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat
from another country demanded recently that our State Department repudiate
certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply
that this Administration was not responsible for the press, for the press had
already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to
deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in
recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the
press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or
defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly
beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these
conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the
courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine
the proper degree of privacy which the press should allow to any President and
his family.
If in the last few months your White House reporters
and photographers have been attending church services with regularity, that has
surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire
service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green
privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do
to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did
he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to
publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in
the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to
illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have
loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the
future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping
either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our
security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere
of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two
requirements of direct concern both to the press and to the President - two
requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be
reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first,
to the need for a far greater public information; and, second, to the need for
far greater official secrecy.
I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and
open society; and we are as a people inherently and historically opposed to
secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long
ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent
facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today,
there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating
its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the
survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is
very grave danger that an announced need for increased security will be seized
upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official
censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that
it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is
high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an
excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold
from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every
newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the
nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press
have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to
prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present
danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First
Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce
the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our
way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing
around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has
been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles
have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before
it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that
no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a
finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has
never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics,
a change in missions - by the government, by the people, by every businessman
or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by
a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for
expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on
subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on
guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has
conscripted vast human and material resources into the building of a tightly
knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic,
intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its
mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised.
No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It
conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would
ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary
restraints of national security - and the question remains whether those
restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of
attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s
foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they
would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage;
that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert
operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike;
that the size, the strength, the location and the nature of our forces and
weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in
the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign
power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning
a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at
the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal,
patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare,
they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open
warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of
national security. And my question tonight is whether additional tests should
not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public
official should answer it for you. No governmental plan should impose its
restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation,
in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the
means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem
to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your
newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every
citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every
citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common
good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper
business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of
War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms
of censorship or any new types of security classifications. I have no easy
answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I
had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the
industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider
the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of
self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every
story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the
interest of the national security?” And I hope that every group in America -
unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same
question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting
tests.
And should the press of America consider and recommend the
voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that
we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps
there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold
and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any
action that results, are both painful and without precedent. But this is a time
of peace and peril which knows no precedent in history.
II
It is the unprecedented nature of this challenge that
also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And
that is our obligation to inform and alert the American people - to make
certain that they possess all the facts that they need, and understand them as
well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices
that we face.
No President should fear public scrutiny of his
program. For from that scrutiny comes understanding; and from that
understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not
asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help
in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I
have complete confidence in the response and dedication of our citizens
whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your
readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its
errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until
you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors;
and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration
and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the
Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from
controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment -
the only business in America specifically protected by the Constitution - not
primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the
sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to
arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our
crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public
opinion.
This means greater coverage and analysis of
international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand
and local. It means greater attention to improved understanding of the news as
well as improved transmission. And it means, finally, that government at all
levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible
information outside the narrowest limits of national security - and we intend
to do it.
III
It was early in the Seventeenth Century that Francis
Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the
compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations
first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes
and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s
efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has
warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder
of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we
look for strength and assistance, confident that with your help man will be
what he was born to be: free and independent.
[http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik]
Nel
mostrare la lettera di Benedetto Croce ai suoi superiori, Vincent Scamporino,
agente dell’Itelligence
americana, precisava che “i
suoi contenuti – integrali o parziali che siano – non vanno divulgati”.
La missiva a Walter Lippmann utilizzava gli speciali canali postali tra gli
Stati Uniti e l’Europa, attivati dall’Office
of Strategic Services [OSS],
negli anni 1943-1945.
Lo storico britannico John Dickie, nel
suo saggio, Cosa Nostra: A History Of The Sicilian Mafia [2004], sostiene:
“L’intervento
di Lucky Luciano nello sbarco in Sicilia è una panzana girata fra i suoi amici
e fra elementi corrotti dell’amministrazione americana che volevano spacciare
Luciano per quello che non era. Come anche è circolato l’inganno della sua
collaborazione per liberare il porto di New York - da lui controllato con i
suoi sindacati - dal pericolo dei sabotatori tedeschi. In realtà, quello di
Luciano era un tentativo di difendersi dalle accuse di controllo del racket
sulle banchine. Sì, sono millanterie messe in giro dagli stessi boss per
alimentare il mito della Mafia. Ma la storia non è ancora in grado di
sconfiggere la menzogna.” [http://m.dagospia.com/lo-storico-john-dickie-smonta-la-teoria-secondo-cui-cosa-nostra-agevolo-lo-sbarco-in-sicilia-137067]
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