“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 22 gennaio 2017

SOCIETA' SEGRETE II. LA MAFIA 7. OPERATION HUSKY di Daniela Zini



“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984

SOCIETA’ SEGRETE


“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt


à mon Père, le premier Homme de ma vie, qui a fait de moi un Homme.
Merci, Papa.

La vraie Mort, c’est le rien.
Il faut résister à cela, que la Mort soit quelque chose, qu’elle fasse partie de la Vie, qu’elle soit en état de complicité incessante.
Notre façon d’être avec la Mort, de rencontrer la Mort, est toujours une répétition. C’est à la fois la répétition d’une Mort, la répétition du Passé et du Futur.
Et chaque Mort qui nous arrive est alimentée par la source, le torrent des autres Morts.
Et ce que nous perdons, à chaque fois, c’est un Enfant.
Lorsque mon Père… – je crois que je ne parviendrai jamais à articuler ces quatre petits mots si lourds:
Mon père est mort.
– j’ai perdu l’enfant qu’il était pour moi, l’Enfant que j’étais pour Lui, l’Enfant que je suis pour moi.
Tout pour moi dans la Vie s’accompagne d’un indice de “encore”.
Ainsi, mon Père est encore là.
Je ne peux pas traverser un jardin avec Lui et regarder un fil d’herbe pousser, sans me dédoubler et me voir, à ce moment même, regarder ce fil d’herbe avec mon Père, bercée par les notes d’une Musique ouvrant un Passé-Futur.
Nous pouvons vivre notre Mort dans la fin brutale d’un Amour, dans la perte narcissique. Nous devenons mortels et faisons la connaissance de la mortalité dans ce rapport à l’Autre. De telle sorte que la moitié sera séparée de la moitié et devra la garder.
Quant à ceux qui emportent un morceau de nous-mêmes, il y a un tissage à faire, c’est un immense travail.
Renouer sans cesse, tendre l’oreille, tendre l’attention.
Ce n’est pas un se rappeler, mais appeler, évoquer.
Notre Sort, c’est de ne pas laisser derrière nous.

D
  
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.   
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!
 


SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
3. SI UCCIDE UN MINISTRO CAMORRA SOTTO ACCUSA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
4. I RIFIUTI TOSSICI IN CAMPANIA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Terza -
Roma Caput Immondum
A. La Banca Romana
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Terza -
Roma Caput Immondum
B. Il banchiere di Dio
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
5. TURIDDU 65 ANNI DOPO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. UN MUOITTU SULU UN BAISTA NI SIEBBONO CHIOSSAI!
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
3. CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini


II. LA MAFIA
“The law of the street was take or be taken.
Charles “Lucky” Luciano [1897-1962]

di
Daniela Zini

Benedetto Croce [1866-1952]

Lettera di Benedetto Croce a Walter Lippmann[2]

Sorrento, 8 novembre 1943

Caro signor Lippmann,
io non ho mai dimenticato la visita che Ella mi fece a Napoli tanti anni or sono, come sempre ho seguito l’opera Sua nei volumi che ha avuto l’amabilità di inviarmi. Mi permetta di ripigliare ora con Lei la conversazione su cosa che assai mi sta a cuore e che sono sicuro che anche Lei prenderà a cuore.
Gli alleati anglo – americani, nel dichiarare ripetutamente i fini della guerra, ponevano a capo di tutti quello di sradicare il fascismo e il nazismo, e di punire severamente i loro autori e rappresentanti, proposito che per lo meno dovrebbe significare questo: che essi siano esclusi dalla vita pubblica.
Orbene, come mai in Italia rimane ancora a capo dello Stato la persona del principale responsabile del fascismo, che è il re Vittorio Emanuele III? Del re che non volle firmare lo stato di assedio deliberato dal suo Ministero e aprì la porta a Mussolini, e con ciò, data la stima che si aveva di lui che aveva fatto sempre dichiarazioni democratiche, lasciò credere al Paese che egli dominasse la situazione ed adottasse un espediente transitorio per evitare repressioni sanguinose e conflitti? Del re che da allora in poi ha violato tutti i patti della costituzione da lui giurata, ha troncato ogni relazione con gli oppositori e con coloro che erano oppressi e protestavano, si è asservito interamente al regime, e, in ultimo, ha dichiarato la stolta guerra, conferendo il comando dell’esercito italiano, che dall’articolo 5 dello Statuto era affidato a lui, al Mussolini?
È vero che, troppo tardi, nel luglio scorso, egli mandò via il Mussolini e poi concluse l’armistizio; ma ciò fece soltanto quando si avvide che il fascismo era finito e non poteva più porgere alcun appoggio ai suoi interessi dinastici.
E, mirando unicamente a questi interessi e non curando né la giurata libertà né i suoi doveri verso il popolo di cui è cittadino e sovrano, d’allora in poi la sua politica è stata di mantenere in vita quanto più poteva delle istituzioni e degli uomini del fascismo, proteggendoli in modo da avere nel Paese un partito che, favorito nei suoi interessi materiali, l’appoggiasse.
Anche quando ha dichiarato la guerra alla Germania, e viene preparando forze militari a questo fine, egli si studia di formarle tali che servano a lui come sostegno per mantenersi sul trono; e perciò non solo accoglie tutti i fascisti, anche quelli più compromessi e colpevoli di essere andati a gettare bombe in Spagna o in Croazia, e con loro i comunisti, purché si dichiarino monarchici e giurino, ma – cosa più grave ancora – in modo diretto e indiretto, con manifesti affissi o con manovre insidiose, vieta ogni levata di volontari; ed è una pena vedere i giovani che giungono qui a Napoli, dall’alta Italia e da Roma, dopo avere attraversato con grande ardimento le linee tedesche, rimanere delusi e oziosi, e sentire spento il loro ardore.
Per il passato del re e per il suo presente atteggiamento le personalità politiche, che sono state da lui officiate, hanno ricusato di formare un Ministero, non potendo in coscienza giurargli fedeltà e non avendo nessun mezzo di rialzare il prestigio che egli ha perduto, anche nelle più umili classi popolari. Essendosi testé presentato a Napoli, sulle vie da lui percorse è stato accolto dalla gelida indifferenza generale.
La mancanza di un ministero formato da vecchi e provati uomini politici insieme con i più giovani rappresentanti dei vari partiti antifascisti e antitedeschi, è gravissima, mancando così ogni indirizzo e ogni vigore alle autorità locali dipendenti; né alle stesse autorità della occupazione militare può giovare questa paralisi della vita italiana, che, mentre accresce le sofferenze di un popolo che ha viste distrutte le sue case ed è affamato, prepara la ribellione e la delinquenza. E tutto questo perché il re deve cercare di restare al posto dove egli, in definitiva, non potrà in alcun modo restare!
A questo risoluto atteggiamento di biasimo al re, che è anche il mio che sono fra i vecchi uomini politici, già ministro nel gabinetto liberale del Giolitti, è stato risposto dal ministro di casa reale, che era venuto qui a chiedere la mia cooperazione al ministero, che invano noi pretendevamo l’abdicazione del re, perché gli inglesi e gli americani vogliono che in Italia si conservi la monarchia, pur lasciando che dopo la guerra il popolo italiano scelga la forma di governo che gli conviene.
A ciò abbiamo replicato che nessuno di noi pensava di aprire, mentre dura la guerra e abbiamo i tedeschi nel nostro territorio, un dibattito su monarchia e repubblica, e che eravamo di intesa a rimandare questo problema alla fine della guerra; ma che altra era la questione istituzionale e altra quella personale, e che il re rappresentava la prosecuzione del fascismo e l’ostacolo a provvedere alle cose italiane e anche alla cobelligeranza con gli anglo-americani.
La proposta dunque da noi sostenuta, era, ed è, che il re e suo figlio, principe di Piemonte, corresponsabile con lui per il contegno tenuto, abdichino e sia dichiarato re il minorenne Principe di Napoli, con una reggenza a capo della quale si ponga il Maresciallo Badoglio. Questo mutamento, fatto ora, salverebbe l’istituto monarchico o ne prolungherebbe, e forse ne accrescerebbe, le speranze, e in Italia la concordia degli spiriti e il sentimento del compiuto distacco dal passato fascistico.
Ora io non so, mentre Le scrivo, se la nostra proposta finirà per prevalere. Per intanto, il maresciallo Badoglio l’ha resa pubblica ed ha annunziato che il re, non potendo comporre un Ministero di uomini politici per il rifiuto incontrato, nominerebbe un ministero di funzionari e di tecnici. Quale autorità e quale vigore possa avere un simile ministero è superfluo dire; e con quale animo sarà composto si può desumere dai primi nomi che sono stati annunciati, tra i quali quello del Jung, che fu ministro delle finanze del Mussolini e che dava segni di fanatico attaccamento a costui.
Quanto all’atteggiamento delle autorità anglo-americane, sta di fatto che esse finora hanno impedito ogni manifestazione per l’abdicazione del re e ogni discussione nei giornali che controllano; e tutto ciò non è certamente incoraggiante. Se gli italiani avessero in questa questione piena libertà di esprimere il loro voto, l’abdicazione e l’assetto di sopra proposto si attuerebbero senz’altro, col consenso generale, e sarebbe una questione chiusa.
Questo è il problema urgente di noi italiani; ma io non gliene avrei scritto, se essa non si congiungesse nella mia mente con la guerra e con l’avvenire che la fine della guerra prepara. Ho avuto occasione di scrivere pel New York Times, che me ne fece richiesta, un articolo sul Fascismo come pericolo mondiale, che a quest’ora dovrebbe essere stato pubblicato. Ma in quell’articolo, scritto a metà ottobre, lumeggiando alcuni aspetti del problema, non potei fermarmi sopra un altro di essi che mi si è andato svelando da quando gli anglo-americani sono in Napoli. In Italia, il fascismo è una malattia per sempre superata e non tornerà più, e tutto fa sperare che l’unica forza, viva e seria, che creò il nostro risorgimento nazionale nel secolo passato e che governò beneficamente i sessanta e più anni che corsero dal 1860 all’avvento del fascismo, ripiglierà il dominio, come già ne diè indizio l’esplosione liberale che seguì alla caduta del fascismo, durante i quaranta giorni precedenti all’armistizio e all’occupazione tedesca. Chiesa cattolica e comunismo, per ragioni diverse od opposte, non hanno né l’una né l’altra forza costruttiva; l’esercito è sempre stato disciplinato e sottomesso al potere politico, né mai ha tentato pronunciamenti. Ma si può dire lo stesso delle tendenze e delle disposizioni politiche che vengono mostrando, nel campo dei fatti, gli angloamericani?
Quel che è accaduto nell’Africa francese del Nord, dove uomini e partiti, fascisti non di nome ma nel carattere, hanno avuto il sopravvento e hanno perseguito i democratici; o nella Sicilia, dove l’amministrazione è – per colpa precipua del capo americano Poletti – nelle mani degli ex fascisti; ma soprattutto quel che ne vedo e ne osservo qui a Napoli, da quando vi sono giunti gli americani e gli inglesi io sono venuto al convincimento che, se la bandiera innalzata dagli Alleati nella guerra era la restaurazione e lo stabilimento della libertà, nella pratica ci si orienta verso un assetto fascistico o semi fascistico per effetto dei circoli politici e degli interessi economici prevalenti nei rispettivi Paesi, e soprattutto per la paura del comunismo verso il quale il fascismo non è già una difesa, come si immagina o come le menzogne di Mussolini hanno fatto credere al mondo, ma una preparazione, o un sostituto, che ne raccoglie il peggio. Basta, del resto, leggere il programma venuto fuori in questi giorni, della nuova Repubblica italiana fascista, ideata dal Mussolini, per leggervi che sarà una Repubblica sociale, con l’abolizione del capitalismo et similia.
Come studioso di storia non sono e non posso essere ingenuo, e mi è ben noto che le guerre non si fanno per ideali morali, ma per la difesa e l’ampliamento dei singoli Stati, e che gli uomini politici che rappresentano gli Stati debbono adempiere a questo solo, che è il loro proprio e diretto dovere. Ma so anche che essi non possono passar sopra agli ideali morali quando questi si convertono in forze politiche e formano richieste e stati d’animo e volontà della pubblica opinione. E so che in America e in Inghilterra questa pubblica opinione è ancora potente e se in certi casi non interviene come in questo che le ho descritto dell’Italia e come nei sintomi che si notano di un avviamento pericoloso per l’Europa e anzi per il mondo tutto, è perché non è informata. Ella è uno di coloro la cui parola è ascoltata dalla pubblica opinione in America e oltre l’America; come io, in un campo più ristretto, durante e contro il fascismo, mi sono fatto ascoltare e ho operato sulla pubblica opinione e ho conseguito buoni effetti. Vorrà dunque prendere in considerazione le cose che le ho esposte e le altre che le ho accennato, e che sono più gravi perché hanno una estensione e una importanza internazionale?
Con questa speranza ho ripreso con Lei la vecchia conversazione, nella quale ricordo che ebbi occasione di dirLe, alla Sua meraviglia sullo stato di acquiescenza in cui aveva trovato l’Italia sotto il fascismo, che se in altri Paesi, se nella stessa America il popolo si lasciasse sfuggire di mano il congegno liberale, si sarebbe visto assai di peggio, perché l’Italia è pur sempre un Paese di antichissima civiltà, e che più facilmente di altri si ripiglia e si rialza. Quel che avvenne qualche anno dopo, all’avvento del nazismo in Germania, fu la conferma del mio giudizio. Il nazismo si tirò dietro non solo la politica e l’economia, ma la scienza stessa e il pensiero tedesco, e distrusse nei tedeschi l’umanità, riducendoli a macchine; ma gli italiani, anche sotto il fascismo, macchine non diventarono.
Mi abbia con cordiali saluti e con la speranza che questa lettera Le giunga e che io possa ricevere da Lei un cenno di risposta.

Suo,
Benedetto Croce
  
7. OPERATION HUSKY
Dal carcere di Great Meadow, dove scontava una lunga pena, il gangster Lucky Luciano collaborò con gli Alleati a preparare il terreno di una complessa operazione: lo sbarco in Sicilia del 1943. Poi, la Mafia, la fame e i pochi cannoni del nostro esercito fecero il resto. 


La mattina del 10 luglio 1943, alle prime luci dell’alba, a un ordine convenuto, lungo la fascia costiera Sud-Orientale della Sicilia, più esattamente da Licata, Gela, Scoglitti attraverso Pozzallo, Pachino fino a Capo Murro di Porco, per circa 300 chilometri, ebbe inizio l’attacco degli Alleati  all’isola.
L’operazione militare non costituì una sorpresa per nessuno, né per i comandi locali italiani e tedeschi, né per quelli supremi. Perfino le autorità politiche attendevano lo sbarco.
Un mese prima, l’11-12 giugno, come preludio ad azioni di maggiore portata, erano cadute le Isole di Pantelleria e di Lampedusa.
I nostri ricognitori, spintisi lungo la costa dell’Africa Settentrionale, avevano notato che porti grandi e piccoli rigurgitavano di navi di ogni genere, mentre nei campi esistenti e negli altri improvvisati, le truppe raccolte erano aumentate di numero nelle ultime settimane. L’operazione, dal nome convenzionale Husky[3], decisa, il 18 maggio, dai Capi di Stato Maggiore alleati, si traduceva in realtà, concretando, dopo sette mesi, il famoso telegramma di Roosevelt a Stalin:
“Stiamo per scacciare i tedeschi dall’Africa e faremo sentire ai fascisti di Mussolini il sapore di qualche autentico bombardamento. Sono sicurissimo che non sopporteranno mai questo genere di pressione.” 
 

Il giorno dello sbarco era un sabato diverso dagli altri a causa del vento continuo, proveniente dal mare. Negli appostamenti costieri si era all’erta, quando, in breve tempo, poderose forze navali e aeree avversarie apparvero all’orizzonte. Le incursioni, da mesi ormai, seminavano la morte tra militari e civili. Si dormiva nei ritagli di tempo, si mangiava cibo freddo; ma, quella mattina, il bombardamento raggiunse una intensità mai udita. La reazione antiaerea, prima disordinata, in seguito, più metodica, si dimostrava tuttavia inadeguata. La terra, per un raggio di 40 chilometri, sussultava come un cataclisma naturale.
Nella zona di operazione vera e propria, in quella che si poteva considerare ormai una bolgia d’inferno, iniziarono ad apparire i primi paracadutisti, in gruppi folti. Il cannoneggiamento navale si era attenuato e diramato, il resto del compito veniva affidato all’aviazione, da un lato, e ai mezzi da sbarco, dall’altro.
La luce del mattino si era fatta chiara e lungo le spiagge battute dal fuoco, deserte per chilometri, approdavano mezzi anfibi di ogni sorta, motozattere, imbarcazioni leggere da cui uscivano i marines. Il loro primo compito era quello di superare, immediatamente, la battigia, raggiungere i viottoli o le strade di terraferma, mimetizzarsi sotto gli alberi, riparare nei casolari sparsi. Di tanto in tanto, le loro mitragliatrici rispondevano al fuoco dei difensori. Ma si muovevano maldestramente, creando putiferio e confusione e, soprattutto, urlavano come ossessi. Davanti ai fortini, alle casematte, ai trinceroni improvvisati nelle ultime settimane, si fermavano e ai soldati sfiniti, con gli occhi sbarrati, quasi inebetiti e ai feriti, che si lamentavano, gridavano quasi sillabandole, stentate parole dialettali:
“Jitivinni a casa, chi ci stati a fari? Semu paisani, da vostra stissa terra.”  
Ai siciliani, soldati o civili, questo annuncio non pareva vero, dopo un tale uragano di fuoco, e, come dinanzi a esseri diabolici, fuggivano terrorizzati.
Nei giorni immediatamente successivi allo sbarco, a oltre 150 chilometri dove era avvenuto, fu ascoltato dalla viva voce di un giovane marinaio il racconto di quelle prime ore drammatiche. Ciò che, soprattutto , lo aveva colpito era l’incitamento alla fuga, pronunciato in perfetto siciliano.


Era la prima non trascurabile vittoria che i combattenti della Psychological Warfare Branch registravano toccando il suolo del Vecchio Continente.
Le nostre forze, in Sicilia, erano così dislocate: a Occidente [primo settore] il 12° Corpo di Armata, dapprima comandato dal generale Mario Arisio, in seguito dal generale Francesco Zingales; a Oriente [secondo settore] il 16° Corpo di Armata, agli ordini del generale Carlo Rossi. Lungo le coste erano schierate 6 divisioni costiere e 2 brigate, ciascuna copriva una estensione di 140 chilometri in media. Era una occupazione troppo rada di gruppi di uomini largamente intervallati. La 206^ Divisione [Achille d’Havet], la quale dovette sostenere l’urto dell’intera 8^ Armata britannica e aveva la maggiore proporzione di forze, poteva contare su 36 uomini per chilometro, 2 fucili mitragliatori e 3 mitragliatrici, mentre disponeva di un mortaio da 81, ogni 4 chilometri, e una batteria [4 pezzi] ogni 9 chilometri.
Le forze italiane che, dal 10 al 15 luglio, poterono agire là dove avvenne lo sbarco, erano composte da 70mila uomini, mentre le due divisioni tedesche non superavano i 28mila. In definitiva, l’urto avversario fu sostenuto da circa 98mila uomini, appoggiati da circa 500 cannoni e da 250 carri armati, di cui un centinaio italiani.
Quanto agli angloamericani – secondo dichiarazioni di Franklin Delano Roosevelt del 28 luglio – parteciparono alle operazioni con 3mila navi e con 160mila uomini, 1400 autoveicoli, 600 carri armati, 1800 cannoni.
La Marina da guerra alleata intervenne con 6 navi da battaglia, 3 portaerei, 20 incrociatori, 100 cacciatorpediniere, numerose motosiluranti e unità sottili, centinaia di natanti a motore.    
Il morale dei siciliani, da qualche anno, era alquanto depresso.
Da 6 mesi, ormai, la vita dell’isola era affidata al caso e all’arbitrio del destino. Si dormiva a intervalli. Mancavano i generi di prima necessità, dal pane alla pasta, al vestiario. Le tessere annonarie erano una beffa. Scarseggiava lo zucchero e l’olio, ma fioriva, già, il mercato nero che forniva, a prezzi maggiorati, i generi razionati e spettanti per legge. Le autorità locali o provinciali aiutavano, passivamente, gli evasori e gli intrallazzatori, talvolta, divenivano loro complici.
Dopo Natale e il Capodanno del 1943, la guerra entrò nella fase più acuta. Nei pomeriggi luminosi dei primi di gennaio, apparvero i ricognitori, cui, giorni dopo, seguirono i quadrimotori americani. Sorvolate alcune città isolane, puntarono, decisamente, su Palermo e vi colpirono le postazioni militari, la centrale di tiro, la zona portuale e i quartieri popolosi dell’Acquasanta, da un lato, e della Kalsa, da quello opposto. Finivano, da quel giorno, i bombardamenti lenti e compassati di marca inglese, autentico stillicidio, che mettevano, a dura prova, i nervi per notti intere e si concludevano con il lancio calcolatissimo di proiettili, che andavano su una nave mercantile o su una caserma semivuota.
La guerra non era più il diversivo, che aveva scosso il torpore secolare della Sicilia. All’insolito movimento, in determinate ore, nelle strade e nelle piazze, erano subentrati l’apprensione e il silenzio, interrotti da modeste manifestazioni, organizzate da gerarchi fascisti scrupolosi e zelanti, i quali tentavano di imporre la disciplina con l’applicazione di circolari ciclostilate o di note di servizio.
La marcia vittoriosa verso Alessandria apparteneva al passato.
A Catania, Messina e Palermo, erano scomparsi d’incanto, dopo che i primi spostamenti d’aria li avevano danneggiati o abbattuti, enormi cartelloni, 4 metri per 2, su cui erano attaccate grandi cartine multicolori, a rilievo, che riproducevano, in modo vistoso, la zona del bacino del Mediterraneo, da Gibilterra a Suez. Tutte le mattine, per tempo, un incaricato, un po’ dietro istruzioni e un po’ a suo arbitrio, spostava, solitamente, in avanti, sul teatro delle operazioni, le bandiere tricolori. Quei tabelloni, ideati e realizzati a Roma, erano costati alcuni milioni di allora; dopo i recenti avvenimenti, denunciati dagli stessi bollettini, furono smontati alla chetichella e sparirono.
Nei centri principali dell’isola, da quando il comando dell’armata si era trasferito a Enna e quelli del XII° e XVI°, rispettivamente a Corleone e a Piazza Armerina, le forze armate erano sparite dalla circolazione e quelle della difesa contraerea si erano, definitivamente, taciute. La loro attrezzatura era stata, fino dall’inizio, modesta e tutt’al più rumorosa e appariscente.
Era l’epoca nella quale, per un ricognitore inglese abbattuto, il comando della DICAT, spediva fonogrammi di elogio agli 8 comandi batteria, installati sui monti che circondavano Palermo.
Dal gennaio del 1943 allo sbarco, si erano succeduti al comando tre generali: Ezio Rosi, Mario Roatta, Alfredo Guzzoni. Il primo, rimastovi più a lungo, passava, in febbraio, l’incarico a Roatta che, nel volgere di 4 mesi, tentava ogni accorgimento e giocava le ultime carte. Improvvisamente, veniva sostituito da Guzzoni, il primo di giugno. 
Fino dal principio del conflitto le deficienze si erano manifestate in molti settori: mancanza di scarpe per le truppe [nei depositi ne esistevano di misura sproporzionata, dal 44 in su; migliaia di paia furono, in un secondo tempo, scucite per essere rifabbricate], scarsezza di quadrupedi e mezzi di trasporto.






L’età dei soldati delle divisioni costiere era piuttosto avanzata. I richiamati non conoscevano le nuove armi automatiche, molti ufficiali erano impreparati e il generale Emilio De Bono, dopo una ispezione, citava il caso, in un suo rapporto, di due sottotenenti, i quali, congedati con tale grado, nella guerra del 1918, fossero divenuti comandanti di battaglione. Nel febbraio, quando Roatta assume il comando, lo stato dell’isola era tutt’altro che edificante.
Conviene precisare.
Sia i trasporti sia i rifornimenti – punti chiave – erano pressoché impossibili perché gli Alleati, padroni incontrastati del mare e del cielo, colpivano inesorabilmente. Il comando tedesco, ammaestrato dai nostri ripetuti insuccessi, fece costruire, in tutta fretta, alcune zattere a motore, con le quali trasportò lungo lo Stretto quanto occorreva.
Non pensammo, mai, di imitarli e, invece, in Sicilia occorrevano: carbone, viveri, cemento, ferro, attrezzi per fortificazione.
Del resto, il poco che giungeva sulla costa, difficilmente perveniva all’interno della Sicilia.
Anche in materia di organizzazione di comando vi era molto da fare: militari e civili procedevano ciascuno per proprio conto e, così, emerse che per i 160mila uomini, dislocati in tutta l’isola, restavano viveri per 40 giorni, mentre, per i 4 milioni di civili, i viveri sarebbero bastati per 2 o 3 mesi.
Gli sbarramenti esistevano in misura ridotta, i lavori difensivi insufficienti e, così, la difesa anticarro e quella costiera del litorale che avrebbe dovuto ritardare lo sbarco. Le costruzioni erano state eseguite con terra anziché con calcestruzzo e ciò perché, da qualche anno, il cemento scarseggiava. Né meglio si presentava l’artiglieria, costituita dai soliti calibri divisionali,  che avevano fatto il loro tempo, relitti delle nostre batterie di corpo d’armata. In queste condizioni si dimostrava perfettamente inutile effettuare il tiro antinave per la scarsa gittata.
I collegamenti tra le unità, a mezzo radio, si limitavano ai comandi, le comunicazioni telefoniche, dove vi erano, erano difficili e laboriose. Per parlare dal comando di compagnia con quello di battaglione, spesso, bisognava passare per due o tre comunicazioni intermedie che arrivavano fino al reggimento. A Nord-Ovest di Pachino – la zona presa di mira per lo sbarco – i plotoni di una stessa compagnia, per tenersi in contatto, dovevano affidarsi alle gambe e ai polmoni di portaordini. Nessuno ebbe il sospetto che lo sbarco potesse essere effettuato dal cielo e quei pochi nuclei antiparacadutisti, piuttosto laceri e sfiniti, male in arnese, che, più volte, fecero delle apparizioni, erano forniti di armi automatiche, ma sprovvisti di mezzi propri di collegamento e di trasporto. Il fante, poi, aveva un vitto scarso, peggiore di altri camerati. A Palermo, la cosa era risaputa dalla popolazione, vi erano due batterie contraeree: marinai nell’una, soldati nell’altra. I primi, perché considerati in zona di operazione, usufruivano di vitto e indennità superiori di un terzo circa, rispetto ai secondi, cosicché questi, quando si recavano a visitare i marinai, dicevano con un ghigno amaro:
“Be’, andiamo in zona d’operazione.”[4]                  





Max Corvo, Victor Anfuso, Vincent J. Scamporino



Vi era, poi, stata la Circolare “S” di Roatta che diceva:
“Siamo fermi da una settimana per mancanza di filo spinato, mandateci armi anticarro.”
Si riuscì a ottenere l’organizzazione del comando. I prefetti sarebbero stati posti alle dipendenze di un alto commissario, che avrebbe agito agli ordini del comando d’armata.
Ma era troppo tardi!
Il coprifuoco, imposto all’improvviso, non fu né poteva essere accettato. Le norme restrittive per la circolazione crearono maggiore confusione, l’obbligo ai cittadini non occupati in lavori agricoli di prestare la loro opera per le fortificazioni militari suscitò ondate di proteste. Quel crescendo toccò il diapason con il proclama del 9 maggio, firmato da Roatta, nell’atto di assumere i pieni poteri.
“Con esso significando che contavo sulla comprensione e collaborazione della popolazione tutta circa l’applicazione di misure restrittive inerenti alla situazione e alla presumibile prossimità dell’attacco avversario, invitavo gli individui validi non richiamati sotto le armi a concorrere alla difesa, incorporandosi in battaglioni volontari dell’esercito, denominati Vespri.”
Il bando concludeva così – e lo riproduco fedelmente perché ha subito variazioni e mutilazioni:
“Strettamente fiduciosi e fraternamente uniti, voi, fieri siciliani, e, noi, militari italiani e germanici delle FF.AA. Sicilia, dimostreremo al nemico che di qui non si passa.” 
La protesta fu enorme.
Il manifesto venne strappato dai muri delle città.
Per la seconda volta, nel volgere di pochi anni, veniva operata una assurda discriminazione; la prima aveva visto funzionari statali e parastatali, quasi per punizione, trasferiti, a un segno di bacchetta, dall’isola in tutto il resto d’Italia.
Il generale Roatta, 22 giorni dopo, lasciava il comando della Sicilia.
La Mafia locale, quella di oltre Atlantico e la mala di ogni risma, non erano rimaste, negli ultimi anni del conflitto, inoperose.
I siciliani, residenti in patria superano di poco i 4 milioni, altrettanti sono sparsi per il mondo soprattutto nel Nord America. Questa gente, emigrata laggiù, alla fine del XIX° secolo e all’inizio del XX°, non ha mai perso i contatti con la madre patria, ma li ha piuttosto rafforzati con frequenti rimesse di dollari.

Salvatore Giuliano e il capomafia Vito Genovese

Salvatore Giuliano e Karin Tekla Maria Lannby Cyliacus [8 maggio 1947]

Karin Tekla Maria Lannby Cyliacus

Gli uomini della mano nera si misero subito all’opera, ai quali si aggiunsero i primi mafiosi, perseguitati dalla giustizia e dalle bande avversarie e, quindi, i molti colpiti dalle drastiche misure del prefetto Cesare Mori che, invano, aveva tentato di estirpare la mala pianta della Mafia.
Nel giro di 6 anni, dal 1924 al 1930, gli uomini più pericolosi e sanguinari, sia clandestinamente sia con il beneplacito delle autorità, avevano abbandonato case, averi, prestigio, riacquistandoli ben presto all’ombra della Repubblica stellata.
La loro avversione al fascismo era cieca, totale!
Non ne fecero mistero al momento opportuno, quando l’America si vide minacciata in casa propria, in quella zona della costa – circa 500 miglia – da Long Island a New Jersey, fino alla vicina New England.
Sabotatori, spie di origine germanica e, quindi, hitleriani, erano divenuti, senza averne l’aria, gli arbitri della situazione. Con l’allettamento del danaro e quello non meno attraente delle “pupe”, dominavano tutti gli emigrati.
I rifornimenti che gli Stati Uniti avviavano verso l’Europa, destinati agli Alleati, finivano, per il 90%, in fondo all’Oceano.
Gli U-Boot tedeschi non esitavano a emergere nei pressi delle coste e i loro micidiali siluri, nei primi 10 mesi dall’inizio della guerra, avevano affondato 500 navi americane.
La marina, nonostante attenta sorveglianza, non sapeva a quale rimedio ricorrere, moli e banchine rigurgitavano di traditori i quali, a mano a mano, avevano corrotto e guadagnato alla loro causa padroni di barche adibite al trasporto di pesce, custodi di stazioni di rifornimento di carburante.
Fu chiaro che i sottomarini si rifornivano di viveri e di nafta, senza ricorrere ai porti tedeschi e che disponevano di compiacenti fornitori.
I sabotaggi, all’interno del porto, non erano un mistero; il transatlantico Normandie, che stava per essere trasformato in nave ausiliaria, fu bruciato, perfino, all’ancora, nell’Hudson.
Questo episodio e quello non meno grave della scoperta di alcune spie sbarcate da sottomarini ad Amagansett, su Long Island, indussero i responsabili a creare una organizzazione apposita per combattere il nemico interno. La sede fu posta nel Down Town di New York, al numero 90 di Church Street. Qui, si installò il Quartiere Generale del Office of Naval Intelligence per il III° Distretto Navale, diretto dal capitano Roscoe C. McFall, il quale quotidianamente teneva stretti contatti con ufficiali del controspionaggio: il luogotenente James O’Malley e il comandante Anthony Marsloe, il primo, già, alle dipendenze del prosecutor Frank Smithwick Hogan, il secondo perfetto conoscitore del dialetto siciliano e caposettore linguistico del III° Distretto.
McFall e O’Malley andarono, un giorno, da Hogan, che dirigeva un ufficio efficiente e, con Marry I. Gurfein, conosceva tutto della malavita mondiale. Fu chiesto a Hogan di servirsi della “mala” per proteggere la marina dai sabotaggi. Gli interpellati non batterono ciglio, promisero appoggio e, poiché McFall nominò, come rappresentante della marina, il comandante Charles Haffenden, Hogan fece il nome, come rappresentante distrettuale, di Murray I. Gurfein.
I nuovi incaricati non esitarono a mettersi in contatto con i gangsters del porto attraverso i loro legali.
Non fu difficile trovare l’uomo adatto, si trattava di Joseph Lanza, il quale controllava tutti i rackets dell’industria del pesce e, quindi, agli occhi dei pescatori e dei commercianti, era considerato una vera potenza. In quel momento si trovava nei pasticci con la giustizia e aveva bisogno di una mano. Il suo avvocato, Joseph K. Guerin, interpellato al riguardo, chiese solo di conferire con il suo cliente e non escluse che questi avrebbe accettato. A questo punto Gurfein precisò che Lanza non avrebbe goduto di alcun privilegio per quanto riguardava l’imminente processo e che avrebbe dovuto collaborare nella sua qualità di cittadino americano. L’avvocato svolse la delicata missione, Lanza accettò e si mise al lavoro.
Un mese dopo, nell’aprile del 1942, dichiarò fallita la propria missione. Per un lavoro del genere non vi era che un uomo e occorreva il suo benestare: Lucky Luciano.
Haffenden, Hogan, Gurfein non si perdono d’animo, quest’ultimo telefona a Moses Polakoff, legale di Luciano al processo, fissano un appuntamento in un ristorante di lusso della 58^ strada.
L’avvocato è con un amico e quando il poliziotto arriva glielo presenta: Meyer Lansky, uno dei criminali più noti, appartenente, in passato, al gruppo dei Costello e degli Adonis. Si dice disposto, come vecchio amico, a parlare con Lucky, a convincerlo ad accettare il delicato incarico. Di fronte a qualche esitazione di Gurfein, il quale chiede garanzie, il gangster senza esitare afferma:
“Vi aiuterà senz’altro. Lui non ha nessuno in Italia, né in Sicilia, tutta la sua famiglia è qui, i genitori, i fratelli, la sorella.”
Il problema, ora, è un altro, mettersi in contatto con Luciano, rinchiuso nel penitenziario di Clinton a Dannemora, per scontare una pena inflittagli, nel 1936, variante, secondo una consuetudine americana, tra i 30 e i 50 anni.
Dannemora è molto lontana da raggiungere, non sarebbe meglio trasferire il bandito a Sing-Sing, a due passi da New York? 
Haffenden non esita, scrive al direttore del penitenziario, Lyons, in questi termini:
“In relazione a una missione segreta, la Marina apprezzerebbe molto la sua collaborazione nel volere concedere il trasferimento di Charlie Luciano dal penitenziario Clinton a quello di Sing-Sing. Si prospettano contatti privati e confidenziali con diverse persone che lavorano per lo spionaggio della Marina. Questa lettera, appena letta, deve essere bruciata.”
Lucky è condotto, invece, nel carcere di Great Meadow, a Comstock, 60 miglia a Nord di Albany.
È più sicuro da molti punti di vista, offre garanzie di ogni genere. Per stornare i sospetti, altri componenti della malavita sono trasferiti con lui.


Calogero Vizzini [1877-1954]
“Calogero Vizzini con abilità di un genio alzò le sorti del distinto casato, operando sempre il bene e si fece un nome apprezzato in Italia e fuori. Fu un galantuomo.”
[dal manifesto funebre di Calogero Vizzini]
Nel 1949, Calogero Vizzini era uno degli intestatari di una fabbrica di confetti e dolciumi di Palermo, creata da Lucky Luciano, la quale riuscì a esportare confetti in Germania, Francia, Irlanda, Canada, Messico e Stati Uniti. Ma, l’11 aprile 1954, il quotidiano Avanti! pubblicò un articolo, che denunciava che, nei confetti prodotti nella fabbrica di Luciano e Vizzini, “due o tre grammi di eroina potevano prendere il posto della mandorla”. Quella notte stessa, la fabbrica venne chiusa e i macchinari smontati e portati via.

Al direttore del penitenziario viene comunicato che Luciano deve collaborare con lo spionaggio della Marina, quindi, potrà ricevere altre visite, oltre a quelle dei parenti e degli amici.
L’accordo è perfetto, le precauzioni opportune.
Quando, qualche giorno dopo, il bandito si incontra con l’avvocato Polakoff e Meyer Lansky, pone delle condizioni circa la sua estradizione che non deve mai avere luogo, poi, passa al concreto e ordina di chiamargli Lanza. Questi riferisce i tentativi infruttuosi compiuti in precedenza e gli ostacoli frapposti da tipi, quali Johnny Dunn o i fratelli Camardos. Luciano ordina di rivolgersi a Joe Adonis per “sistemare” i testardi, per gli altri di passare voce che dietro la facciata vi è lui.
Il penitenziario di Great Meadow diviene da quel momento uno dei posti più importanti di America, la centrale alla quale convengono persone di ogni rango, che portano a compimento uno dei compiti spionistici di maggiore responsabilità.
Il capo impartisce gli ordini e ne pretende la più fedele attuazione, i suoi uomini sembrano invasati nell’espletamento del dovere.
Nella zona del porto, nelle banchine militari, i despoti divengono – sostituendosi ai papaveri della Marina e dello spionaggio – i fratelli Camardos e Frank Costello. Il risultato è immediato: cessa il sabotaggio, cessa l’ostruzionismo, non un solo quintale di merce perduto, non un solo trabiccolo affondato. I tedeschi e i filonazisti vengono neutralizzati e, in seguito, dispersi.
Ma vi è ancora altro da fare!
Lo sbarco angloamericano nell’Africa del Nord è avvenuto felicemente, occorre provvedere ora alla Operazione Husky, al piano per la Sicilia.
E Luciano può riuscire utile con le sue amicizie e conoscenze al di là dell’Atlantico.
Al quartiere generale viene costituita una squadra del servizio di spionaggio la F Section, affidata a un uomo che ha fornito in passato brillanti prove di sé, il comandante Charles Haffenden.
La Marina, chiamata a una prova decisiva, lancia un ennesimo SOS.
Vuole sapere tutto sulla Sicilia, vie, porti, terreno, zone montuose, caratteristiche dei villaggi, tutto ciò che può servire alla occupazione.
Luciano è di nuovo interpellato, si sente lusingato, vuole impegnarsi a fondo, come sempre, ritenendo questo incarico della massima fiducia. Amici, dipendenti, emigrati e, soprattutto, clandestini degli ultimi tempi, che hanno lasciato l’isola per contrasti con i gerarchi fascisti oltre che con la legge, sono prodighi di notizie. Nella liberazione della Sicilia vedono la salvezza dei loro congiunti, la fine di un conflitto, che sconquassa case e poderi.
Luciano raccoglie, con i suoi accoliti, il materiale e lo passa a Haffenden, vuole spingersi più oltre, organizzando un vero e proprio servizio di spionaggio con i mafiosi isolani, impegnandoli in pieno, promettendo aiuti e agevolazioni. Le sue parole di incitamento e di esortazione non cadono nel vuoto, sono accolte in alto e in basso, tra la Mafia del feudo e dei giardini, tra le personalità della politica che, dopo 20 anni, riaffiorano dal buio. Le manifestazioni separatistiche, prima in sordina, poi, sempre più palesemente, hanno questa origine.
Pochi giorni dopo lo sbarco, gli uomini della 7^ Armata americana, comandata dal generale George Smith Patton raggiungono la provincia di Palermo, dopo qualche puntata nel Trapanese. A Villalba, un piccolo comune agricolo, centro attivo della Mafia, si incontrano con il numero uno locale, don Calogero Vizzini, considerato da decenni uno degli esponenti massimi della Mafia. È aitante, di aspetto bonario, ma deciso e autoritario, al momento giusto: lo nominano sindaco del paese.
Ma anche Lucky Luciano avrà la sua ricompensa.
Nel febbraio del 1946, il sovrano del racket lascia New York, a bordo della motonave Laura Keene, diretta in Italia.
Punizione o premio?

Daniela Zini
Copyright © 22 gennaio 2017 ADZ


[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
[http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik]

[2] Nel mostrare la lettera di Benedetto Croce ai suoi superiori, Vincent Scamporino, agente dell’Itelligence americana, precisava che “i suoi contenuti – integrali o parziali che siano – non vanno divulgati”. La missiva a Walter Lippmann utilizzava gli speciali canali postali tra gli Stati Uniti e l’Europa, attivati dall’Office of Strategic Services [OSS], negli anni 1943-1945. 

[3] Lo storico britannico John Dickie, nel suo saggio, Cosa Nostra: A History Of The Sicilian Mafia [2004], sostiene:
“L’intervento di Lucky Luciano nello sbarco in Sicilia è una panzana girata fra i suoi amici e fra elementi corrotti dell’amministrazione americana che volevano spacciare Luciano per quello che non era. Come anche è circolato l’inganno della sua collaborazione per liberare il porto di New York - da lui controllato con i suoi sindacati - dal pericolo dei sabotatori tedeschi. In realtà, quello di Luciano era un tentativo di difendersi dalle accuse di controllo del racket sulle banchine. Sì, sono millanterie messe in giro dagli stessi boss per alimentare il mito della Mafia. Ma la storia non è ancora in grado di sconfiggere la menzogna.” [http://m.dagospia.com/lo-storico-john-dickie-smonta-la-teoria-secondo-cui-cosa-nostra-agevolo-lo-sbarco-in-sicilia-137067]

[4] I generali Mario Roatta e Giacomo Zanussi ne riferiscono in due loro saggi.

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