O BEATA SOLITUDO!
O SOLA BEATITUDO!
Solitude...
Je ne crois pas comme ils croient,
je ne vis pas comme ils vivent,
je n’aime pas comme ils aiment...
Je mourrai comme ils meurent.
Marguerite Yourcenar
L’Angelo e il Poeta
Daniela Zini
Io conosco un Angelo,
Che ha smarrito le sue Ali
E so del Poeta, il cui Canto si è interrotto.
Era un giorno in cui il firmamento
Di mille folgori gridava la sua rabbia,
Come un uomo urla all’amaro.
Se, per caso, incontrate quell’Angelo,
Ditegli che ho ritrovato le sue Ali
E del Poeta il Canto.
San Francesco del Deserto è un’isola della
Laguna Veneta, con una estensione di circa 4 ettari, situata tra Sant’Erasmo e
Burano. Ospita un monastero di frati minori, fondato da San Francesco, sulla
cui facciata principale si legge:
“O beata solitudo! O sola beatitudo!”
San Francesco del Deserto
San Francesco del Deserto
Angiolo Orvieto [1869-1967]
San Francesco del Deserto,
romitaggio lagunare,
d’un settemplice filare
di cipressi ricoperto;
questo vento vien dal mare
e disfiora il tuo Convento,
e d’un lieve movimento
ti fa l’acqua scintillare.
S’ode un vivo cinguettare
per le tue paludi intorno,
e nel pieno mezzogiorno
una navicella appare.
Essa muove piano piano
sovra l’alighe palustri;
fra quei tremuli ligustri
lenta va verso Burano.
Da Burano non lontano
giunge suono di campane,
che le belle popolane
chiama al desco rusticano.
Sosta l’opra della mano
che tessea merletti vaghi;
hanno tregua fili ed aghi
nel tepore meridiano.
Sulla lastre, che fragore
di sonanti zoccoletti,
o Burano dei merletti
o Burano dell’amore!
Ma non giunge quel rumore
qui, nell’ombra claustrale,
nel silenzio sempre uguale,
sempre uguale a tutte l’ore.
Qui la pace delle aurore
dura tutta la giornata:
solitudine beata
per chi vive e per chi muore.
“O beatitudo sola,
o beata solitudo”!
Sull’antico muro ignudo
sta la mistica parola;
la parola, che consola
il mio spirito dolente
e lo culla dolcemente,
come suono di viola.
Siimi tu lucente scudo,
siimi tu divina scuola,
“O beatitudo sola,
o beata solitudo”!
“… Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo
mare.”
Giacomo Leopardi [1798-1837], L’Infinito, 1819
Caspar
David Friedrich [1774-1840] - Viandante sul mare di nebbia [1818]
“Se scruterai a lungo in un abisso,
anche l’abisso scruterà dentro di te.”
Friedrich Nietzsche [1844-1900]
Ha ispirato il cantautore Léo Ferré,
il poeta Charles Baudelaire, il pittore Caspar David Friedrich, il filosofo Jean-Paul
Sartre...
La solitudine.
Cosa è la solitudine?
La solitudine è una incapacità a interiorizzare
l’Altro.
Non è legata all’assenza di una cerchia reale, ma
è la manifestazione di una assenza di solidi riferimenti, necessari a ogni
socializzazione.
Si può essere soli senza
soffrire di solitudine e sentirsi soli, in una coppia, in una famiglia o in un gruppo.
“I mondani sono solitari
persi in una abbondanza di conoscenze sfocate.”,
ha scritto Frédéric Beigbéder.
Il senso di solitudine va
imputato a un sentimento di vuoto interiore, a una difficoltà di costruire quei
personaggi interiori che ci accompagnano nel quotidiano e servono da supporto
alla costruzione della nostra personalità. E, se l’educazione contemporanea e
le sue carenze sono uno dei fattori chiave di alcune patologie della
solitudine, ancora, si deve dimostrare che queste turbe siano più numerose
nelle popolazioni caratterizzate da un tipo di educazione e più frequenti oggi
di ieri.
L’autismo, per illustrare con un esempio, non è
un deficit di comunicazione, ma una
sottrazione dall’Altro, una reazione di difesa. Contrariamente dall’autistico,
che sembra non avere presenze interiori, uno psicopatico è, sovente, in preda
ad allucinazioni, che rivelano la presenza invadente di uno o più personaggi.
Solitario, emarginato dagli Altri, con i quali è, molte volte, aggressivo, vive
nel suo mondo interiore, popolato da presenze inquietanti.
Il sentimento di solitudine ha più componenti.
Sopravviene quando si prova il senso di assenza fisica. È il caso del bimbo,
che ha bisogno di stringere la mano di un genitore o di essere tenuto tra le
braccia prima di addormentarsi e supplisce questa assenza con un oggetto – una bambola
di pezza, un peluche, un pezzo di stoffa – o un Amico Immaginario, nel circa 20/30%
dei bambini. Più tardi, l’assenza non sarà, necessariamente, quella del
genitore, e potrà essere quella di un amico, un confidente.
Tra i bambini e gli adolescenti si
sta diffondendo, sempre più, il senso di solitudine. Non denota che vi siano
più figli unici o che i genitori non accordino attenzione ai figli, ma, più
semplicemente, che tutti i bambini sono
allevati come figli unici. Non solo si accorda al bambino uno spazio proprio –
una camera tutta per lui –, ma si spinge il bambino a comportarsi come una
persona a parte intera, che deve fare cose in piena autonomia.
“Cosa vuoi per il tuo compleanno?”
“Cosa vuoi mangiare?”
“Cosa vuoi fare?”
“Cosa ne pensi?”
Il bambino si trova davanti,
sovente, genitori che non hanno, sempre, una idea molto chiara su cosa vogliano
loro stessi. E, così, il bambino si trova solo davanti a se stesso, a dovere
decidere, in tutta autonomia, ciò che deve fare.
È lasciato solo in mezzo agli
Altri.
Come si può essere soli in mezzo agli Altri?
Diversamente da alcuni, i cui genitori interiori
[superego freudiano] sono troppo presenti, altri provano il senso di mancanza
di un modello di riferimento.
San Francesco del Deserto
Le società oppressive causano patologie della
colpa e della rimozione. Quando l’educazione è troppo liberale e rinvia il
bambino a se stesso, quando gli adulti si fanno da parte e si comportano come
se il bambino fosse già adulto, dotato di una capacità di scelta, di iniziativa
e di autonomia, allora nuove patologie compaiono, patologie della solitudine,
incentrate sull’angoscia di mancare, non di una presenza esteriore, ma di una
presenza interiore: essere soli in mezzo agli altri.
I social
networks rivelano una grande sofferenza sociale. Sono un sintomo forte
della nostra maniera problematica di vivere con gli Altri e di vivere con noi
stessi.
Noi entriamo nel mondo, apprendendo a stare con
gli Altri. La relazione con gli Altri ci costruisce come esseri umani; per
tutta la durata della nostra esistenza, ci plasma. Il nostro sviluppo
psicologico e sociale è, così, segnato da quanto ci mettiamo in gioco nei legami
con gli Altri. Questi legami sono vettori, attraverso i quali ciascuno
interiorizza, nel corso della sua formazione sociale, ruoli, principi, valori,
per vivere con gli Altri in modo socialmente accettabile. Oggi, le relazioni
risentono di un venire meno di questi ruoli, principi, valori, connesso a uno
scarso senso di responsabilità, a una proliferazione di surrogati relazionali, quali
i social networks, a un
individualismo esasperato, che si manifesta come una affermazione illusoria di autonomia.
In verità, noi non apprendiamo più a vivere,
realmente, con gli Altri. Le fratture della vita – licenziamenti, separazioni,
divorzi, morti, malattie, incidenti, catastrofi – sono indicatori della
fragilità dei nostri legami e sono, sovente, aggressioni devastanti: ci
escludono dal mondo sociale, ci rigettano, ci isolano.
La solitudine si rivela, allora, non solo un
problema sociale di isolamento e di rigetto, ma anche un fallimento del nostro
modo di esistenza sociale. La solitudine appare ai nostri occhi come una
esperienza negativa, triste, spaventosa, in cui non vi è più, talvolta, ragione
di vita.
Ebbene, a questo punto, si pone una domanda:
“Noi siamo, ancora, capaci di vivere con noi stessi?”
San Francesco del Deserto
Se la solitudine è, oggi, percepita
negativamente, non è perché non abbiamo fatto esperienza con noi stessi?
Noi non realizziamo né accettiamo, realmente, ciò
che comporta di positivo. Noi pensiamo alla solitudine come a una esperienza
negativa da evitare, la percepiamo come una perdita di noi stessi. Ci priva del
riconoscimento, di cui abbiamo bisogno per esistere, sovente, solo nello
sguardo degli Altri.
Ora, nella solitudine ciascuno è rimandato a se
stesso.
Tutti noi facciamo, un giorno, l’esperienza della
solitudine, attraverso le prove della vita, cui siamo confrontati e di cui
sopportiamo il carico da soli. Illusoriamente, crediamo che gli Altri possano
risolvere i nostri problemi, ma, quando siamo soli – e solo allora – realizziamo
che nessuno risolverà i nostri problemi al posto nostro.
La solitudine è più di quanto si creda una scuola
di vita, dove si può apprendere molto su se stessi, apprendere a vivere con se
stessi, da se stessi e non più per procura di Altri.
La solitudine può essere una scuola, in cui si
diviene responsabili di se stessi e, anche, più responsabili degli Altri: una
esperienza di apertura al mondo e non di chiusura.
Se la solitudine appare difficile da sopportare è
perché puntiamo, sovente, tutto sulle relazioni esterne, non riusciamo a
costruire la nostra vita, avendo una vita nostra, una vita interiore.
Per molti di noi, l’interiore è vuoto, non sanno cosa fare con se stessi.
Si annoiano, quando sono soli, sono estranei a se
stessi.
E dire che la solitudine è una esperienza
indispensabile di incontro con se stessi!
Apprendere a vivere la propria solitudine, è come
iniziare ad abitare la propria vita. La dimensione dell’interiorità è, sovente,
dissociata dalla solitudine, è mal compresa. Ma non vi è interiore senza scissione
dagli Altri.
San Francesco del Deserto
Essere solo è una condizione essenziale per
ritrovarsi e costruirsi come essere umano, che appare tanto più necessaria se
indugiamo in situazioni relazionali, che, sovente, ci ingabbiano e ci usurano.
Il ritorno a se stessi nella solitudine è un
viaggio che le circostanze della vita, a volte, ci impongono; ma che bisogna
sapere accogliere non come un dramma e una impossibilità di vita, ma come un itinerario
della propria vita. Solo allora la solitudine può dare luogo a una metamorfosi
interiore, che permette di vivere l’esistenza come il solo cammino alla nostra
vera realizzazione. Se si accetta, invece di fuggirla, permette
una vera presenza nel mondo.
Perché Robinson Crusoe si fa un punto
di onore di portare a tavola l’abito della domenica?
Perché
la guardia forestale di Rudyard Kipling, solo nella sua casetta tra gli alberi,
indossa l’abito nero per la cena?
Non
hanno alcun bisogno degli Altri per conservare il rispetto di se stessi o hanno
a tal punto bisogno degli Altri da comportarsi come se gli Altri li osservino?
Dalla
vecchia signora, che fa i suoi acquisti, la mattina, prima di tornare nel suo
salotto a fissare l’orologio, all’artista maledetto, che rompe ogni scambio con
l’universo del mercanteggio, passando per il filosofo, che, escludendo dalla
sua meditazione il mondo incerto della materia, baratta l’esteriorità contro la
sola esplorazione della sua mente,
la solitudine è una alternativa che espone alla tristezza o invita alla gioia. Perché
la solitudine è inevitabile – tutti sono soli al mondo –, ma è, anche, impossibile
– ogni solitario è una folla da solo – .
“Io sono sola al lavoro,”,
asseriva
Marguerite Yourcenar,
“se essere sola è essere circondata di idee o di esseri nati
dalla mia mente; io sono sola, il mattino, di buon ora, quando guardo l’alba
dalla mia finestra o dalla terrazza; sola, la sera, quando chiudo la porta di
casa, guardando le stelle. Che vuol dire che, in fondo, io non sono
sola.”
In
questo senso, parlare da soli non è un segno di follia che agli occhi degli idioti:
il solitario non monologa, dialoga con i Fantasmi che lo popolano e lo trasformano.
Quando è ben vissuta, quando è scelta, la solitudine preferisce la compagnia
vera di coloro che ci abitano alla sollecitudine artificiale di coloro che ci
distraggono.
Ma
come, senza testimoni, non lasciarsi andare?
Come
convertire l’isolamento in beata autarchia?
Dove
trovare la forza di riconoscere alla solitudine il merito del silenzio?
Come
trasformare la solitudine che divide in solitudine che riunisce?
Come
passare dall’insularità dolorosa all’integrità ritrovata di un essere, che non
ha bisogno alcuno dello scambio con Altri per sentirsi vivo?
Come
vivere senza essere attesi da qualche parte?
Da
quando Zeus, in un accesso di collera, ha diviso le sfere insolenti, che
volevano scalare l’Olimpo – la natura umana era sferica prima che il Dio la dividesse
in due, come racconta Aristofane nel Simposio
di Platone –, l’occidentale vive nella sensazione che essere solo sia essere a
metà.
Se
la solitudine è un dramma perché è sinonimo di incompletezza; l’isolamento è
una carenza perché significa la perdita di se stesso.
Di
qui, l’idea che, se l’uomo non fosse, irrimediabilmente, solo, non sarebbe socievole,
che un piacere è minore quando è solitario, che la solitudine dilata dopo ogni
amplesso, in cui, solo per un istante, l’uomo ha creduto di unirsi all’Altro.
Di
qui, l’istinto gregario e la tirannia della maggioranza, che spingono gli uomini
a denunciare nel branco chi non somigli loro.
Di qui, il convincimento che, nell’impossibilità
di trovare l’anima gemella, si debba contrarre matrimonio per non restare soli,
quando sopraggiungono la sera e l’inverno, come suggeriva Norbert de Varenne a
Georges Duroy, il bel ami di Guy de
Maupassant:
“Si sposi, amico mio, lei non sa, non può sapere che cosa
significhi vivere soli, alla mia età. La solitudine in casa, la sera, davanti
al camino. Mi pare allora di essere solo sulla terra, orribilmente solo, ma
circondato da pericoli vaghi, da cose ignote e spaventose; e la parete che mi
divide dai vicini che non conosco, me li allontana quasi fossero stelle, le
stesse che vedo dalla mia finestra. E mi prende una sorta di febbre, che è
dolore e paura, e il silenzio dei muri mi spaventa. È così fondo e triste il
silenzio di una stanza in cui si vive soli. Non è un silenzio che sta
semplicemente intorno al corpo, è un silenzio che sta intorno all’anima, e,
quando scricchiola un mobile, sussulti fin dentro al cuore perché nei luoghi
spenti non si aspettano rumori.”
In
altri termini, l’Altro non è che una stufa, che riscalda più del fuoco di un
camino.
Fare
della solitudine un dramma è compatire l’uomo che nulla distrae.
Cercare
la propria metà, è, in verità, chiedere ad Altri di aiutarci a ingannare il
tempo e poco importa chi sia l’Altro, quando lo sconforto – vale a dire l’oblio
temporaneo della morte – dipende da Altri, questi è intercambiabile.
Come
Jean-Jacques Rousseau, il misantropo della domenica, il solitario di mala
voglia, che esclude gli Altri nella misura in cui lui stesso non esiste per
loro e che cerca, costantemente, la solitudine, prima di rinunciarvi, per paura
dell’isolamento, chiunque abbia bisogno di Altri per vivere sa, anche, suo
malgrado, che la solitudine non si condivide.
“Un torturante bisogno di unione ci tormenta,”,
aggiungeva
Guy de Maupassant,
“ma tutti i nostri sforzi restano sterili, i nostri abbandoni
inutili, le nostre confidenze infruttuose, i nostri amplessi impotenti, le
nostre carezze vane. Quando noi vogliamo farci coinvolgere, i nostri slanci
dell’uno verso l’altro non fanno altro che metterci l’uno contro l’altro.”
Al
diavolo, dunque, i palliativi e i divertimenti!
Se
la cattiva solitudine si attenua, temporaneamente, con la presenza dell’Altro; la
buona solitudine si rafforza, stabilmente, al suo contatto.
L’unico
rimedio alla solitudine di chi nessuno aspetta è la solitudine di chi, non per
rivalsa, ma pago di se stesso, non si aspetta niente da nessuno, “la sede delle gioie, cara a Petrarca, da dove sono
banditi i piaceri, un luogo dove la sobrietà è sovrana, dove il letto è casto e
piacevole, dove la coscienza è un paradiso”, quell’esaltante “a
tu per tu” del solitario, la cui appartenenza al mondo dissuade dal possedere qualcuno
o qualcosa. Il vero solitario non è un recluso, che mortifica la sua condizione;
ma un innamorato soddisfatto di amare, che, elaborando il lutto della stessa morte,
benedice la fortuna di vivere lontano dagli sguardi, e, dunque, vicino al Cielo.
Se l’Inferno è gli Altri, allora il Paradiso è la loro assenza:
Annotava
Rainer Maria Rilke
“Una sola cosa è necessaria: la solitudine. La grande solitudine
interiore. Inoltrarsi in se stessi e non incontrare per ore nessuno, è a ciò
che si deve tendere…
Se non vi è comunione tra gli uomini e voi, cercate di essere vicini
alle cose: non vi abbandoneranno. Vi sono ancora notti, vi sono ancora venti
che agitano gli alberi e corrono sui Paesi. Nel mondo delle cose e in quello
degli animali, tutto è pieno di eventi ai quali voi potete prendere parte.”
Passando dal dolore al candore, la
solitudine mantiene il mondo allo stato di enigma per una coscienza affrancata dal
bisogno di sedurre.
Liberato dello sguardo e dai giudizi
che lo accompagnano, il solitario si dà i mezzi per non odiare né rimpiangere,
ma per comprendere e stupirsi, al di là del bene e del male.
Daniela Zini
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