“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

mercoledì 4 gennaio 2017

O BEATA SOLITUDO! O SOLA BEATITUDO! di Daniela Zini

O BEATA SOLITUDO!
O SOLA BEATITUDO!


Solitude...
Je ne crois pas comme ils croient,
je ne vis pas comme ils vivent,
je n’aime pas comme ils aiment...
Je mourrai comme ils meurent.

Marguerite Yourcenar


L’Angelo e il Poeta
Daniela Zini

Io conosco un Angelo,
Che ha smarrito le sue Ali
E so del Poeta, il cui Canto si è interrotto.

Era un giorno in cui il firmamento
Di mille folgori gridava la sua rabbia,
Come un uomo urla all’amaro.

Se, per caso, incontrate quell’Angelo,
Ditegli che ho ritrovato le sue Ali
E del Poeta il Canto.



San Francesco del Deserto è un’isola della Laguna Veneta, con una estensione di circa 4 ettari, situata tra Sant’Erasmo e Burano. Ospita un monastero di frati minori, fondato da San Francesco, sulla cui facciata principale si legge:
“O beata solitudo! O sola beatitudo!” 


Angiolo Orvieto [1869-1967]

San Francesco del Deserto,
romitaggio lagunare,
d’un settemplice filare
di cipressi ricoperto;

questo vento vien dal mare
e disfiora il tuo Convento,
e d’un lieve movimento
ti fa l’acqua scintillare.

S’ode un vivo cinguettare
per le tue paludi intorno,
e nel pieno mezzogiorno
una navicella appare.

Essa muove piano piano
sovra l’alighe palustri;
fra quei tremuli ligustri
lenta va verso Burano.

Da Burano non lontano
giunge suono di campane,
che le belle popolane
chiama al desco rusticano.

Sosta l’opra della mano
che tessea merletti vaghi;
hanno tregua fili ed aghi
nel tepore meridiano.

Sulla lastre, che fragore
di sonanti zoccoletti,
o Burano dei merletti
o Burano dell’amore!

Ma non giunge quel rumore
qui, nell’ombra claustrale,
nel silenzio sempre uguale,
sempre uguale a tutte l’ore.

Qui la pace delle aurore
dura tutta la giornata:
solitudine beata
per chi vive e per chi muore.

O beatitudo sola,
o beata solitudo
”!
Sull’antico muro ignudo
sta la mistica parola;

la parola, che consola
il mio spirito dolente
e lo culla dolcemente,
come suono di viola.

Siimi tu lucente scudo,
siimi tu divina scuola,
“O beatitudo sola,
o beata solitudo”!




“… Così tra questa
immensità  s’annega il pensier mio:

e il naufragar m’è dolce in questo mare.”
Giacomo Leopardi [1798-1837], L’Infinito, 1819

Caspar David Friedrich [1774-1840] - Viandante sul mare di nebbia [1818]






“Se scruterai a lungo in un abisso,
anche l’abisso scruterà dentro di te.”
Friedrich Nietzsche [1844-1900]

Ha ispirato il cantautore Léo Ferré, il poeta Charles Baudelaire, il pittore Caspar David Friedrich, il filosofo Jean-Paul Sartre...
La solitudine.
Cosa è la solitudine?
La solitudine è una incapacità a interiorizzare l’Altro.
Non è legata all’assenza di una cerchia reale, ma è la manifestazione di una assenza di solidi riferimenti, necessari a ogni socializzazione.
Si può essere soli senza soffrire di solitudine e sentirsi soli, in una  coppia, in una famiglia o in un gruppo.
I mondani sono solitari persi in una abbondanza di conoscenze sfocate.”,
ha scritto  Frédéric Beigbéder.
Il senso di solitudine va imputato a un sentimento di vuoto interiore, a una difficoltà di costruire quei personaggi interiori che ci accompagnano nel quotidiano e servono da supporto alla costruzione della nostra personalità. E, se l’educazione contemporanea e le sue carenze sono uno dei fattori chiave di alcune patologie della solitudine, ancora, si deve dimostrare che queste turbe siano più numerose nelle popolazioni caratterizzate da un tipo di educazione e più frequenti oggi di ieri.
L’autismo, per illustrare con un esempio, non è un deficit di comunicazione, ma una sottrazione dall’Altro, una reazione di difesa. Contrariamente dall’autistico, che sembra non avere presenze interiori, uno psicopatico è, sovente, in preda ad allucinazioni, che rivelano la presenza invadente di uno o più personaggi. Solitario, emarginato dagli Altri, con i quali è, molte volte, aggressivo, vive nel suo mondo interiore, popolato da presenze inquietanti.
Il sentimento di solitudine ha più componenti. Sopravviene quando si prova il senso di assenza fisica. È il caso del bimbo, che ha bisogno di stringere la mano di un genitore o di essere tenuto tra le braccia prima di addormentarsi e supplisce questa assenza con un oggetto – una bambola di pezza, un peluche, un pezzo di stoffa – o un Amico Immaginario, nel circa 20/30% dei bambini. Più tardi, l’assenza non sarà, necessariamente, quella del genitore, e potrà essere quella di un amico, un confidente.
Tra i bambini e gli adolescenti si sta diffondendo, sempre più, il senso di solitudine. Non denota che vi siano più figli unici o che i genitori non accordino attenzione ai figli, ma, più semplicemente,  che tutti i bambini sono allevati come figli unici. Non solo si accorda al bambino uno spazio proprio – una camera tutta per lui –, ma si spinge il bambino a comportarsi come una persona a parte intera, che deve fare cose in piena autonomia.
“Cosa vuoi per il tuo compleanno?”
“Cosa vuoi mangiare?”
“Cosa vuoi fare?”
“Cosa ne pensi?”
Il bambino si trova davanti, sovente, genitori che non hanno, sempre, una idea molto chiara su cosa vogliano loro stessi. E, così, il bambino si trova solo davanti a se stesso, a dovere decidere, in tutta autonomia, ciò che deve fare.
È lasciato solo in mezzo agli Altri.
Come si può essere soli in mezzo agli Altri?
Diversamente da alcuni, i cui genitori interiori [superego freudiano] sono troppo presenti, altri provano il senso di mancanza di un modello di riferimento. 


San Francesco del Deserto


Le società oppressive causano patologie della colpa e della rimozione. Quando l’educazione è troppo liberale e rinvia il bambino a se stesso, quando gli adulti si fanno da parte e si comportano come se il bambino fosse già adulto, dotato di una capacità di scelta, di iniziativa e di autonomia, allora nuove patologie compaiono, patologie della solitudine, incentrate sull’angoscia di mancare, non di una presenza esteriore, ma di una presenza interiore:  essere soli in mezzo agli altri. 
I social networks rivelano una grande sofferenza sociale. Sono un sintomo forte della nostra maniera problematica di vivere con gli Altri e di vivere con noi stessi.
Noi entriamo nel mondo, apprendendo a stare con gli Altri. La relazione con gli Altri ci costruisce come esseri umani; per tutta la durata della nostra esistenza, ci plasma. Il nostro sviluppo psicologico e sociale è, così, segnato da quanto ci mettiamo in gioco nei legami con gli Altri. Questi legami sono vettori, attraverso i quali ciascuno interiorizza, nel corso della sua formazione sociale, ruoli, principi, valori, per vivere con gli Altri in modo socialmente accettabile. Oggi, le relazioni risentono di un venire meno di questi ruoli, principi, valori, connesso a uno scarso senso di responsabilità, a una proliferazione di surrogati relazionali, quali i social networks, a un individualismo esasperato, che si manifesta come una affermazione illusoria di autonomia.
In verità, noi non apprendiamo più a vivere, realmente, con gli Altri. Le fratture della vita – licenziamenti, separazioni, divorzi, morti, malattie, incidenti, catastrofi – sono indicatori della fragilità dei nostri legami e sono, sovente, aggressioni devastanti: ci escludono dal mondo sociale, ci rigettano, ci isolano.
La solitudine si rivela, allora, non solo un problema sociale di isolamento e di rigetto, ma anche un fallimento del nostro modo di esistenza sociale. La solitudine appare ai nostri occhi come una esperienza negativa, triste, spaventosa, in cui non vi è più, talvolta, ragione di vita.
Ebbene, a questo punto, si pone una domanda:
“Noi siamo, ancora, capaci di vivere con noi stessi?”
 
San Francesco del Deserto


Se la solitudine è, oggi, percepita negativamente, non è perché non abbiamo fatto esperienza con noi stessi?
Noi non realizziamo né accettiamo, realmente, ciò che comporta di positivo. Noi pensiamo alla solitudine come a una esperienza negativa da evitare, la percepiamo come una perdita di noi stessi. Ci priva del riconoscimento, di cui abbiamo bisogno per esistere, sovente, solo nello sguardo degli Altri.
Ora, nella solitudine ciascuno è rimandato a se stesso.
Tutti noi facciamo, un giorno, l’esperienza della solitudine, attraverso le prove della vita, cui siamo confrontati e di cui sopportiamo il carico da soli. Illusoriamente, crediamo che gli Altri possano risolvere i nostri problemi, ma, quando siamo soli – e solo allora – realizziamo che nessuno risolverà i nostri problemi al posto nostro.
La solitudine è più di quanto si creda una scuola di vita, dove si può apprendere molto su se stessi, apprendere a vivere con se stessi, da se stessi e non più per procura di Altri.
La solitudine può essere una scuola, in cui si diviene responsabili di se stessi e, anche, più responsabili degli Altri: una esperienza di apertura al mondo e non di chiusura.
Se la solitudine appare difficile da sopportare è perché puntiamo, sovente, tutto sulle relazioni esterne, non riusciamo a costruire la nostra vita, avendo una vita nostra, una vita interiore.  
Per molti di noi, l’interiore è vuoto, non sanno cosa  fare con se stessi.
Si annoiano, quando sono soli, sono estranei a se stessi.
E dire che la solitudine è una esperienza indispensabile di incontro con se stessi!
Apprendere a vivere la propria solitudine, è come iniziare ad abitare la propria vita. La dimensione dell’interiorità è, sovente, dissociata dalla solitudine, è mal compresa. Ma non vi è interiore senza scissione dagli Altri.
 
San Francesco del Deserto

Essere solo è una condizione essenziale per ritrovarsi e costruirsi come essere umano, che appare tanto più necessaria se indugiamo in situazioni relazionali, che, sovente, ci ingabbiano e ci usurano.
Il ritorno a se stessi nella solitudine è un viaggio che le circostanze della vita, a volte, ci impongono; ma che bisogna sapere accogliere non come un dramma e una impossibilità di vita, ma come un itinerario della propria vita. Solo allora la solitudine può dare luogo a una metamorfosi interiore, che permette di vivere l’esistenza come il solo cammino alla nostra vera realizzazione. Se si accetta, invece di fuggirla, permette una vera presenza nel mondo.
Perché Robinson Crusoe si fa un punto di onore di portare a tavola l’abito della domenica?
Perché la guardia forestale di Rudyard Kipling, solo nella sua casetta tra gli alberi, indossa l’abito nero per la cena?
Non hanno alcun bisogno degli Altri per conservare il rispetto di se stessi o hanno a tal punto bisogno degli Altri da comportarsi come se gli Altri li osservino?
Dalla vecchia signora, che fa i suoi acquisti, la mattina, prima di tornare nel suo salotto a fissare l’orologio, all’artista maledetto, che rompe ogni scambio con l’universo del mercanteggio, passando per il filosofo, che, escludendo dalla sua meditazione il mondo incerto della materia, baratta l’esteriorità contro la sola esplorazione della sua mente, la solitudine è una alternativa che espone alla tristezza o invita alla gioia. Perché la solitudine è inevitabile – tutti sono soli al mondo –, ma è, anche, impossibile – ogni solitario è una folla da solo – .
“Io sono sola al lavoro,”,
asseriva Marguerite Yourcenar,
“se essere sola è essere circondata di idee o di esseri nati dalla mia mente; io sono sola, il mattino, di buon ora, quando guardo l’alba dalla mia finestra o dalla terrazza; sola, la sera, quando chiudo la porta di casa, guardando le stelle. Che vuol dire che, in fondo, io non sono sola.” 
In questo senso, parlare da soli non è un segno di follia che agli occhi degli idioti: il solitario non monologa, dialoga con i Fantasmi che lo popolano e lo trasformano. Quando è ben vissuta, quando è scelta, la solitudine preferisce la compagnia vera di coloro che ci abitano alla sollecitudine artificiale di coloro che ci distraggono.
Ma come, senza testimoni, non lasciarsi andare?
Come convertire l’isolamento in beata autarchia?
Dove trovare la forza di riconoscere alla solitudine il merito del silenzio?
Come trasformare la solitudine che divide in solitudine che riunisce?
Come passare dall’insularità dolorosa all’integrità ritrovata di un essere, che non ha bisogno alcuno dello scambio con Altri per sentirsi vivo?
Come vivere senza essere attesi da qualche parte?
Da quando Zeus, in un accesso di collera, ha diviso le sfere insolenti, che volevano scalare l’Olimpo – la natura umana era sferica prima che il Dio la dividesse in due, come racconta Aristofane nel Simposio di Platone –, l’occidentale vive nella sensazione che essere solo sia essere a metà.
Se la solitudine è un dramma perché è sinonimo di incompletezza; l’isolamento è una carenza perché significa la perdita di se stesso.
Di qui, l’idea che, se l’uomo non fosse, irrimediabilmente, solo, non sarebbe socievole, che un piacere è minore quando è solitario, che la solitudine dilata dopo ogni amplesso, in cui, solo per un istante, l’uomo ha creduto di unirsi all’Altro. 
Di qui, l’istinto gregario e la tirannia della maggioranza, che spingono gli uomini a denunciare nel branco chi non somigli loro.
Di qui, il convincimento che, nell’impossibilità di trovare l’anima gemella, si debba contrarre matrimonio per non restare soli, quando sopraggiungono la sera e l’inverno, come suggeriva Norbert de Varenne a Georges Duroy, il bel ami di Guy de Maupassant:
Si sposi, amico mio, lei non sa, non può sapere che cosa significhi vivere soli, alla mia età. La solitudine in casa, la sera, davanti al camino. Mi pare allora di essere solo sulla terra, orribilmente solo, ma circondato da pericoli vaghi, da cose ignote e spaventose; e la parete che mi divide dai vicini che non conosco, me li allontana quasi fossero stelle, le stesse che vedo dalla mia finestra. E mi prende una sorta di febbre, che è dolore e paura, e il silenzio dei muri mi spaventa. È così fondo e triste il silenzio di una stanza in cui si vive soli. Non è un silenzio che sta semplicemente intorno al corpo, è un silenzio che sta intorno all’anima, e, quando scricchiola un mobile, sussulti fin dentro al cuore perché nei luoghi spenti non si aspettano rumori.”
In altri termini, l’Altro non è che una stufa, che riscalda più del fuoco di un camino.
Fare della solitudine un dramma è compatire l’uomo che nulla distrae.
Cercare la propria metà, è, in verità, chiedere ad Altri di aiutarci a ingannare il tempo e poco importa chi sia l’Altro, quando lo sconforto – vale a dire l’oblio temporaneo della morte – dipende da Altri, questi è intercambiabile. 
Come Jean-Jacques Rousseau, il misantropo della domenica, il solitario di mala voglia, che esclude gli Altri nella misura in cui lui stesso non esiste per loro e che cerca, costantemente, la solitudine, prima di rinunciarvi, per paura dell’isolamento, chiunque abbia bisogno di Altri per vivere sa, anche, suo malgrado, che la solitudine non si condivide.
“Un torturante bisogno di unione ci tormenta,”,
aggiungeva Guy de Maupassant,
“ma tutti i nostri sforzi restano sterili, i nostri abbandoni inutili, le nostre confidenze infruttuose, i nostri amplessi impotenti, le nostre carezze vane. Quando noi vogliamo farci coinvolgere, i nostri slanci dell’uno verso l’altro non fanno altro che metterci l’uno contro l’altro.”  
Al diavolo, dunque, i palliativi e i divertimenti!
Se la cattiva solitudine si attenua, temporaneamente, con la presenza dell’Altro; la buona solitudine si rafforza, stabilmente, al suo contatto.
L’unico rimedio alla solitudine di chi nessuno aspetta è la solitudine di chi, non per rivalsa, ma pago di se stesso, non si aspetta niente da nessuno, “la sede delle gioie, cara a Petrarca, da dove sono banditi i piaceri, un luogo dove la sobrietà è sovrana, dove il letto è casto e piacevole, dove la coscienza è un paradiso”, quell’esaltante “a tu per tu” del solitario, la cui appartenenza al mondo dissuade dal possedere qualcuno o qualcosa. Il vero solitario non è un recluso, che mortifica la sua condizione; ma un innamorato soddisfatto di amare, che, elaborando il lutto della stessa morte, benedice la fortuna di vivere lontano dagli sguardi, e, dunque, vicino al Cielo. Se l’Inferno è gli Altri, allora il Paradiso è la loro assenza:
Annotava Rainer Maria Rilke 
“Una sola cosa è necessaria: la solitudine. La grande solitudine interiore. Inoltrarsi in se stessi e non incontrare per ore nessuno, è a ciò che si deve tendere…
Se non vi è comunione tra gli uomini e voi, cercate di essere vicini alle cose: non vi abbandoneranno. Vi sono ancora notti, vi sono ancora venti che agitano gli alberi e corrono sui Paesi. Nel mondo delle cose e in quello degli animali, tutto è pieno di eventi ai quali voi potete prendere parte.”  
 


Passando dal dolore al candore, la solitudine mantiene il mondo allo stato di enigma per una coscienza affrancata dal bisogno di sedurre.
Liberato dello sguardo e dai giudizi che lo accompagnano, il solitario si dà i mezzi per non odiare né rimpiangere, ma per comprendere e stupirsi, al di là del bene e del male.



 Daniela Zini
 Copyright © 4 gennaio 2017 ADZ

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