“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 11 gennaio 2015

UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI 105 ANNI FA MORIVA LEV NICOLAEVIC TOLSTOJ di Daniela Zini



UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
105 anni fa moriva 

LEV NICOLAEVIC TOLSTOJ
[Jasnaja Poljana, 9 settembre 1828 - Astapovo, 20 novembre 1910]

“Le cause della miseria umana sono negli uomini stessi...”
È una delle tante asserzioni che si possono ricavare dalla vastissima opera di Lev Nikolaevic Tolstoj, un Essere in cui l’anima dello scrittore e quella dell’uomo costituivano un tutt’uno inscindibile.


“E l’idea mia è tutta qui: se le persone corrotte si uniscono tra loro
per costituire una forza, le persone oneste debbono fare altrettanto.”
Lev Nicolaevic Tolstoj

di
Daniela Zini
a mio Nipote Amirhossein
“Il segreto della felicità non è fare ciò che si vuole, ma volere, sempre, ciò che si fa.”
Lev Nicolaevic Tolstoj 


Per agitati che siano i Tempi in cui viviamo, per quanto corrotti o aridi si possa giudicarli, vi è, sempre, modo per certi Libri squisiti e rari di vedere la luce.
Vi sono, sempre, Cuori eletti per concepirli in un’ombra preziosa.
Altri Cuori, ancora, sparsi, qui e là, per accoglierli.
Sono Libri che a Libri non somigliano, che, talvolta, anche, non lo sono.
Sono semplici e umili Destini gettati dal Caso su sentieri appartati, fuori della grande strada polverosa della Vita.
E, quando, usciti di strada, ci avviciniamo a loro, ci sorprendono con profumi soavi e con fiori di una naturalezza di cui credevamo, ormai, estinta la specie.
La forma, nella quale si possono realizzare i sentimenti delicati di alcune Anime, è abbastanza variabile e irrilevante.
Si trovano, un bel giorno, in un cassetto, dopo una morte, lettere che non dovevano vedere la luce.
Altre volte, ancora, l’Amante che sopravvive – poiché è di Amore che si compongono, necessariamente, questi tesori nascosti – l’Amante che sopravvive, dicevo, si consacra a un fedele ricordo e tenta, nel pianto, con una precisione circostanziata – o aiutandosi con l’armonia dell’arte – di trasmettere questo ricordo e renderlo eterno.
Offre, allora, ai lettori avidi di un tale genere di emozioni qualche Storia mutata, ma tutta animata, sotto il travestimento delle apparenze, da una Verità profonda, o custodisce per sé e prepara, intanto, per il Tempo in cui non sarà più, una confidenza, una confessione che vorrebbe intitolare volentieri – come Petrarca ha fatto per uno dei suoi libri – Il Mio Segreto.
Altre volte, infine, è un testimone, un depositario della confidenza che la rivela, quando quelle Anime sono morte, ancora tiepide o già fredde da tempo.  
Da qualche tempo, mi accade di provare la sensazione di non appartenermi più.
Vivo, anzi, cosa strana, viviamo un periodo di profonda tristezza, non cupa, ma insondabile e ho, anche, una sensazione, di cui qualcuno mi ha parlato: il presentimento della partenza.
Lo sa Dio!
La Morte non mi spaventa, ma non vorrei morire oscuramente,  soprattutto, inutilmente.
Adesso so, avendola vista da vicino, essendo stata sfiorata dalla sua ala nera e gelida, che, quando si avvicina, si prova un assoluto distacco, una rinuncia definitiva alle cose di questo mondo.
So anche che ho nervi e volontà in grado di resistere alle grandi prove personali e i miei nemici non vedranno, mai, in me viltà o paura.
Tutto lo straziante fascino della Vita deriva, forse, dall’assoluta certezza di dover morire.
Se le cose durassero, non ci sembrerebbero degne di affezione!
Il Cielo del Tempo ha molte sfumature: il Passato è Rosa, il Presente Grigio, il Futuro Azzurro. Oltre il vacillante Azzurro, si apre il gorgo senza limite e senza nome, il gorgo delle trasformazioni che portano alla Vita eterna.
Sì, l’utile consapevolezza di una partenza obbligata e definitiva, basta a certe Anime, per dare alle cose della Vita un fascino straziante.
I luoghi dove si è amato e sofferto, dove si è pensato e sognato, soprattutto i Paesi, da cui siamo partiti senza la speranza di rivederli, ci appaiono più belli nel ricordo di quanto lo furono nella realtà.    
Il ricordo dell’Iran, l’Amore vivo e profondo, che sonnecchia dentro di me per la Patria di elezione, sono una ossessione dolorosa e dolce.
Basta un suono di tar, udito per caso, per risvegliare tutto un mondo di sensazioni nella mia Anima, che sembrava dormire.
Finalmente, per la prima volta, dopo la morte del Nonno, esteriorizzo un pò il mio io, ma ho un dovere da compiere che lo trascende.
E vi sei Tu…
È quanto basta per nobilitare i giorni, peraltro informi, che conduco, da tre lunghi anni, in esilio, in questo Paese, cui  più niente  mi lega…
Ho un regalo per Te.
È da tanto che lo preparo.
Ho preso i fogli e ho iniziato a scrivere.
La penna scivolava sul foglio, avevo l’impressione che  Ti parlasse, insieme a me.
Dopo alcune pagine, ho realizzato che stavo raccontando la mia Storia d’Amore dall’inizio. Come se fosse importante comprendere questo per comprendere il resto, il migliore filo conduttore.
Ma il filo non ha retto.
Molto presto, non ho più voluto dimostrare né illustrare niente, mi sono lasciata divorare dalla Storia, per farla, infine, venire alla luce.
Scrivevo, non potevo più fermarmi.
Una forza mi spingeva avanti, un bisogno di espellere o meglio di rendere, che non è, esattamente, la stessa cosa.
I fogli si riempivano, li nascondevo.
Sono il mio regalo.
È incredibile come la gente odi tutto ciò che non si pieghi alle proprie esigenze e alle proprie leggi stupide e arbitrarie!
Come si indigna la mediocrità, quando vede spuntare un Essere – una Donna soprattutto – che vuole essere se stessa e non somigliarle!
Come si indigna la mediocrità, quando non può appiattire tutto, ridurre tutto al suo livello stupido e basso!
Adesso, scopro di avere una capacità che non sospettavo, scrivere lezioni, soprattuto di Storia, con una visione globale abbastanza ampia.
Io, che di recente, ancora, sognavo viaggi sempre più lontani, che avevo la smania di agire, sono giunta al punto di desiderare, senza confessarmelo, apertamente, che l’ebbrezza dell’ora e la sonnolenza presente, possano durare se non sempre, almeno per molto tempo ancora.
Eppure so che la febbre di viaggiare mi riassalirà, che me ne andrò…
So che non potrò, mai, sopportare la Vita sedentaria e sarò, sempre, attratta da Terre soleggiate…
Sì, so di essere molto lontana dalla saggezza degli Anacoreti musulmani. Ma non è la voce della saggezza che parla in me, che mi rende inquieta e, domani, mi spingerà ancora sulle strade della Vita; è la mia irrequietezza, che trova la Terra stretta e non ha saputo trovare in se stessa il proprio Universo.
Ciò che tanti sognatori hanno cercato, lo hanno trovato nelle Anime semplici.
Al di là della scienza e del progresso dei Secoli, sotto il sipario sollevato dell’Avvenire, vedo passare l’Uomo futuro…
E comprendo come si possa finire nella pace e nel silenzio del deserto, finire in estasi, senza rimpianti e senza desideri, davanti a spendidi orizzonti. 
Che sollievo quasi voluttuoso, quando il Sole si abbassa, quando le ombre delle palme e dei muri si allungano e avanzano, spegnendo sulla Terra gli ultimi bagliori!
Quello che è accaduto non si cancellerà.
Si dice, sempre, così! 
Non importa, lo dico anche io.
Ciò che ami sarà la tua eredità.
Malgrado tutto, il vento è dentro di noi.
Tu, io, il Tempo, in cui abbiamo, appassionatamente, voluto fonderci con il resto del Mondo, tutto questo è rimasto nel Segreto dell’Aria, nei Libri, nei Canti.
Dio sa se abbiamo provato a farlo brillare questo Mondo, a portarlo fino al Sole!
E, ora, le Tenebre…
Se sono stati abbastanza potenti e Dio sa se lo sono stati, i Sogni possono scivolare nelle pieghe e viaggiare a lungo, sopravvivere come dei germogli, che resistono all’Inverno.
Ma, forse, mi sbaglio, non lo so più.
Forse, non è successo nulla, un polline portato dal vento… una illusione.
Apro gli occhi, vi è troppa luce, ho freddo.
Basta chiudere gli occhi.
Aprirli.
Chiuderli ancora… 

Tua zia D



CONFUCIO  [551 a.C. - 9 marzo 479 a.C.]
Confucio e l’antica cultura
di Daniela Zini

GESU’ DI NAZARET [Betlemme o Nazaret, 7-2 a.C. - Gerusalemme, 26-36 d.C.]
Gesù e le donne
di Daniela Zini
Gesù e i fanciulli
di Daniela Zini

DARIO I IL GRANDE [550 a.C. - ottobre 486 a.C.]
La gloria di Re Dario tramonta a Maratona
di Daniela Zini

FLAVIO CLAUDIO GIULIANO [Costantinopoli, 6 novembre 331 - Marana, 26 giugno 363]
Giuliano il restauratore del Paganesimo
di Daniela Zini

CECCO D’ASCOLI [Ancarano, 1269 - Firenze, 16 settembre 1327]
Cecco d’Ascoli astrologo senza paura
di Daniela Zini

ANGELO BRUNETTI [Roma, settembre 1800 - Porto Tolle, 10 agosto 1849]
114 anni fa nascava Ciceruacchio
di Daniela Zini

TOMAS GARRIGUE MASARYK [Hodonín, 7 marzo 1850 - Lány, 14 settembre 1937]
Dopo sessanta anni ancora un enigma la fine di Masaryk
di Daniela Zini

ANTON PAVLOVIC CECHOV [Taganrog, 29 gennaio 1860 - Badenweiler, 15 luglio 1904]
Sakhalin: l’Inferno dei reclusi a vita
di Daniela Zini

MOHANDAS KARAMCHARD GANDHI [Porbandar, 2 ottobre 1869 - 30 gennaio 1948]
La non-violenza sconfiggerà la violenza
di Daniela Zini
La non-violenza sconfiggerà la violenza?

JOHN MAYNARD KEYNES [Cambridge, 5 giugno 1883 - East Sussex, 21 aprile 1946]
Keynes, profeta del New Deal
di Daniela Zini

BLAISE CENDRARS [La Chaux-de-Fonds, 1º settembre 1887 - Parigi, 21 gennaio 1961]
Blaise Cendrars il soldato vagabondo che inventò la Poesia Moderna
di Daniela Zini

THOMAS EDWARD LAWRENCE [Tremadog, 16 agosto 1888 - Bovington Camp, 19 maggio 1935]
125 anni fa nasceva El Aurens Lawrence d’Arabia
di Daniela Zini

DWIGHT DAVID EISENHOWER [Denison, 14 ottobre 1890 - Washington, 28 marzo 1969]
Cinquanta anni fa il monito di Eisenhower
di Daniela Zini

NELSON ROLIHLAHLA MANDELA [Mvezo, 18 luglio 1918 - Johannesburg, 5 dicembre 2013]
Nelson Mandela una candela nel vento
di Daniela Zini

ANTONINO CAPONNETTO [Caltanissetta, 5 settembre 1920 - Firenze, 6 dicembre 2002]
Memento Memoriae di Antonino Caponnetto
di Daniela Zini

MALCOLM X [Omaha, 19 maggio 1925 - New York, 21 febbraio 1965]
Malcolm X
di Daniela Zini

JORGE RAFAEL VIDELA REDONDO [Mercedes, 2 agosto 1925 - Buenos Aires, 17 maggio 2013]
Argentina I. La Tripla A: un nome che semina morte
di Daniela Zini

MARTIN LUTHER KING [Atlanta, 15 gennaio 1929 - Memphis, 4 aprile 1968]
I have a dream…
di Daniela Zini

ZINE EL-ABIDINE BEN ALI [Hammam-Sousse, 3 settembre 1936]
Ben Ali in fuga dalla Craxi Avenue
di Daniela Zini

GIOVANNI FALCONE [Palermo, 18 maggio 1939 - Palermo, 23 maggio 1992]
Omaggio a Giovanni Falcone
di Daniela Zini

MIKHAIL VASILYEVIC BEKETOV [10 January 1958 - 8 April 2013]
Veni, Vidi, Vi[n]ci I. Giornalista, cronaca di una morte annunciata
di Daniela Zini

JAFAR PANAHI [Mianeh, 11 luglio 1960]
Omaggio a Panahi
di Daniela Zini

JULIAN PAUL ASSANGE [Townsville, 3 luglio 1971]
Se WikiLeaks?...
di Daniela Zini

BRADLEY EDWARD MANNING [Crescent, 17 dicembre 1987]
Eroi o traditori? I. Il processo di Bradley Manning minaccia il giornalismo di inchiesta
di Daniela Zini
  



È il destino dei Grandi – di coloro che, nella vita, concepiscono opere che vanno al di là dell’arte stessa, giungendo a porsi e a risolvere quesiti che riguardano l’intima essenza dell’uomo, della esistenza, della morale – essere soggetti a interpretazioni, a trasfigurazioni, a letture che, immancabilmente, ne offrono una visione riduttiva, parziale, se non addirittura traditrice.
È accaduto a Dante Alighieri, a William Shakespeare.
È accaduto anche a Lev Nikolaevic Tolstoj.
Ogni tentativo di collocarli in una determinata cornice storico-sociale, di valutarli attraverso una angolazione di parte – qualunque essa sia – non fa che sminuire e deteriorare l’immagine della loro opera, il cui significato universale, astorico, atemporale, sovrasta i particolarismi del quotidiano, le mode letterarie che, invece, consentono all’arte minore di essere esaltata e glorificata ai massimi termini, ma soltanto durante “l’espace d’un matin”.      
Di Tolstoj, attuale, oggi, come cento anni fa e, indubbiamente, come tra cento anni, si conosce tutto e nulla.

 

E, paradossalmente, se ne conosce sempre di più, quanto meno si cerchi di vivisezionarlo, di adattarlo a schemi etici e ideologici precostituiti.
Se ne conosce sempre di più, quanto più si vuole assorbire la sua lezione umana, morale, letteraria, senza porsi continui perché, ma lasciando che il suo insegnamento fluisca, naturalmente, dentro se stessi, come in un processo osmotico, che il suo dettato possa esplicarsi da solo, pressoché involontariamente rispetto alle intenzioni del lettore.    
Dirò di più.
La pubblicazione dei suoi Diari, delle sue Confessioni, del suo nutrito Epistolario, ha permesso di venire a conoscenza di infiniti particolari sul modo di vivere, sulle manie, sull’immagine pubblica e privata dell’autore di Anna Karenina [1877], ma non ha offerto che scarsi contributi alla scoperta dell’animo tolstojano. Scoperta che può raggiungersi solo leggendo i suoi romanzi, ciò che Tolstoj ha scritto non su stesso, ma sul mondo e sulla gente. Questo è il vero significato popolare della sua letteratura, popolare in quanto profondo, ma comprensibile a tutti. Ecco la grande linea di demarcazione tra lo scrittore popolare e lo scrittore di evasione, termini, spesso, fraintesi e scambiati, anche nei riguardi dello stesso Tolstoj.


Avevo accennato prima alle alterne fortune di Tolstoj, dovute al succedersi delle varie correnti di critica e delle mutevoli situazioni storico-politiche. Il mondo intellettuale russo lo ha considerato, ora, “il profeta della rivoluzione”, come si legge nel saggio che gli dedicò Vladimir Il’ic Ul’janov [Lenin]; ora, un letterato borghese, sensibilmente inferiore ad autori quali Aleksej Maksimovic Peskov [Maksim Gor’kij] o Aleksandr Sergeevic Puskin; ora, un aristocratico militarista; ora, un precursore del comunismo; ora, un anarchico cristiano.
Ma Tolstoj non fu nulla di tutto ciò.
Incarnò con una definizione dei nostri giorni, lo “scrittore totale”, un essere in cui l’anima dello scrittore e quella dell’uomo non si sovrapponevano, ma costituivano un tutt’uno.
Tolstoj non si considerò, mai, un intellettuale, ma solo uno scrittore.
Così, scrivere per lui non fu una scelta, ma una necessità che si può definire biologica: l’ansia di una continua ricerca morale e l’impeto letterario, che gli pulsava dentro, gli imposero di prendere la penna in mano.
Nacquero, così, Anna Karenina [1877], La morte di Ivan Il’ic [1886], La sonata a Kreutzer [1891], Resurrezione [1899], romanzi il cui ritmo è quello stesso della vita e nei quali si intrecciano, si assommano, si dividono infinite storie, vicende e destini individuali, ognuno dei quali reca con sé le contraddizioni e le angosce umane, che nessun periodo letterario, come il realismo russo, seppe innalzare a valori universali e imperituri. La stessa intensità dello stile tolstojano è una incessante indagine morale, un’ansia di perfezione che si mescola, ininterrottamente, con quella emergente dai contenuti dei suoi scritti. 

 
 Lev Nicolaevic Tolstoj e sua moglie Sofia Andreevna Bers

Tolstoj soleva ripetere che “l’estetica non è che una espressione dell’etica”. 
Un Tolstoj olimpico, grande saggio, scevro da interni contrasti, dunque?
Non è così!
 

 Anton Cechov, a partire dal 1887, nutre un vivo interesse per le idee di Tolstoj. Nel 1895, gli fa visita, a Jasnaja Poljana, e scrive che Tolstoj gli aveva fatto “una impressione meravigliosa. Mi sentivo a mio agio, come a casa; le conversazioni con Lev Nikolaevic erano liberissime”.

Se la religione tolstojana fu una religione positiva, un codice più etico che dogmatico, con il quale raggiungere la felicità e la perfezione in Terra, la vita dello scrittore fu segnata da continue angosce, da lacerazioni interiori, da malintesi con la famiglia, con gli altri e, soprattutto, con il proprio io, al quale rimproverava il mancato raggiungimento degli ideali, che aveva postulato e che rappresentarono, per sempre, un inafferrabile traguardo.
Solo la morte, avvenuta ad Astapovo, nel 1910, all’inizio di un viaggio verso mete incerte, intrapreso per staccarsi, definitivamente, dalla sua famiglia, dal suo mondo, dalla sua terra, interruppe l’ultima ricerca verso una pace interiore, mai conquistata.
Una ricerca, che ebbe inizio nel lontano 1847, quando il nobile universitario diciannovenne Lev Nicolaevic Tolstoj, in dimora a Kazan, contrasse una malattia venerea: la degenza lo indusse a meditare, a riflettere sugli scopi e sul significato della vita, sulle leggi e sulla morale degli uomini.
In quei giorni dette inizio al suo Diario, le cui pagine non lo avrebbero più abbandonato.
Alla data del 17 marzo 1847 vi è segnato:
“Da sei giorni, sono ricoverato in ospedale e, da sei giorni, sono pressoché soddisfatto di me. “Les petites causes produisent des grands effets”. Ho preso la gonorrea: naturalmente per ciò per cui, in genere, si prende; e questa futile circostanza mi ha dato la spinta per issarmi sul gradino, sul quale, già da tempo, avevo poggiato il piede…”      
Così, Tolstoj prese a interessarsi di letteratura, di musica, di arte. Iniziò a pubblicare i primi racconti sulla rivista Il contemporaneo, mentre tentava di condurre a termine i disordinati studi universitari – si era iscritto a lingue orientali, a filologia, a giurisprudenza –.
Nel 1851, nominato allievo ufficiale, combatté sul fronte del Caucaso e partecipò alla difesa dell’assediata Sebastopoli. Fu proprio questa l’occasione che gli permise di scrivere la sua prima opera importante, I racconti di Sebastopoli.



Tornato a Jasnaja Poljana, il paese del governatorato di Tula, dove era nato, nel 1828, e dove la sua famiglia possedeva ville e latifondi, iniziò ad alternare l’attività di scrittore a quella di pedagogo e di educatore.
Il mondo contadino delle ampie campagne e delle steppe russe, quell’universo rurale che, a detta di lui, era l’unico portatore di verità, costituì il grande scenario sul quale rappresentare il dramma della vita e della morte.
Tolstoj concepì, allora, programmi di riforme sociali e pedagogiche, stimolato dalla idea di far giungere al Popolo i più alti insegnamenti dello spirito.
Pubblicò un Sillabario e fondò una casa editrice chiamata L’Intermediario, che aveva lo scopo di diffondere la cultura nell’ambiente rurale.
In seguito, programmò un’opera sulla forza morale dei contadini e offrì l’emancipazione ai suoi mugiki, ai quali pensò, perfino, di donare tutte la sue terre.
Quest’ultimo progetto, in particolare, esasperò i contrasti che, da tempo, avevano incrinato il rapporto con la moglie, Sofia Andreevna Bers, sposata diciassettenne, nel 1862, che non riuscì, mai, a tollerare lo spirito democratico del marito, al quale rammentava, costantemente, le origini aristocratiche.
I conflitti familiari si accrescevano a mano a mano che Tolstoj attraversava quelle violentissime crisi spirituali che segnavano i tormenti interni, con i quali avveniva la stesura di ogni nuovo romanzo.
Di tutti i suoi libri, solo Guerra e Pace [1869] riuscì a donargli pace e serenità d’animo, che completarono la felicità dei primi anni di matrimonio.

 

Con il passare del tempo, pertanto, le angosce e le difficoltà esistenziali andarono acuendosi; nel 1901, piombò sul capo dello scrittore anche la scomunica, decretatagli dalla Chiesa Ortodossa per i suoi scritti contro le degradazioni della religione cristiana.

Lev Nicolaevic Tolstoj con il suo segretario Vladimir Certkov, a Jasnaja Poljana, nel 1906.

Superati gli ottanta anni – essendogli, ormai, insopportabile la vita familiare e sociale – Tolstoj intraprese quell’ultimo viaggio che, ancora oggi, ha in sé qualcosa di misterioso e di mitico. Con la sua morte, come ebbe a dire Thomas Mann, “l’Europa rimase senza padrone”.
L’autore di Anna Karenina venne sepolto a Jasnaja Poljana, ai piedi di una vecchia quercia che, per anni, era stato teatro dei giochi di infanzia dello scrittore e dei suoi fratelli. Un semplicissimo tumulo ricoperto di erba ricorda che Lev Nicolaevic Tolstoj riposa, per sempre, in quella terra, madre di semplicità e di verità, che, in tutta la vita, aveva venerato e agognato.


E proprio ai piedi della vecchia quercia, ora, ci rechiamo in un ideale pellegrinaggio, per una intervista immaginaria[1] che possa fare luce sulle battaglie spirituali e morali di Tolstoj, con le sue stesse parole.  

ADZ: Lev Nicolaevic, il suo collega Fedor Michajlovic Dostoevskij ha scritto che Anna Karenina non è un romanzo innocuo, in quanto il personaggio di Levin assomma su di sé le contraddizioni, le angosce e le lacerazioni di un individualista, che si accorge del baratro, in cui viene a cadere chi fa del proprio “io” il mondo. È un tema, questo, ricorrente in molte sue opere, cardine della sua visione universale della vita e della società.   
           
LNT: La società ideale dovrebbe essere impregnata di vita fraterna e tale che gli uomini lavorino, liberamente, l’uno per l’altro.

ADZ: E i governi a che servirebbero, allora?

LNT: L’inganno, mediante il quale il governo tiene in schiavitù la gente, non è vantaggioso per alcuno… la violenza del governo si regge con l’inganno.

ADZ: È favorevole, Lev Tolstoj, alle rivoluzioni, lei, che ha visto la prima rivoluzione russa del 1905, la “domenica russa”[2] di Pietroburgo, l’ammutinamento dei marinai a Odessa?

LNT: La rivoluzione ha fatto sì che il nostro popolo russo abbia visto la ingiustizia della sua condizione. È la fiaba del re con il vestito nuovo. Il bambino che ha detto come stavano le cose, che il re era nudo, questo è stata la rivoluzione… Tuttavia, non bisogna contrapporre la violenza alla violenza. La eliminazione dei potenti non serve a nulla.

ADZ: Perché?

LNT: Perché tutti i governi sono eguali: l’ideale è l’anarchia, a condizione che non pratichi la violenza, beninteso.

ADZ: Non esistono, quindi, governi giusti e governi ingiusti.

LNT: Nulla è più dannoso agli uomini dell’idea che le cause della loro miseria siano nelle condizioni esteriori, anziché in loro stessi.

ADZ: Il bene, il male, allora, dove sono?

LNT: Ah, se l’uomo avesse, finalmente, appreso a non pensare e a non giudicare con troppa recisa assolutezza e non volesse dare, sempre, risposte a domande che gli sono state poste, perché restino, eternamente, tali!
Volesse, finalmente, comprendere che ogni pensiero è, nello stesso tempo, falso e vero. Gli uomini in questo caos di bene e di male senza rive né fondo, che eternamente fluttua e mescola i suoi elementi, si sono ritagliati delle zone ideali, hanno tracciato delle linee immaginarie nel mare, sperando che il mare si divida nell’ordine di quelle. Come se, partendo da altri punti di vista e su altri piani, non si potessero tracciare milioni di altre linee!...
La civiltà è il bene, la barbarie è il male; la libertà è il bene, la mancanza di libertà è il male. Questo sapere immaginario annienta nella natura umana l’istintiva, beata, originaria aspirazione dell’anima verso il bene.

ADZ: Un bene inteso in senso trascendente, proprio di un’altra vita?

LNT: Ho in mente una grande, stupenda idea, alla cui realizzazione mi sento di dedicare tutta la vita. Questa idea è la fondazione di una nuova religione, corrispondente al presente stato del genere umano: la religione di Gesù, ma depurata dal dogma e dal misticismo. Una religione pratica che non prometta beatitudine futura, ma che dia beatitudine sulla terra.

ADZ: Lev Nicolaevic, queste idee le hanno valso la scomunica da parte della Chiesa Ortodossa. Queste idee la indussero, nel 1882, a disertare i festeggiamenti per la inaugurazione del monumento ad Aleksandr Sergeevic Puskin, a studiare Marco Aurelio, a tradurre, perfino, i Vangeli. Il suo libro In che consiste la mia fede è stato messo all’indice dalla censura ecclesiastica. Quali concetti, in particolare, le hanno inimicato l’autorità religiosa?

LNT: Ho scritto che tutti i mali del mondo derivano dal fatto che la vera dottrina cristiana, quella che corrisponde ai bisogni dei nostri tempi, è nascosta agli uomini e se ne presenta loro solo una contraffazione…
E che è necessario, pertanto, tendere all’abolizione della falsa dottrina religiosa.

ADZ: Al termine della sua vita lei si risolse di fuggire, di abbandonare la sua famiglia, la sua casa, i suoi libri. Partì, di nascosto, quel 28 ottobre del 1910, da Jasnaja Poljana, forse, alla volta del Caucaso. Ma al Caucaso non arrivò mai, perché la stazione di Astapovo segnò il termine del suo viaggio e della sua vita.
Perché, Lev Nicolaevic, lei prese la decisione di ritirarsi in solitudine?  

LNT: Come gli indiani vanno nella foresta, quando hanno sessanta anni; come ogni uomo vecchio e religioso desidera consacrare gli ultimi anni della sua vita a Dio e non alle burle, alle freddure, al pettegolezzo, al tennis; così io, arrivato a settanta anni, ho desiderato con tutte le mie forze la calma e la solitudine.

ADZ: Dopo la sua morte, Maksim Gor’kij, che pure era ateo, esclamò nei suoi confronti:
“Questo uomo è simile a Dio.”
Lei, di sicuro, non poté ascoltare, ma chissà se mai le querce di Jasnaja Poljana glielo abbiamo sussurrato, stormendo.     


Daniela Zini
Copyright © 11 gennaio 2015 ADZ

Chi può dire se, quando le strade si incontreranno, questo Amore sarà nel tuo cuore?


[1] Tutte le risposte di Lev Nicolaevic Tolstoj sono state tratte dai romanzi e dai Diari dello scrittore.
 
[2] Con “domenica russa”, in russo: Кровавое воскресенье, si è soliti indicare l'eccidio compiuto a San Pietroburgo, il 22 gennaio 1905 [9 gennaio secondo il calendario giuliano] da reparti dell'esercito e della guardia imperiale, che aprirono il fuoco contro una manifestazione pacifica di dimostranti disarmati diretti al Palazzo d’Inverno per presentare una supplica allo zara Nicola II.
La marcia era stata organizzata dal pope Gapon, che, in seguito, fu accusato di essere un agente provocatore della polizia politica zarista. La strage ebbe gravissime conseguenze per il regime, perché minò, profondamente, la fiducia della popolazione nei confronti dello zar, aprendo la strada alla Rivoluzione del 1905.

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