“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

martedì 6 gennaio 2015

NUNC UT TUNC III. I GLADIATORI DAVANO LA VITA PER UN PUBBLICO CHE NON PAGAVA di Daniela Zini



NUNC UT TUNC
“Probitas laudatur et alget.”
Decimus Iunius Iuvenalis
“Un Popolo che elegge corrotti, impostori, ladri e traditori, non è vittima. È complice.”
George Orwell
 
Al mio segnale scatenate l’Inferno!

Rivoluzioni sociali, rivoluzioni culturali, rivoluzioni tecnologiche e in mezzo immobile, da millenni, l’Uomo come appetiti, come istinti, come ferrei rapporti interpersonali.
Corrotto e corruttibile dall’Età della Pietra a oggi!
Chi, oggi, in Italia, non parla di corruzione, non è sfiorato o implicato dalla corruzione, chi non crede di conoscerla come faccenda corrente?
Chi abbia la capacità di guardarsi, per una volta, tranquillamente, allo specchio comprenderà che il suo e il nostro rapporto con la corruzione è ambiguo, metà di accettazione e metà di rimozione, metà di rifiuto formalistico e metà di rassegnata o compiaciuta convivenza/connivenza.
Nei millenni, la corruzione ha, sempre, avuto un posto a sé tra legge formale, legge morale e opinione pubblica corrente. La legge formale ha potuto, spesso, mandarla sul banco degli accusati; quella morale ne ha, spesso, fatto oggetto dei suoi strali e delle sue invettive; ma per la opinione corrente, la corruzione non è, mai, stata un vero reato, un vero peccato, non ha, mai, avuto l’impatto duro del furto, non è, mai, stata un tabù, come i peccati sessuali, è, sempre, stata qualcosa di congenito, di naturale.     
Chi non ha letto, in tutta la Letteratura romana imperiale, la nostalgia, il rimpianto per la buona severa Repubblica dai costumi spartani, dal profondo senso dello Stato?
Eppure basta grattare un po’ nella Storia morale del ceto dirigente repubblicano, per scoprire non solo casi incredibili di corruzione; ma la naturalezza, direi il diritto alla corruzione diffusissimo nella aristocrazia senatoriale.
Nella virtuosa Roma repubblicana, un senatore quale Verre, arrivato alla carica di pretore, poteva estorcere danaro a tutti, perfino ai condannati a morte, promettendo di esonerarli dalla tortura e di concedere loro sepoltura. Corruttore onnivalente di fanciulle e di fanciulli, di vecchi e di giovani, di barbari come di cittadini Romani.
Coperto, difeso fino all’inverosimile dagli onorevoli Padri Coscritti!
Cicerone poteva anche gridare nella sua accusa a Verre che lo Stato Romano era “un escremento di Romolo”; ma era lo Stato che si affacciava all’Impero, che avrebbe lasciato un segno imperituro di forza e di civiltà nel mondo.
No, la corruzione non è di per sé decadenza dello Stato!
Augusto e la sua corte rubavano sulla urbanizzazione tiberina; ma la potenza dello Stato era al suo apogeo!     
Io credo che, dopo tanti predicatori e flagellatori, si sia tornati ai tempi antichi in cui i detentori del potere ritenevano normale ricevere donazioni e munera.
E, tuttavia, il potere economico è così forte, così ricco che non sente bisogno alcuno di donazioni da parte dei sudditi; è lui a corrompere i sudditi che possono servirgli, lui a seppellire la critica giornalistica, la informazione pericolosa sotto una pioggia di regali.
Case di moda, agenzie di pubblicità, aziende, banche, assicurazioni praticano la corruzione diffusa, coprendola con nomi professionali quali pubbliche relazioni, sponsorizzazioni, marketing, interventi promozionali. Che, poi, un intervento promozionale consista nel dire a un direttore di azienda:
“Lei mi dia inserti pubblicitari per due miliardi che io, poi, in realtà, glieli faccio pagare solo un miliardo e mezzo, così lei si tiene la differenza!”,
che sia, in altri termini, corruzione pura e semplice non importa, tutti fingono di credere che si tratti di “promozione”.
A volte, l’Uomo onesto, il non corrotto viene colto dal dubbio che la sua moralità sia una invenzione, una copertura di altro e meno nobile: la voglia di stare fuori dal gioco defatigante della corruzione, di non avere a che fare con ricattatori e venditori di fumo.
A volte, l’Uomo onesto, che non ha, mai toccato danaro sporco, si interroga su tutte le corruzioni intellettuali, culturali, cortigiane che ha praticato, monetizzabili nel futuro prossimo e si ricorda delle parole evangeliche:
“Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra.”
     

à Mes Quatre Fantômatiques Gladiateurs des Temps Modernes
En fin de compte nous mourons tous, nous ne pouvons malheureusement pas choisir notre mort. Mais nous pouvons décider comment aller à sa rencontre, afin que l’on se souvienne de nous comme des Hommes.
Je Vous souhaite d’aller très loin et de faire aboutir tous Vos projets!
D

“Rappelle-toi depuis combien de temps tu remets à plus tard et combien de fois, ayant reçu des Dieux des occasions de t’acquitter, tu ne les as pas mises à profit.  Mais il faut enfin, dès maintenant, que tu sentes de quel monde tu fais partie, et de quel être, régisseur du monde, tu es une émanation, et qu’un temps limité te circonscrit. Si tu n’en profites pas, pour accéder à la sérénité, ce moment passera; tu passeras aussi, et jamais plus il ne reviendra.”
Marc Aurèle, Pensées pour moi-même

Qu’ils soient Algériens, Iraniens, Egyptiens, Turcs, Nigérians, Chinois, de plus en plus nombreux sont les écrivains confrontés au cruel dilemme que Tahar Djaout eut à peine le temps d’exprimer quelques jours avant son assassinat en pleine rue:
Si tu parles tu meurs. Si tu te tais tu meurs. Alors parle et meurs...
Plus nous sommes silencieux, patients et disponibles, et plus ce qui est nouveau pénètrera profondément et sûrement en nous, mieux nous le ferons nôtre; il sera d’autant plus notre Destin propre, et, plus tard, lorsqu’il se produira, nous nous sentirons profondément intimes et proches.
Et c’est nécessaire.
Il est nécessaire — et c’est vers cela que peu à peu doit tendre notre évolution — que nous ne nous heurtions à aucune expérience étrangère, mais que nous ne rencontrions que ce qui, depuis longtemps, nous appartient. Il a déjà fallu repenser tant de conceptions du mouvement qu’on saura peu à peu admettre que ce que nous appelons Destin provient des Hommes et ne vient pas de l’extérieur. De même qu’on s’est longtemps abusé à propos du mouvement du Soleil, on continue encore à se tromper sur le mouvement de ce qui est à venir. L’Avenir est fixe, mais c’est nous qui nous nous déplaçons dans l’Espace infini. Tout ce qui, un jour, deviendra peut-être possible pour beaucoup, le solitaire peut déjà le préparer et l’élaborer de ses propres mains qui se trompent moins.
C’est prodigieux, la chance d’être ici: je peux vivre en solitaire, presque en ermite, tout en étant au cœur de l’Univers.
Ici, j’ai fait mon nid.
Sur la table de ma chambre dont les fenêtres s’ouvrent sur les grands arbres d’une villa, il y a le dossier de mon testament littéraire.
Parfois j’y glisse un petit papier…
Entre le vrai” testament et ce livre il n’y aura pas grande différence. Dans un testament on indique comment il faut partager ce qu’on laisse. Dans mon testament il y a aussi ce que la Vie m’a provoqué à penser, ce que j’ai eu envie de dire à certains moments.
En vieillissant, peu à peu, on prend conscience d’un devoir.
D’abord on résiste, parce que cela semble présomptueux… et puis revient avec insistance, au-dedans de soi, une voix qui dit:
Avant de nous quitter, dis-nous ce que tu sais.
Si aujourd’hui je ne me soumettais pas à cet appel, j’aurais le sentiment d’enterrer le talent d’une existence. Non pas les mérites de ma personne, bien sûr, mais ce que les circonstances de la Vie dans laquelle j’ai été trimballé m’ont fait comprendre, souvent après bien des résistances.  Toutes les difficultés, les doutes et les renoncements expérimentés par un écrivain ne s’expliquent pas, comme on le croit trop souvent depuis Stéphane Mallarmé, en termes de stérilité ou d’angoisse devant la page blanche. Ce sont là métaphores de poète à ne pas prendre au sens littéral: elles ne rendent pas compte de la réalité infiniment plus complexe du processus de création littéraire. Dans la plupart des cas, si l’écrivain ne parvient pas à faire aboutir son projet – j’entends le grand écrivain -, ce n’est pas qu’il ne peut pas écrire, mais qu’il ne veut le faire qu’à certaines conditions qu’il s’est imposées. Il ne se dessèche pas d’impuissance, mais étouffe d’un trop-plein d’exigences. Cette émotion-ci est commune aux historiens, aux archéologues et aux personnes cultivées qui ont perdu la Passion au contact de l’érudition. Il s’agit d’une émotion à la fois plus exceptionnelle et plus personnelle, identique à celle que Johann Wolfgang von Goethe ressentit en arrivant en Italie après avoir écrit Werther: celle  d’y rencontrer sa propre origine et d’y saisir le sens de son Destin.
Ce n’était donc pas le Passé qui se rapprochait et qui, en se rapprochant, se mettait à ressembler au voyageur mais, à l’inverse, lui-même qui remontait le cours du temps et accédait à sa propre patrie; son Présent se chargeait de signes, et ceux-ci prenaient tout leur sens au contact du Passé. 
Si Vous demandez à deux jeunes gens pourquoi ils s’aiment, ils ne vont pas faire une liste des défauts ou des qualités, établir la moyenne, dire:
Il [elle] arrive à 51%, c’est pour cela que je l’aime…
Chacun s’écriera :
Je l’aime parce que je l’aime, et foutez-moi la paix !
Je l’aime comme il [elle] est.
La Politique est un acte d’Amour.
Il nous faut des contagieux.
Aucune valeur humaine ne peut grandir et se transmettre sans contagion. La contagion est une manière d’être, qui va de soi, comme celle des parents qui accompagnent l’enfant dans son éveil à la Vie. Le contagieux, c’est celui qui sait voir les horreurs du monde, et ses merveilles, qui ne peut pas supporter les horreurs et qui cherche les solutions pour qu’il y en ait moins. Celui-là peut être entendu parce qu’il a agi.
L’homme politique, techniquement compétent, peut bien intervenir pour l’accès à tous, la lutte contre la misère, l’action concertée contre le chômage, mais si, tout en parlant, il ne pense qu’à sa partie de golf du lendemain, il ne sera pas entendu.
Pour convaincre, les arguments sont nécessaires.
Mais les actes le sont davantage.
Qu’ils osent, les contagieux!
Qu’ils n’hésitent pas à utiliser les médias!
Leur action galvanisera l’opinion.
Et parce ce qu’on les aura écoutés, on leur redonnera la parole!
Ce sont eux qui somment d’agir les responsables et l’opinion publique, en les rendant plus clairvoyants et en leur imposant simultanément deux types d’action: l’action d’urgence – le secours immédiat: Tu as faim, voilà à manger. - et la planification, qui n’est plus aujourd’hui à l’échelle du pays, mais à celle du monde.
S’il est vrai que l’on veut étendre la Liberté absolue à tous les domaines, ce qui pourrait donner l’illusion que les Libertés continuent leur expansion sur tous les fronts, il est tout aussi vrai que l’auto-censure, sous la forme de la political correctness, par exemple, fait paraître nos libres parleurs bien timides par rapport à Aristophane et à tous les citoyens grecs de la même époque.
Un passage du Mariage de Figaro de Beaumarchais, écrit il y a plus de deux siècles, nous donne une idée, par le biais de l’humour, de la réalité de cette nouvelle censure qui se présente sous le couvert de la Liberté:
On me dit que, pendant ma retraite économique, il s’est établi dans Madrid un système de liberté sur la vente des productions, qui s’étend même à celles de la presse; et que, pourvu que je ne parle en mes écrits ni de l’autorité, ni du culte, ni de la politique, ni de la morale, ni des gens en place, ni des corps en crédit, ni de l’opéra, ni des autres spectacles, ni de personne qui tienne à quelque chose, je puis tout imprimer librement, sous l’inspection de deux ou trois censeurs.
À la rectitude politique, s’ajoute, dans la plupart des médias, surtout parmi ceux dont la réussite financière dépend de quelques annonceurs, une auto-censure de survie qui devient vite une seconde nature. Il va de soi qu’il faut s’abstenir de donner une opinion éclairée sur le junk food dans une station de radio locale qui diffuse des annonces de telle chaîne alimentaire très connue. En s’accumulant, ces manquements véniels au devoir de vérité créent un climat tel que toute une région peut être au courant des injustices commises par un chef d’entreprise du lieu, alors même que les médias ont craint d’aborder le sujet.
Preuve que l’on peut dans un même Pays à la fois pousser trop loin la Liberté – quand elle est une occasion de profit ou de plaisir - et se montrer incapable de l’assumer, là où elle est un devoir.
Ne tenons jamais la Liberté d’expression pour acquise.
C’est le silence avilissant qu’il faut plutôt tenir pour acquis.
Comme nous le rappelle Fernand Dumont:
Les censeurs existent toujours, même s’ils ont changé de costume et si leur autorité se réclame d’autres justifications. Toutes les Sociétés, quels que soient leur forme et leur visage, mettent en scène des vérités et des idéaux et rejettent dans les coulisses ce qu’il est gênant d’éclairer. Toutes les sociétés pratiquent la censure; ce n’est pas parce que le temps de M. Duplessis est révolu que nous en voilà délivrés. Les clichés se sont renouvelés, mais il ne fait pas bon, pas plus aujourd’hui qu’autrefois, de s’attaquer à certains lieux communs. Il est des questions dont il n’est pas convenable de parler; il est des opinions qu’il est dangereux de contester. Là où il y a des privilèges, là aussi travaille la censure. Le blocage des institutions, le silence pudique sur les nouvelles formes de pauvreté et d’injustice s’expliquent sans doute par l’insuffisance des moyens mis en oeuvre, mais aussi par la dissimulation des intérêts. On n’atteint pas la lucidité sans effraction.
Il y a dans l’histoire de l’Homme un moment qui me bouleverse. C’est celui où les humains ont aligné leurs morts pour les enterrer. On n’a jamais vu les bêtes aligner les dépouilles des bêtes.
Les animaux se cachent pour mourir…
A partir du moment où les restes des défunts ne sont plus laissés là, mais soigneusement rangés, un nouvel âge commence: celui de l’Humanité. 
 
Daniela Zini


NUNC UT TUNC
I. L’INFLAZIONE CONDANNÒ L’IMPERO ROMANO
di Daniela Zini

NUNC UT TUNC
II. QUO USQUE  TANDEM  ABUTERE , CATILINA, PATIENTIA  NOSTRA?
di Daniela Zini

III. I GLADIATORI DAVANO LA VITA
PER UN PUBBLICO CHE NON PAGAVA
I sanguinosi spettacoli della Antica Roma affascinavano la folla degli Anfiteatri, che assisteva alla
orribile fine di migliaia di Gladiatori, addestrati a uccidere o a farsi uccidere, in questi duelli mortali.
“Quis custodiet ipsos custodes?”
Decimus Iunius Iuvenalis

di
Daniela Zini

A Roma non vi è più posto per un lavoro onesto,
non vi è compenso alle fatiche;
meno di ieri è ciò che oggi possiedi e a nulla
si ridurrà domani;
per questo ho deciso di andarmene
là dove Dedalo depose le sue ali stanche,
finché un accenno è la canizie,
aitante la prima vecchiaia
e a Lachesi resta ancora filo da torcere:
mi reggo bene sulle gambe
e senza appoggiarmi a un bastone:
giusto il tempo per lasciare la patria.
Artorio e Catulo ci vivano,
ci rimanga chi muta il nero in bianco,
chi si diverte ad appaltare case, fiumi e porti,
cloache da pulire, cadaveri da cremare
e vite da offrire all’incanto per diritto d’asta.
Un tempo suonavano il corno,
comparse fisse delle arene di provincia,
ciarlatani famosi di città in città;
ora offrono giochi
e quando la plebaglia abbassa il pollice
decretano la morte per ottenerne il favore;
poi, di ritorno, appaltano latrine.
E perché mai non altro?
Sono loro quelli che la fortuna,
quando è in vena di scherzi,
dal fango solleva ai massimi gradi.
Ma io a Roma che posso fare?
Non so mentire. Se un libro è mediocre
non ho la faccia di lodarlo o di citarlo;
non so nulla di astrologia;
non voglio e mi ripugna
pronosticare la morte di un padre;
non ho mai studiato le viscere di rana;
passare ad una sposa
bigliettini e profferte dell’amante
lo sanno fare altri,
e di un ladro mai sarò complice:
per questo nessuno mi vuole quando esco,
come se fossi un monco,
un essere inutile privo della destra.
Chi si apprezza oggi, se non un complice,
il cui animo in fiamme brucia di segreti,
che mai potrà svelare?
Niente crede di doverti e mai ti compenserà
chi ti fa parte di un segreto onesto;
ma a Verre sarà caro
chi sia in grado di accusarlo quando e come vuole.
Tutto l’oro che la sabbia del Tago ombroso
trascina in mare non vale il sonno perduto,
i regali che prendi e con stizza devi lasciare,
la diffidenza continua di un amico potente.
La gente che piú cerco di evitare,
quella amatissima dai nostri ricchi,
faccio presto a descriverla e senza riserve.
Una Roma ingrecata non posso soffrirla,
Quiriti; ma quanto vi sia di acheo in questa feccia
bisogna chiederselo. Ormai da tempo
l’Oronte di Siria sfocia nel Tevere
e con sé rovescia idiomi, costumi,
flautisti, arpe oblique, tamburelli esotici
e le sue ragazze costrette a battere nel circo.
Sotto voi! Se vi piace una puttana forestiera
con la mitra tutta a colori!
Decimo Giunio Giovenale, Satire, Libro I, III
 


Il più bel grido repubblicano che sia, mai, stato inteso durante i cinque secoli dell’Impero Romano è certamente quello che scagliò Giovenale contro “la turba degenere dei figli di Remo”. Risuona, ancora oggi, a distanza di duemila anni, contro tiranni e dittatori.
“Da quando i suffragi furono aboliti, quel Popolo che un tempo era lui a dare il potere, i fasci, le legioni, ogni cosa insomma, è ora decaduto e con ansiosa avidità non brama che due sole cose: pane e giochi.”
Panem et circenses chiedeva il Popolo al tempo dell’Impero, e i Cesari gareggiavano nell’aumentare la moltitudine di parassiti e di giochi.
Sorsero, uno dopo l’altro, Teatri sempre più grandi, Arene sempre più vaste.
Il Circo Massimo poteva accogliere fino a 385mila spettatori e viene descritto come una splendida, dorata città costruita nel cuore dell’Urbe; sotto le sue arcate si allineavano caffé, rosticcerie, pasticcerie, postriboli. Le corse dei cavalli, fastose e, talora, cruente, si svolgevano, per gran parte dell’anno, dall’alba al tramonto.
I tre principali Teatri – di Pompeo, di Balbo e di Marcello – potevano contenere complessivamente da 60 a 70mila spettatori; erano, dunque, di una ampiezza, oggi, neppure concepibile se si pensa che l’Opéra Garnier di Parigi ha 2.156 posti, il San Carlo di Napoli 2.900 e la Scala 3.600.
 

QUINTO: Un Popolo dovrebbe capire quando è sconfitto.
MASSIMO: Tu lo capiresti, Quinto? Io lo capirei? Forza e onore.
QUINTO: Forza e onore.
VALERIO: Forza e onore.
SOLDATO: Armate gli archi!
MASSIMO: Al mio segnale scatenate l’inferno!
QUINTO: Caricate le catapulte! Legionari, disporsi per l’avanzata! Arceri, pronti!




MASSIMO: Fratres!
SOLDATI: Massimo!
MASSIMO: A tre settimane da oggi io mieterò il mio raccolto. Immaginate dove vorrete essere, perché così sarà. Serrate i ranghi! Seguitemi! Se vi ritroverete soli a cavalcare su verdi praterie col sole sulla faccia, non preoccupatevi troppo perché sarete nei Campi Elisi e sarete, già, morti!
SOLDATI: Ah, ah, ah, ah!
MASSIMO: Fratelli, ciò che facciamo in vita riecheggia nell’eternità!
SOLDATI: Indietro! Tira indietro! Di più! Leve orizzontali! Leve pronte! Armare! Pronte! Armare!
SOLDATO: Catapulte pronte, comandante!
I SOLDATO: Arceri, accendere!
II SOLDATO: Accendere!
III SOLDATO: Accendere!
I SOLDATO: Arceri, armare!
II SOLDATO: Armare!
III SOLDATO: Armare!
I SOLDATO: Lanciare!
II SOLDATO: Lanciare!
III SOLDATO: Lanciare!
SOLDATO: State pronti, uomini!
MASSIMO: Serrate i ranghi!
I SOLDATO: Lanciare!
II SOLDATO: Accendere!
III SOLDATO: Armare!
MASSIMO: Serrate i ranghi!
I SOLDATO: Lanciare!
II SOLDATO: Lanciare!
MASSIMO: Seguitemi! Seguitemi! Roma vittoriosa! Roma vittoriosa! Avanti! Roma ha vinto!
 


MARCO AURELIO: Hai dimostrato il tuo valore ancora una volta, Massimo. Speriamo che sia l’ultima.
MASSIMO: Non c’è più nessuno da combattere, Cesare.
MARCO AURELIO: Ah! C’e’ sempre qualcuno da combattere. Come posso ricompensare il più grande condottiero di Roma?
MASSIMO: Lasciami tornare a casa!
MARCO AURELIO: Ah! A casa.
MASSIMO: Ti rendono onore, Cesare.
MARCO AURELIO: È per te, Massimo. Onorano te.

All’epoca in cui Roma contava tra un milione e un milione e mezzo di abitanti, le famiglie assistite dallo Stato erano circa 150mila. Ma anche coloro che preferivano vivere con il proprio lavoro dovevano stare, spesso, con le braccia incrociate; 182 erano, infatti, i giorni festivi nel calendario romano imperiale e anche di più se teniamo presente che diverse altre giornate venivano, occasionalmente, dichiarate festive in seguito a una vittoria militare, a un prodigio, a una circostanza fortunata nella vita dell’Imperatore. E vi è da notare che non si pagava nulla per entrare nei circhi, nei teatri e nelle arene.
 
MASSIMO: Mi hai mandato a chiamare, Cesare? Cesare?
MARCO AURELIO: Dimmi di nuovo, Massimo, perchè siamo qui?
MASSIMO: Per la gloria dell’Impero, Cesare.
MARCO AURELIO: Ah! Sì. Ah! Sì, sì, mi ricordo. vedi quella mappa, Massimo? Quello è il mondo che ho creato io. Per venticinque anni ho conquistato, sparso sangue, espandendo l’Impero di Roma. Da quando sono divenuto Cesare ho conosciuto solo quattro anni senza guerra. Quattro anni di pace su venti. E per che cosa? Io ho portato la spada, niente di più.
MASSIMO: Cesare, la tua vita...
MARCO AURELIO: No, no, no, ti prego, non chiamarmi così. Vieni, ti prego. Siedi con me. E, adesso, parliamo, insieme, semplicemente, da uomini. Allora, Massimo, parla.
MASSIMO: Cinquemila dei miei uomini sono là, nel fango ghiacciato. Tremila di loro sono piagati e feriti, duemila non lasceranno mai questo posto. Non posso credere che abbiano combattuto e siano morti per niente.
MARCO AURELIO: E che cosa credi, Massimo?
MASSIMO: Hanno combattuto per te, e per Roma.
MARCO AURELIO: E che cos’è Roma, Massimo?
MASSIMO: Ho visto gran parte del resto del mondo. È brutale, crudele, oscuro. Roma è la luce.
MARCO AURELIO: Eppure non ci sei mai stato. Non hai visto cos’è diventata Roma. Non ti accorgi che io sto morendo, Massimo? Quando un uomo è vicino alla sua fine vuole credere che la sua vita abbia avuto un senso. Come pronuncerà il mio nome il mondo negli anni a venire? Sarò noto come il filosofo? Il guerriero? Il tiranno? Oppure sarò l’Imperatore che ha restituito a Roma il suo vero spirito? C’è stato un sogno, una volta, che era Roma. Si poteva soltanto sussurrarlo. Ogni cosa più forte di un sospiro l’avrebbe fatto svanire. Era così fragile... Io temo che non sopravviverà all’inverno. Massimo, sussurriamolo così, adesso, insieme tu e io. Tu hai un figlio. Parlami della tua casa.
MASSIMO: La mia casa è sulle colline di Trujillo. Un posto molto semplice. Pietre rosa che si scaldano al sole, e... un orto che profuma di erbe il giorno, e di gelsomino la notte. Oltre il cancello c’è un gigantesco pioppo. Fichi, meli, peri... Il terreno, Marco, è nero. Nero come i capelli di mia moglie.
MARCO AURELIO: Eh, eh, eh!
MASSIMO: Vigne sui declivi a sud, olivi su quelli a nord, cavallini giocano con mio figlio, che vuol essere uno di loro.

Sappiamo tutti quello che accade a chi mangi, ogni giorno caviale e beva champagne: sono buonissime cose, ma, infine, non se ne può più, si finisce con il desiderare cibi, forse, più volgari, purché diversi. Lo stesso accadde per la viziata plebe romana: chiese ai Cesari sempre nuove e più violente emozioni nei pubblici spettacoli. Sorsero, così, o meglio si diffusero con incredibile passione i combattimenti tra i Gladiatori.
La loro origine si perde lontano.
Già gli Etruschi, offrendo sacrifici agli dei, imponevano pubblicamente a due uomini di uccidere o di farsi uccidere. Se dobbiamo fidarci dell’autorità di Valerio Massimo, a Roma, i combattimenti tra Gladiatori vennero introdotti da Marco e Decimo Bruto, nell’anno 264 a.C., in occasione dei funerali del loro padre. Si tennero al Foro Boario, dove sei Gladiatori vennero opposti a coppie. 

 
MARCO AURELIO: Da quanto tempo manchi dalla tua casa?
MASSIMO: Due anni, 264 giorni e questa mattina.
MARCO AURELIO: Ah! Come ti invidio, Massimo. È una bella casa. Vale la pena combattere per essa. C’è un ultimo dovere che ti chiedo di compiere prima di tornare alla tua casa.
MASSIMO: Che cosa vuoi che faccia, Cesare?
MARCO AURELIO: Voglio che tu divenga il protettore di Roma dopo la mia morte. Te ne darò l’autorità, per un unico scopo: restituire il potere al Popolo di Roma, e porre fine alla corruzione che la rende abietta. Accetterai questo grande onore che ti sto offrendo?
MASSIMO: Con tutto il mio cuore, no.
MARCO AURELIO: Massimo! È per questo che devi essere tu!
MASSIMO: Sicuramente un prefetto, un senatore, qualcuno che conosca la città, che capisca la sua politica...
MARCO AURELIO: Ma tu non sei stato corrotto dalla sua politica.
MASSIMO: E Commodo?
MARCO AURELIO: Commodo è un uomo senza moralità! Questo lo sai sin da quando eri ragazzo. Commodo non può governare. Non deve assolutamente governare. Tu sei il figlio che avrei dovuto avere. Commodo accetterà la mia decisione. Sa bene che l’esercito è leale soltanto a te, Massimo.
MASSIMO: Ho bisogno di un po’ di tempo.
MARCO AURELIO: Certo. Al tramonto spero che avrai acconsentito. Ora abbracciami come un figlio, e porta a questo povero vecchio un’altra coperta.

 Tito Flaminio, novanta anni dopo, celebrò le esequie al padre con tre giorni di combattimenti e uno spargimento di sangue più copioso: 74 furono, infatti, i Gladiatori che si affrontarono nell’Arena. Oltre un secolo dopo, sulle soglie dell’Impero, la carneficina divenne ancora più consistente: Giulio Cesare, sebbene limitato da alcune disposizioni del Senato, poté offrire ai Romani lo spettacolo di 600 Gladiatori che si uccidevano tra loro. 
Negli anni e nei secoli successivi, cadde ogni limite, i massacri divennero, via via, più numerosi; molte e ingegnose novità resero più sottili e crudeli gli omicidi pubblici. Per questo genere di spettacolo furono costruiti edifici appositi: gli Anfiteatri. Il maggiore di Roma fu il Colosseo, che poteva contenere fino a 87mila spettatori. Ma può dirsi che non vi fosse cittadina di qualche importanza, dalla Spagna alla Siria, che non avesse il suo Anfiteatro e, di conseguenza, non organizzasse diversi combattimenti di Gladiatori durante l’anno.
 
MARCO AURELIO: Se solo tu fossi nata uomo! Che grande Cesare saresti stata!
LUCILLA: Padre.
MARCO AURELIO: Saresti stata forte. Mi domando: saresti stata anche giusta?
LUCILLA: Sarei stata come tu mi avresti insegnato.
MARCO AURELIO: Ah! Com’è andato il viaggio?
LUCILLA: Lungo, scomodo... Perchè mi hai voluta qui?
MARCO AURELIO: Ho bisogno del tuo aiuto, per tuo fratello.
LUCILLA: Ma certo!
MARCO AURELIO: Ti vuole bene, te ne ha sempre voluto, e... avrà bisogno di te, ora, più che mai. Basta con la politica. Fingiamo che tu sia una figlia amorosa e che io sua un buon padre.
LUCILLA: È una piacevole finzione, non credi?

Questi combattimenti tra uomini o tra uomini e animali, divennero, presto, lo spettacolo imperiale per eccellenza. A Roma erano organizzati esclusivamente dalla Casa Imperiale. I Gladiatori erano di proprietà dell’Imperatore e venivano allenati a sue spese nelle apposite scuole. Fuori di Roma, invece, il materiale umano era fornito da una categoria di impresari-allenatori chiamati lanisti. Questi ruffiani della morte si spostavano da un luogo all’altro con la loro famiglia Gladiatoria, consumavano i giorni a partecipare alle trattative con gli organizzatori locali dei combattimenti, a seppellire i morti, comperare reclute, addestrare gli uomini alle varie forme di lotta.


LUCILLA: Mio padre ti favorisce, ora.
MASSIMO: Augusta Lucilla.
LUCILLA: Non è sempre stato così.
MASSIMO: Molte cose cambiano.
LUCILLA: Molte cose, ma non tutte le cose. Massimo, fermati! Lasciati guardare in faccia. Sembri turbato.
MASSIMO: Ho perso molti uomini.
LUCILLA: Che cosa voleva mio padre da te?
MASSIMO: Augurarmi ogni bene per il mio ritorno a casa.
LUCILLA: Tu menti. Ho, sempre, capito quando mentivi perché non sei mai stato abile nel farlo.
MASSIMO: Eppure non mi hai mai consolato.
LUCILLA: È vero, ma del resto non ne avevi bisogno. La vita è molto più semplice per un soldato. O credi che non abbia cuore?
MASSIMO: Credo che tu abbia il talento per sopravvivere.
LUCILLA: Eh, eh, eh, eh! Massimo, smettila. È davvero tanto penoso rivedermi?
MASSIMO: No, sono stanco per la battaglia.
LUCILLA: Soffri nel vedere mio padre così debole. Commodo si aspetta che mio padre annunci la sua successione a giorni. Servirai mio fratello come hai servito mio padre?
MASSIMO: Io servirò, sempre, Roma.
LUCILLA: Sai che ti ricordo ancora nelle mie preghiere? Ah, sì, io prego.
MASSIMO: Mi ha rattristato la morte di tuo marito. Ho pianto per lui.
LUCILLA: Grazie.
MASSIMO: E ho saputo che hai un figlio.
LUCILLA: Si, Lucio. Tra poco avrà otto anni.
MASSIMO: Anche mio figlio ha quasi otto anni. Ti ringrazio per le tue preghiere.

In genere, i Gladiatori erano nutriti bene e abbondantemente. Potevano darsi a facili amori e dopo una vittoria sensazionale o un duello emozionante ricevevano anche ricompense notevoli. Tuttavia, l’idea della morte incombente eccitava molti a gesti estremi.
Nella scuola dei Gladiatori scoperta a Pompei sono stati trovati 63 cadaveri in celle chiuse dal di fuori; erano per lo più legati con catene di ferro.
E accenniamo appena alla rivolta di Spartaco. Quel Gladiatore evase insieme a 70 compagni dalla scuola di Lentulo, a Capua. Si formò, in breve, un esercito di Gladiatori, schiavi e scontenti, e, per ben tre anni, diede scacco alle formidabili legioni di Roma. Era la disperazione a sostenere quelle bande di ribelli nelle grandi e, spesso, vittoriose battaglie che ebbero a sostenere, quella stessa disperazione che obbligava i lanisti a prendere continue e minuziose precauzioni per impedire ai Gladiatori di darsi la morte con le proprie mani, anziché doverla aspettare, giorno per giorno, davanti a un pubblico crudele.



Ma se la sorte dei Gladiatori era effettivamente orribile, dove i Cesari e i lanisti trovavano carne umana da mandare al macello?
La fonte principale era costituita dai mercati di schiavi; là i giovani più robusti, muscolosi e di belle fattezze venivano palpati e comperati dai mediatori. Un’altra fonte parimenti abbondante trovavano gli Imperatori tra le schiere dei prigionieri di guerra. Vi erano, poi, i criminali; dapprima, solo le persone colpevoli di gravissimi delitti venivano destinate alle arene, ma, in seguito, data la richiesta sempre più forte, anche individui colpevoli di reati minori furono avviati verso la stessa sorte. Restavano, inoltre, i disperati, cittadini ridotti a mal partito, giovani dissipatori, membri di famiglie rovinate, che andavano ad arruolarsi, per un certo numero di anni, presso una scuola di lanisti nella speranza di sopravvivere e di guadagnare molto danaro. Nell’ultima categoria dobbiamo anche includere coloro che erano affascinati dall’idea di dare la morte davanti a una moltitudine plaudente e inebriata.

MARCO AURELIO: Sei pronto a fare il tuo dovere per Roma?
COMMODO: Sì, padre.
MARCO AURELIO: Tu non diventerai Imperatore.
COMMODO: Quale uomo più anziano e più saggio prenderà il mio posto?
MARCO AURELIO: I miei poteri passeranno a Massimo, al quale saranno affidati, finché il Senato sarà pronto a governare, ancora una volta. Roma deve tornare a essere una Repubblica.
COMMODO: Massimo?
MARCO AURELIO: Sì. La mia decisione ti delude?
COMMODO: Una volta mi scrivesti considerando quattro delle principali virtù: saggezza, giustizia, fermezza e temperanza. Leggendo quello scritto capivo di non possederle. Ma ho altre virtù, padre. Ambizione. Questa può essere una virtù quando ci conduce a eccellere. Intraprendenza. Coraggio. Forse non sul campo di battaglia, ma... ci sono molte forme di coraggio. Devozione. Alla mia famiglia, e a te. Ma nessuna delle mie virtù era sul tuo scritto. Anche, allora, era come se non mi volessi come figlio.
MARCO AURELIO: Oh, Commodo, stai esagerando.
COMMODO: Vado scrutando i volti degli Dei, cercando il modo di compiacerti, affinché tu sia fiero di me. Una parola gentile, o se almeno una volta mi avessi abbracciato o tenuto stretto al tuo petto, per me... sarebbe stato come il sole nel cuore per mille anni. Cosa odi in me a tal punto?
MARCO AURELIO: No, Commodo...
COMMODO: Non volevo altro che... che essere degno di te, Cesare. Padre.
MARCO AURELIO: Commodo, le tue mancanze come figlio sono il mio fallimento come padre. Figlio mio.
COMMODO: Padre! Massacrerei il mondo intero se solo tu mi amassi!

 

Talvolta, persone di rango elevato erano prese dalla passione del gladio, e scendevano nell’Arena per uccidere o farsi uccidere. Si ha notizia, perfino, di un Imperatore, Commodo, che volle anche lui essere della partita. Fino all’anno 200 d.C., fu tutt’altro che raro anche lo spettacolo di donne, di grandi dame della aristocrazia romana, che, acconciate al pari di Dee, scendevano a misurarsi nel Colosseo, con gli occhi sfavillanti e un sorriso sulle labbra, correvano l’una contro l’altra a darsi la morte. 


COMMODO: Alzati. Alzati. La tua fama è ben meritata, Ispanico. Non credo che ci sia mai stato un Gladiatore come te, e quanto a questo giovane, insiste nel dire che sei Ettore redivivo. Oppure era Ercole? Ma perché l’eroe non si rivela e non ci dice il suo vero nome? Perché tu hai un nome?
MASSIMO: Mi chiamano Gladiatore!

Per comprendere più da presso i contrastanti stati d’animo dei Gladiatori, entriamo in una delle loro caserme romane. È sera. In una luce resa corrusca dalle fiaccole si vedono riuniti, a grandi tavolate, i combattenti destinati allo spettacolo del giorno dopo. Si tratta di un pranzo succulento, chiamato cena libera e i cittadini sono ammessi ad assistere a questa specie di avanspettacolo. Di regola, una folla di curiosi gira intorno ai tavoli, spia con occhi avidi le espressioni dei commensali, fa commenti ad alta voce in modo da incoraggiare o demoralizzare i Gladiatori, a seconda delle scommesse che si propone di fare l’indomani. I cibi risultano eccellenti, il vino scorre in abbondanza, ma non vi è lietezza. Alcuni, perché abbrutiti o fatalisti o per golosità, badano solo a ingozzarsi; altri, invece, allo scopo di mantenersi agili e pronti nei riflessi, mangiano quel tanto che basti. Altri, infine, non toccano cibo; sentono aleggiare intorno la nera morte, stanno avviliti, piangono, si lamentano. La mattina dopo, i Gladiatori sono condotti in vettura fino al Colosseo, indossano la clamide, una sopravveste corta e senza maniche, rossa e bordata d’oro. Fanno il giro dell’Arena in ordine militare, seguiti da valletti che portano le armi. Arrivati davanti alla tribuna imperiale, alzano il braccio destro in segno di saluto e pronunciano la famosa lugubre frase:
“Ave, Caesar, morituri te salutant.”
I programmi degli spettacoli non sono quasi mai eguali. Gli organizzatori si ingegnano di variarli con nuove trovate, con sorprese, con espedienti degni di figurare in un giardino cinese dei supplizi. Di solito vengono opposti combattenti di tipo diverso. Per esempio, un sannita, armato di scudo e spada, è messo a confronto con un barbaro armato di due scimitarre; i reziari combattono con una rete da pesca e un tridente; i mirmilloni sono armati al modo gallico, con elmo, spada e scudo; i traci hanno come arma principale un lungo pugnale.
Si organizzavano, poi, le sportulae, ideate dall’Imperatore Claudio. A un segnale convenuto, centinaia di Gladiatori scendevano nell’Arena e là si massacravano fino all’ultimo in una furiosa mischia.
Per onorare Tridate, re dell’Armenia, Nerone introdusse i combattimenti tra neri. Domiziano, a sua volta, organizzò combattimenti di donne contro nani, ottenendo un grande successo di ilarità.

COMMODO: Come osi voltare le spalle a me? Schiavo! Ti toglierai l’elmo e mi dirai il tuo nome
MASSIMO: Mi chiamo Massimo Decimo Meridio. Comandante dell’Esercito del Nord. Generale delle Legioni Felix. Servo leale dell’unico vero Imperatore Marco Aurelio. Padre di un figlio assassinato. Marito di una moglie uccisa. E avrò la mia vendetta, in questa vita o nell’altra.

I Gladiatori restii erano fatti entrare nell’Arena a suon di nerbate oppure vi venivano spinti con un ferro rovente. Suonavano, infine, le trombette, i flauti e i corni dell’organo idraulico; i due combattenti si mettevano di fronte, un immenso urlo di gioia si levava dalla moltitudine degli spettatori. Accanto ai duellanti stava un arbitro, la cui principale funzione consisteva nel comandare ai lorarii di eccitare l’ardore omicida dei combattenti. All’inizio, i lorarii si limitavano a riscaldare i Gladiatori con parole di incitamento:
“Colpisci [verbera]”;
“Sgozzalo [iugula]”;
“Inceneriscilo [ure]”.
Se le parole non bastavano, i duellanti erano fustigati a sangue.   
Tutte le volte che uno di loro era ferito, un urlo si alzava tra la folla; di rabbia, da parte di coloro che avevano scommesso sul ferito, di gioia tra gli altri che avevano puntato contro di lui. Pieni di allegrezza, i fortunati gridavano:
“Habet, habet [le ha prese, le ha prese].”;
e, quando il ferito iniziava a cedere, nuove grida si levavano:
“Hoc habet, hoc habet.”
Quando, infine, il ferito crollava al suolo, morto o moribondo, un vero boato esplodeva nell’Anfiteatro. Entravano di corsa inservienti travestiti da Caronte o da Ermete, a colpi di mazza sulla fronte accertavano che il Gladiatore fosse morto, chiamavano i libitinarii perché trascinassero via il cadavere con i rastrelli rivoltavano la sabbia insanguinata.
E iniziava un altro duello.
In casi eccezionali, se un Gladiatore si era distinto in maniera straordinaria, gli veniva consegnata una sciabola di legno, o rudis. Era quello il segno che il vincitore aveva riscattato la sua libertà, cessando di essere un Gladiatore. Qualche volta uno dei combattenti, giunto allo stremo delle forze oppure ferito più volte, ma non gravemente, si stendeva per terra e alzava la mano sinistra; in quel modo, si dichiarava vinto e chiedeva pietà all’Imperatore. Se gli spettatori erano persuasi che il vinto si fosse difeso valorosamente, agitavano delle pezzuole oppure alzavano un dito e gridavano:
“Mitte [mandalo via].”
Per quanto libero nella sua decisione, l’Imperatore di solito si conformava al desiderio popolare: alzava il dito pollice e il vinto aveva salva la vita. Nel caso, invece, in cui il Gladiatore soccombente fosse inviso alla folla, oppure non avesse dato grandi prove di valore, il grido che echeggiava nel Colosseo era:
“Iugula”.
L’Imperatore volgeva il pollice verso il basso, pollice verso, e il vincitore sgozzava, tranquillamente, lo sfortunato avversario.
Il Gladiatore vittorioso riceveva piatti di argento con monete d’oro da parte degli organizzatori e degli ammiratori. Qualche spettatrice si toglieva dal petto e dagli orecchi un monile prezioso e glielo gettava. Da ultimo, con le mani cariche di doni, percorreva di corsa l’Arena tra lo scrosciare degli applausi. 

QUINTO: Armatevi!
FOLLA: No! Fateli vivere! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia! Grazia!
QUINTO: Abbassate le armi!
GLADIATORI: Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo!Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo!

Alcuni Gladiatori divenivano i beniamini di Roma, in modo particolare delle donne: decus puellarum, suspirium puellarum, vengono definiti dai poeti. Ma non erano solo le ragazze a sospirare dietro i Gladiatori più famosi; matrone del più alto lignaggio perdevano volentieri la testa per loro e li coprivano di oro e gemme – come lo attestano i licenziosi graffiti di Pompei –. I ritratti dei Gladiatori più popolari oppure le loro gesta erano dipinti sui vasi, sulle lampade o ritagliati nei cammei. Non dobbiamo sorprenderci, pertanto, che giovani liberi e di buona famiglia andassero ad arruolarsi nelle loro fila. Sappiamo di un certo Flamma che trascorse, praticamente, tutti gli anni della giovinezza nelle arene: per ben quattro volte, lasciò spirare il periodo di ingaggio e per altrettante volte tornò ad arruolarsi.   

LUCILLA: Le ricche matrone pagano bene per passare la notte coi loro campioni preferiti.
MASSIMO: Sapevo che tuo fratello avrebbe mandato dei sicari, non credevo che avrebbe inviato il migliore!
LUCILLA: Massimo, lui non sa che sono qui.
MASSIMO: Mia moglie e mio figlio sono stati bruciati e crocifissi da vivi!
LUCILLA: Non sapevo niente.
MASSIMO: Non mentirmi!
LUCILLA: Io ho pianto per loro.
MASSIMO: Come hai pianto per tuo padre? Come hai pianto per tuo padre?
LUCILLA: Ho vissuto in una prigione di paura da quel giorno. Non poter piangere tuo padre per timore di tuo fratello. Vivere nel terrore ogni momento di ogni giorno perché tuo figlio è l’erede al trono. Oh! Se ho pianto.
MASSIMO: Mio figlio era innocente!
LUCILLA: Come lo è il mio! Dovrà morire anche mio figlio perché tu possa fidarti di me?
MASSIMO: Che cosa ti importa se mi fido di te o no?
LUCILLA: Gli Dei ti hanno risparmiato, non lo capisci? Oggi ho visto uno schiavo diventare più potente dell’Imperatore di Roma!
MASSIMO: Gli Dei mi hanno risparmiato? Io sono alla loro mercé. Il mio unico potere è di divertire il Popolo!
LUCILLA: Quello è il potere! Il Popolo è Roma! E finché Commodo lo controlla, controlla ogni cosa. Ascoltami, mio fratello ha dei nemici, in primo luogo nel Senato. Ma, poiché il Popolo lo segue, nessuno ha osato levarsi contro di lui prima di te.
MASSIMO: Gli si oppongono senza fare niente!
LUCILLA: Ci sono politici che hanno dedicato la loro vita a Roma. Un uomo più di tutti. Se riesco a convincerlo, tu lo incontrerai?

Quello di Flamma fu, tuttavia, un caso piuttosto raro. In genere, per i Gladiatori il giorno delle nozze con la morte arrivava sempre. Per quanto fossero abili, astuti e forti, trovavano, sempre, chi li superasse nel giro di qualche anno. E, poi, non vi era alcuna possibilità di scampo per nessuno se agli organizzatori veniva in mente di esibire un combattimento sine missione: erano, questi, i combattimenti dove nessuno poteva essere mandato via o missus. Si iniziava con un duello; il sopravvissuto si misurava con un terzo duellante; chi vinceva con un quarto; e così via, fino a quando non fossero stati uccisi tutti i Gladiatori destinati a quello spettacolo.


MASSIMO: Non riesci a capire? Potrei morire qui stanotte o nell’Arena domani mattina! Io sono uno schiavo! Che cosa credi che possa mai fare?
LUCILLA: Quest’uomo vuole quello che vuoi tu.
MASSIMO: Allora che uccida lui Commodo!
LUCILLA: Conoscevo un uomo una volta. Un uomo nobile. Un uomo di saldi princìpi, che amava mio padre e che mio padre amava. Quell’uomo servì bene Roma.
MASSIMO: Quell’uomo non c’è più. Tuo fratello ha fatto bene il suo dovere.
LUCILLA: Lasciati aiutare da me.
MASSIMO: Sì, tu puoi aiutarmi. Dimentica di avermi conosciuto. E non tornare mai più qui. Guardia! Questa donna ha finito con me.

È impossibile fissare, sia pure approssimativamente, il numero dei Gladiatori che, ogni anno, venivano uccisi negli Anfiteatri dell’Impero Romano. Possediamo solo qualche punto di riferimento per intuire l’entità della quotidiana ecatombe. Prendiamo, a esempio, il regno di Traiano. Riferisce Dione Cassio che, nell’anno 107, l’Imperatore gratificò la plebe romana con duelli combattuti tra 10mila Gladiatori. In tre giorni, nel 113, sempre lo stesso Traiano consumò 2.404 Gladiatori in quelle mischie collettive e senza scampo dette sportulae. Nel 109, Traiano tenne aperto il Colosseo[1], dal 7 luglio al primo novembre, senza un giorno di sosta, e i Gladiatori fatti scendere nell’Arena furono 9.824.

MASSIMO: Cicero, amico mio. Credevo di non rivederti mai più.
CICERO: E io che fossi morto.
MASSIMO: Quasi! Da quanto tempo gli uomini stanno a Ostia?
CICERO: Tutto l’inverno.
MASSIMO: E come sono?
CICERO: Grassi, e molto annoiati.
MASSIMO: Chi li comanda?
CICERO: Un incapace di Roma.
MASSIMO: Quando potrebbero essere pronti a combattere?
CICERO: Per te, domani.
MASSIMO: Bisogna che tu mi faccia un favore.
CICERO: Tutto.


LUCILLA: Mio fratello ha fatto arrestare Gracco. Non possiamo aspettare ancora. Dobbiamo agire subito. Proximo verrà a mezzanotte e ti condurrà alla porta. Il tuo servo Cicero sarà là ad attenderti coi cavalli.
MASSIMO: Hai organizzato tutto tu?
LUCILLA: Sì.
MASSIMO: Stai rischiando troppo.
LUCILLA: Ho troppo da farmi perdonare.
MASSIMO: Tu non hai niente da farti perdonare. Ami tuo figlio. Sei forte per lui.
LUCILLA: Sono così stanca di essere forte. Mio fratello odia il mondo intero, e te più di tutti.
MASSIMO: Perché tuo padre aveva scelto me.
LUCILLA: No. Perché mio padre ti amava. E perché io ti amavo.
MASSIMO: Tanto tempo fa.
LUCILLA: Ero molto diversa allora?
MASSIMO: Ridevi di più.
LUCILLA: Mi sono sentita sola tutta la vita, tranne che con te. Devo andare.
MASSIMO: Sì.


COMMODO: Dove sei stata? Ti ho fatta cercare.
LUCILLA: Eccomi, fratello. Cosa ti tormenta?
COMMODO: Gracco ha una nuova amante?
LUCILLA: Non lo so.
COMMODO: Credevo l’avessi incontrato. Infetta chiunque come una putrida febbre. Per la salute di Roma il Senato deve essere purgato, e anche lui sarà purgato, molto presto.
LUCILLA: Ma non stanotte.
COMMODO: Ricordi cosa disse nostro padre una volta? È un sogno, un sogno spaventoso... la vita. Tu credi che sia vero?
LUCILLA: Io non lo so.
COMMODO: Io credo di sì. E ho solo te con la quale dividerla. Apri la bocca. Lo sai che ti amo.
LUCILLA: E io amo te.

Tuttavia, i combattimenti tra Gladiatori non potevano riempire da soli tutte le ore destinate allo spettacolo. Presto sorse la esigenza di offrire agli spettatori qualcosa di diverso e, così, vennero concepite le venationes o cacce: in pratica, duelli tra uomini e animali. Piacquero moltissimo. Alcune volte erano gli uomini a lottare contro gli animali; altre volte, invece, gli animali venivano aizzati l’uno contro l’altro. A titolo di esempio, diamo qui l’elenco degli animali che furono uccisi per celebrare i mille anni della fondazione di Roma: 32 elefanti, 10 alci, 10 tigri, 60 leoni, 30 leopardi, 10 iene, 10 giraffe, 20 asini selvatici, 40 cavalli selvatici, 10 zebre, 6 ippopotami.  
Infine, quanti uomini e donne, quanti vecchi e quante giovani furono dati in pasto alle belve, non sappiamo. Moltissimi, certamente. Fu Cesare Augusto a inventare questo nuovo genere di divertimento, che si generalizzò. Per punire il bandito Siluro, quell’Imperatore fece drizzare un palo nel Colosseo, cui venne legato il colpevole. Poi pantere e leopardi affamati lo dilaniarono. Sul principio, questo supplizio venne riservato solo ad alcune categorie di criminali; la condanna si chiamava ad bestias. In seguito, piacendo sempre più alla plebe, si rese necessario aumentare le categorie condannabili. Divenne, così, il supplizio riservato abitualmente ai cristiani. 

PUBBLICO: Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo!Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo!
COMMODO: Massimo... Massimo... Massimo... Ti acclamano. Il generale che diventò uno schiavo. Lo schiavo che diventò un Gladiatore. Il Gladiatore che sfidò un Imperatore. Una storia che colpisce. E, adesso, il Popolo vuole sapere come va a finire. Soltanto una morte gloriosa li soddisferà. E cosa c’è di più glorioso che sfidare l’Imperatore in persona nella grande Arena?
MASSIMO: Tu combatteresti contro di me?
COMMODO: Perché no? Credi che io abbia paura?
MASSIMO: Credo che tu abbia avuto paura per tutta la vita.
COMMODO: A differenza di Massimo l’invincibile che non conosce paura?
MASSIMO: Conoscevo un uomo che una volta disse “la morte sorride a tutti. Un uomo non può fare altro che sorriderle di rimando”.
COMMODO: Mi chiedo se questo tuo amico ha sorriso alla sua morte.
MASSIMO: Dovresti saperlo. Era tuo padre.
COMMODO: Tu amavi mio padre, lo so. Ma lo amavo anch’io. Questo ci rende fratelli non è così? Sorridi per me adesso, fratello. Mettigli l’armatura. Nascondi la ferita.
PUBBLICO: Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo!
I PRETORIANO: Ad anello!
II PRETORIANO: Ad anello!
PUBBLICO: Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo! Massimo!
Massimo! Massimo!

Il mondo pagano si avviava decisamente verso la sua fine.
Mentre le moltitudini godevano alla vista di uomini e di donne addentati da tigri e leoni, i martiri splendevano in una luce quale mai si era vista l’eguale. L’eroismo della vergine Blandina nell’Anfiteatro di Lione, di Perpetua e di Felicita nell’Arena di Cartagine, e di coorti di santi e di martiri nel Colosseo di Roma stava a testimoniare la nascita di un nuovo mondo.
Ora vi è da chiedersi: come mai un Popolo così civile e assennato come quello Romano non sentì un senso di ripugnanza, se non proprio di rivolta, contro il sacrificio di migliaia di vite umane?
La risposta dobbiamo cercarla negli scrittori Romani.
Che ne pensa, a esempio, un uomo della taglia di Cicerone?
Uditelo:
“Che cosa più di un combattimento tra Gladiatori può insegnarci il disprezzo del dolore e della morte? No, non vi è niente che parli un linguaggio più diretto agli spettatori.”
E, di rincalzo, Plinio il giovane:
“I combattimenti tra Gladiatori sono, soprattutto, propizi a infiammare il coraggio degli uomini mostrando che l’amore per la gloria e il desiderio di vincere possono albergare perfino nei petti degli schiavi e dei criminali.”



QUINTO: Massimo! Massimo!
MASSIMO: Quinto, libera i miei uomini. Il senatore Gracco deve tornare al suo posto. C’era un sogno che era Roma, sarà realizzato. Questo è il desiderio di Marco Aurelio.
QUINTO: Liberate i prigionieri! Andate!

La verità è che per noi, dopo la trasformazione delle coscienze, attuata dal Cristianesimo in duemila anni, è impossibile intendere la mentalità di allora. Vi è anche da dire che, per quanto orrendi, i massacri nelle arene dovevano certo esercitare una attrazione irresistibile.





Racconta Sant’Agostino, nelle Confessioni, che il suo amico Alipio fu trascinato una volta, contro sua volontà, nell’Anfiteatro. Ma, non appena nell’Arena entrarono i Gladiatori, allo scopo di quietare la sua coscienza, Alipio abbassò il capo e chiuse gli occhi. Quando un terribile urlo sorse dalla folla, impaurito, aprì gli occhi, vide il sangue e si perse. Rimase come un uccello incantato dal serpente a guardare gli uomini che si uccidevano tra loro. E, in seguito, più e più volte, si sentì trasportato da una forza invincibile a ritornare nell’Anfiteatro. 

LUCILLA: Massimo!
MASSIMO: Lucio è salvo?
LUCILLA: Va’ da loro, Massimo. Sei a casa.











LUCILLA: Roma vale la vita di un uomo giusto? Noi lo credevamo,una volta. Fa’ che possiamo crederlo ancora. Era un soldato di Roma! Onoratelo.
GRACCO: Chi mi aiuta a portarlo?



I combattimenti dei Gladiatori durarono fino all’anno 404. Narra la tradizione che, in quell’anno, Onorio aveva organizzato i soliti sanguinosi spettacoli per festeggiare la sua vittoria sui Goti, quando irruppe, nell’Arena, il monaco Telemaco per impedire che due Gladiatori si uccidessero. La folla si infuriò e lo linciò. Ma fu quello l’ultimo sacrificio umano consumato nel Colosseo. Con un suo Editto, l’Imperatore Onorio bandì per sempre i combattimenti tra Gladiatori in tutto l’Impero di Occidente. 

JUBA: Adesso siamo liberi. Io ti rincontrerò un giorno. Ma non ancora. Non ancora.


Daniela Zini
Copyright © 5 gennaio 2015 ADZ

Chi può dire se, quando le strade si incontreranno, questo Amore sarà nel tuo cuore?


[1] Il Colosseo veniva aperto al levare del sole e chiuso al tramonto; talora, era illuminato con fiaccole e torce, come avvenne sotto Domiziano, e i massacri continuavano fin nel cuore della notte.

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