“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

lunedì 19 gennaio 2015

SOCIETA' SEGRETE II. LA MAFIA 3. LA QUADRUPLICE INTESA STATO-MAFIA-VATICANO-MASSONERIA di Daniela Zini



MEMENTO MEMORIAE
DI PAOLO BORSELLINO

“Se la Gioventù le negherà il consenso, anche
 l’onnipotente mafia svanirà come un incubo.”
Paolo Borsellino [19 gennaio 1940 - 19 luglio 1992]


“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE

“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt

para Renato Scalia de la Fundación Caponnetto

“Un Hermano puede no ser un Amigo, pero un Amigo será siempre un Hermano.”
Demetrio

Yo creo que en la vida nada es casual.
Todo ocurre conforme debe ocurrir, según un destino o un Dios [es lo mismo] que solo a veces logramos entender.
Muchas gracias por tu generosa hospitalidad y por tu preciosa confianza.

D



 Con mucho disgusto
los de Nise considero.
Temo, y en razón lo fundo,
si en esto da, que ha de haber
un Don Quijote mujer
que dé que reír al mundo.
Lope de Vega, La dama boba, Acto Tercero


Desde que leí “Don Quijote de La Mancha”, me enamoré de él, de sus aventuras y de las historias que el gran Cervantes nos regaló con su gloriosa pluma. Debo confesar, que he vuelto recurrentemente a sus páginas en distintas épocas de mi vida y siempre encuentro un dato escondido e inmediatamente me pregunto:
“¿En qué estaba pensando mientras lo leía la última vez?”
Esa es la magia de Cervantes!
Algo que ha quedado grabado en mi mente y que jamás he podido olvidar, fueron las aventuras de los molinos de viento. El Quijote cree que los molinos son gigantes que amenazaban a los vecinos del pueblo y se enfrenta valerosamente a ellos, sin importar el número ni el tamaño, él inicio la batalla. Me conmueve el amor y el compromiso del Quijote con la sociedad Manchega.

“En esto, descubrieron treinta o cuarenta molinos de viento que hay en aquel campo, y así como don Quijote los vio, dijo a su escudero:
- La ventura va guiando nuestras cosas mejor de lo que acertáramos a desear; porque ves allí, amigo Sancho Panza, donde se descubren treinta o pocos más desaforados gigantes, con quien pienso hacer batalla y quitarles a todos las vidas, con cuyos despojos comenzaremos a enriquecer, que esta es buena guerra, y es gran servicio de Dios quitar tan mala simiente de sobre la faz de la tierra.
- ¿Qué gigantes? - dijo Sancho Panza.
- Aquellos que allí ves - respondió su amo -, de los brazos largos, que los suelen tener algunos de casi dos leguas.
- Mire vuestra merced - respondió Sancho - que aquellos que allí se parecen no son gigantes, sino molinos de viento, y lo que en ellos parecen brazos son las aspas, que, volteadas del viento, hacen andar la piedra del molino.
- Bien parece - respondió don Quijote - que no estás cursado en esto de las aventuras6: ellos son gigantes; y si tienes miedo quítate de ahí, y ponte en oración en el espacio que yo voy a entrar con ellos en fiera y desigual batalla.
Y, diciendo esto, dio de espuelas a su caballo Rocinante, sin atender a las voces que su escudero Sancho le daba, advirtiéndole que sin duda alguna eran molinos de viento, y no gigantes, aquellos que iba a acometer. Pero él iba tan puesto en que eran gigantes, que ni oía las voces de su escudero Sancho, ni echaba de ver, aunque estaba ya bien cerca, lo que eran, antes iba diciendo en voces altas:
- Non fuyades, cobardes y viles criaturas, que un solo caballero es el que os acomete.
Levantóse en esto un poco de viento, y las grandes aspas comenzaron a moverse, lo cual visto por don Quijote, dijo:
- Pues aunque mováis más brazos que los del gigante Briareo, me lo habéis de pagar.
Y en diciendo esto, y encomendándose de todo corazón a su señora Dulcinea, pidiéndole que en tal trance le socorriese, bien cubierto de su rodela, con la lanza en el ristre, arremetió a todo el galope de Rocinante y embistió con el primero molino que estaba delante; y dándole una lanzada en el aspa, la volvió el viento con tanta furia, que hizo la lanza pedazos, llevándose tras sí al caballo y al caballero, que fue rodando muy maltrecho por el campo. Acudió Sancho Panza a socorrerle, a todo el correr de su asno, y cuando llegó halló que no se podía menear: tal fue el golpe que dio con él Rocinante.
- ¡Válame Dios! - dijo Sancho -. ¿No le dije yo a vuestra merced que mirase bien lo que hacía, que no eran sino molinos de viento, y no lo podía ignorar sino quien llevase otros tales en la cabeza?
- Calla, amigo Sancho - respondió don Quijote -, que las cosas de la guerra más que otras están sujetas a continua mudanza; cuanto más, que yo pienso, y es así verdad, que aquel sabio Frestón que me robó el aposento y los libros ha vuelto estos gigantes en molinos, por quitarme la gloria de su vencimiento: tal es la enemistad que me tiene; mas al cabo al cabo han de poder poco sus malas artes contra la bondad de mi espada.
- Dios lo haga como puede - respondió Sancho Panza.”
Miguel de Cervantes Saavedra Don Quijote de la Mancha, Capítulo Octavo

Don Quijote formula una teoría de los valores para un mundo que renuncia a lo valioso por lo costoso, a lo profundo por lo superficial, a lo permanente por lo transitorio.
Enseña a vencer al hombre egoísta.
Su vida es quehacer altruista, tarea redentora que convierte cada fracaso en triunfo de la conciencia.
Escribe Cervantes:
“Si no acabó grandes cosas, murió por acometerlas.
Lo importante es el intento.
Para él las cosas no son simplemente, sino que valen.
Tiene una visión ética de la realidad, no lógica.
En un mundo opresor, masificador, impío e inmisericorde, la sola figura del Quijote es ya una protesta.
Fue escrito en una época de crisis, como la nuestra.
Al nacer Cervantes, España era el mundo.
Reinaba el emperador Carlos V, en cuyos dominios no se ponía el sol; cruzaban los ejércitos españoles todas las tierras de Europa, sus naves surcaban los mares persiguiendo al infiel o se aventuraban hacia el nuevo mundo. Pero al comenzar el siglo XVII, cuando Cervantes escribe el Quijote, la mediocridad cunde, la desilusión hace presa del alma de los españoles “que ya no quieren nada y ni siquiera quieren querer algo.
Don Quijote es trágico porque tiene el fuego de la juventud en un cuerpo decrépito y el ideal del ángel en envoltura humana.
El vencer la comodidad, la indiferencia, el egoísmo, la rutina, para atreverse a proclamar la justicia, reclamar su vigencia y obrar para restaurarla en la tierra. Aunque al final debamos decirnos como Don Quijote al ser derrotado por el Caballero de la Blanca Luna “atrevíme, en fin, hice lo que pude”, sin avergonzarnos por no haber triunfado.

“Atrevíme en fin, hice lo que puede, derribáronme, y, aunque perdí la honra, no perdí, ni puedo perder, la virtud de cumplir mi palabra. Cuando era caballero andante, atrevido y valiente, con mis obras y con mis manos acreditaba mis hechos; y agora, cuando soy escudero pedestre, acreditaré mis palabras cumpliendo la que di de mi promesa. Camina, pues, amigo Sancho, y vamos a tener en nuestra tierra el año del noviciado, con cuyo encerramiento cobraremos virtud nueva para volver al nunca de mí olvidado ejercicio de las armas.”

A quienes, como al Quijote, no nos gusta la vida que vivimos y nuestra obligación es hacer que la suya les guste a nuestros hijos, a nuestros nietos, a nuestros alumnos, necesitados de una razón vital que dé sentido a nuestros actos y una nueva manera de vivir el ideal que dé sentido a nuestras vidas.
El Quijote es el gran suspiro de la humanidad necesitada de ideales, de vivir y de morir por ellos en un mundo en que muchos hombres prefieren matar por lo que llaman sus ideales, cercenando libertades ajenas.
No soy un Don Quijote, porque mis molinos de viento son reales y algunos incluso los hemos abatido.
Internet es un sistema muy valioso, pero también está amenazado.
La próxima batalla es la lucha por la net neutrality.
Hay que evitar que eso ocurra.

 

“Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone

ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine, che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non riuscire a provare!”
Daniela Zini
             

     
Le temps et le compte
Daniela Zini

De moi-même le temps me demande compte;
Si je vais le rendre, le compte veut du temps :
Car qui a dépensé sans compter un tel temps,
Comment sans prendre temps rendrait-il un tel compte ?

Le temps, du temps ne veut pas tenir compte,
Parce que le compte ne se fit pas à temps ;
Car le temps recevrait en compte le temps
Si au compte du temps il y avait le compte.

Quel compte pourrait suffire à un tel temps ?
Quel temps pourrait suffire à tant de comptes ?
Qui vit sans compte est dépourvu de temps.

Je suis privée de temps et ne rends pas de compte,
Sachant que de mon temps il me faut rendre compte
Et que viendra pour moi le temps des comptes.



Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!




SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA 1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA 2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria . Parte Prima -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini



II. LA MAFIA

di
Daniela Zini

3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano-Massoneria
- Parte Seconda -


“Potrete ingannare tutti per un po’.  Potrete ingannare qualcuno
per sempre. Ma non potrete ingannare tutti per sempre.”
Abraham Lincoln
[Hodgenville, 12 febbraio 1809 - Washington, 15 aprile 1865]


Antonio Gramsci, in un celebre intervento alla Camera dei Deputati, il 16 maggio 1925, affermò che lo scontro tra regime fascista e Massoneria avveniva su un piano puramente spettacolare e che il disegno di legge contro le società segrete non aveva, in realtà, che altri scopi.

Antonio Gramsci: Il disegno di legge contro le società segrete è stato presentato alla Camera come un disegno di legge contro la Massoneria; esso è il primo atto reale del fascismo per affermare, quella che il partito fascista chiama la sua rivoluzione. Noi, come partito comunista, vogliamo ricercare non solo il perché della presentazione del disegno di legge contro le organizzazioni in generale, ma anche il significato del perché il partito fascista ha presentato questa legge rivolta prevalentemente contro la Massoneria.
Noi siamo tra i pochi che abbiano preso sul serio il fascismo, anche quando il fascismo sembrava fosse solamente una farsa sanguinosa, quando intorno al fascismo si ripetevano solo i luoghi comuni sulla “psicosi di guerra”, quando tutti i partiti cercavano di addormentare la popolazione lavoratrice presentando il fascismo come un fenomeno superficiale, di brevissima durata.
Nel novembre 1920 abbiamo previsto che il fascismo sarebbe andato al potere - cosa allora inconcepibile per i fascisti stessi - se la classe operaia non avesse fatto a tempo ad infrenare, con le armi, la sua avanzata sanguinosa.
Il fascismo, dunque, afferma oggi praticamente di voler “conquistare lo Stato”. Cosa significa questa espressione ormai diventata luogo comune? E che significato ha, in questo senso, la lotta contro la Massoneria?
Poiché noi pensiamo che questa fase della “conquista fascista” sia una delle più importanti attraversate dallo Stato italiano e per ciò che riguarda noi che sappiamo di rappresentare gli interessi della grande maggioranza del popolo italiano, gli operai e i contadini, così crediamo necessaria un’analisi, anche se affrettata, della quistione.
Che cos’è la Massoneria? Voi avete fatto molte parole sul significato spirituale, sulle correnti ideologiche che essa rappresenta, ecc.; ma tutte queste sono forme di espressione di cui voi vi servite solo per ingannarvi reciprocamente, sapendo di farlo.
La Massoneria, dato il modo con cui si è costituita l’Italia in unità, data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la Massoneria è stata l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo. Non bisogna dimenticare che poco meno che venti anni dopo l’entrata a Roma dei piemontesi, il Parlamento è stato sciolto e il corpo elettorale da circa 3 milioni di elettori è stato ridotto ad 800 mila.
Ê stata questa la confessione esplicita da parte della borghesia di essere un’infima minoranza della popolazione, se dopo venti anni di unità essa è stata costretta a ricorrere ai mezzi più estremi di dittatura per mantenersi al potere, per schiacciare i suoi nemici di classe, che erano i nemici dello Stato unitario.
Quali erano questi nemici? Era prevalentemente il Vaticano, erano i gesuiti, e bisogna ricordare all’onorevole Martire come, accanto ai gesuiti che vestono l’abito talare, esistono i gesuiti laici, i quali non hanno nessuna speciale montura che indichi il loro ordine religioso.
Nei primi anni dopo la fondazione del regno i gesuiti hanno dichiarato espressamente in tutta una serie di articoli pubblicati da Civiltà cattolica quale fosse il programma politico del Vaticano e delle classi che allora erano rappresentanti del Vaticano, cioè delle vecchie classi semifeudali, tendenzialmente borboniche nel meridione, o tendenzialmente austriacanti nel Lombardo-Veneto, forze sociali numerosissime che la borghesia capitalistica non è riuscita mai a contenere, quantunque nel periodo del Risorgimento essa rappresentasse un progresso, e un principio rivoluzionario. I gesuiti della Civiltà cattolica, e cioè il Vaticano, ponevano a scopo della loro politica come primo punto il sabotaggio dello Stato unitario, attraverso l’astensione parlamentare, l’infrenamento dello Stato liberale per tutte quelle sue attività che potevano corrompere e distruggere il vecchio ordine; come secondo punto, la creazione di un’armata di riserva rurale da porre contro l’avanzata del proletariato, poiché fin dal ‘71 i gesuiti prevedevano che sul terreno della democrazia liberale sarebbe nato il movimento proletario, che si sarebbe sviluppato un movimento rivoluzionario.
L’onorevole Martire ha oggi dichiarato che finalmente è stata raggiunta, alle spese della Massoneria, l’unità spirituale della nazione italiana.
Poiché la Massoneria in Italia ha rappresentato l’ideologia e l’organizzazione reale della classe borghese capitalistica, chi è contro la Massoneria è contro il liberalismo, è contro la tradizione politica della borghesia italiana. Le classi rurali che erano rappresentate nel passato dal Vaticano, sono rappresentate oggi prevalentemente dal fascismo; è logico pertanto che il fascismo abbia sostituito il Vaticano e i gesuiti nel compito storico, per cui le classi più arretrate della popolazione mettono sotto il loro controllo la classe che è stata progressiva nello sviluppo della civiltà; ecco il significato della raggiunta unità spirituale della nazione italiana, che sarebbe stato un fenomeno di progresso cinquanta anni fa; ed è oggi invece il fenomeno più grande di regressione... 
La borghesia industriale non è stata capace di infrenare il movimento operaio, non è stata capace di controllare né il movimento operaio, né quello rurale rivoluzionario. La prima istintiva e spontanea parola d’ordine del fascismo, dopo l’occupazione delle fabbriche, è stata perciò questa: “I rurali controlleranno la borghesia urbana, che non sa essere forte contro, gli operai.”
Se non m’inganno, allora, onorevole Mussolini, non era questa la vostra tesi, e tra il fascismo rurale e il fascismo urbano dicevate di preferire il fascismo urbano... [Interruzioni]

Benito Mussolini: Bisogna che la interrompa per ricordarle un mio articolo di alto elogio del fascismo rurale del 1921-22.

Antonio Gramsci: Ma questo non è un fenomeno puramente italiano, quantunque in Italia, per la più grande debolezza del capitalismo abbia avuto il massimo di sviluppo; è un fenomeno europeo e mondiale, di estrema importanza per comprendere la crisi generale del dopoguerra, sia nel dominio dell’attività pratica che nel dominio delle idee e della cultura. L’elezione di Hindenburg in Germania, la vittoria, dei conservatori in Inghilterra, con la liquidazione dei rispettivi partiti liberali democratici, sono il corrispettivo del movimento fascista italiano; le vecchie forze sociali, ma non assorbite completamente da esso, hanno preso il sopravvento nell’organizzazione degli Stati, portando nell’attività reazionaria tutto il fondo di ferocia e di spietata decisione che è stata sempre loro propria; ma in sostanza noi abbiamo un fenomeno di regressione storica che non è e non sarà senza risultanza per lo sviluppo della rivoluzione proletaria. Esaminata su questo terreno, l’attuale legge contro le associazioni sarà una forza o è invece destinata ad essere completamente irrita e vana? Corrisponderà essa alla realtà, potrà essere il mezzo per una stabilizzazione del regime capitalistico o sarà solo un nuovo perfezionato strumento dato alla polizia per arrestare Tizio, Caio e Sempronio?... Il problema pertanto è questo: la situazione del capitalismo in Italia si è rafforzata o si è indebolita dopo la guerra, col fascismo? Quali erano le debolezze della borghesia capitalistica italiana prima della guerra, debolezze che hanno portato alla creazione di quel determinato sistema politico massonico che esisteva in Italia, che ha avuto il suo massimo sviluppo nel giolittismo? Le debolezze massime della vita nazionale italiana erano in primo luogo la mancanza di materie prime, cioè, l’impossibilità della borghesia di creare in Italia una industria, che avesse una sua radice profonda nel paese e che potesse progressivamente svilupparsi, assorbendo la mano d’opera esuberante. In secondo luogo, la mancanza di colonie legate alla madre patria, quindi l’impossibilità per la borghesia di creare una aristocrazia operaia che permanentemente potesse essere alleata della borghesia stessa. Terzo: la quistione meridionale, cioè la quistione dei contadini, legata strettamente al problema dell’emigrazione, che è la prova della incapacità della borghesia italiana di mantenere... [Interruzioni]

Benito Mussolini: Anche i tedeschi sono emigrati a milioni.

Antonio Gramsci: Il significato dell’emigrazione in massa dei lavoratori è questo: il sistema capitalistico, che è il sistema predominante, non è in grado di dare il vitto, l’alloggio e î vestiti alla popolazione, e una parte non piccola di questa popolazione è costretta ad emigrare...

Edmondo Rossoni: Quindi la Nazione si deve espandere nell’interesse del proletariato.

Antonio Gramsci: Noi abbiamo una nostra concezione dell’imperialismo e del fenomeno coloniale, secondo la quale essi sono prima di tutto una esportazione di capitale finanziario. Finora l’“imperialismo” italiano è consistito solo in questo: che l’operaio italiano emigrato lavora per il profitto dei capitalisti degli altri paesi, cioè finora l’Italia è solo stata un mezzo dell’espansione del capitale finanziario non italiano. Voi vi sciacquate sempre la bocca con le affermazioni più puerili di una pretesa superiorità demografica dell’Italia sugli altri paesi; voi dite sempre, per esempio, che l’Italia demograficamente è superiore alla Francia. Ê una quistione questa che solo le statistiche possono risolvere perentoriamente, ed io qualche volta mi occupo di statistiche; ora una statistica pubblicata nel dopoguerra, mai smentita, e che non può essere smentita, afferma che l’Italia di prima della guerra dal punto di vista demografico si trovava già nella stessa situazione della Francia dopo la guerra; ciò è determinato dal fatto che l’emigrazione allontana dal territorio nazionale una tal massa di popolazione maschile, produttivamente attiva, che i rapporti demografici diventano catastrofici. Nel territorio nazionale rimangono vecchi, donne, bambini, invalidi, cioè la parte della popolazione passiva, che grava sulla popolazione lavoratrice in una misura superiore a qualsiasi altro paese, anche alla Francia.
È questa la debolezza fondamentale del sistema capitalistico italiano, per cui il capitalismo italiano è destinato a scomparire tanto più rapidamente quanto più il sistema capitalistico mondiale non funziona più per assorbire l’emigrazione italiana, per sfruttare il lavoro italiano, che il capitalismo nostrale è impotente a inquadrare.
I partiti borghesi, la Massoneria, come hanno cercato di risolvere questi problemi?
Conosciamo nella storia italiana degli ultimi tempi due piani politici della borghesia per risolvere la quistione del governo del popolo italiano. Abbiamo avuto la pratica giolittiana, il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè il tentativo di stabilire una alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia settentrionale per opprimere, per soggiogare a questa formazione borghese-proletaria la massa dei contadini italiani, specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto successo. Nell’Italia settentrionale si costituisce difatti una coalizione borghese proletaria attraverso la collaborazione parlamentare e la politica dei lavori pubblici alle cooperative; nell’Italia meridionale si corrompe il ceto dirigente e si domina la massa coi mazzieri... [Interruzioni del deputato Greco] Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento di questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l’aristocrazia operaia e i contadini poveri di tutta Italia.
Abbiamo avuto il programma che possiamo dire del Corriere della sera, giornale che rappresenta una forza non indifferente nella politica nazionale: 800.000 lettori sono anch’essi un partito.

Voci: Meno...

Benito Mussolini: La metà! E poi i lettori dei giornali non contano. Non hanno mai fatto una rivoluzione. I lettori dei giornali hanno regolarmente torto!

Antonio Gramsci: Il Corriere della sera non vuole fare la rivoluzione.

Roberto Farinacci: Neanche l’Unità!

Antonio Gramsci: Il Corriere della Sera ha sostenuto sistematicamente tutti gli uomini politici del Mezzogiorno, da Salandra ad Orlando, a Nitti, a Amendola; di fronte alla soluzione giolittiana, oppressiva non solo di classi, ma addirittura di interi territori, come il Mezzogiorno e le Isole, e perciò altrettanto pericolosa che l’attuale fascismo per la stessa unità materiale dello Stato italiano, il Corriere della sera ha sostenuto sempre un’alleanza tra gli industriali del Nord e una certa vaga democrazia rurale prevalentemente meridionale sul terreno del libero scambio. L’una e l’altra soluzione tendevano essenzialmente a dare allo Stato italiano una più larga base di quella originaria, tendevano a sviluppare le «conquiste» del Risorgimento.
Che cosa oppongono i fascisti a queste soluzioni? Essi oppongono oggi la legge cosiddetta contro la Massoneria; essi dicono di volere così conquistare lo Stato. In realtà il fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia avesse in Italia; per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo  Stato dà ai suoi funzionari. La “rivoluzione” fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale.

Benito Mussolini: Di una classe ad un’altra, come è avvenuto in Russia, come avviene normalmente in tutte le rivoluzioni, come noi faremo metodicamente! [Approvazioni]

Antonio Gramsci: È rivoluzione solo quella che si basa su una nuova classe. Il fascismo non si basa su nessuna classe che non fosse già al potere.

Benito Mussolini: Ma se gran parte dei capitalisti ci sono contro, ma se vi cito dei grandissimi capitalisti che ci votano contro, che sono all’opposizione: i Motta, i Conti...

Roberto Farinacci: E sussidiano i giornali sovversivi! [Commenti]

Benito Mussolini: L’alta banca non è fascista, voi lo sapete!

Antonio Gramsci: La realtà dunque è che la legge contro la Massoneria non è prevalentemente contro la Massoneria; coi massoni il fascismo arriverà facilmente ad un compromesso.

Benito Mussolini: I fascisti hanno bruciato le logge dei massoni prima di fare la legge! Quindi non c’è bisogno di accomodamenti.

Antonio Gramsci: Verso la Massoneria il fascismo applica, intensificandola, la stessa tattica che ha applicata a tutti i partiti borghesi non fascisti: in un primo tempo ha creato un nucleo fascista in questi partiti; in un secondo periodo ha cercato di esprimere dagli altri partiti le forze migliori che gli convenivano, non essendo riuscito ad ottenere il monopolio come si proponeva...

Roberto Farinacci: E ci chiamate sciocchi?

Antonio Gramsci: Non sareste sciocchi solo se foste capaci di risolvere i problemi della situazione italiana...

Benito Mussolini: Li risolveremo. Ne abbiamo già risolti parecchi.

Antonio Gramsci: Il fascismo non è riuscito completamente ad attuare l’assorbimento di tutti i partiti nella sua organizzazione. Con la Massoneria ha impiegato la tattica politica del noyautage, poi il sistema terroristico dell’incendio delle logge, e infine impiega oggi l’azione legislativa, per cui determinate personalità dell’alta banca e dell’alta burocrazia finiranno per l’accordarsi ai dominatori per non perdere il loro posto, ma con la Massoneria il governo fascista dovrà venire ad un compromesso. Come si fa quando un nemico è forte? Prima gli si rompono le gambe, poi si fa il compromesso, in condizioni di evidente superiorità.

Benito Mussolini: Prima gli si rompono le costole, poi lo si fa prigioniero, come voi avete fatto in Russia! Voi avete fatto i vostri prigionieri e poi li tenete, e vi servono! [Commenti]

Antonio Gramsci: Far prigionieri significa appunto fare il compromesso: perciò noi diciamo che in realtà la legge è fatta specialmente contro le organizzazioni operaie. Domandiamo perché da parecchi mesi a questa parte, senza che il partito comunista sia stato dichiarato associazione a delinquere, i carabinieri arrestano i nostri compagni ogni qualvolta li trovano riuniti in numero di almeno tre...

Benito Mussolini: Facciamo quello che fate in Russia...

Antonio Gramsci: In Russia ci sono delle leggi che vengono osservate: voi avete le vostre leggi...

Benito Mussolini: Voi fate delle retate formidabili. Fate benissimo! [Si ride].

Antonio Gramsci: In realtà l’apparecchio poliziesco dello Stato considera già il partito comunista come un’organizzazione segreta .

Benito Mussolini: Non è vero!

Antonio Gramsci: Intanto si arresta senza nessuna imputazione specifica chiunque sia trovato in una riunione di tre persone, soltanto perché comunista, e lo si butta in carcere.

Benito Mussolini: Ma vengono presto scarcerati. Quanti sono in carcere? Li peschiamo semplicemente per conoscerli!

Antonio Gramsci: È una forma di persecuzione sistematica che anticipa e giustificherà l’applicazione della nuova legge. Il fascismo adotta gli stessi sistemi del governo di Giolitti. Fate come facevano nel Mezzogiorno i mazzieri giolittiani che arrestavano gli elettori di opposizione... per conoscerli.

Una voce: Ce ne è stato un caso solo. Lei non conosce il meridione.

Antonio Gramsci: Sono meridionale!

Benito Mussolini: A proposito di violenze elettorali io le ricordo un articolo di Bordiga che le giustifica a pieno!

Paolo Greco: Lei, onorevole Gramsci, non lo ha letto quell’articolo.

Antonio Gramsci: Non le violenze fasciste, le nostre. Noi siamo sicuri di rappresentare la maggioranza della popolazione, di rappresentare gli interessi più essenziali della maggioranza del popolo italiano; la violenza proletaria è perciò progressiva e non può essere sistematica. La vostra violenza è sistematica e sistematicamente arbitraria perché voi rappresentate una minoranza destinata a scomparire. Noi dobbiamo dire alla popolazione lavoratrice che cosa è il vostro governo, come si comporta il vostro governo, per organizzarla contro di voi, per metterla in condizioni di vincervi. È molto probabile che anche noi ci troveremo costretti ad usare gli stessi vostri sistemi, ma come transizione, saltuariamente [Rumori, interruzioni] Sicuro: ad adottare gli stessi vostri metodi, con la differenza che voi rappresentate la minoranza della popolazione, mentre noi rappresentiamo la maggioranza. [Interruzioni, rumori]

Roberto Farinacci: Ma allora, perché non fate la rivoluzione? Lei è destinato a fare la fine di Bombacci! [2] La manderanno via dal partito!

Antonio Gramsci: La borghesia italiana quando ha fatto l’unità era una minoranza della popolazione, ma siccome rappresentava gli interessi della maggioranza anche se questa non la seguiva, così ha potuto mantenersi al potere. Voi avete vinto con le armi, ma non avete nessun programma, non rappresentate niente di nuovo e di progressivo. Avete solo insegnato all’avanguardia rivoluzionaria come solo le armi, in ultima analisi, determinano il successo dei programmi e dei non programmi... [Interruzioni, commenti]

Presidente: Non interrompete!

Antonio Gramsci: Questa legge non varrà affatto ad infrenare il movimento che voi stessi preparate nel paese. Poiché la Massoneria passerà in massa al partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine. Questo è il valore reale, il vero significato della legge.
Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere senza che essa abbia un partito ed una organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C’è qualcosa di vero in questa torbida perversione reazionaria degli insegnamenti marxisti. È certo molto difficile che una classe possa giungere alla soluzione dei suoi problemi e al raggiungimento di quei fini che sono insiti nella sua esistenza e nella forza generale della società, senza che un’avanguardia si costituisca e conduca questa classe fino al raggiungimento di tali fini.
Ma non è detto che questa enunciazione sia sempre vera, nella sua meccanicità esteriore ad uso della reazione! Questa è una legge che serve per l’Italia, che dovrà essere applicata in Italia, dove la borghesia non è riuscita in nessun modo e non riuscirà mai a risolvere in primo luogo la questione dei contadini italiani a risolvere la questione dell’Italia meridionale. Non per nulla questa legge viene presentata contemporaneamente ad alcuni progetti concernenti il risanamento del Mezzogiorno.
Una voce: Parli della Massoneria.

Antonio Gramsci: Volete che io parli della Massoneria. Ma nel titolo della legge non si accenna neppure alla Massoneria, si parla solo delle organizzazioni in generale. In Italia il capitalismo si è potuto sviluppare in quanto lo Stato ha premuto sulle popolazioni contadine, specialmente nel Sud. Voi oggi sentite l’urgenza di tali problemi, perciò promettete un miliardo per la Sardegna, promettete lavori pubblici e centinaia di milioni a tutto il Mezzogiorno; ma per fare opera seria e concreta dovreste cominciare col restituire alla Sardegna i 100-150 milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione sarda! Dovreste restituire al Mezzogiorno le centinaia di milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione meridionale.

Benito Mussolini: Voi non fate pagare le tasse in Russia!...

Una voce: Rubano in Russia, non pagano le tasse!

Antonio Gramsci: Non è questa la quistione, egregio collega, che dovrebbe conoscere almeno le relazioni parlamentari che su tali quistioni esistono nelle biblioteche. Non si tratta del meccanismo normale borghese delle imposte: si tratta del fatto che ogni anno lo Stato estorce alle regioni meridionali una somma di imposte che non restituisce in nessun modo, né con servizi di nessun genere... 

Benito Mussolini: Non è veto.

Antonio Gramsci: ... somme che lo Stato estorce alle popolazioni contadine meridionali per dare una base al capitalismo dell’Italia settentrionale [Interruzioni, commenti]. Su questo terreno delle contraddizioni del sistema capitalistico italiano si formerà necessariamente, nonostante la difficoltà di costituire grandi organizzazioni, la unione degli operai e dei contadini contro il comune nemico.
Voi fascisti, voi governo fascista, nonostante tutta la demagogia dei vostri discorsi, non avete superato questa contraddizione che era già radicale; voi l’avete anzi fatta sentire più duramente alle classi e alle masse popolari. Voi avete operato in questa situazione, per le necessità di questa situazione. Voi avete aggiunto nuove polveri a quelle già accumulate dallo sviluppo della società capitalistica e credete di sopprimere con una legge contro le organizzazioni gli effetti più micidiali della vostra attività stessa [Interruzioni]. Questa è la quistione più importante nella discussione di questa legge!
Voi potete “conquistare lo Stato”, potete modificare i codici, voi potete cercare di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite adesso; non potete prevalere sulle condizioni obiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fino ad oggi più diffuso nel campo dell’organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, che il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi. [Interruzioni] Ê molto difficile applicare ad una popolazione di 40 milioni di abitanti i sistemi di governo di Tsankov. In Bulgaria vi sono pochi milioni di abitanti e tuttavia, nonostante gli aiuti dall’estero, il governo non riesce a prevalere sulla coalizione del partito comunista e delle forze contadine rivoluzionarie, e in Italia ci sono 40 milioni di abitanti.

Benito Mussolini: Il partito comunista ha meno iscritti di quello che abbia il partito fascista italiano!

Antonio Gramsci: Ma rappresenta la classe operaia.

Benito Mussolini: Non la rappresenta!

Roberto Farinacci: La tradisce, non la rappresenta.

Antonio Gramsci: Il vostro è un consenso ottenuto col bastone.

Farinacci: Parla di Miglioli!

Antonio Gramsci: Precisamente. Il fenomeno Miglioli ha una grande importanza appunto nel senso di ciò che ho detto prima: che le masse contadine anche cattoliche si indirizzano verso la lotta rivoluzionaria. Né i giornali fascisti avrebbero protestato contro Miglioli se il fenomeno Miglioli non avesse questa grande importanza dell’indicare un nuovo orientamento delle forze rivoluzionarie in dipendenza della vostra pressione sulle classi lavoratrici.
Concludendo: la Massoneria è la piccola bandiera che serve per far passare la merce reazionaria antiproletaria! Non è la Massoneria che vi importa! La Massoneria diventerà un’ala del fascismo. La legge deve servire per gli operai e per i contadini, i quali comprenderanno ciò molto bene dall’applicazione che ne verrà fatta. A queste masse noi vogliamo dire che voi non riuscirete a soffocare le manifestazioni organizzative della loro vita di classe, perché contro di voi sta tutto lo  sviluppo della società italiana. [Interruzioni]

Presidente: Ma non interrompano! Lascino parlare. Lei però onorevole Gramsci, non ha parlato della legge!

Rossoni: La legge non è contro le organizzazioni!

Antonio Gramsci: Onorevole Rossoni, ella stesso è un comma della legge contro le organizzazioni. Gli operai e i contadini debbono sapere che voi non riuscirete ad impedire che il movimento rivoluzionario si rafforzi e si radicalizzi [Interruzioni, rumori]. Perché esso solo rappresenta oggi la situazione del nostro paese... [Interruzioni]

Presidente: Onorevole Gramsci, questo concetto lo ha ripetuto tre o quattro volte. Abbia la bontà! Non siamo dei giurati, a cui occorre ripetere molte volte le stesse cose!

Antonio Gramsci: Bisogna ripeterle, invece, bisogna che lo sentiate fino alla nausea. Il movimento rivoluzionario vincerà il fascismo. [Commenti]

Discorso pronunciato da Antonio Gramsci alla Camera, il 16 maggio 1925 e pubblicato sull’Unità del 23 maggio 1925 contro il disegno di legge Mussolini-Rocco, recante Norme sulla regolarizzazione dell’attività delle associazioni, enti ed istituti e dell’appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato [n. 314], approvato dal Senato il 19 novembre 1925 [legge 26 novembre 1925, n. 2029 http://www.massoneriascozzese.it/documenti/Legge_26_novembre_1925.pdf], apparentemente rivolto contro la Massoneria e indirettamente contro i partiti antifascisti.





Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai, Masaccio [1401- 1428] - Il pagamento del tributo [1425]
Chiesa di Santa Maria del Carmine - Firenze
 
 “5 In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. 16 Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17 Dunque, dì a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?” 18 Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19 Mostratemi la moneta del tributo.” Ed essi gli presentarono un denaro. 20 Egli domandò loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?” 21 Gli risposero: “Di Cesare.” Allora disse loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.”
Vangelo secondo Matteo, 22, 15-21



L’autore tiene a ringraziare le persone che lo hanno incoraggiato a intraprendere la sua inchiesta.
In particolare, Lazzaro Dia, per gli ammaestramenti, che non ha, mai, mancato di prodigarmi graziosamente, e per gli ammonimenti, che non ha, mai, mancato di prodigarmi meno graziosamente.
Il mio uomo, come lo definirebbe John Le Carré, ha preso non poche precauzioni allo scopo di non dover confidare, unicamente, sulla mia discrezione per proteggersi da indebite ricerche sulla sua persona e non mi ha permesso di sapere su di lui più di quanto mi servisse per convincermi a portare a termine la stesura del mio reportage.
Per le stesse ragioni, non posso rendere nota l’identità di altre 6 persone, che, mi limiterò a indicare con le lettere J, K, W, X, Y e Z, che non sono, naturalmente, le iniziali dei loro nomi.
Sono loro debitrice.
Dal momento che questo reportage solleverà, senza commenti, questioni in merito alle quali le opinioni non sempre coincidono, ritengo sia giusto rendere nota al lettore la mia posizione personale.
Come la maggior parte degli individui, disapprovo il terrorismo a scopi politici. Inoltre non credo nella cinica concezione, secondo cui chi per qualcuno è un terrorista, par altri è un combattente per la Libertà.
I terroristi non si definiscono in base ai loro obiettivi politici, ma ai mezzi che utilizzano.
In pari tempo, non mi sento di sottoscrivere il diffuso errore secondo cui il terrorismo è privo di qualsiasi efficacia.
A mio parere, una ipotesi del genere è solo un pio desiderio.
Se il terrorismo, spesso, non riesce a conseguire gli obiettivi desiderati, lo stesso vale per la guerra convenzionale, la diplomazia o qualsiasi altro evento politico.
Alla stessa stregua, si potrebbe ipotizzare che anche la guerra e la diplomazia siano prive di efficacia!
È mia opinione che il terrorismo sia un male, che raggiunga o meno gli scopi prefissati.
Anche l’antiterrorismo, tuttavia, comporta spargimento di sangue.
Non tenterò neppure di affrontare e risolvere tale questione in questa sede.     
Senza dubbio alcuno, questa inchiesta sarà attaccata da alcuni e respinta da altri. Non si pretende esaustiva, si vuole, semplicemente, onesta e obiettiva per quel che si può fare in un brevissimo lasso di tempo.
E se ne infischia delle cautele.
Ve ne accorgerete subito!
Io avrei potuto citare delle voci, dei “si dice”, delle maldicenze e anche dei documenti, che circolano sia in Vaticano sia nelle sale di redazione italiane.
Me ne sono astenuta nella misura in cui mi sembravano poco credibili.
Io ho attinto, esclusivamente, a fonti “degne di fede”.
Questione di buon gusto e di disposizione psichica.
La mia deontologia è alla portata di tutti coloro che cerchino di penetrare, il più naturalmente possibile, il luogo, per eccellenza, della delegazione del potere divino.
In questo tempo di onnipotenza dei media, il più arduo dei miei compiti è stato di separare il grano dal loglio e di tenere conto del vero a fronte della proliferazione dei bisbigli.
Io non ignoro che una disinformazione più o meno machiavellica alimenti una nebbia di leggende e di dicerie intorno allo Stato di Dio, al solo fine di perpetuarne l’ermetismo. È qui che si inverte il buon senso euristico nella misura in cui l’eccesso di contro-verità finisce per accreditare la tesi che non vi è fumo senza fuoco né fuoco senza fumo.
Io non ho neppure trascurato le testimonianze dirette.
La Chiesa produce anche dei transfuga, che scelgono la libertà di credere e la salvezza fuori della sua cinta millenaria.
Verso, dunque, queste pagine nel dossier della Storia della Chiesa che non ha finito, nella gloria e nella polvere, di stupirci. Saranno considerate un attacco alle fede cattolica romana, in particolare, e al cristianesimo, in generale.
Non sono niente di tutto ciò e possono dare fastidio solo a chi si crede detentore esclusivo di una Verità assoluta ed è privo, allo stesso tempo, di ogni cognizione storica.
Sono una inchiesta su una Chiesa che, dal Concilio Vaticano II, è alla ricerca di se stessa.
Sono una accusa contro uomini chiaramente identificati, che sono, dichiaratamente, nati cattolici romani, ma, contrariamente, non sono, mai, divenuti cristiani.
Uomini che hanno dimenticato che il Cristo ha cacciato i mercanti dal tempio[2], senza preoccuparsi della loro potenza, e non ha temuto di fustigare i dignitari della gerarchia religiosa, a rischio della propria vita.
Oggi, sarebbe al fianco dei magistrati integri e dei cristiani convinti, che hanno dichiarato guerra alla corruzione e alla incuria di una certa curia.
Che i cristiani sinceri abbiano, dunque, la intelligenza di non prendere questo lavoro per una impresa malefica.
Il diavolo non è tra i miei Amici.
Non sono la sola a pensare che si debba sloggiarlo dagli stessi scantinati del Vaticano.
Dalla Sua elezione al soglio pontificio, Jorge Mario Bergoglio, che ha scelto di ispirarsi, già dal nome, a San Francesco di Assisi, non perde occasione per richiamarsi alla “Chiesa dei poveri”; per  ammonire che “San Pietro non aveva un conto in banca, e quando ha dovuto pagare le tasse il Signore lo ha mandato al mare a pescare un pesce e trovare la moneta dentro al pesce per pagare.” [http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/11/papa-francesco-chiesa-ricca-non-ha-vita/622456/, http://www.iltempo.it/cronache/2013/06/11/il-papa-san-pietro-non-aveva-il-conto-in-banca-1.1147058], per scagliarsi contro “il peccato della corruzione” e “certi preti untuosi, sontuosi e presuntuosi” che sfoggiano “macchine di lusso” [http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/07/14/news/cardinali-milionari-la-mappa-delle-proprieta-private-del-clero-1.173131].
Chi di loro riuscirà a passare per l’evangelica cruna dell’ago[3]?
Voci di rinnovazione della Chiesa si levano ovunque.
Lo Spirito soffia dove vuole.
Si deve lasciare soffiare questo vento.
Perché non disperderebbe, alla luce del sole, tutti quei dossiers, pazientemente accumulati dalle commissioni di inchiesta, nel corso degli scandali Michele Sindona, Roberto Calvi e consociati.
Uno dei più grandi processi del dopoguerra su scala planetaria!
“1 Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
2 C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
3 Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire.
4 Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare.
5 Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
6 Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
7 Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare.
8 Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
9 Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?”[4],
recita l’Ecclesiaste.
Vi è un tempo per le transazioni illecite e un tempo perché la legge degli uomini sanzioni la loro illegalità, per non dire la loro incidenza criminale.
Un tempo per chiudere gli occhi e gli orecchi e un tempo per aprire alla Verità.
Un tempo per la credulità e la pseudo-innocenza e un tempo per una fede lucida, senza accecamento né fanatismo.
“Molti sono andati in rovina a causa dell’oro, il loro disastro era davanti a loro.”[5],
ammonisce l’Ecclesiastico.
Io ho voluto fare luce su uno dei più oscuri enigmi della Storia delle istituzioni umane.
E, forse, contribuirò a spianare le rovine!
Il dedalo del Vaticano non è quello del Minotauro, ma quello del rappresentante di Dio sulla Terra, guardiano pacifico della tradizione ecclesiale.
Sollecito, dunque, indulgenza perché in quel circolo vizioso di eventi contraddittori dalle molteplici interazioni come osare definire ciò che è causa e ciò che è effetto!
E, poiché nessuno di noi ha la Verità assoluta, ma tante piccole Verità unite portano alla conoscenza, ben venga chi offrirà una analisi storica, anche crudele, diversa.
Gliene sarò grata, purché lo faccia con rispetto.
La ricerca della Verità non è così semplice come potrebbe apparire!
Esistono precise barriere nel mondo, forze oscure, ma potenti, che impediscono con tutti i mezzi, che ci si avventuri alla ricerca di una qualsiasi Verità.
Esistono personaggi molto influenti in grado di bloccare qualsiasi iniziativa legittima nell’interesse della Giustizia degli uomini.
Questi personaggi molto potenti vivono secondo leggi e codici che non sono le leggi e i codici degli altri uomini.
Le comuni leggi e i codici in vigore non hanno valore per loro e non si applicano nei loro confronti.
Alla base dell’associazionismo segreto vi è la volontà di una élite di distinguersi, di agire alle spalle, per produrre qualcosa che non si può condividere con la massa.
Il sociologo statunitense Edward Hopper sostiene:
“Gli aderenti alle associazioni segrete hanno fondamentalmente tre punti in comune: il desiderio di appartenere a una élite, il sentirsi adepti per diversificarsi da tutti gli altri, avvolgendosi in un alone enigmatico, la certezza di essere nella cerchia nobile di chi determina e costruisce qualcosa che produce cioè qualcosa di inaccessibile alle masse.”
Tutte le Società Segrete per loro natura sono estremamente selettive: mirano a raccogliere individui “particolari” già in sintonia con la natura della società in questione.
Come scrive Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim[6] nel suo  De Occulta Philosophia:
Abbiamo trasmesso quest’arte in modo che essa non rimanga occulta agli uomini prudenti e intelligenti, ma anche in modo che non ammetta ai suoi arcani i malvagi e gli increduli, così che essi restino a mani vuote sotto la meschina ombra della ignoranza e della disperazione. Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto questa opera.
Se uno di noi, uno qualsiasi di noi, decidesse di essere iniziato a una Società Segreta, che cosa avverrebbe?
Secondo Mircea Eliade, verrebbe modificata tutta la sua vita. Nel suo saggio Il sacro e il profano si legge:
Generalmente l’iniziazione comporta una triplice rivelazione: quella della morte, quella del sacro e quella della sessualità. Il fanciullo ignora tutte codeste esperienze; l’iniziato le conosce, le assume e le integra nella sua nuova personalità. Si aggiunga che il neofita muore alla propria vita infantile, profana, non rigenerata, per rinascere a una nuova esistenza santificata: rinasce anche a un modo di essere che gli rende possibile la conoscenza, la scienza. L’iniziato non è soltanto un nuovo nato, un resuscitato: è anche un uomo che sa, che conosce i misteri, che ha ricevuto delle rivelazioni di ordine metafisico. Durante l’apprendistato nella boscaglia egli impara i segreti sacri: i miti riguardanti gli dei e l’origine del mondo, i veri nomi degli dei, l’uso e l’origine degli strumenti rituali impiegati nelle cerimonie di iniziazione. L’iniziazione equivale alla maturità spirituale e in tutta la Storia religiosa dell’Umanità troviamo, sempre, questo tema: l’iniziato, colui che ha conosciuto i misteri, è diventato colui che sa.
Quale ragione spinge un gruppo di individui a costituire una Società Segreta?
La ragione muove, principalmente, da scopi di tipo utilitaristico e materiale, che portano a costituire una società di mutuo soccorso, nella quale trovare aiuto da parte dei confratelli.

Daniela Zini


CONTRATTI IN NERO
TRA IOR E COSA NOSTRA
la storia dell’incredibile giro di affari che
portò al fallimento del Banco Ambrosiano


“Si puo vivere in questo mondo senza preoccuparsi del danaro? 
Non si può dirigere la Chiesa con le Avemaria.”
cardinale Paul Casimir Marcinkus
[Cicero, 15 gennaio 1922 - Sun City, 20 febbraio 2006]

A cavallo tra gli anni 1960 e 1970, le alte gerarchie vaticane erano convinte che l’influsso marxista in Europa e in Sudamerica avrebbe avuto una svolta e che sia i partiti comunisti sia i movimenti guerriglieri di sinistra avrebbero accresciuto la loro presenza nella società di quei continenti fino a condizionarne la linea politica. Logicamente ne avrebbero condizionato anche l’economia: erano da temere nazionalizzazioni, espropri, imposte fiscali più pesanti…
Il vertice della Chiesa non era il solo a pensare così, poiché, in realtà, la riflessione proveniva dagli Stati Uniti d’America[7], dove le analisi e le congetture sul futuro vengono fatte, in genere, con molto anticipo. Le funeste e pessimistiche previsioni dell’allora segretario di Stato Henry Kissinger ne sono un esempio.
Il peso crescente del cardinale Francis Spellman nella economia centrale della Chiesa e gli eccellenti rapporti del Vaticano con i centri nevralgici del potere reale, negli Stati Uniti, avrebbero fatto in modo che le supposizioni sulla crescita comunista contagiassero la finanza cattolica. Non erano timori espressi alla luce del giorno, ma convincimenti acquisiti con la lettura di analisi riservatissime e confidenziali.
In Vaticano, pertanto, si persuasero che fosse meglio portare via i soldi dall’Europa e investirli altrove, soprattutto, negli Stati Uniti e in Australia.
Il cardinale Paul Casimir Marcinkus arrivò allo IOR nel pieno di questi timori e dovette gestirne le conseguenze dal punto di vista finanziario.
Nato il 15 gennaio 1922, a Cicero, un sobborgo  di  Chicago [Illinois], noto  per  aver  dato  i natali ad Al Capone, da una famiglia di immigrati lituani [il padre Mycolas è un lavavetri, che mantiene, con fatica, i cinque figli], il cardinale Marcinkus è ordinato sacerdote nella arcidiocesi di Chicago, il 3 maggio 1947, e consacrato vescovo[8] di Orta[9], fittizia sede episcopale in Tunisia, vicino a Cartagine, il 6 gennaio 1969, nella Basilica di San Pietro, da papa Paolo VI. Ma il suo nome, per molti, si associa al crack finanziario del Banco Ambrosiano, un istituto di credito, molto legato alla Curia e, in particolare, all’Istituto per le Opere di Religione [IOR][10], di cui lo stesso cardinale Marcinkus era presidente[11]. Godendo della immunità vaticana, il cardinale non subì conseguenze e, con la sua morte, sopraggiunta, il 22 febbraio 2006, svaniva l’ultima possibilità di fare luce sugli intrecci tra Stato, Mafia, Vaticano e Massoneria.
 

Papa Paolo VI, il cardinale Paul Casimir Marcinkus e Martin Luther King Jr.

Dopo 33 anni, i dubbi sul ruolo effettivo avuto dal cardinale in questa vicenda, continuano ad aleggiare anche per le morti di Roberto Calvi e di Michele Sindona, entrambe ancora pienamente da chiarire.
Nel 1998, l’inchiesta sulla morte di Roberto Calvi fu riaperta e, dopo aver riesumato il cadavere, i sostituti procuratori della Repubblica di Roma, Luca Tescaroli e Maria Monteleone, stabilirono che il banchiere fosse stato ucciso.
E del cardinale Marcinkus e del suo ruolo si tornò a discutere. 
Marcinkus era stato nominato presidente dello IOR, il 15 gennaio 1971, dopo esserne stato segretario per due anni. Il suo desiderio di modificare e trasformare l’istituto apparve, da subito, evidente. Avrebbe voluto trasferire Luigi Mennini e Pellegrino de Strobel, rispettivamente direttore generale e ragioniere capo della banca vaticana, soprattutto il primo; ma fu lo stesso Sindona a dissuaderlo.
La febbricitante attività del neo-presidente, nei primi mesi del 1971, induce a pensare che volesse dimostrare a chi lo aveva nominato e a chi lo circondava, che conoscesse bene il mestiere.
Fino dagli inizi del suo incarico, Marcinkus collaborò, assiduamente, con il cardinale Eugène Tisserant, prefetto di Propaganda Fide – il dicastero pontificio, nel quale si concentra la direzione e il governo generale della attività missionaria cattolica nel mondo –, che era uomo ascoltato e di grande prestigio.  Riguardo al danaro, il cardinale Tisserant non era molto prevenuto, ricordava il cardinale Francis Spellman e, quando morì, ad Albano Laziale, il 21 febbraio 1972, lasciò a Marcinkus una situazione imbarazzante.
Il cardinale Tisserant si era rivolto all’industriale viennese Leopold Ledl, perché gli procurasse titoli falsi di grandi industrie americane per un valore nominale di 950 milioni di dollari, lasciando intendere che il Vaticano e la Banca d’Italia fossero disposti a pagare i titoli 625 milioni di dollari. La proposta non era stata avanzata né d’impeto né a freddo; ma era maturata in modo lento e studiato. Ledl aveva conosciuto il cardinale Tisserant attraverso Mario Foligni, amico del cardinale Giovanni Benelli, iniziando a frequentarlo e divenendone amico.Alla fine di aprile del 1971, Ledl incontrò al Dolder Hotel di Zurigo Manuel Richard Jacobs [Ricky], boss mafioso vicino alla famiglia De Lorenzo, che, controllava il traffico di titoli rubati o falsificati sulla Costa Atlantica degli Stati Uniti. Jacobs stentava a credere che il Vaticano fosse dietro l’operazione. Lo convinsero della veridicità dell’insolito acquirente:
-          una lettera con l’intestazione della Sacra Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari, nella quale venivano specificate le rate per conseguire i titoli:
“A coloro che sono interessati. In seguito al nostro incontro di oggi, desideriamo confermare i seguenti punti:
1)   è nostra intenzione acquistare lo stock completo della merce fino a un totale di 950 milioni di dollari;
2)   siamo d’accordo sui termini e le date della consegna come segue: 9.3.71 per 100; 10.9.71 per 200; 10.10.71 per 200; 10.11.71 per 250; 12.12.71 per 200. È stabilito che le ultime due consegne, molto probabilmente, avverranno lo stesso giorno: 10.11.71;
3)   garantiamo che la merce non verrà venduta di nuovo e comunque non oltre l’1.6.72. In fede, vostro…”
La firma era leggibile.
e
-          una un’altra lettera della società finanziaria Rami Establishment, FL. 9490, Vaduz/Fürstentum, Liechtenstein, in cui si specificavano le scadenze dei pagamenti:
“Roma, deo 29.6.71
Come dalla vostra lettera dichiariamo che le consegne della merce stabilita avverranno esattamente nei termini indicati:
-          9.3.71 = 100 – mio %;
-          10.9.71 = 200 – mio %;
-          10.10.71 = 200 – mio %;
-          10.11.71 = 250 – mio %;
-          10.12.71 = 200 – mio %.
Puntualizziamo che con una approssimazione del 90% le due ultime consegne verranno fatte insieme. Nel caso in cui non riuscissimo a mantenere le condizioni e i termini di consegna ci dichiariamo pronti a pagare una penale del valore dell’1% del prezzo di vendita, in caso di ritardo nella consegna della merce.” 

Seguiva una firma illeggibile.
Entrambi i documenti recavano la data del 29 giugno 1971.
Gli americani erano soddisfatti…
Il 9 luglio 1972, un notaio di Francoforte, Rudolph Gushall, poté legalizzare il primo pacchetto di titoli, presentati come campione da sottoporre al giudizio degli acquirenti.
E così fu.


 Joseph Coffey, il detective della polizia di New York 
che scoprì il caso conosciuto come Vatican Connection.




I titoli superarono, brillantemente, l’esame sia del funzionario della Banca d’Italia sia del cardinale Tisserant e della sua gente.
Joseph Coffey, il detective della polizia di New York, che aveva fatto luce sulla vicenda e l’aveva seguita fino al penultimo atto, è convinto che l’affare sia stato portato a termine e che le autorità americane non abbiano, mai, voluto andare fino in fondo. Si è, altresì, convinto che “vi sono persone molto potenti che possono bloccare qualsiasi iniziativa legittima che interessi la Giustizia degli uomini; persone che vivono secondo norme e codici che non sono gli stessi degli altri uomini”.     
Quando la polizia americana chiuse il caso, tutti i coinvolti confessarono; ma nessuno fu arrestato, a eccezione di alcuni  membri della Mafia, che fecero solo pochi mesi di prigione.
Nell’autunno dell’anno seguente, i dirigenti dello IOR scoprirono una truffa di 50 miliardi di lire a danno della Svirobank [ Banco di Roma per la Svizzera], controllato dallo stesso IOR [http://www.radioradicale.it/la-presidenza-della-camera-ha-bloccato-una-mozione-radicale-per-la-denuncia-del-trattato-lateranense-in-seguito-al-furto-dellior]. Fatte le indagini del caso si scoprì che il vice-direttore del banco svizzero, Mario Tronconi, usava capitali non dichiarati dell’istituto per speculare sul mercato dell’oro e delle valute forti, servendosi del finanziere Franco Ambrosio [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/07/03/franco-ambrosio-tornato-in-carcere.html]. Dopo aver comunicato a Tronconi che era stato scoperto, i dirigenti della Svirobank lo costrinsero a firmare un documento, con il quale si dichiarava responsabile unico della truffa. Dopo poco, un treno della linea Lugano-Chiasso passava sopra il corpo di Tronconi. In tasca aveva una lettera indirizzata alla moglie.
Il caso si chiuse, ufficialmente, come suicidio.
Le speculazioni di Tronconi sarebbero costate allo IOR 2 miliardi di lire dell’epoca, secondo fonti bancarie romane discretamente interpellate dalla magistratura.   
Marcinkus vuole guadagnare danaro, tanto danaro…
La cosa diviene ancora più evidente dopo la bancarotta di Michele Sindona e le perdite che questa comporta per lo IOR, nel 1974.
Lo IOR dispone, ufficialmente dell’1,85% delle azioni del Banco Ambrosiano, quota che, sempre ufficialmente, mantiene più o meno invariata fino al disastro finale del 1982. Con una quota simile, dunque, l’istituto potrebbe stabilire con Calvi e con il Banco Ambrosiano un volume di affari molto ridotto. Ma vi sono i progetti fatti a Nassau, all’inizio del 1971, che permetterebbero di modificare la situazione, accrescendo la presenza di fatto dello IOR nella banca milanese. 
Nei primi anni della sua presidenza, il cardinale Marcinkus venderà la Banca Cattolica del Veneto a Roberto Calvi; rafforzerà la sua partecipazione al Gruppo di Carlo Pesenti, attraverso una serie di operazioni incrociate con il Banco Ambrosiano; acquisterà oro dall’International Monetary Fund; stabilirà e irrobustirà i rapporti con David e James Rockefeller, con la Chase Manhattan Bank, con la First National City Bank e con la Bank of America. Consoliderà, anche, i rapporti con la Continental Illinois Bank di Chicago, che diverrà il perno degli investimenti vaticani, negli Stati Uniti, per molto tempo.
Entrerà nel Manufacturers Hanover e nel Bankers Trust.
Nel 1976, Paul Marcinkus aspirerà a entrare anche, attraverso la Svirobank, controllata al 51% dallo IOR, nella Security Bank of New Jersey, banca ambita dalla Mafia, che Michele Sindona ha alle spalle, perché tra i clienti vi sono agenti dell’FBI indebitati; ma le autorità americane non glielo consentiranno.
Nel 1977, quando Roberto Calvi sarà, già, da due anni, presidente del Banco Ambrosiano, il cardinale Marcinkus starà per coprire l’ingresso degli uomini della Loggia P2 nella società Rizzoli-Corriere della Sera. 
È sorprendente che l’ipotetico progetto finanziario anticomunista elaborato da Umberto Ortolani, Licio Gelli, Michele Sindona, cui si associano Roberto Calvi e il cardinale Paul Casimir Marcinkus, abbia come premessa le stesse deduzioni condivise dagli Stati Uniti e dal vertice della Chiesa!
È solo coincidenza?
Oppure tali deduzioni procedono in blocco da una unica fonte?
Spesso, si dice che l’alleanza tra Marcinkus e Calvi nasca quando finisca o si interrompa quella tra Marcinkus e Sindona, come se all’una subentri l’altra. Questa affermazione non è proprio corretta: basta mettere accanto le date dei fatti per accorgersi che sono pressoché parallele, che sono, almeno per un periodo, sovrapponibili.
Calvi è presentato da Sindona a Marcinkus, nel 1971, appena dopo la sua nomina a presidente dello IOR da parte di papa Paolo VI.
Nel 1968, le autorità vaticane hanno assunto Michele Sindona, a dispetto del suo passato sulfureo, in quanto consulente finanziario. Sindona è il principale responsabile dell’afflusso massivo di danaro, grazie al riciclaggio di somme di danaro provenienti dal narcotraffico, legato alla famiglia Gambino, attraverso una società schermo chiamata Mabusi. Questo danaro è ottenuto con l’aiuto di Roberto Calvi, che gestisce il Banco Ambrosiano.
Calvi [tessera numero 1624], e Sindona [tessera numero 0501]  sono entrambi affiliati alla Loggia P2.
Sia Roberto Calvi sia Michele Sindona troveranno la morte.
Il cadavere del primo[12] verrà rinvenuto, il 18 giugno 1982, penzolante sotto il Blackfriars Bridge di Londra e semi-immerso nel Tamigi.
Il secondo, a Voghera, in carcere per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli[13], verrà avvelenato con un caffè al cianuro, il giovedì 20 marzo 1986, alle ore 8 e 30. Corsa in ambulanza all’ospedale. Campioni di saliva, sangue e succo gastrico verranno inviati di urgenza a Pavia, al Centro Tossicologico dell’Istituto di Medicina Legale. Sindona presenterà una piccolissima ferita da taglio in bocca.
Una microfiala spezzata tra i denti?
Suicidio?
O omicidio perfetto?
Caffè alla Pisciotta?
In un flash biografico, così scrive di lui su L’Espresso, nel 1982, il giornalista Maurizio De Luca[14]:
“Abile tessitore di amicizie, era riuscito presto a infilarsi nel gran giro: a fargli da padrini furono all’inizio Franco Marinotti, padrone della Snia Viscosa, ed Ernesto Mozzi, lanciatissimo agente di cambio e mago del credito, fondatore della Banca Privata Finanziaria. In un’ubriacante girandola di affari, in pochi anni, Sindona divenne la stella del mondo finanziario: autentico padrone della Borsa, creatore di dedali di società, esperto conoscitore dei paradisi fiscali di tutto il mondo [dal Lichtenstein alle Bahamas, alla tradizionale Svizzera] s’impossessò di banche e colossi immobiliari, creando un impero senza confini.
La sua carta vincente era stata il mettersi al devoto servizio del Vaticano che aveva deciso di smobilitare i suoi investimenti immobiliari e diversificare le attività finanziarie. Per primo, con spericolate operazioni di ingegneria finanziaria, legò al suo nome banche italiane e statunitensi, svizzere e tedesche. Fuse e scorporò, a suo piacimento, società di ogni tipo, si alleò con banchieri di gran lignaggio come gli Hambro di Londra, sbarcò in gran pompa a Wall Street, allacciò stretti rapporti con Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti, e con molti suoi uomini come David Kennedy [già segretario del tesoro americano], finito stritolato negli ingranaggi dell’impero dell’avvocato di Patti.” 
Il Banco Ambrosiano nato, nel 1896, per volontà dell’avvocato camuno Giuseppe Tovini[15], conosce, fino dagli inizi, un ragguardevole successo, sfruttando il momento di decollo economico in epoca giolittiana. Per garantirne il carattere di “banca cattolica”, ai candidati viene richiesto, all’atto di assunzione, il certificato di battesimo unitamente a un attestato di fede, emesso dalla parrocchia di appartenenza.
Roberto Calvi[16], da semplice impiegato riesce a scalare tutti i gradini del Banco Ambrosiano fino alla presidenza, nel 1975, con l’aiuto del presidente del suo azionista maggioritario [IOR], il cardinale Paul Casimir Marcinkus. Il 23 agosto di quell’anno, Calvi diviene membro della Loggia P2, di cui fa, già, parte Michele Sindona.
L’avventura durerà dieci anni circa.
Iniziata, nel 1971, nei saloni di Lyford Cay Villa di Nassau con bottiglie di champagne per celebrare un capodanno, finirà con una morte violenta, la bancarotta più clamorosa della Storia finanziaria e lo scandalo più ignominioso della Chiesa moderna.
Se i cattolici del mondo conoscessero appieno la faccenda, da molto tempo, forse, avrebbero posto un aut aut decisivo alla sede di Roma, sostenendo quanto meno che il Medioevo e il Rinascimento – tempi bui di commisture e licenziosità di tutti i tipi – siano molto lontani.
Durante gli anni 1970, tutti i partiti ottengono prestiti a buon tasso da Roberto Calvi [http://www.fondazionecipriani.it/Scritti/calvi.html].
Nessuno ha, mai, chiarito se questi prestiti siano stati restituiti, totalmente o parzialmente, ai 39mila piccoli azionisti cattolici, comproprietari del Banco Ambrosiano. In ogni caso, questi prestiti avrebbero consentito a Roberto Calvi di sopravvivere per un po’. Michele Sindona è, invece, meno fortunato.
Il 4 ottobre 1974[17] il giudice istruttore di Milano, Ovilio Urbisci, emette un mandato di cattura riferito agli illeciti denunciati, nel 1971, dalla Banca d’Italia. Pressoché in contemporanea la Franklin Bank di New York viene dichiarata insolvente.
Michele Sindona riesce a defilarsi.
Da Ginevra, dove si è, prudentemente, trasferito, prende un aereo per Taipeh, nella Cina nazionalista, dalla quale non rischia di essere estradato e, poco dopo, grazie alle amicizie di cui gode sia nell’ambiente di Richard Nixon, sia nel mondo finanziario e sia in quello di Cosa Nostra, riesce a rientrare a New York.
Ancora pochi mesi prima, i suoi successi erano così strepitosi che, nell’aprile dello stesso anno, l’ambasciatore americano a Roma, John Volpe, lo aveva proclamato “uomo dell’anno” [1973] e Giulio Andreotti lo aveva definito il “salvatore della lira”[18].
Era, dunque, prevedibile che tutti si sarebbero affannati a trovare una soluzione per superare la dichiarazione di insolvenza e di bancarotta. Ma il perito liquidatore, la magistratura e alcune, poche, illuminate autorità monetarie italiane si sarebbero opposte all’idea di far pagare ai contribuenti più di quanto non avessero, già, perso con i versamenti nelle banche di Sindona. 
 


Sindona aveva l’appoggio finanziario di Roberto Calvi e quello dei politici italiani: a Calvi lo legava il patto stipulato, nel 1971, e ai politici le complicità nelle operazioni illegali. Ma non sarebbero serviti né l’amicizia con Giulio Andreotti, con Amintore Fanfani e con i grandi notabili del partito di maggioranza, né l’appoggio del Vaticano e del governatore della Banca d’Italia Guido Carli. Il grande Sindona si sarebbe trovato schierato contro il cosiddetto Gruppo della Banca Commerciale Italiana, un trust di cervelli cresciuti alla scuola di Raffaele Mattioli, di cui facevano parte Ugo La Malfa, ministro del tesoro; Enrico Cuccia di Mediobanca; Lucio Rondelli, amministratore delegato del Credito Italiano; Gianfranco Cingano, amministratore delegato della Banca Commerciale[19]
 


La banca appartiene a una galassia finanziaria facente capo all’italiano Michele Sindona: tutto il gruppo – un sistema complesso ma interdipendente nelle sue componenti – risente di questo dissesto in borsa, dello stretto controllo da parte delle autorità americane e del rifiuto delle altre banche statunitensi di trattare affari o contratti con la Franklin.
A soffrire in primo luogo sono due istituti di credito italiani del gruppo: la Banca Unione e la Banca Privata Finanziaria, entrambe con sede a Milano.
Così anche in Italia, nella primavera-estate del 1974, Sindona è sull’orlo del crack. Sono gli ultimi mesi per cercare di evitare il fallimento delle sue banche, per attivare e muovere la sua rete di appoggi nel mondo della politica, della finanza e della massoneria.
Tentativi falliti. Sul finire di settembre diviene impossibile qualsivoglia alternativa alla liquidazione della Banca Privata Italiana [nata dalla fusione il primo di agosto di BU e BPF] che viene decretata il 27 settembre dal ministro del tesoro, mentre la Banca d’Italia nomina il commissario liquidatore.”[20]

Intanto a Milano, nell’inchiesta avviata dal giudice Urbisci è entrato anche un giovane sostituto, Guido Viola, già noto per essere un “cacciatore di brigatisti rossi”. Lo affianca l’avvocato Giorgio Ambrosoli, un legale apprezzato per la sua dirittura morale, al quale la Banca d’Italia ha affidato l’incarico di liquidatore della Banca Pivata Italiana e di altre imprese di Sindona.
Sarà una inchiesta al limite dell’impossibile, che rischierà di affondare, a ogni passo, nella trappola dell’omertà, degli sbarramenti messi dalla nomenklatura per difendere Sindona e se stessi.
Parlando con amici e giornalisti Viola eromperà:
“Sa quanti anni abbiamo combattuto per ottenere l’estradizione?
Quattro lunghi anni, affrontando in America il giudizio di primo grado, quello di secondo, la Corte Suprema e l’habeas corpus…
Perché questa inerzia?
È stato facile capirlo quando abbiamo fatto una scoperta. Mentre noi lavoravamo a testa bassa per contestare a Sindona i suoi reati, veniva portato avanti un progetto per salvare Sindona: lo gestivano gruppi occulti, con il patrocinio di altissime autorità. Certo, abbiamo avuto l’appoggio del nuovo governatore della Banca d’Italia Baffi e del direttore generale Sarcinelli, ma in complesso siamo rimasti isolati. La verità è che l’establishment politico-finanziario non aveva alcun interesse che facessimo il processo a Sindona.”
La controffensiva contro l’inchiesta sarà così violenta che, nel 1979, si arriverà a ordinare l’arresto di Mario Sarcinelli e di Paolo Baffi.
Durante l’inchiesta, Sindona si batte con tutti i mezzi.
Nell’estate-autunno del 1979 mette in scena uno show, con il quale vuole far credere di essere stato rapito dai suoi nemici, i “giustizieri proletari”.
Fuggito da New York, arriva, clandestinamente, in Sicilia.
La Mafia lo appoggia attraverso uomini, quali John Gambino, Francesco Fazzino, Anthony Caruso, Joseph Macaluso, Rosario Spatola.    
Tra il 9 e l’11 luglio del 1979, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, presentati i documenti che inchiodano Michele Sindona, fa la sua deposizione chiave. Deve firmare il verbale, il giorno successivo; ma, nella notte dell’11, mentre rientra a casa, viene freddato davanti al portone della propria abitazione. I colpi partono dalla pistola di William Joseph Aricò, un killer di Cosa Nostra agli ordini del boss Robert Venetucci, amico di Sindona. L’inchiesta viene affidata a due magistrati di razza, Gherardo Colombo e Giuliano Turone, che fanno squadra con Viola. Le indagini sul sequestro simulato rivelano che allo show hanno avuto parte anche Licio Gelli e la Loggia P2.
È il 1986.
Siamo al giro di boa.
Nella premessa alla requisitoria, Guido Viola annota amaramente:
“La cosa a nostro avviso più grave, e su cui non s’è ancora meditato abbastanza, è l’appoggio che al piano di salvataggio di Sindona, vera e propria truffa nei confronti della Banca d’Italia e quindi della comunità nazionale, veniva dato da altissimi esponenti politici, primo fra tutti l’allora presidente del Consiglio, onorevole Giulio Andreotti.”
In questa premessa Viola cita anche il nome del braccio destro di Andreotti, il fido Franco Evangelisti.
Quando suona la campana del processo per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, Sindona è solo nella sua cella.
Il giorno della sentenza, nell’aula della Prima Corte di Assise di Milano, il finanziere è assente, ha preferito restare in carcere.
E là riceve la notizia:
“Colpevole. Ergastolo, isolamento per cinque mesi.”
Quarantotto ore dopo, poche gocce di caffè metteranno fine ai giorni del grande tessitore di intrighi.       
Dopo la bancarotta di Michele Sindona, lo IOR aveva potuto recuperare 5 milioni di dollari dalla Banca Privata Italiana, esibendo al liquidatore Giorgio Ambrosoli i documenti di proprietà di un deposito effettuato, nel 1974, attraverso l’Amincor Bank di Zurigo [quella stessa che si era autoliquidata perché nessuno sapesse dei suoi traffici sporchi]. La banca vaticana non aveva, invece, potuto recuperare altri depositi, perché erano così ben nascosti dentro le matrioske finanziarie che, per provarne la proprietà, sarebbe stata costretta a rivelare segreti peggiori. 
Tuttavia, l’avventura del Banco Ambrosiano, che procedeva spedita, era condotta da Roberto Calvi e dal cardinale Paul Casimir Marcinkus, vale a dire da due suoi discepoli, cosa che poteva tornare utile, in qualche modo, a Sindona, alla sua causa apparentemente persa. Pertanto, quando le invocazioni non bastarono più, giunsero le minacce e il ricatto: Roberto Calvi dovette pagare Michele Sindona, acquistando proprietà a prezzi gonfiati; devolvendogli l’affitto dell’appartamento di New York, dove abitava; offrendogli commissioni su operazioni realizzate attraverso società di entrambi…
Non poteva durare!
Sindona diviene, ben presto, un peso, sia per i politici italiani sia per Calvi[21]. È allora che si mettono in moto Licio Gelli e la Loggia P2[22], che costituiscono l’altra assicurazione di Calvi.
Dal 17 aprile 1978, gli ispettori della Banca d’Italia, che hanno annusato il gioco di Roberto Calvi, analizzano la situazione del Banco Ambrosiano e ne lasciano testimonianza nel rapporto finale, contenuto in 500 pagine.
Si legge:
“IL Banco ha consolidato all’estero una rete finanziaria che gli consente di gestire notevoli flussi di fondi, al riparo dei controlli delle autorità valutarie italiane.”
E più avanti:
“Dai precedenti accertamenti ispettivi del 1973 si sono verificate modifiche nella composizione del capitale sociale del Banco, determinate principalmente dal trasferimento di considerevoli partite di azioni a società estere di gradimento del “Gruppo” Ambrosiano, dietro le quali potrebbero celarsi interessi diretti del “Gruppo” stesso o dell’Istituto per le Opere di Religione – IOR – Città del Vaticano.”
Era il novembre del 1978.
Da quel momento, le autorità monetarie italiane, la magistratura e il Governo sapevano che l’avventura del Banco Ambrosiano si stava conducendo in modo illegale. In quello stesso momento, iniziò tra le due parti della società italiana una guerra larvata, funesta e mortale, in cui, molto probabilmente, intervennero forze internazionali irregolari, difficilmente identificabili, anche se riconducibili a gruppi occulti e criminosi. Vi erano quelli che difendevano la ragnatela costruita dalla Loggia P2; quelli che proteggevano la finanza cattolica; quelli che tutelavano gli interessi chiaramente mafiosi, legati a Calvi – come prima lo erano stati a Sindona –; quelli che avevano conti in sospeso con il Banco Ambrosiano, giacché finanziava dittatori sudamericani, comunità cattoliche clandestine dell’Est europeo e chissà cos’altro.
La banca dei preti era divenuta un bottino che, per quattro anni, si sarebbero contese fazioni opposte e senza scrupoli.
Nello stesso 1978, il sostituto procuratore della Repubblica di Milano Emilio Alessandrini[23] inviava a Roberto Calvi e ai consiglieri di amministrazione del Banco Ambrosiano una comunicazione giudiziaria. Ma sei mesi dopo, il 29 gennaio 1979, un commando di terroristi di estrema sinistra, appartenenti a Prima Linea freddava il trentasettenne magistrato.
Nessuno ha, mai, spiegato perché quel gruppo di estrema sinistra abbia eliminato un magistrato che indagava sugli affari economici di un personaggio come Roberto Calvi, legato a Licio Gelli, a Michele Sindona e alla finanza cattolica, ossia legato alla destra.
Sarebbe bizzarro il sospetto che Prima Linea fosse uno strumento della Loggia P2 o quanto meno che, in quel caso, restituisse qualche favore ricevuto?
Morto Alessandrini, il procuratore generale di Milano affidò l’inchiesta su Calvi, susseguente all’ispezione del 1978, al magistrato Luca Mucci [http://web.tiscali.it/almanaccodeimisteri/p22001.htm].
Era il 1979.
Il 24 marzo 1979, lo stesso giorno in cui il leader del partito repubblicano Ugo La Malfa veniva colpito da emorragia cerebrale [moriva due giorni dopo], ventiquattro ore prima della ispezione predisposta dalla Banca d’Italia, il suo direttore generale, Mario Sarcinelli, veniva arrestato e il suo governatore, Paolo Baffi, in considerazione dell’età, non subiva l’onta dell’arresto e del carcere [solo perché aveva 68 anni!], ma veniva posto agli arresti domiciliari e privato del passaporto. Gli artefici della ispezione erano accusati dai magistrati Luciano Infelisi e Antonio Alibrandi[24] di interessi privati in atti di ufficio e di favoreggiamento personale per i finanziamenti concessi da IMI e Credito Industriale Sardo – due banche specializzate nei finanziamenti all’industria – al gruppo chimico SIR di Nino Rovelli. Il 5 aprile 1979, Alibrandi concesse la libertà provvisoria a Mario Sarcinelli, ma ne dispose la sospensione dai pubblici uffici. La misura riguardava, formalmente, Sarcinelli; ma colpiva anche Paolo Baffi, le cui imputazioni erano identiche a quelle di Sarcinelli. Il governatore veniva di fatto delegittimato.
Solo nel 1981, il giudice istruttore Antonio Alibrandi emetteva la sentenza di proscioglimento degli imputati. Nell’ambito delle indagini su Michele Sindona sarebbe emerso che il rigoroso operato di Sarcinelli costituisse “un oggettivo ostacolo agli interessi finanziari facenti capo al “sistema di potere” della P2, del quale Sindona e Calvi erano solo due esponenti di rilievo” [http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-11-14/quando-belzebu-chiamo-giudici-064001.shtml?uuid=AYtGJdjC, http://www.premiogiorgioambrosoli.it/it/content/mario-sarcinelli].
E il cardinale Paul Casimir Marcinkus non sapeva niente di tutto ciò?
Il 4 luglio 1980, la Procura di Milano ritirava il passaporto a Roberto Calvi per sospetta violazione delle norme sulla esportazione di valuta in rapporto all’acquisto di azioni della Toro Assicurazioni e del Credito Varesino da parte della finanziaria La Centrale con l’intermediazione del Banco Ambrosiano.
E, poco dopo, qualcuno versava su un conto corrente della Union des Banques Suisses [UBS] di Ginevra 800mila dollari. La ricevuta della operazione, intestata al vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura [CSM], Ugo Zilletti, e all’antiquario fiorentino Marco Ceruti, fu ritrovata più tardi nell’archivio di Gelli [http://www.archivioflamigni.org/doc/indice-atti-commissione-p2.pdf, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/02/18/dodici-anni-di-cattiva-memoria.html, http://web.tiscali.it/almanaccodeimisteri/p22001.htm].
La Loggia P2 non si sarebbe arresa facilmente.
Il 2 ottobre 1980, Massimo Spada era arrestato con l’accusa di avere collaborato, quale rappresentante dello IOR, alla bancarotta grave e fraudolenta della Banca Privata Italiana. Data la sua età e la sua salute malferma, Spada otteneva la libertà provvisoria, dopo ventisei giorni. Quattro mesi dopo, il 7 febbraio 1981, veniva arrestato, per gli stessi motivi, il successore di Spada allo IOR, Luigi Mennini, anche lui gentiluomo di Sua Santità e membro di decine di consigli di amministrazione. L’arresto di Mennini e di Spada – che era, già, in pensione – provocò un terremoto in Vaticano, soprattutto, in seno allo IOR. Mennini vi lavorava da cinquanta anni e, senza accorgersene, era andato in prigione con la chiave di una delle casseforti in tasca.
Lo scompiglio fu colossale.
Che cosa fece Paul Marcinkus?
Prese carta e penna e scrisse una nota, in cui spiegava che Mennini era stato arrestato perché, anni prima, era stato membro del comitato esecutivo della Banca Unione di Sindona e, dunque, lo IOR non aveva niente a che vedere con la faccenda. Piegò il foglio, vi stampigliò sopra la dicitura “riservato” e lo fece recapitare alla Segreteria di Stato.
Il 17 marzo 1981, una squadra della Guardia di Finanza bussò alla porta della Gio-Le, una industria di Castiglion  Fibocchi, con un mandato giudiziario, che la autorizzava a perquisire i locali.
Poche ore dopo, Licio Gelli fuggiva dall’Italia in tutta fretta.
Il frutto più importante di quella perquisizione fu l’elenco degli iscritti alla Loggia P2 [http://www.stragi.it/2agost80/iscrittiP2.pdf].
Roberto Calvi, rimasto senza protezioni, cercò l’intervento del Vaticano e dello IOR, ma poco meno di due mesi dopo, il 21 maggio 1981, veniva arrestato per reati valutari, processato e condannato.
Nel carcere di Lodi, tentava il suicidio.
Il banchiere aveva un problema che gli toglieva il sonno. Doveva restituire decine di milioni di dollari ai peggiori criminali: il cassiere di Cosa Nostra Pippo Calò [http://archiviostorico.corriere.it/2001/settembre/25/Pippo_Calo_dissocia_Cosa_nostra_co_0_01092510695.shtml] e la Banda della Magliana[25].
 

Papa Giovanni Paolo II e il cardinale Paul Casimir Marcinkus

Rimesso in libertà dopo la prima condanna, Calvi, nell’attesa del processo di appello, chiedeva indietro allo IOR i soldi “prestati”, ma invano.
Iniziava, così, una assurda corsa contro il tempo.
Verso la fine di agosto del 1981, decise di andare a Roma per incontrare il cardinale Marcinkus. Mentre la città semideserta si scioglieva nella canicola estiva, Calvi avviava con il cardinale una folle trattativa. Calvi firmava un documento che svincolava lo IOR da ogni responsabilità per l’indebitamento delle società panamensi verso il Banco Ambrosiano; in cambio otteneva dagli alti dirigenti dello IOR, Luigi Mennini e Pellegrino de Strobel, lettere di patronage, a garanzia della situazione debitoria delle stesse società beneficiarie dei maxiprestiti, con scadenza al 30 giugno 1982. Entro quella data Calvi doveva trovare gli ingenti capitali necessari al salvataggio del suo impero finanziario. Marcinkus, infatti, non rispondeva dei debiti, pur riconoscendo che le società estere alla base del crack del Banco Ambrosiano fossero controllate dallo IOR.
Come se il passaggio di quei fiumi di soldi fosse opera della Provvidenza!
Il dirigente del settore estero del Banco Ambrosiano, Giacomo Botta, dichiarerà ai magistrati incaricati delle indagini:
“Il dominio dello IOR sul Gruppo del Banco Ambrosiano era reso palese da una lunga serie di circostanze: la fulminea carriera di Alessandro Mennini[26], entrato inopinatamente in banca con il grado di vicedirettore; il trasferimento dallo IOR al Gruppo Ambrosiano della Banca Cattolica del Veneto, cui non era seguito cambiamento alcuno nella direzione e nell’organo di amministrazione; il finanziamento cospicuo dello IOR [150 milioni di dollari] che aveva aiutato la neonata società Cisalpine [poi, Banco Ambrosiano Overseas Limited, BAOL, nda] ad affermarsi come banca; la presenza di monsignor Marcinkus nel consiglio di amministrazione della stessa banca di Nassau; la gelosia con la quale Calvi custodiva e gestiva il proprio esclusivo rapporto con lo IOR; l’appartenenza allo IOR di Ulricor e Rekofinanz, azioniste del Banco Ambrosiano, nonché di quattro società titolari dei pacchetti di azioni del Banco Ambrosiano che la Rizzoli aveva costituito in pegno per un finanziamento ottenuto da BAOL.”
E ancora:
“Già nel 1977-1978, quando divenni consigliere [del Banco Ambrosiano di Managua], Calvi mi disse che il gruppo che controllava il pacchetto di controllo dell’Ambrosiano era lo IOR, che deteneva all’estero una consistente partecipazione del Banco. Seppi, anche, che le società che, a quell’epoca, l’Ambrosiano di Managua finanziava erano del Vaticano. Calvi, probabilmente, intendeva mettermi al corrente di questi segreti che lui tutelava gelosamente e intendeva, altresì, giustificare i finanziamenti, dicendo che erano imposti dal Vaticano, che era in sostanza il padrone del Banco Ambrosiano.”
Ma papa Giovanni Paolo II sapeva dello IOR e di quanto faceva Marcinkus?
Il papa era nella sua residenza di Castel Gandolfo, a riprendersi dallattentato del 13 maggio 1981[27], in piazza San Pietro, nel giorno della festa della Madonna di Fatima.
Sette giorni prima dell’arresto di Calvi, venti prima della pubblicazione della lista della Loggia P2, ventiquattro dopo l’ultima condanna inflitta a Sindona e cinquantasei dopo la fuga di Gelli da Arezzo, il ventitreenne turco Mehmet Ali Agca aveva sparato a papa Karol Wojtyla in piazza San Pietro.
Venne condannato all’ergastolo, ma il processo non produsse nessuna prova definitiva che confermasse la tesi che il reato di Agca fosse il frutto di un complotto internazionale.
Il processo lasciò solo dubbi. ,
Braccato dai creditori, Roberto Calvi fuggiva all’estero.
Finiva la sua assurda corsa contro il tempo, il 18 giugno 1982, sotto il ponte Blackfriars Bridge di Londra, appeso a una corda con dei mattoni in tasca.
Il 5 giugno 1982, solo due settimane prima di morire, Roberto Calvi aveva scritto una lettera drammatica a papa Giovanni Paolo II, nella speranza di avere un aiuto per salvare quello che rimaneva del Banco Ambrosiano e per togliere lo IOR dalle mani del cardinale Paul Casimir Marcinkus, che mantenne, invece, il suo incarico fino al 1989. La lettera, che fotografa un pezzo importante di Storia italiana e ci induce a pensare, con molta probabilità, che papa Wojtyla non potesse non sapere, è stata resa nota, molti anni dopo dal figlio di Calvi, Carlo.

Santità,
Ho pensato molto, molto, in questi giorni. E ho capito che c’è una sola speranza per cercare di salvare la spaventosa situazione che mi vede coinvolto con lo IOR in una serie di tragiche vicende che vanno sempre più deteriorandosi e che finirebbero per travolgerci irreversibilmente. Ho pensato molto, Santità, e ho concluso che Lei è l’ultima speranza, l’ultima. Da molti mesi, ormai, mi vado dibattendo a destra e a manca, alla disperata ricerca di trovare chi responsabilmente possa rendersi conto della gravità di quanto è accaduto e di quanto più gravemente accadrà se non intervengono efficaci e tempestivi provvedimenti, essenziali per respingere gli attacchi concentrici che hanno come principale bersaglio la Chiesa e, conseguentemente, la mia persona e il gruppo a me facente capo. La politica dello struzzo, l’assurda negligenza, l’ostinata intransigenza e non pochi altri incredibili atteggiamenti di alcuni responsabili del Vaticano, mi danno la certezza che Sua Santità sia poco e male informata di tutto quanto ha per lunghi anni caratterizzato i rapporti intercorsi tra me, il mio gruppo e il Vaticano.
Santità, sono stato io ad addossarmi il pesante fardello degli errori nonché delle colpe commesse dagli attuali e precedenti rappresentanti dello IOR, comprese le malefatte di Sindona, di cui ancora subisco le conseguenze; sono stato io che, su preciso incarico dei Suoi autorevoli rappresentanti, ho disposto cospicui finanziamenti in favore di molti Paesi e associazioni politico-religiose dell’Est e dell’Ovest; sono stato io che, di concerto con autorita vaticane, ho coordinato in tutto il Centro-Sudamerica la creazione di numerose entità bancarie, soprattutto allo scopo di contrastare la penetrazione e l’espandersi di ideologie filomarxiste; e sono io infine che oggi vengo tradito e abbandonato proprio da queste stesse autorità a cui ho rivolto sempre il massimo rispetto e obbedienza.
Santità, la domanda che mi pongo è questa: “Ma a chi giova un tale atteggiamento?” Certo non a me o al mio gruppo, ma anche più certamente non giova agli interessi morali ed economici della Chiesa. E allora, Santità, mi convinco sempre di più che chi vuole male alla Chiesa [e non sono in pochi] trova, all’interno di essa, numerosi e autorevoli alleati. Ora si tratta di stabilire quanti di questi alleati sono in buona fede e quanti non lo sono. Dunque, le ipotesi sono due: per quelli che sono coscienti del male che hanno fatto e che potrebbero ancora fare, non c’è alcun dubbio: Lei, Santità, è l’obiettivo! Per quelli che invece sono in buona fede [ed è l’ipotesi meno credibile], Santità, non indugi un secondo, li allontani urgentemente dal loro incarico prima che sia troppo tardi!
Certo, occorre molta buona volontà, per non dire che bisogna essere ciechi, per non vedere che si sta preparando una grande congiura contro la Chiesa e la Persona di Sua Santità. E ciò è facile dedurlo dalle assurde risposte che si continua a dare alle mie disperate grida di pericolo e ai miei reiterati inviti di chiarimento.
Forse, senza forse, la grande popolarità e simpatia di cui Lei, Santità, gode in molte parti del mondo e l’espandersi di essa, preoccupano, e non poco, i Suoi avversari interni ed esterni, sino al punto da far pensare a quelli interni, si capisce, il tanto peggio, tanto meglio! Gli avversari esterni lo sappiamo chi sono e Lei, Santità, lo sa meglio di tutti e li combatte meglio di tutti; ma quelli interni, interni alla Chiesa voglio dire, e quelli affini, come alcuni democristiani, Lei, Santità, li conosce? Io credo proprio di no! Non sono un pettegolo e neanche uno che accusa per dispetto o per vendetta. E non mi interessa, perciò, soffermarmi sulle tante chiacchiere che si fanno su alcuni prelati e in particolare sulla vita privata del segretario di Stato cardinale Casaroli[28] [si sa, questo genere di chiacchiere non giova mai alla dignità e al buon nome della Chiesa], ma mi interessa moltissimo segnalarLe il buon rapporto che lega quest’ultimo ad ambienti e a personaggi notoriamente anticlericali, comunisti e filocomunisti, come quello con il ministro democristiano Nino Andreatta col quale, sembra, abbia trovato l’accordo per la distruzione e spartizione del Gruppo Ambrosiano.
Ma a quale disegno vuole o deve obbedire il segretario di Stato del Vaticano? A quale ricatto? Santità, un eventuale crollo del Banco Ambrosiano provocherebbe una catastrofe di inimmaginabili proporzioni in cui la Chiesa ne subirebbe i danni piu gravi! Bisogna evitarla a ogni costo! Molti sono coloro che mi fanno allettanti promesse di aiuto a condizione che io parli delle attività da me svolte nell’interesse della Chiesa; sono proprio molti coloro che vorrebbero sapere da me se ho fornito armi o altri mezzi ad alcuni regimi di Paesi del Sudamerica per aiutarli a combattere i nostri comuni nemici, e se ho fornito mezzi economici a Solidarnosc o anche armi e finanziamenti ad altre organizzazioni di Paesi dellEst; ma io non mi faccio e non voglio ricattare; io ho sempre scelto la strada della coerenza e della lealtà anche a costo di gravi rischi! Santità, a Lei mi rivolgo perché solo attraverso il Suo alto intervento è ancora possibile raggiungere un accordo tra le parti interessate e respingere il terribile spettro di una immane sciagura.
Ora, altro non mi rimane che sperare in una Sua sollecita chiamata che mi consenta di mettere a Sua disposizione importanti documenti in mio possesso e di spiegarLe a viva voce tutto quanto è accaduto e sta accadendo, certamente a Sua insaputa.
Grato e nel bacio del Sacro Anello, mi confermo della Santità Vostra.
Roberto Calvi
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/10/07/da-solidarnosc-al-clan-della-magliana-tutti.html

Qualche mese dopo la morte di Roberto Calvi, il giornalista de L’Espresso Enzo Biagi incontrò  la vedova Clara:
“Mio marito era innocente e chi doveva pagare, chi doveva presentarsi come imputato, era lo IOR e un altro gruppo italiano che non dico. Alla vigilia del processo io mi precipitai da Marcinkus e lo supplicai di fare qualcosa, di assumersi le sue responsabilità. Non mi meravigliai che l’altro gruppo privato si difendesse come poteva, ma da parte della Chiesa non mi sarei mai aspettata che non si prendesse le sue responsabilità. Mio marito era in prigione e si era stancato di pagare per gli altri.”  [http://www.archivio900.it/it/articoli/art.aspx?id=7223][29]
Il Banco Ambrosiano falliva, così, nel 1982, a seguito di quello che, finora, è stato il più grave dissesto finanziario di una banca italiana, stimato in 1,2-1,3 miliardi di dollari, sotto la presidenza del “banchiere di Dio”, che aveva cercato, senza riuscirvi, di recuperare il denaro prestato allo IOR, e che, probabilmente, si era rivolto ad ambienti religiosi vicini all’Opus Dei, i quali avrebbero coperto i debiti dello IOR per ottenere maggior peso in Vaticano. Tentativo senza successo, perché ostacolato da quanti, in Vaticano, temevano che il potere dell’Opus Dei avrebbe potuto crescere e per impedirlo, lasciarono fallire il Banco Ambrosiano.
I segreti e gli interessi economici legati alla mancata restituzione da parte dello IOR dei danari ricevuti dal Banco Ambrosiano, a loro volta provenienti da Cosa Nostra, attraverso il suo “cassiere” Pippo Calò, e combinati alle operazioni finanziarie che lo IOR realizzava per conto di propri clienti italiani – desiderosi di esportare valuta, aggirando le norme bancarie –, sarebbero, quindi, all’origine della decisione di eliminare Roberto Calvi, che, disperato e temendo di finire in carcere, avrebbe potuto rivelare quanto sapeva ai magistrati.
Né il cardinale Paul Casimir Marcinkus né Licio Gelli, venerabile maestro della Loggia P2[30], egualmente, implicato nello scandalo di riciclaggio di danaro come nel finanziamento di gruppi terroristi di estrema destra degli anni 1970, subirono processi.
Il Vaticano si oppose all’estradizione del cardinale Paul Casimir Marcinkus.
Secondo la moglie di Roberto Calvi, il cardinale teneva in pugno papa Giovanni Paolo II, in quanto da lui dipendevano i finanziamenti a Solidarnosc:
Wojtyla aveva bisogno di distruggere il comunismo per farlo aveva bisogno di soldi, così Marcinkus teneva in pugno il papa.
E Licio Gelli:
Nel settembre 1980 Calvi mi confidò di essere preoccupato perché doveva pagare una somma di 80 milioni di dollari al movimento Solidarnosc e aveva solo una settimana per versare il denaro.
La linea difensiva della Santa Sede, in tale vicenda, non fu quella di accertare se le accuse mosse al cardinale Marcinkus fossero fondate oppure no; ma di respingere le richieste della magistratura italiana, perché queste avrebbero interferito in un ambito e in uno Stato, il Vaticano, in cui l’Italia non poteva entrare.
Dopo una lunga schermaglia giuridica e diplomatica, il 17 luglio 1987, la Corte di Cassazione stabilì che, in accordo all’articolo 11 dei Patti Lateranensi  [http://docenti.unimc.it/f1.marongiubuonaiuti/teaching/2013/12358/files/gli-altri-soggetti-del-diritto-internazionale/Corte-di-cassazione-sent.-17-luglio-1987-n.-3932/view]:
“Gli enti centrali della Chiesa Cattolica sono esenti da ogni ingerenza da parte dello Stato italiano.”
Il cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato, negoziò con il Governo italiano un accordo, con il quale lo IOR versava 244 milioni di dollari, quale contributo volontario, ai creditori del Banco Ambrosiano.
Di fatto, una ammissione di colpevolezza!
Marcinkus rimase a capo dello IOR, fino al 1989, sempre difeso da papa Giovanni Paolo II.
“Pecunia non olet.”,
e senza soldi, forse, la Storia della Chiesa avrebbe potuto essere diversa!


Daniela Zini
Copyright © 19 gennaio 2015 ADZ


[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[2] 15 Andarono intanto a Gerusalemme. Ed entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe 16 e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio. 17 Ed insegnava loro dicendo: “Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri.”
18 L’udirono i sommi sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutto il popolo era ammirato del suo insegnamento. 19 Quando venne la sera uscirono dalla città.”
Vangelo secondo Marco, 11,15-19

12 Gesù entrò poi nel tempio e scacciò tutti quelli che vi trovò a comprare e a vendere; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe 13 e disse loro: “La Scrittura dice: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri.”
14 Gli si avvicinarono ciechi e storpi nel tempio ed egli li guarì. 15 Ma i sommi sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che faceva e i fanciulli che acclamavano nel tempio: “Osanna al figlio di Davide!”, si sdegnarono 16 e gli dissero: “Non senti quello che dicono?” Gesù rispose loro: “Sì, non avete mai letto: Dalla bocca dei bambini e dei lattanti ti sei procurata una lode?”
17 E, lasciatili, uscì fuori dalla città, verso Betània, e là trascorse la notte.”
Vangelo secondo Matteo, 21,12-17

“45 Entrato poi nel tempio, cominciò a cacciare i venditori, 46 dicendo: “Sta scritto: La mia casa sarà casa di preghiera. Ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri!”
47 Ogni giorno insegnava nel tempio. I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire e così anche i notabili del popolo; 48 ma non sapevano come fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue parole.”
Vangelo secondo Luca, 19,45-48
 
[3] 17Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” 18Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre.” 20Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza.” 21Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!” 22Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!” 24I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: “Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! 25È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio.” 26Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: “E chi può essere salvato?” 27Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio.”
28Pietro allora prese a dirgli: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito.” 29Gesù gli rispose: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, 30che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà.”
Vangelo secondo Marco, 10, 17-30

[4] Ecclesiaste o Qoelet, 3, 1-9

[5] Libro di Siracide o Ecclesiatico, 31, 6

[6] Alchimista e mago, Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim [1486-1535] riuscì a sfuggire all’Inquisizione. Nella sua opera più importante, De occulta philosophia, scritta nell’arco di circa venti anni, dal 1510 al 1530: la filosofia occulta è la magia, considerata “la vera scienza, la filosofia più elevata e perfetta, in una parola la perfezione e il compimento di tutte le scienze naturali”.
In De nobilitate et praeecelentia foeminei sexus [Nobiltà e preminenza del sesso femminile] Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim sostiene la superiorità della donna rispetto all’uomo dal momento, afferma, che già il nome della prima donna, Eva, che significa vita, è più nobile di quello di Adamo, che vuol dire terra; anche l’essere stata creata dopo l’uomo è motivo di maggior perfezione e il corpo femminile, secondo lui, galleggia in acqua più facilmente. Inoltre, la donna è più eloquente e più giudiziosa tanto che “filosofi, matematici e dialettici, nelle loro divinazioni e precognizioni sono spesso inferiori alle donne di campagna e molte volte una semplice vecchietta ne sa più di un medico”. Con il difendere la dignità delle donne, aveva espresso la sua adesione a una corrente, avviata circa un secolo prima, che, a buon diritto, si può definire “femminista” ante litteram, di cui si trovano tracce in Francia e alla corte di Borgogna [Christine de Pizan], ma anche in Spagna [Juan Rodríguez del Padrón] e in Italia, rivendicando per loro i diritti alla istruzione e alla libera attività professionale, ovvero alla conoscenza e alla indipendenza economica: “Ma prevalendo la licenziosa tirannia degli uomini sulla giustizia divina e sulla legge naturale, la libertà accordata alle donne è oggi loro interdetta da leggi inique, soppressa dalla consuetudine e dalle usanze e totalmente cancellata fin dall’educazione, perché la femmina appena nata e nei primi anni di vita è tenuta in casa nell’ozio, e, quasi che ella non sia adatta a più alte occupazioni, non le è permesso nient’altro che badare all’ago e al filo; quando sarà giunta all’età del matrimonio sarà affidata alla forza e alla gelosia del marito, oppure sarà rinchiusa nella perpetua prigione di un monastero di monache. Tutti gli uffici pubblici le sono proibiti dalle leggi. Non le è concesso di intentare un’azione legale malgrado sia prudentissima. Inoltre è esclusa dal giudicare, dagli arbitrati, dall’adozione, dalla intercessione, dalla procura, dalla tutela, dalla cura, dalle cause criminali e testamentarie. E pure le è vietato di predicare la parola di Dio, il che è assolutamente contrario alle scritture.”

[7] Da circa un secolo, il Council on Foreign Relation [CFR] svolge il ruolo di consigliere del Dipartimento di Stato americano. In ogni conflitto, determina gli obiettivi bellici nell’interesse di suoi membri e al di fuori di ogni controllo democratico. Allo stesso modo partecipa alla redazione di una Storia ufficiale tutte le volte che sia necessario condannare gli errori del passato e rifarsi un immagine.
Il Council of Foreign Relations è una associazione privata, costituita a Parigi, nel 1919, da Edward Mandell House, il “colonnello” House, eminenza grigia, che accompagnò il presidente Wilson alla Conferenza per la Pace, quando nella capitale francese si intrecciava la guerra diplomatica tra le Nazioni vincitrici della Prima Guerra Mondiale. Dalla conferenza scaturirono il Trattato di Versailles, che poneva i presupposti di una nuova conflagrazione nel cuore dell’Europa; la Società delle Nazioni, incarnante l’idea di una specie di governo mondiale federativo, poi, ripresa con l’Organizzazione delle Nazioni Unite [ONU] e il Council of Foreign Relations [CFR], organismo più umbratile, ma destinato a una azione di lunga durata e di notevole incidenza nella Storia Contemporanea.
John W. Davis, delegato di J. P. Morgan fu il primo presidente in carica.
Il quartiere generale del CFR si trova presso la Harold Pratt House, un edificio di quattro piani donato alla organizzazione dalla famiglia Rockefeller, all’incrocio della 68a strada newyorchese con la elegante Park Avenue. È qui che vengono allevati i futuri alti funzionari e consiglieri governativi degli Stati Uniti.
Il CFR non sarebbe altro che la emanazione più esterna di una Società Segreta che affonda le sue radici nell’Inghilterra vittoriana, e precisamente nell’ambiente oxoniano, raccoltosi intorno a John Ruskin, affascinante personalità di critico estetico, riformatore sociale e profeta politico, percorsa da una vena di romantica follia, predicante in un linguaggio biblico e infuocato, ma di un fuoco che sembra tralucere da una lastra di ghiaccio, l’avvento di una platonica Politeia, dove tutto: lavoro, modo di vivere, di vestirsi, sponsali e procreazione, dovrà essere regolato ferramente dallo Stato o meglio dai sapienti che lo reggono.
“Il mio scopo costante è stato quello di mostrare l’eterna superiorità di alcuni uomini su altri.”,
affermava Ruskin, che non nutriva alcuna simpatia per l’ideale e il concetto della libertà:
“Il cane alla catena è un buono e forte animale, libera, invece, è la mosca. Tutto obbedisce nella Natura: tutto, a esempio, sottostà alla legge di gravità. Solo che il masso enorme la segue più docilmente che non la piuma leggera, che farà mille giravolte oziose prima di toccare terra.”
Nel 1891, un gruppo di discepoli oxoniani, imbevuti di tali dottrine – tra i quali spicca l’energico uomo di azione e di affari Cecil Rhodes, fondatore della Rhodesia – avrebbe costituito una società segreta, caratterizzata da una fanatica vena di pananglismo razzista; imporre al mondo il predominio britannico, tale il programma, nato nella tradizionale atmosfera del Rule Britannia, ma animato da un affiato nuovo, che dalla Nazione sposta l’accento alla razza, postulando la esigenza di una alleanza tra le Nazioni di razza anglosassone. Dopo la morte di Rhodes un’altra figura di grande proconsole sudafricano, lord Alfred Milner, organizza una cerchia esterna, la Round Table, che deve assicurare alla originaria Società Segreta, di cui non si conosce il nome – nome che, forse, per maggiore segretezza, si evitò, perfino, di coniare – un ambiente di “simpatia” e di fattiva collaborazione. Nel 1914, funzionano gruppi della Round Table in Inghilterra, in Sud Africa, in Canada, in Australia, in Nuova Zelanda, in India e negli Stati Uniti. La coordinazione della loro attività è assicurata da un organo trimestrale, la rivista The Round Table.  
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando è, ormai, chiaro che gli Stati Uniti sono destinati ad assumere una importanza sempre più grande nel concerto mondiale, il gruppo americano della Round Table offre la piattaforma per la creazione del Council on Foreign Relations, delineato nei colloqui anglo-americani di Parigi, che assume il compito di contrastare la tendenza isolazionista della opinione pubblica e indirizzare la politica estera del Governo statunitense nel senso voluto dalla Società Segreta, vale a dire nel senso di una affermazione planetaria della razza anglosassone.
Dagli ambienti gravitanti intorno al CFR deriva l’impulso per l’intervento degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale e dagli stessi ambienti viene impostata, nel dopoguerra, la strategia della Guerra Fredda, che sarebbe stata abbandonata in seguito alla constatazione della sua sterilità. Risultando impossibile abbattere, in modo frontale, il colosso sovietico, appariva contraria ai propri scopi una politica che ne provocasse soltanto l’irrigidimento. Nasce, quindi, nei cervelli del CFR l’idea di una strategia alternativa, basata sull’allentamento dei vincoli interni al sistema imperialistico di Mosca, il cui sgretolamento dovrebbe essere assicurato dalla penetrazione commerciale occidentale e dal contagio ideologico degli eurocomunismi. 

[8] È consuetudine che ogni vescovo abbia un motto sul suo stemma, che riassuma, in un certo modo, il proprio essere vescovo. Marcinkus scelse la frase di San Paolo:
“Scio cui credidi” [“So di chi mi sono fidato.”].
Se la frase viene pronunciata con una certa intonazione, si può avere una idea molto suggestiva della persona…  
Secondo quanto pubblicato, il 12 settembre 1978, dalla rivista OP-Osservatore Politico di Mino Pecorelli [tessera numero 1750 della Loggia P2], il cardinale Paul Casimir Marcinkus sarebbe entrato a far parte della Massoneria, il 21 agosto 1967, con numero di matricola 43/649 e nome in codice Marpa.

[9] Orta, antica e, oggi, scomparsa città del Nordafrica, vicina a Cartagine.

[10] L’Istituto per le Opere di Religione, secondo quanto stabilisce il suo statuto, ha lo scopo di “provvedere alla custodia e all’amministrazione dei beni mobili e immobili trasferiti o affidati allo IOR medesimo da persone fisiche o giuridiche e destinati a opere di religione e carità. L’Itituto pertanto accetta beni con la destinazione, almeno parziale e futura, di cui al precedente comma. L’Istituto può accettare depositi di beni da parte di Enti e persone della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano”.
Il primo ottobre del 2013, lo IOR ha pubblicato, per la prima volta, nella sua storia, il suo bilancio.

[11] Il 26 agosto 1978, giorno della elezione di papa Albino Luciani, il cardinale Paul Casimir Marcinkus non era a Roma, ma seguiva le notizie e sosteneva la candidatura di Giuseppe Siri. Il pontificato, inaugurato da papa Giovanni Paolo I, annunciava una grande pulizia nella Curia. Vi erano due punti sui quali Luciani sembrava inflessibile: l’iscrizione di ecclesiastici alla Massoneria e l’uso del danaro della Chiesa alla stregua del danaro di una banca qualsiasi. Peggio ancora se questo danaro fosse gestito in combutta con personaggi quali Michele Sindona e Roberto Calvi, sui quali aveva fatto discrete indagini all’epoca della vendita della Banca Cattolica del Veneto.
In coincidenza con l’elezione di Luciani, venne pubblicato un elenco di nomi di ecclesiastici, con il loro numero di matricola, la data della loro iscrizione e il loro nome in codice. La lista era stata diffusa da una piccola agenzia di stampa e pubblicata dal settimanale OP-Osservatore Politico, diretto da Mino Pecorelli, assassinato il 20 marzo 1979.
L’elenco diffuso comprendeva:
-           il segretario di Stato, il cardinale Jean Villot [matricola 041/3, iniziato a Zurigo il 6 agosto 1966, nome in codice Jeanni];
-           il capo del dicastero degli affari esteri del Vaticano, il cardinale Agostino Casaroli [matricola 41/076, iniziato il 28 settembre 1957, nome in codice Casa];
-           il cardinale Sebastiano Baggio [matricola 85/2640, iniziato il 14 agosto 1957, nome in codice Seba];
-           il cardinale Paul Casimir Marcinkus [matricola 43/649, iniziato il 21 agosto 1967, nome in codice Marpa]; 
-           il segretario di Paolo VI, don Pasquale Macchi [matricola 5463/2, iniziato il 23 aprile 1958, nome in codice Mapa];
-           il segretario dello IOR, monsignor Donato De Bonis [matricola 321/02, iniziato il 24 giugno 1968, nome in codice Dondebo];
-           il nunzio in Argentina dell’epoca, il cardinale Pio Laghi [matricola0/538, iniziato il 24 agosto 1969, nome in codice Lapi];
-           il vice-direttore de L’Osservatore Romano, don Virgilio Levi [matricola 241/3, iniziato il 4 luglio 1958, nome in codice Vile];
-           il cardinale vicario di Roma Ugo Poletti [32/1425, iniziato il 17 febbraio 1969, nome in codice Upo];
-           il direttore di Radio Vaticana, il cardinale Roberto Tucci [matricola 42/58, iniziato il 21 giugno 1957, nome in codice Turo];
e altri.
Papa Giovanni Paolo I intendeva rimuovere il cardinale Paul Casimir Marcinkus dal suo incarico, opera non portata a termine per la sua prematura scomparsa. Luciani morì dopo 33 giorni dalla sua elezione al soglio pontificio, tra le ore 21 e 30 del 28 settembre 1978 e le ore 4 e 45 del giorno seguente, per infarto miocardico acuto.
I rapporti tra Paul Casimir Marcinkus e Albino Luciani sono stati, in genere, presentati come rapporti difficili. Marcinkus e Luciani si erano conosciuti quando furono vendute al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi le azioni della Banca Cattolica del Veneto, un istituto di credito regionale del Nord d’Italia con sede a Vicenza. In quel momento, lo IOR ne possedeva il 51% delle azioni e i vescovi della regione il 5%.
Il 27 luglio 1971, quando il cardinale Marcinkus era presidente da meno di sei mesi, la società Compendium del Lussemburgo [futuro Banco Ambrosiano Holding], vale a dire il primo anello acquistato all’estero dal Banco Ambrosiano di Milano, scrisse allo IOR una lettera di intenti con le condizioni per acquistare il 50% della Banca Cattolica del Veneto. Venivano offerti 46 milioni di dollari. Nella lettera la Compendium si impegnava a “mantenere invariata l’attività della banca dal punto di vista degli alti scopi sociali, morali e religiosi cattolici”.
Il 30 marzo 1972, lo IOR vendette il 37% delle sue azioni a Roberto Calvi, il quale pagò, ufficialmente, 27 miliardi di lire.

[12] Una perizia svolta, venti anni dopo, sui resti del corpo di Roberto Calvi, conservati all’Istituto di Medicina Legale di Milano, ha stabilito che, con tutta probabilità, il banchiere sia stato ucciso per strangolamento in un cantiere-discarica, distante un centinaio di metri dal Blackfriars Bridge, e, successivamente, portato sul Tamigi.

[13] Nel corso delle sue indagini Giorgio Ambrosoli scoprì la responsabilità di Michele Sindona nei confronti della banca statunitense Franklin National Bank. Venne, così, coinvolta anche l’FBI. E, da quel momento, arrivarono le telefonate intimidatorie da un soggetto, poi, identificato nel massone Giacomo Vitale, cognato del boss mafioso Stefano Bontate [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/10/12/il-tesoro-di-bontate-berlusconi-dell-utri.html], che non cambiarono, tuttavia, l’atteggiamento di Ambrosoli, deciso a liquidare la banca e a riconoscere la responsabilità penale del banchiere. Gli unici a sostenere Ambrosoli, nella sua attività, furono Ugo La Malfa, suo referente politico, e Silvio Novembre, maresciallo della Guardia di Finanza, che gli fece da guardia del corpo. In questo clima, Ambrosoli chiuse la sua inchiesta. Avrebbe dovuto sottoscrivere una dichiarazione formale, il 12 luglio 1979. Ambrosoli morì la sera prima, l’11 luglio 1979

Fu ucciso con quattro colpi di pistola da un malavitoso americano, William Joseph Aricò, che aveva ricevuto l’incarico dallo stesso Michele Sindona, attraverso il suo complice Robert Venetucci, trafficante di eroina. Così facendo, si cercò di eliminare un ostacolo al salvataggio della BPI, mandando anche un messaggio a Enrico Cuccia. Il killer fu pagato da Sindona con 25mila dollari in contanti e un bonifico di altri 90mila dollari.
Al funerale di Giorgio Ambrosoli non presenziò nessuna autorità pubblica.
Giulio Andreotti, nel 2010, intervistato da La Storia Siamo Noi, parlando di Giorgio Ambrosoli, disse:
“Certo era una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando.” [https://www.youtube.com/watch?v=xGPFoozxEow]

[14] L’Espresso, 1982, n. 5

[15] Giuseppe Tovini apparteneva a quella componente del movimento cattolico italiano intransigente, nel senso di indisponibile a scendere a patti con il Governo nato dall’occupazione di Roma da parte dell’esercito del Regno d’Italia, il 20 settembre 1870. Nel 1888, fondò, a Brescia, la Banca San Paolo e, nel 1896, a Milano, il Banco Ambrosiano. Lo guidava la convinzione che le istituzioni cattoliche, in particolare quelle educative, dovessero puntare alla piena autonomia finanziaria.
Il 20 settembre 1998, è stato proclamato Beato da papa Giovanni Paolo II. Nella omelia pronunciata in occasione della Messa per la beatificazione, celebrata nello Stadio Rigamonti di Brescia, Papa Giovanni Paolo II così lo descrive:
“Fervente, leale, attivo nella vita sociale e politica, Giuseppe Tovini proclamò con la sua vita il messaggio cristiano, fedele sempre alle indicazioni del Magistero della Chiesa. Sua costante preoccupazione fu la difesa della fede, convinto che - come ebbe ad affermare in un congresso - “i nostri figli senza la fede non saranno mai ricchi, con la fede non saranno mai poveri”. Visse in un momento delicato della storia italiana e della stessa Chiesa ed ebbe chiaro che non era possibile rispondere in pieno alla chiamata di Dio senza una dedizione generosa e disinteressata alle problematiche sociali.
Ebbe uno sguardo profetico, rispondendo con audacia apostolica alle esigenze dei tempi che, alla luce delle nuove forme di discriminazione, richiedevano dai credenti una più incisiva opera di animazione delle realtà temporali.” [http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/travels/documents/hf_jp-ii_hom_20091998_brescia-beat_it.html]

[16] Roberto Calvi, il “banchiere di Dio”, aveva conosciuto, alla fine degli anni 1960, il “banchiere della Mafia”, Michele Sindona, e le relazioni di affari tra i due erano divenute fiorenti.

[17] Il 4 ottobre 1974, la Procura di Roma aveva emesso, finalmente, due ordini di cattura contro Michele Sindona e tutta la rete affondò come un castello di carte: la Finabank di Ginevra, la Bankhause Wolff A.G. di Amburgo, la Bankhause S.K. Herstatt di Colonia, l’Amincor Bank di Zurigo. Quest’ultima si autoliquidò per evitare che qualcuno andasse a mettere il naso nei suoi archivi: era una delle banche della Mafia internazionale. Di riflesso, tutti gli istituti di credito legati a Sindona soffrirono le conseguenze del crollo: il Banco del Gottardo, la Svirobank di Lugano… vale a dire la rete finanziaria, di cui disponeva anche il Vaticano. Poco dopo la bancarotta, due uomini che indagavano, indipendentemente l’uno dall’altro, giunsero alle stesse conclusioni: sia la Finabank di Ginevra che l’Amincor Bank di Zurigo e la Banque des Titres erano state, regolarmente, usate dalla Mafia internazionale per riciclare il danaro che proveniva dalla droga, dal traffico di pietre preziose, dai sequestri di persona e da ogni genere di affare sporco. Quei due uomini erano Giorgio Ambrosoli, liquidatore nominato dalla Banca d’Italia per la bancarotta della BPI e Giorgio Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo. Furono assassinati, a dieci giorni di distanza l’uno dall’altro: Giorgio Ambrosoli, l’11 luglio 1979,  e Boris Giuliano, il 21 luglio 1979 [https://www.youtube.com/watch?v=RKXWS9SGjYo]. Riconosciuto colpevole dell’assassinio di Ambrosoli, Michele Sindona fu, poi, condannato all’ergastolo.    

[18] Nel settembre del 1973, a New York, dove Michele Sindona è riuscito a conquistare la Franklin Bank, uno dei più importanti istituti statunitensi – pagando sull’unghia 40 milioni di dollari, pari a 26 miliardi di lire – offre un banchetto al Waldorf Astoria, in onore di Giulio Andreotti, il quale confida ai convitati, businessmen italo-americani e americani:
“Per tre volte l’Italia ha avuto bisogno dell’avvocato Sindona per salvare la lira e per tre volte egli è intervenuto con successo!”  [https://books.google.it/books?id=HhWvsPykhIEC&pg=PA335&lpg=PA335&dq=sindona+banchetto+andreotti+new+york&source=bl&ots=z58q-l9b-1&sig=FmSK1GwHk-1A2oAR0XgpaQL3z9s&hl=it&sa=X&ei=Ya-6VLSiJ4G_UIzCgcgG&ved=0CCEQ6AEwAA#v=onepage&q=sindona%20banchetto%20andreotti%20new%20york&f=false]. L’affermazione viene riportata da Il Progresso italo-americano, il grande giornale degli italiani, dal 1880 al 1988, che vivevano negli Stati Uniti d’America.  

[19] Sono gli uomini della finanza laica. Tra loro contava, anche il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, che, in seguito, spinto dal desiderio di carriera e dalla ambizione di entrare nella stanza dei bottoni, avrebbe lasciato il gruppo per mettersi sotto l’ala protettrice dell’alto e potentissimo notabilato democristiano e, conseguentemente, al servizio della finanza cattolica.   
  
[20] Umberto Ambrosoli, Qualunque cosa succeda.

[21] La mattina del 13 novembre 1977, Milano si era svegliata tappezzata di cartelloni in cui si denunciavano presunte irregolarità del Banco Ambrosiano. Artefice del gesto era Michele Sindona, che voleva vendicarsi di Calvi, cui aveva chiesto, senza successo, i soldi per “tappare i buchi” delle sue banche.

[22] La Loggia P2 era, di fatto, una loggia segreta, i cui iscritti erano noti solo al maestro venerabile, che la presiedeva, Licio Gelli. Dal punto di vista formale, la Loggia P2 dipendeva da una loggia più grande; ma, nei fatti, agiva come organismo autonomo. Gelli aveva trasformato la loggia in un club per tutti i dirigenti del Paese, fino al punto che, spesso, le decisioni importanti del governo, della finanza e della polizia non venivano prese nelle sedi istituzionali, ma nell’ambito della loggia.
“Se si voleva fare carriera, bisognava esservi iscritti.”,
dichiarò un politico italiano, nel 1981, quando venne pubblicato l’elenco parziale degli iscritti alla Loggia P2.    

[23] Emilio Alessandrini aveva indagato per anni alla ricerca della più terribile delle verità: scoprire gli assassini della strage di Piazza Fontana. Il 29 gennaio 1979, un commando attaccò l’auto del magistrato ferma al semaforo tra Viale Umbria e Via Muratori, un incrocio che Alessandrini percorreva, ogni giorno, per recarsi in tribunale. Due terroristi ruppero il vetro del finestrino con una pistola e scaricarono otto colpi nell’abitacolo, uccidendo Alessandrini sul colpo. Intanto, due uomini erano rimasti di copertura, a poca distanza, nei pressi dell’auto per la fuga. Poi, i terroristi ripiegarono sull’auto, mentre un quinto complice lanciava un fumogeno per coprire la fuga.
Nel 1980, il brigatista pentito Roberto Sandalo svelò la composizione del gruppo: il gruppo di fuoco era composto da Sergio Segio e Marco Donat Cattin, responsabili dell’agguato, mentre Michele Viscardi e Umberto Mazzola erano di copertura; Bruno Russo Palombi li attendeva tutti nell’auto, con la quale fuggirono subito dopo l’attentato.
 
[24] Entrambi i magistrati erano vicini alla destra. Antonio Alibrandi era il padre di Alessandro Alibrandi, terrorista ed esponente del gruppo eversivo di ispirazione neo-fascista, Nuclei Armati Rivoluzionari [http://www.archivioguerrapolitica.org/?tag=antonio-alibrandi].
 
[25] La Banda della Magliana deve il nome al quartiere romano di alcuni dei suoi esponenti, ma, in realtà, si trattò dell’aggregazione di diverse bande di quartiere. Fino alla metà degli anni 1970, la criminalità romana era dedita a piccoli traffici [prostituzione, furti, rapine, usura], mentre i grandi affari [droga, sequestri di persona ecc.] erano in mano ai clans siciliani e marsigliesi di Albert Bergamelli e Jacques Berenguer [legati alla Loggia P2]. Quando, nel 1976, questi vennero arrestati, Francesco Giuseppucci, capo di una banda del Testaccio, pensò che la malavita romana potesse fare il “salto di qualità”, assumendo direttamente la gestione dei grandi affari. Al primitivo nucleo di Giuseppucci, si aggiunsero, a poco a poco, altri gruppi di Trastevere e di Testaccio [Danilo Abbruciati ed Enrico De Pedis], del Tufello [Gianfranco Urbani], della Magliana [Maurizio Abbatino] di Ostia [Nicolino Selis]. Il gruppo stabilì, subito, una rete di rapporti con le maggiori organizzazioni criminali: Selis con la Camorra, i testaccini con la Cosca di Stefano Bontate, Urbani con la N’drangheta e con la Mafia catanese dei Santapaola. E tutti avevano rapporti stretti con il loro gemello milanese: il clan di Francis Turatello. L’ombra della Banda della Magliana ha aleggiato in molti grandi misteri: Moro, Orlandi, strage di Bologna, Calvi, Varisco, Pecorelli, Cirillo, Clearstream.
 
[26] Figlio dell’amministratore delegato dello IOR, Luigi Mennini.

[27] Mercoledì 13 maggio 1981, papa Giovanni Paolo II è ferito in un attentato. Sono le 17 e 19. Durante la consueta udienza settimanale il papa, a bordo di una jeep bianca, sta benedicendo la folla, radunata in Piazza San Pietro, quando un uomo, mescolato ai fedeli, gli spara due colpi di pistola, colpendolo al torace. Il killer, poco più che ventenne, è Mehmet Ali Agca, un militante dell’organizzazione terroristica turca di estrema destra, denominata Lupi Grigi.
Secondo l’ex-magistrato Ferdinando Imposimato che ha condotto tante inchieste, tra le quali quella sul caso Moro e sull’attentato a Giovanni Paolo II “l’attentato a papa Wojtyla, il rapimento di Emanuela Orlandi e la strage delle Guardie Svizzere del 1998 fra le sacre mura del Vaticano appartengono alla stessa trama, rientrano nello stesso complotto” [http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/vatican-spy-ex-magistrato-caso-moro-ferdinando-imposimato-32372.htm].

[28] Il cardinale Agostino Casaroli fu accusato da Ali Agca, nel talk-show, Stanza cosmica, trasmesso dalla televisione turca, di essere stato il mandante dell’attentato a papa Giovanni Paolo II.

[29] Enzo Biagi, L’Espresso, 10 marzo 2006.

[30] La lista dei nomi è riportata nella Relazione Anselmi [relazione finale della Commissione Parlamentare d’Inchiesta], nel libro primo, tomo primo, alle pagine 803-874 e 885-942, e nel libro primo, tomo secondo, alle pagine 213 e seguenti e 1126 e seguenti. Questa relazione fu presentata, il 12 luglio 1984, da Tina Anselmi, come conclusione dei lavori della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla Loggia P2, commissione che la stessa Anselmi aveva presieduto per quasi tre anni. Secondo la Commissione Parlamentare d’Inchiesta, l’elenco completo degli iscritti alla Loggia P2 era all’incirca di 2500 nomi; ne mancavano 1650. Lo stesso Gelli, in una intervista del 1976, aveva parlato di più di duemilaquattrocento iscritti.
Questa lista di nomi e cognomi fu trovata, il 17 marzo 1981, dai magistrati durante le indagini sul presunto rapimento di Michele Sindona a Villa Wanda, di proprietà di Licio Gelli. L’elenco fu reso pubblico dalla Presidenza del Consiglio, solo il 21 maggio 1981.
Quella della memoria è un’attività sana, che va tenuta in esercizio. Per questo è sano oggi rileggere gli atti e la relazione finale della Commissione Anselmi che nel 1984 spiega i veri obiettivi della Loggia P2 di Gelli e mette in guardia dalle associazioni segrete. La legge che porta il nome della Anselmi è tra le ipotesi di reato contestate a Carboni, Martino, Lombardi, nonché a Verdini, Cosentino, Dell’Utri e a un’altra dozzina di persone.
Ma quello che colpisce di più è imbattersi, scorrendo le righe della relazione Anselmi, in Giacomo Caliendo, che su mandato di Domenico Pone e di Ugo Zilletti faceva pressione sul procuratore di Milano Mauro Gresti per far riavere il passaporto a Roberto Calvi.
Contro di loro la testimonianza-denuncia del procuratore generale di Milano Carlo Marini, anche lui avvicinato per riconsegnare il passaporto a Calvi e sollecitato da Zilletti e Caliendo. Il giudice istruttore di Roma Ernesto Cudillo decide con sentenza-ordinanza del 17 marzo 1983 di assolvere tutti. La procura generale di Roma rinuncia a fare appello.




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