EMIGRANTI
“Io
mi sento responsabile
appena un
uomo posa
il suo sguardo su di me.”
Fëdor Dostoevskij [1821-1881]
al mio Reverendo
Padre Confessore dell’Ordine Certosino
Se fosse possibile sondare un Cuore umano, che cosa vi scopriremmo?
La
sorpresa sarebbe di scoprirvi la silenziosa attesa di una presenza.
La quercia chiese al mandorlo:
“Parlami di Dio.”
E il mandorlo fiorì.
Nikos Kazantzakis [1883-1957]
I.
ARRIVARONO A MILIONI
MA NON TROVARONO L’AMERICA
Sfruttamento e razzismo, ghetti
e sottosalari
per gli schiavi
bianchi che varcarono l’Atlantico.
di
Daniela Zini
Non esistono dati certi relativi all’entrata degli emigranti
negli Stati Uniti d’America anteriormente al 1820. Fu, infatti, solo, in
quell’anno, che si iniziarono a tenere statistiche ufficiali sui nuovi
arrivati. Il controllo, inizialmente, fu, peraltro, solo contabile. Dal 1820 a
poco dopo il 1920, infatti, chiunque lo desiderasse, era libero di entrare
negli Stati Uniti d’America, indipendentemente dalla sua etnia o dalla sua religione.
Agli inizi del XIX secolo, l’emigrante che non poteva pagarsi il
viaggio firmava un contratto con il quale, in cambio del costo della
traversata, si consegnava, fisicamente, al futuro padrone.
Dopo la grande ondata dei sottoproletari dell’Europa Meridionale
e Orientale, scattò la legge del National
Origins Act, in virtù della quale potevano entrare negli Stati Uniti
d’America 60mila inglesi, ma solo 6mila italiani. Va, tuttavia, segnalato che,
dopo il 1882, alcuni provvedimenti discriminatori furono adottati a danno degli
emigranti di etnia asiatica.
Dalla metà dell’ultima decade del 1800 all’inizio della Prima
Guerra Mondiale, fiorì – se così si può dire – la grande stagione
dell’emigrazione italiana: dei 13 milioni di stranieri entrati negli Stati
Uniti d’America, dal 1895 al 1914, si
può calcolare che oltre 3 milioni siano giunti a Ellis Island dall’Italia. Nel
periodo tra le due guerre, anche a seguito della legislazione americana sui
“contingenti”, il flusso migratorio calò decisamente per riprendere, con
gradualità, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
“For many, the American dream
has become a nightmare.”
Bernie Sanders
Give me your tired, your poor,
Your huddled masses
yearning to breathe free,
The wretched refuse
of your teeming shore,
Send these, the
homeless, tempest-tossed to me,
I lift my lamp
beside the golden door!
Emma
Lazarus [1849-1887]
Ma era veramente d’oro la porta che
veniva aperta alle masse che lasciavano il Vecchio Continente, fuggendo da
persecuzioni politiche e religiose, da una vita di stenti, sovente, da un vero
e proprio destino di fame?
Si stenta a crederlo se si pensa che
lo spirito con il quale venne accolta l’immigrazione europea negli Stati Uniti
d’America ebbe dall’inizio caratteristiche assai meno filantropiche di quelle
suggerite dai versi della poetessa ebrea.
Già, all’inizio del 1800, scozzesi
dell’Ulster di confessione presbiteriana e, pertanto, malvisti dal governo di
Londra, appartenente alla Chiesa Anglicana, ugonotti francesi e mennoniti
tedeschi – un’altra setta protestante duramente perseguitata dai principi
cattolici di quel Paese – avevano iniziato a cercare rifugio sulle coste della
Nuova Inghilterra: si trattava, in larga parte, di esperti contadini e di abili
artigiani, mani preziose per quelle terre ancora tutte da colonizzare, eppure
il prezzo pagato perché costoro potessero essere ammessi a fare parte della
nuova società, che si andava formando, fu altissimo, spesso, crudele.
A danno di quanti non disponevano
della somma necessaria a pagarsi il passaggio marittimo venne, infatti,
studiato un tipo di contratto, avente peculiarità particolarmente esecrabili:
l’emigrante firmava un documento, con il quale riconosceva il suo debito nei
confronti del capitano della nave che effettuava il trasporto e lo autorizzava
a recuperare il danaro anticipato “rivendendo il suo lavoro” a un piantatore d’Oltreoceano.
Nella realtà, oggetto del contratto
non erano tanto le prestazioni dell’emigrante quanto la sua stessa persona
fisica dal momento che il piantatore, per garantirsi che il lavoro venisse,
effettivamente, prestato, aveva il diritto di privarlo delle libertà personali
fino a quando non avesse recuperato, ovviamente con i debiti interessi, la
somma rischiata.
Si calcola che, in questo modo, uno
schiavo bianco – il termine non è improprio, perché, in definitiva, di vera
schiavitù, anche se temporanea, si trattava –, ingaggiato in Europa e
trasportato in America, per la cifra media complessiva di una decina di
sterline, potesse venire ceduto a un proprietario terriero per il quadruplo; il
proprietario terriero prima di procedere all’affrancatura – conferendo insieme
alla libertà di potersi trasferire altrove, di prendere moglie e tutti gli
elementari diritti della persona umana, anche qualche attrezzo e, a volte, un
piccolo appezzamento di terreno –, a sua volta, riusciva a spremere in lavoro
dall’immigrato una cifra che, spesso, poteva rappresentare il triplo
dell’investimento fatto.
Il reclutamento e l’impiego di
schiavi bianchi rappresentarono, dunque, un ottimo affare per gli uomini di
mare e i proprietari di terre; della redditività della speculazione fanno fede
lo svolgimento di vere e proprie campagne pubblicitarie sui luoghi di
emigrazione da parte di agenti assoldati allo scopo e il non infrequente
ricorso a forme di reclutamento forzato.
Dei 150mila scozzesi, 100mila
tedeschi e 20mila ugonotti, emigrati in America fino alla metà del 1800, oltre
la metà si pagarono il viaggio con il tipo di lavoro coatto descritto: a
proposito della vitalità di tale istituto nel Paese, che si avviava a divenire
la cosiddetta “Culla della Democrazia”, vale ricordare come ancora nel 1783,
quando la Guerra d’Indipendenza era, già, conclusa e alcuni Stati, quali il
Massachusetts e il New Hampshire, promulgavano leggi per l’abolizione della
schiavitù di colore, continuasse a venire, regolarmente, praticato.
Il flusso migratorio non aveva,
tuttavia, rappresentato fino ad allora un reale fenomeno di massa. Iniziò a
divenire tale solo dopo la fine della Guerra di Secessione, conclusasi nel 1865,
con la sconfitta dei confederati sudisti, quando fu, definitivamente, aperto il
cancello – questo veramente d’oro – verso i territori agricoli e minerari del West
e del Middle West.
Con il miraggio di un pezzo di terra
da assegnarsi, a titolo gratuito, a ogni pioniere, secondo quanto stabiliva lo Homestead Act del 20 maggio 1862, le
moltitudini furono spinte alla conquista del West. Ma le terre demaniali,
distribuite gratuitamente, erano, il più delle volte, in posizioni
inaccessibili e molto esposte agli attacchi delle tribù indiane in rivolta
contro la politica di genocidio praticata nei loro confronti dal governo di
Washington.
In pratica, le proprietà che gli
emigranti tedeschi, in testa anche a questa seconda ondata, scandinavi e
olandesi ebbero la effettiva possibilità di colonizzare furono quelle comperate,
a caro prezzo, dalle grandi compagnie ferroviarie, che se le erano accaparrate a
mano a mano che da Oriente e da Occidente avanzava il nastro della strada
ferrata transcontinentale, destinato a venire saldato, nel 1869, dal Golden Spike, il chiodo d’oro posto a
commemorare il ciclopico progetto finalmente ultimato.
In tale modo, veniva portata avanti
un’altra delle più lucrose speculazioni nella Storia degli Stati Uniti d’America:
i risparmi degli immigrati, finiti nelle rapaci casse delle compagnie
ferroviarie a pagamento di terreni all’Ovest, messi in vendita con campagne
pubblicitarie estremamente ben studiate, consolidarono le fortune del grande
capitale americano, già, avviato per la sua strada trionfale.
Intanto, proprio per la presenza
negli Stati Uniti d’America di questo capitale, il cui dinamismo era pari alla
mancanza di scrupoli, nel Paese andava maturando con prodigiosa rapidità un
grande processo di trasformazione: da una economia prevalentemente agricola
stava, infatti, scaturendo la più grande potenza industriale del mondo moderno.
Anche in questa circostanza,
l’emigrazione europea fu chiamata a svolgere un ruolo di enorme importanza: da
un lato, fornì la manodopera a buon mercato, indispensabile per portare al
successo i nuovi procedimenti di massa; dall’altro, servì ad alimentare,
direttamente, quell’incremento di popolazione, necessario a sostenere la
domanda di quei beni che, in sempre maggiore quantità, la nuova industria
andava sfornando.
Ma proprio perché questa volta quello
che veniva fatto balenare non era la fertile terra sulla quale essere liberi e
padroni, bensì la semplice speranza di un posto di lavoro, con il quale
guadagnarsi il pane, la grande maggioranza di coloro che, in quegli anni, sul
finire dell’800, si trovarono ad approdare negli Stati Uniti d’America, risultò
formata da emigranti più ignoranti, più poveri, meno dotati di abilità
specifiche rispetto a quelli che li avevano preceduti.
Fu la volta dei diseredati: oltre 10
milioni di italiani, di polacchi, di ebrei dei Paesi orientali in fuga
dall’orrore dei pogrom, di slavi
abbandonarono l’Europa per il Nordamerica, lasciando alle loro spalle un
passato di miserie e guardando agli Stati Uniti come alla terra promessa, nella
quale le loro pene avrebbero trovato fine.
L’America tradì le loro speranze:
retribuiti con salari il più delle volte inferiori al livello della mera
sopravvivenza furono, infatti, relegati negli slums, i nuovi ghetti che andavano sorgendo intorno alle grandi
città della costa atlantica e del Middle West. Qui si ricrearono condizioni
ambientali a quelle dei loro Paesi di origine.
Troppo lontana per cultura,
religione, ceppo linguistico, la nuova emigrazione proveniente dai Paesi
dell’Europa Sudorientale – diversamente da quella che l’aveva preceduta – non
seppe penetrare il tessuto della società americana.
Nel fallimento di questo processo di
integrazione giocò un ruolo determinante l’atteggiamento razzista della Nazione.
Gli americani di ceppo anglosassone
vedevano nei nuovi emigranti un elemento contaminatore della loro identità
etnica e rimprovera loro, ipocritamente,
la loro “diversità”.
In realtà, facevano di tutto per
accentuarla.
Retribuiti con salari miserabili e
relegati in condizioni di isolamento culturale e morale, gli emigranti
lasciarono che questo scopo venisse facilmente raggiunto.
Nel giro di pochi anni, la
corruzione, il delitto, il vizio furono di casa negli slums e si ponevano le premesse per una nuova e ben più temibile
forma di criminalità.
Ma oltre al razzismo e allo
sfruttamento del proletariato di origine europea, va segnalato anche un terzo
fattore che giocò un ruolo non secondario ai danni degli emigranti della
seconda ondata: i sindacati americani, organizzati su base corporativa,
considerarono, sempre, con sospetto e paura, questa gran massa di braccia,
pronte a offrirsi a buon mercato, e si guardarono bene dal mettere al suo
servizio la loro organizzazione. Di fatto, solo le frange violente e
rivoluzionarie del movimento sindacale americano e, in primo luogo, la Industrial Workers of the World [IWW],
si presero cura di loro e, purtroppo, con nessun migliore risultato che
coinvolgerli nel destino di emarginazione a loro stessi prescritto.
Il flusso migratorio dall’Europa
Sudorientale continuò fino all’inizio del 1900 con un ritmo che i “veri”
americani valutarono come sempre più preoccupante: oltre 14 milioni di nuovi
venuti tra il 1900 e il 1915.
Andava, ormai, prendendo piede un
vasto movimento di opinione che asseriva essere giunto il momento di mettere
mano ai freni: il pensiero di quei pochi che avevano guardato con simpatia
all’immigrazione, pensando gli Stati Uniti come a “una Nazione fatta di tante
Nazioni”, un melting pot ovvero un
crogiolo, come volle chiamarli, nel 1909, Israel Zangwill in una sua opera
teatrale di successo, si era rivelata una povera utopia di fronte a quello che,
nella realtà, era stato nient’altro che il gretto calcolo di sfruttare una
manodopera pressoché gratuita, ma che, ora, iniziava a divenire incomoda.
Nel 1913, passò, così, la prima legge
contro l’immigrazione indiscriminata per la quale si proibiva l’ingresso negli
Stati Uniti a quanti, sottoposti a un esame, risultassero analfabeti.
Dopo la fine della Prima Guerra
Mondiale, il numero di coloro che aspiravano a entrare negli Stati Uniti d’America
iniziò a salire, superando ogni precedente previsione.
Fu, pertanto, necessario introdurre
in materia una legislazione ancora più restrittiva.
Il National Origins Act, approvato dal Congresso, nel 1924, cercava di
favorire l’immigrazione dai Paesi dell’Europa Nordoccidentale, nel
convincimento che, in questo modo, sarebbe stata più facile l’integrazione dei
nuovi arrivati. Conteneva, invece, dei principi gravemente discriminanti a
sfavore di quanti provenivano dalle Nazioni del Sud e dell’Est dell’Europa, assegnando
quote percentuali annue sulla base della composizione etnica della popolazione
degli Stati Uniti alla data del 1920.
La stessa legge vietava,
assolutamente, l’ingresso a chi non fosse bianco.
Il provvedimento, per il quale, nel
1925, si stabiliva che negli Stati Uniti potessero entrare 60mila inglesi –
pari a una quota del 42% – e solo 6mila italiani – pari a una quota inferiore
al 4% – metteva, praticamente, fine al movimento migratorio che aveva procurato
al Nordamerica decine di milioni di cittadini.
Oggi, il mito del melting pot si conferma come uno dei più
tragicamente illusori dell’intera Storia americana.
Negli Anni Sessanta, i vari movimenti
per i diritti della gente di colore portavano il primo colpo decisivo contro il
paternalismo della società statunitense.
Da allora, le infinite minoranze
etniche, eredi degli emigranti del 1800, iniziavano ad agitarsi per il
riconoscimento da parte dello Stato dei loro diritti.
Gli ispano-americani, gli italiani, i
polacchi, i portoghesi, gli armeni, gli asiatici domandavano stanziamenti dal
governo federale, insegnamento bilingue nelle scuole, spazio nella stampa,
tempo nelle emissioni radiotelevisive e, soprattutto, il diritto di essere
rappresentati nelle amministrazioni locali.
Orlando
Patterson
Perduta ogni fiducia nella omogeneità
della Nazione americana, il sociologo Orlando Patterson interpretava il
prosperare dei movimenti delle nuove minoranze etniche, considerate nella loro
globalità rispetto alla maggioranza dei bianchi di discendenza anglosassone,
come una inarrestabile tendenza verso l’ulteriore frammentazione di un tessuto
sociale già gravemente compromesso.
Daniela Zini
Copyright © 25 giugno 2018 ADZ
Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri,
Le vostre masse infreddolite
desiderose di respirare liberi,
I rifiuti miserabili delle vostre
spiagge affollate.
Mandatemi loro, i senzatetto, gli
scossi dalle tempeste,
E io solleverò la mia fiaccola
accanto alla porta dorata.
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