“…né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno huomo
di niuna generazione non vide né cercò tante meravigliose cose del mondo come
fece messer Marco Polo.”
UNA
VIAGGIATRICE EUROPEA ALL’ALBA
DI
UN NUOVO MILLENNIO SULLE STRADE
CHE
VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO
“Viaggiare per diventare senza patria.”
Henri Michaux
Agli
asini e ai muli, senza i quali nulla di tutto ciò sarebbe accaduto.
La
mondializzazione ha modificato il rapporto con il tempo e con lo spazio.
Le
evoluzioni tecnologiche, economiche, politiche hanno provocato, moltiplicato le
relazioni tra le persone, le culture.
Ma
se le genti si incrociano sempre più, possiamo dire che si incontrano?
La
paura dell’Altro, alimentata dall’ignoranza, nutre il razzismo. Vivere con i
propri simili rassicura, ma i comunitarismi chiudono, inquietano.
È
una banalità affermare che l’incontro con l’Altro permetta l’incontro con noi
stessi. È identificando l’Altro che identifichiamo noi stessi.
Chi
viaggia senza incontrare l’Altro non
viaggia, si sposta.
Diverse
ragioni mi legano all’Asia e, negli anni, mi sono specializzata nei territori
legati anche a Marco Polo.
Così
è nata l’idea di questo viaggio.
D
XIII. GIORDANIA
I
sovrani ‘Abd Allah II e Rania di Giordania
I
sovrani ‘Abd Allah II e Rania di Giordania
La famiglia reale di Giordania
La famiglia reale di Giordania
“Vi è un
significato più profondo nelle fiabe
che nella
verità quale è insegnata dalla vita.”
Friedrich
Schiller
In
civiltà intimamente in contatto con le forze elementari della natura, la Fiaba
non poteva che avere un grande ruolo: serviva, contemporaneamente, a evocare, a
esorcizzare e a fornire una chiave di lettura per quei fenomeni naturali e
soprannaturali che, tanta parte, avevano nella vita di ognuno. L’arte di
raccontare le Fiabe, dicono alcuni, è morta e appartiene al passato. E le
tradizioni orali sono destinate a perdersi, per sempre, quando la vena si
esaurisce e i tempi mutano, se qualcuno non inizia, con amore e con pazienza, a
raccogliere le ultime testimonianze disponibili.
Che
cosa ispirò Charles Perrault, Jacob Ludwig Karl Grimm,
Wilhelm Karl Grimm, Hans Christian Andersen e Lewis Carroll a
scrivere le loro fiabe?
Diciamo
pure una sorta di sovversivismo. Anticonformisti, cercarono di modificare il
mondo, educando gli unici esseri capaci un giorno di rivoluzionarlo: i Bambini.
E i Bambini di tutte le età non hanno fatto che seguire, occhi spalancati e
naso all’insù, il loro messaggio, sedotti dalla melodia di questi “Pifferai
Magici”.
Portate
da onde sonore, tra colori e mormorii, le fiabe si collocano in una zona del
nostro essere di cui sappiamo poco: tra sogno e coscienza, tra follia e
ragionevolezza, tra ferocia e dolcezza, tra estasi e tormento. Sono un mondo di
immagini così vive e limpide, così naturali ed espressive, che dilettano la
vista e suonano, deliziosamente, all’orecchio. Questo Mondo è il nostro Sogno,
il nostro Sogno Dorato, il nostro Castello Incantato.
Questa
“Fiaba” ha scopi diversi dai processi, che sono stati anche quelli dei Poeti,
rimodellando il Mito o la Leggenda; la trasposizione volontaria e il dettaglio
anacronistico hanno, qui, per scopo, non di attualizzare il passato, ma di
volatilizzare ogni nozione del tempo. Ciò che conta nella Leggenda e nel Mito,
è la loro capacità di servirci da pietra di paragone, da alibi se si vuole, o
piuttosto da veicolo per condurre il più lontano possibile una esperienza
personale, e, se si può, per superarla.
Una sorta di legame ha collegato, fino dall’antichità
il femminile con le piante, la natura e il giardino, spazio narrativo per
eccellenza. Quell’accordo segreto che, nell’avvicendarsi dei tempi, non è
venuto a perdersi, ma conformandosi alle nuove istanze e ideologie, si è
tramandato come cifra segreta dell’Anima. Le Donne
hanno, sempre, avuto un passato da portare e un silenzio difficile da vivere,
un giardino segreto dove nascono i fiori della speranza, quella cantata da Omar
Khayyam “zefiro
di primavera sulla fronte delle rose” e da
Hafez “giardino,
primavera e dolce commercio”. Ad
alcune di loro la vocazione poetica non deve essere stata estranea, come non
può mancare dove i sentimenti sono intensi e la coscienza è chiara. Nel filare,
tessere, ricamare, cucinare, arredare, educare, favoleggiare, avevano occasione
di percepire i segnali estetici che ai loro padri, fratelli, mariti,
provenivano dall’armare navi, elevare templi, compiere massacri.
Quando si pensa alle donne arabe influenti, il
primo nome che viene alla mente del 90% delle persone è, ovviamente, Rania di
Giordania. Ed è normale che Rania sia influente in tutto il mondo arabo. È regina
di Giordania, è nata in Kuwait, ha fatto studi in Egitto ed è di origine
palestinese.
Un passato che non può essere che federativo!
Colei che vi apre
le porte del Liber Mirabilis, conosce tutto ciò che incontrerete, conosce le
risposte agli enigmi, scioglie gli indovinelli, disperde gli incantesimi,
riconosce chi si nasconde in un corpo che una Magia ha trasformato, rintraccia
le strade dei pellegrini, sa dove approdano i naufraghi e quali segnali svelino
e nascondano le severe bizzarrie del Fato.
Kan ya ma kan...
Constantin
Brancusi [1876-1957], Le Baiser, 1907-1908
I tuoi
occhi sono notti
Senza
stelle né luna
La tua plumbea
capigliatura mi avviluppa
Due
mondi oscuri
Io mi
sono smarrito in me stesso
Rischiarato
dalla fiamma del tuo Amore.
Mohammad
Abu al-Rub
traduzione
dall’arabo di Daniela Zini
GERASA
E PETRA
le
città carovaniere
Wadi Rum
Centro di mercati e commerci, Gerasa
divenne, sotto l’imperatore Marco Ulpio Nerva Traiano [53
d.C.-117 d.C.], la metropoli carovaniera più ricca e più elegante, celebre per
i suoi teatri, i suoi templi e la sua via colonnata. Una grande strada maestra
la univa a Petra, la città tagliata nella roccia del deserto, capitale dei
Nabatei e luogo di sacrifici pagani.
di
Daniela
Zini
“All men dream: but not equally.
Those who dream by night in the dusty recesses of their minds wake up in the
day to find it was vanity, but the dreamers of the day are dangerous men, for
they may act their dreams with open eyes, to make it possible.”
Thomas Edward Lawrence [1888-1935]
1.
Gerasa, la città dalle mille colonne
“Sulle sabbie del deserto come sulle acque degli oceani non è
possibile soggiornare, mettere radici, abitare, vivere stabilmente. Nel deserto
come nell’oceano bisogna continuamente muoversi, e così lasciare che il vento,
il vero padrone di queste immensità, cancelli ogni traccia del nostro passaggio,
renda di nuovo le distese d’acqua o di sabbia, vergini e inviolate.”
Alberto Moravia [1907-1990]
A Nord-Est
della punta settentrionale del Mar Morto e di Gerusalemme, in una valle
ammantata di verde – un’oasi improvvisa tra gli aridi colli pietrosi della
Giordania – si schiude, a un tratto, al viaggiatore una visione di pittoresche
rovine. È la valle del Crisorroa, un sub-affluente del Giordano: una valle
stretta tra dirupi aspri, in una zona selvaggia e quasi disabitata. Alte
montagne la circondano, culminanti in vette eccelse come quelle del R’as Munif
e del Jabal ‘Ajlun. A Occidente, attraverso un accavallarsi di colline, il
paesaggio degrada verso piccoli villaggi, abitati da tribù di agricoltori, fino
a giungere nella fertile vallata del Giordano. Verso Oriente, si stende uno
sterminato tavolato, qui e là spaccato da radi wadi, quasi sempre asciutti, attraversato dagli oleodotti che
portano l’“oro nero” dal deserto al mare. Nella valle verdeggiante sorgono le
rovine di Gerasa, tagliata in due dal fiume e occupata, nella parte orientale,
da un villaggio circasso. Ancora risultano chiarissimi il lungo corso a
colonne, vera spina dorsale della città, il vasto tempio, che ne è il cuore, e
il mercato, dove sostavano le carovane, un complesso urbanistico unitario
ineguagliabile nel mondo antico.
Questo
è il luogo dove sorse la grandiosa Antiochia dei Geraseni, così chiamata dal
nome di una tribù nomade che abitava la regione. Di quei miseri pastori non è
rimasto che il nome attuale della città: Gerasa, che fu, un tempo, una delle
città più famose in tutto l’antico Oriente, al tempo dell’espansione romana,
quando i generali conquistatori vollero creare una catena di dieci città – la Decapoli – per
contrastare e frenare ogni eventuale focolaio ebraico in Palestina. Gerasa fu,
pertanto, un centro di romanizzazione ed ellenismo, ma fu, anche, una della più
importanti città commerciali dell’Oriente antico, servendo come stazione
carovaniera tra l’Egitto e l’Africa, da una parte, e la Persia e la Mesopotamia, dall’altra,
raccogliendo tutti i traffici diretti verso i numerosi e ben attrezzati porti
della costa fenicia.
Ormai
crollata, da tempo, l’idea di un impero universale, quale lo avevano concepito
gli Achemenidi, i Seleucidi, successori di Alessandro Magno, non erano riusciti
nell’intento di unificare l’Asia superiore e l’Asia inferiore. Con l’espansione
degli eserciti di Roma verso Oriente il confine tra due grandi civiltà di
Oriente e di Occidente andò oltrepassando i limiti stessi del deserto, finché
giunse sull’Eufrate; ma le carovaniere, che confluivano a Palmira, a Dura Europos,
a Petra, a Gerasa, valicavano ogni confine. Da Petra, nel cuore di uno dei
deserti più inospitali del mondo, le carovane attraversavano la Palestina, la Siria, la Mesopotamia e
raggiungevano la capitale dei Parti, quei misteriosi guerrieri e cavalieri che,
di tempo in tempo, minacciavano gli avamposti romani. La grande conquista di
Roma venne, a un certo punto, messa in serio pericolo dalla montante marea
asiatica e dalle continue ribellioni interne. Ma, nei primi due secoli dopo
Cristo, con il fiorire economico, il crescere degli scambi, l’aumento della
popolazione, la struttura delle vecchie città subì profonde trasformazioni.
Gerasa era stata, nella più remota antichità, un luogo di ritrovo di tribù
beduine, fu, in seguito, una colonia greca, nel II secolo a.C., quando i
Seleucidi vi avevano messo stabile piede, poi, era ricaduta preda dei nomadi
del deserto, fino all’arrivo delle legioni di Roma. Per sopravvivere, mutò.
Furono i legionari che le cambiarono volto: nuove strade, numerose fontane,
ricchi templi, due teatri, splendide case residenziali. Numerosissime sorsero
le botteghe lungo le strade fiancheggiate da colonnati. Divenne, forse, il
miglior gioiello di quella collana di città carovaniere fortificate, che
congiungevano, l’una all’altra, le fertili pianure lungo la grande strada, che
univa Petra a Damasco e all’Eufrate, vale a dire l’Egitto e l’Africa all’India.
Questa via di importanza eccezionale, storica e commerciale, durante tutta l’antichità
fu tenuta aperta e controllata, per lunghissimi anni, dai Nabatei, il popolo di
Petra, una razza del deserto forte e mai soggiogata da alcuno, i quali,
trovandosi nel punto cruciale di transito tra due continenti – l’Africa e l’Asia
– vedevano in essa la ragione e la fonte unica della loro vita. Tutto questo
portò grande prosperità ai Paesi che con la strada comunicavano e, soprattutto,
alle città che erano i centri di posta, di ristoro e di commercio. A Gerasa, si
fermarono gruppi di veterani romani o ellenizzati; si presero misure per
promuovere ogni specie di traffico, compreso quello degli schiavi; finché si
assisté alla “promozione” della città al rango di colonia al tempo di Traiano e
dei suoi successori. Fu questo il momento migliore per la grande città
carovaniera, che divenne un’oasi di beatitudine e di riposo per soldati,
viaggiatori, mercanti, avventurieri: un “Eldorado” dell’antichità, che aveva le
sue sale da gioco, le sue case di piacere, i suoi divertimenti più lussuosi,
quali si addicevano a una città di frontiera, oltre le cui colline circostanti
attendevano, con la pazienza tenace degli uomini del deserto, i cavalieri
persiani nomadi. Fu questa, per Gerasa, una epopea da Far West, con ricchezza, lusso e fasto entro le mura, e agguati,
imboscate e uccisioni a poche miglia da essa, lungo la valle del Crisorroa e
sulle montagne. Le incursioni dei cavalieri persiani si fecero, sempre, più
frequenti, nel III secolo d.C., e, in molti casi, i Geraseni dovettero venire a
patti. La città, poi, si riebbe e si sviluppò, in seguito, quale centro della
cristianità, dopo che il sangue di numerosi martiri ebbe bagnato le piazze e le
strade.
Tempio di Artemide
Dal IV
secolo in poi, furono costruite modeste chiese accanto ai templi e, insieme a
esse, apparvero anche delle sinagoghe, ma la vera rinascita di Gerasa avvenne
solo con la pace di Giustiniano [483 d.C.-565 d.C.], con la ripresa del
commercio carovaniero, con le strade del deserto sicure e libere dai predoni. Accanto
alle rovine del Tempio di Artemide sorse la Cattedrale con una piscina sacra e splendidi
propilei, che rivaleggiavano con le costruzioni pagane. Gli edifici dei culti
precedenti furono mutati in chiese e, in essi, apparvero pitture e mosaici all’uso
bizantino.
Ninfeo
Pur
nella nuova fede, i Geraseni di antica stirpe celebravano, ancora, antichissimi
riti pagani, alcuni a carattere licenzioso – come quello chiamato maiuma, che comprendeva l’immersione
rituale di donne nude – che destarono lo sdegno dei Padri della Chiesa,
soprattutto perché richiamavano una grande folla, anche di fedeli. Questa
rinascita fu, però, assai breve. La città fu, improvvisamente, spazzata via da
una marea che sconvolse tutte le regioni limitrofe: i cavalieri Sasanidi,
provenienti dalla Persia, misero a ferro e fuoco ogni villaggio e città,
incontrati sul loro cammino. La gente si rifugiò sui monti e visse, a lungo, in
caverne; molte donne furono rapite e condotte negli harem persiani al di là dell’Eufrate; i discendenti dei nomadi
ripresero la via del deserto; tra le rovine della città fecero nido gli
sciacalli, i falchi e i serpenti.
Giungiamo,
così, all’ultimo periodo della storia di Gerasa: quello che la vide entrare
nell’orbita della espansione araba, quando i discendenti del profeta Maometto
impugnarono le scimitarre contro tutti gli infedeli. Un decreto del califfo
Yazid II [690-724], nel 720 d.C., ordinava che, nei suoi domini, fossero
distrutte tutte le immagini di bronzo, di pietra, di mosaico o di pittura. Fu
quasi la fine per la città, che vide, poi, distrutto quanto restava dei suoi
monumenti da un terremoto, nel gennaio del 746 d.C. Ma la vera causa del suo
tramonto fu il cambiamento di organizzazione del commercio carovaniero, che
aveva, ora, come punti cruciali di ritrovo, i luoghi sacri del mondo arabo. Il colpo
fatale ai muri, che ancora restavano in piedi, si abbatté sulla città, nel XIV
secolo, quando una banda di soldati, condotti dal sovrano di Gerusalemme, rase
al suolo le fortificazioni arabe insediate nei resti dei templi. Da quel giorno
gli Arabi, quando volevano indicare qualcosa in estrema rovina, la paragonavano
alle macerie di Gerasa.
La
riscoperta di Gerasa avvenne, nel 1920, quando la British School of Archaeology in Jerusalem vi condusse grandi scavi e
restauri che, dopo il 1948, scaduto il mandato inglese, furono proseguiti,
direttamente, dal Department of Antiquities of Jordan.
Gli scavi archeologici rivelarono aspetti sconosciuti e inaspettati, a esempio circa
i resti dell’abitato di età preistorica, e valorizzarono, di nuovo, la città.
Oggi, l’antico
centro dei Geresani, che subì tante e diverse vicende, è meta di turisti e di
amanti di cose d’arte: non pochi, tuttavia, sono coloro che vengono trascinati
dal richiamo del deserto e delle antiche vie carovaniere ancora aperte e
percorribili con relativa facilità.
2.
Petra, una città nella roccia
“Il deserto è un luogo privo di aspettative.”
Nadine
Gordimer [1923-2014]
Non sembra scaturita dalla mano dell’Uomo,
Costruita
dall’opera elaborata di una fantasia irresoluta;
Ma
sembra nata dalla roccia come per magia,
Eterna,
silenziosa, stupenda, solitaria!
Petra si descrive meglio in poesia che
in prosa!
Petra [1845]
John William Burgon
It seems no work of Man’s creative hand,
By labor wrought as wavering fancy planned;
But from the rock as if by magic grown,
Eternal, silent, beautiful, alone!
Not virgin-white like that old Doric shrine,
Where erst Athena held her rites divine;
Not saintly-grey, like many a minster fane,
That crowns the hill and consecrates the plain;
But rose-red as if the blush of dawn,
That first beheld them were not yet withdrawn;
The hues of youth upon a brow of woe,
Which Man deemed old two thousand years ago.
Match me such marvel save in Eastern clime,
A rose-red city half as old as time.
Nel
1845, quando John William Burgon [1813-1888] scrisse questi
versi non si era ancora recato a Petra – avrebbe visitato la città solo sedici
anni dopo! – e la conosceva, come molti suoi contemporanei, solo attraverso le
litografie e le pitture dello scozzese David Roberts [1796-1864], che, nel 1839,
le aveva pubblicate nel suo libro The Holy Land,
Syria,
Idumea, Arabia, Nubia, and Egypt.
In effetti, la città non era accessibile che agli europei accompagnati
da guide locali e scorte armate. Ma, da allora, l’appellativo di Città Rosa sarebbe
stato, per sempre, legato a Petra.
Nascosta in mezzo al deserto e, un
tempo, inaccessibile al mondo esterno, Petra, uno dei tesori archeologici più
preziosi del mondo intero, è stata dichiarata, il 6 dicembre 1985, Patrimonio dell’Umanità
dall’UNESCO.
Ripercorriamo
ora le vecchia pista del deserto, la strada che congiungeva due mondi così
diversi tra loro.
Si
incontra, ben presto, Amman, l’odierna capitale della Giordania, con 1,2
milioni di abitanti, anch’essa un’antica carovaniera, Philadelphia. La strada
carovaniera passa sotto la via principale della città, in parte basata su volte
che coprono il letto del fiume, fiancheggiata da portici, edifici, ninfeo,
santuari.
Lasciata
Amman, si percorrono oltre 400 chilometri di strada e pista per giungere
alle montagne di Petra; si discende la profonda vallata del Wadi al-Mujib, al
limite del Paese di Moab, si risale e, nella immensa solitudine, due miliari
romani si ergono a ricordare la strada traianea. Su un’altura, il Castello di
Kerak e poi quello di Shobak, segnano i punti più meridionali dell’avanzata dei
Crociati, poi, è l’ultimo villaggio, Tafillah, e, infine, deviando dalla via
per Aqaba, si giunge al Wadi Musa, Valle di Mosè, uno dei tanti luoghi in cui
Mosè avrebbe fatto sgorgare l’acqua, colpendo la roccia [Numeri 20:10-11]. È l’abbeverata
dei cammelli a un’acqua limpida che sgorga dalla montagna, presso un piccolo
villaggio beduino.
Di qui,
si inizia la cavalcata verso la mitica, favolosa Petra.
Si
scende nella valle dove il fiume si è tagliato un passaggio tra le rocce
rosso-scure, tra l’oro del deserto e il verde delle colline. La cavalcata
scende, lentamente, tra le mura rocciose della gola che va, sempre, più
restringendosi. Questa gola servì, per secoli, da strada maestra, calpestata da
cammelli, muli e cavalli, da mercanti e da beduini; all’improvviso uno
spiraglio si apre nel fondo valle su una fantastica architettura: Al-Khazneh, il Tesoro, il cosiddetto
Tempio di Iside, forse, tempio di una dea locale. Con lei erano adorati i suoi
due compagni di origine greca, i Dioscuri, che erano ambedue stelle, l’uno la
stella mattutina, l’altro quella della sera. Queste stelle, che guidavano i
Greci durante i loro viaggi per mare, servivano agli Arabi petrei da vere e
proprie guide, attraverso il buio deserto. Poi, la gola rocciosa si allarga,
vive, è popolata dalle facciate delle case dei morti, torri-altari con
ornamenti dentellati di tipo assiro tagliati a profondo rilievo, e, accanto a
queste facciate, che rappresentano lo stile indigeno più antico, ve ne sono
altre, ellenistiche, composte di portici e colonne anche a tre ordini e adorne
di statue.
Tomba di Sesto Fiorentino
Nella
montagna sopra Petra, raggiungibile per scalinate tagliate nella roccia, è il
grandioso Tempio di Ad-Deir, pure tagliato nella roccia con una facciata a
colonne alta 45 metri
e larga altrettanto. Dove si allarga la gola vi è un teatro scavato nella
roccia, poi, segue la sfilata di tombe e santuari. Per sentieri scoscesi si
sale ai picchi delle montagne dove, da tempo immemorabile, i beduini sogliono
salire per rendere omaggio alle divinità sotto l’aperto del cielo: Dushara, dio
del Sole, e Allat, dea della Luna. Ma oltre alla città dei morti, sviluppata
anche in età romana con tombe-palazzi – come quella del governatore romano di
Arabia, Sesto Florentino [130 d.C.], – è la città dei vivi, la città
carovaniera assai singolare, della quale è ancora riconoscibile la pianta. Tre
gole costituiscono le sue entrate principali. Forse, l’area di questa città non
corrispondeva a quella della città più antica che era la fortezza e la
città-caverna, resaci familiare dalla Bibbia sotto il nome di Sela. Gruppi di
case nella roccia furono, poi, trasformati in tombe. Nei tempi ellenici e
romani, Petra scese nella valle e mutò il suo carattere, da città sotterranea
in città sulla superficie della terra, allorché fu racchiusa da mura. La pianta
della città fu imposta dal commercio carovaniero; infatti, la via principale
segue il fiume Wadi Musa. Petra conobbe periodi difficili e periodi aurei;
grande fortuna ebbe, nell’ultimo periodo ellenistico, quando i mercanti nabatei
arrivarono a Sidone e fino in Italia, a Pozzuoli, creando le loro comunità con
propri templi; la loro ceramica dipinta a ornamenti rosso-bruni, sottile, bella
e fragile si ritrova su largo raggio. Allora, la protezione di tutte le più
importanti strade carovaniere era in mano dei Nabatei, che crearono un impero
carovaniero, poiché le aspre e rocciose gole tra cui sorgeva Petra, sbarravano
la strada battuta delle carovane, provenienti dall’India e dalla Persia
attraverso l’Arabia meridionale. Questa epoca durò poco meno di tre secoli: dal
164 a.C.
a Traiano. Poi, il centro del commercio passò a Bosra, che divenne anche centro
politico. Così si spengeva, lentamente, la vita di quella strana città di
roccia, dove l’ardente fede del solitario beduino, del capo carovaniero, si
univa alla vita febbrile del mercante speculatore. Oggi, tra le rocce
rosso-ocra venate di giallo, grigio e bianco, nella solitudine spettrale della
città morta è annidato solo qualche nomade silenzioso, avvolto in un mantello
nero. Di notte, si odono solo urla di sciacalli. Petra è, ancora, uno dei pochi
luoghi sulla terra che riserbino la gioia della scoperta, perché niente di
quanto se ne scrive e dice può dare un’idea della sua bellezza e delle profonde
emozioni che suscita. Perduta la memoria dell’antica città, Petra fu
riscoperta, nel 1812, durante un viaggio avventuroso, da un giovane che usò
mille astuzie per convincere la guida araba a guidarlo nel luogo di cui si
raccontavano meraviglie, ma che si teneva, religiosamente, segreto.
Quando,
nel 395 d.C., l’imperatore Teodosio I [347 d.C.-395 d.C.] divise, tra i suoi
due figli, l’impero romano e le province orientali si trovarono raccolte
intorno alla più vicina Costantinopoli, Petra aveva, ormai perduto, da molti
decenni, la sua posizione privilegiata e il radicale cambiamento politico non
dovette significare molto per i suoi abitanti. L’antica città carovaniera, che,
in età ellenistica, controllava quasi tutti i traffici del Vicino e del Medio
Oriente e che, ancora sotto i Cesari, era il principale centro di raccolta e di
smistamento di tutte le merci provenienti dall’Arabia, dall’India e dalla
lontana Cina, aveva perduto, ormai, la sua stessa ragione di esistere. La
grande fortuna di questa città era dovuta non solo al genio commerciale e
politico dei suoi abitanti, i Nabatei, ma anche alla sua stessa posizione
geografica: imprendibile per la barriera rocciosa che la circonda, Petra si
trovava, infatti, nel punto di incontro di tutte le vie carovaniere che, nel
primo millennio a.C., attraversavano la regione. Ma, quando il centro degli
affari e dei traffici si spostò più a Nord, a Gerasa e a Palmira, la città
iniziò a declinare e gran parte dei facoltosi mercanti nabatei preferì
trasferirsi dove il guadagno era, ancora, facile. Ora, agli inizi dell’età
bizantina, la popolazione era in crescente diminuzione e i superstiti sentirono
il bisogno di stringersi entro nuove mura, molto più ridotte delle precedenti.
Data la debolezza del governo bizantino, la città ritornò, virtualmente,
indipendente, ma le autorità locali non furono più in grado di difendere la
città e, soprattutto, le strade dalle scorrerie dei predoni del deserto e dalla
minaccia dei Parti. Neppure all’interno la situazione era tranquilla: il
Cristianesimo, che, dal 333 d.C., era divenuto la religione ufficiale dell’impero,
si era rivelato, ben presto, una causa di discordie e di lotte fratricide, che
seguivano, immancabilmente, alle diversità ideologiche delle varie sette.
Teatro romano
Il
declino di Petra fu lento, ma il canto del cigno non fu glorioso: i risultati
degli scavi mostrano, chiaramente, come, in questo suo ultimo periodo, la città
vivesse tra le sue stesse rovine, i grandiosi palazzi di un tempo fossero
degenerati in antri inabitabili e gli edifici pubblici fossero, ormai,
frazionati in una miriade di piccoli locali di abitazione, se non addirittura
coperti di casupole parassite, che si intrufolavano nella struttura originale,
tanto da cancellarne la pianta originale. Un altro segno della decadenza di
Petra è la totale assenza, in questo ultimo periodo, di iscrizioni in lingua
nabatea, quasi che la popolazione superstite fosse composta, ormai, solo di
quei forestieri poliglotti, che sono gli inevitabili parassiti di ogni grosso
centro commerciale. Forse, i Nabatei avevano abbandonato la regione come erano
venuti, in silenzio, alla spicciolata, inseguendo la speranza di un guadagno in
terre lontane. Gli scavi archeologici ci fanno pensare che sia stata una
catastrofe naturale a dare il colpo di grazia alla città. Si è tentati di
pensare che si tratti dello stesso terremoto, che rovinò al suolo anche Gerasa
e molte altre città palestinesi, verso il 750 d.C., ma dal momento che le mura
crollarono in un soffice letto di sabbia del deserto, è probabile che la città
sia stata abbandonata dagli ultimi abitanti, almeno duecento anni prima.
La prima
espansione degli Arabi, che, da poco, avevano abbracciato la nuova fede, fece
calare il sipario sull’antica città carovaniera e, per molti anni, non si seppe
più nulla di Petra.
Quando
i Crociati vennero in Terra Santa, costruirono un forte sui monti che dominano
la città, utilizzando materiale sottratto alle rovine; sarebbe affascinante
sapere come apparisse, allora, la valle di Petra, ma nessuno dei soldati ha
lasciato scritte le sue memorie. Gli Arabi non se ne interessarono molto di
più: con il venir meno del sapere classico, il Vicino Oriente conobbe un lungo
periodo di oscurantismo, favorevole al formarsi di leggende e alla nascita di
miti.
Era
impensabile che la nuova cultura, nata dall’islam, dissipasse queste tenebre!
I nuovi
valori erano, totalmente, diversi da quelli che avevano dominato il mondo
classico e non vi poteva essere nessuna simpatia tra i due mondi. I grandiosi
monumenti scavati nella valle di Petra erano per gli Arabi qualcosa di
incomprensibile: i beduini di passaggio vedevano in queste imponenti rovine le
miracolose creazioni di un mago, Faraone, che nella mentalità del tempo era l’equivalente
del Diavolo della nostra mitologia medievale, lo stregone per eccellenza, che
dimostrava la sua potenza con queste realizzazioni grandiose quanto
incomprensibili.
Il 22
agosto 1812, in
un angolo dimenticato dell’impero ottomano, due alteri cavalieri arabi scesero
lungo il greto sassoso del Wadi Musa e si avvicinarono al campo di beduini che
circondava le sorgenti. Uno dei due uomini era Ibrahim ibn Abdallah, pellegrino
di origine indostana, noto in tutto il mondo arabo per la sua saggezza e la sua
pietà, l’altro era la sua guida, che si trascinava dietro una riluttante
capretta, che aveva, ancora, meno voglia di lui di scendere nella valle. Forse,
l’animale indovinava cosa lo aspettasse: essere sacrificato sulla tomba del
profeta Aronne, lassù in cima a quelle montagne che si profilavano oltre la
valle. Questo, infatti, era lo scopo della spedizione e, dopo molte
discussioni, la pia intenzione dei due cavalieri fu accettata anche dal gruppo
di beduini, che avevano tutta l’aria di essere predoni, come si dice a Damasco
della gente di queste parti. Ma anche i predoni rispettano la fede e i due
cavalieri vennero lasciati liberi di inoltrarsi in una gola rocciosa, il Siq,
che portava in fondo alla valle. Le pareti dello stretto corridoio sono alte
centinaia di metri: solo, in pochi tratti, il sole arriva a baciare il suolo.
Nella striscia di cielo, che si intravede sopra le rocce, roteano i falchi e le
aquile. In questo luogo deserto e spettrale il Mago Faraone ha stabilito la sua
dimora e la guida ha paura di andare avanti: meglio sacrificare qui la capra,
ora che sono in vista della tomba. Ma la costanza del pellegrino Ibrahim non ha
limiti: vuole oltrepassare la città e compiere il sacrificio sul vero luogo
della tomba di Aronne, per esaudire il suo voto. Fa un caldo tremendo: in alto,
sopra di loro, i cavalieri scorgono un arco di pietra, altissimo, che unisce
roccia a roccia, collegando le due montagne. Per la guida è solo un rifugio di
gufi e fantasmi, ma il pellegrino Ibrahim lo ammira estatico, rimanendo per
mezz’ora con il naso all’insù, mentre il suo cavallo si spazientisce e scivola
sui sassi. Finalmente il corridoio nella roccia sembra finire: dietro l’ultima
spaccatura si intravede una macchia vivace di colore. Ai due cavalieri appare,
nella luce di taglio del mattino, la facciata rosa di un gigantesco monumento:
“Al-Khazneh
al-Faraun! [É il Tesoro di Faraone!]”,
grida la
guida.
Tutti
sanno che il potentissimo mago ha nascosto le sue ricchezze dentro quell’urna
che sta in cima al palazzo scavato nella roccia. I due uomini scendono da
cavallo e la guida, imbracciato il fucile, inizia a sparare dentro l’urna di
pietra, sperando di vederla scoppiare facendo precipitare ai suoi piedi una
pioggia di monete d’oro. Intanto, il pellegrino Ibrahim è, già, dentro al
fantastico palazzo: ha tirato fuori il suo diario e, al riparo dagli sguardi
indiscreti e sempre sospettosi del suo compagno, sta annotando ciò che ha visto
e stende una precisa pianta dei luoghi e dei monumenti. Tra qualche mese quei
fogli saranno a Londra e tutta l’Europa saprà che Johann Ludwig Burckhardt [1784-1817], l’esploratore
svizzero, ha scoperto le rovine dell’antica città di Petra...
La
descrizione di questi avventurosi momenti la troviano nei Travels in Syria and the Holy Land, pubblicato a Londra, nel 1822,
cinque anni dopo la morte del suo autore, ora sepolto nel cimitero del Cairo,
con il nome di Pellegrino Ibrahim ibn Abdallah, che aveva portato per metà
della sua esistenza. Fu solo viaggiando, sotto mentite spoglie, che poté
attraversare incolume le terre arabe, studiando e cercando di comprendere un
mondo ostile e, diametralmente, opposto al suo. Insieme a Lawrence d’Arabia,
Burckhardt è, forse, l’uomo che più si
è avvicinato all’anima degli Arabi, riuscendo a superare quelle differenze
culturali che, ancora oggi, separano l’islam dall’Occidente. Ma Burckhardt non
è stato solo un sensibile interprete del mondo arabo: è uno dei pionieri dell’archeologia.
La notizia della sua scoperta si sparse, certo, molto tempo prima della
definitiva pubblicazione dei suoi viaggi, se, nel maggio del 1818, due alti
ufficiali della Royal Navy, Charles Leonard Irby e
James Mangles, accompagnati da alcuni esperti di antichità, trascorsero, diversi
giorni, visitando le rovine. Si sarebbero fermati, certamente, più a lungo, se
non fossero stati, continuamente, in ansia per i predoni e la popolazione
locale. Per questo, anche loro, si erano travestiti da Arabi, ma, considerate
le scarse cognizioni dell’Inghilterra romantica sul mondo arabo, si può ben ritenere
che il loro camuffamento non fosse tale da garantire loro di non essere
scambiati per spie o cercatori di tesori. Dal loro resoconto di viaggio,
pubblicato a Londra, nel 1868, apprendiamo come i loro esperti non fossero
molto convinti della bellezza dei monumenti di Petra: li trovavano barocchi,
borrominiani e, nel complesso, molto poco corrispondenti a quello stile
classico che si aspettavano di trovare. Ma la bellezza della scenografia
naturale li travolse:
“Salvator
Rosa stesso non immaginò scenario più selvaggio e più adatto per i suoi “banditi”...”
Nel
1826, arrivò un altro visitatore: era il marchese Léon de Laborde [1807-1869],
direttore generale degli Archives de
l’Empire, deputato e membro dell’Académie Française. La sua attenzione si
appuntò, particolarmente, sui monumenti più antichi, quelli del cosiddetto
periodo assiro. Le litografie, lasciate dall’incisore Louis-Maurice Adolphe Linant
de Bellefonds [1799-1883], che era al suo seguito, colgono perfettamente, in
maniera un po’ naïve,
lo spirito di quei luoghi abbandonati e rappresentano, ancora oggi, una
preziosa testimonianza per lo studio dei monumenti, irrimediabilmente,
danneggiati, quali l’arco del Siq.
Ancora
più interessanti da questo punto di vista sono i disegni di David Roberts
[1796-1864], che visitò Petra, nel 1829, pubblicando in seguito una raccolta di
finissime illustrazioni.
Tra i
primi visitatori di Petra vi è anche il grande Austen Henry
Layard [1817-1894], il padre dell’archeologia come scienza e futuro scopritore
di Ninive. Anche lui cadde nell’errore comune a quelli che lo avevano preceduto,
e credé che la città fosse interamente in quelle facciate scavate nella roccia,
senza accorgersi che si trattava solo di tombe o monumenti, mentre i resti dell’imponente
centro abitato giacevano sepolti in mezzo alla valle.
Layard
non apprezzò molto l’architettura di Petra, ma non poté fare a meno di notare
che le rovine erano un fatto quanto meno unico in tutto il mondo antico.
In
questo non si sbagliava, perché soltanto a Madain Saleh, l’antica Hegra, esiste
qualcosa di comparabile alla impressionante miriade di facciate che copre le
pareti della valle di Petra.
Dopo
Layard molti altri visitatori e studiosi vennero a Petra, ma nessuno intraprese
vere e proprie ricerche scientifiche. Ciò che attraeva quegli spiriti
avventurosi, quei pionieri dell’archeologia romantica erano il fascino desolato
dei luoghi, la grandiosità di panorama che unisce le memorie del passato a un
paesaggio suggestivo e, non ultimo, il brivido di un viaggio ricco di pericoli
e di difficoltà.
Per
dissipare le leggende e le fantasie e ridare a Petra la sua giusta dimensione
storica, si dovettero attendere gli inizi del secolo scorso, le prime
esplorazioni veramente scientifiche, i primi rilevamenti accurati. In questo
senso il vero pioniere di Petra fu il professor Alois Musil [1868-1944], che
lavorò nella valle, nel 1896.
Ma il
suo lavoro, Arabia Petraea, non fu
pubblicato che, nel 1907, quando aveva, già, visto la luce la poderosa opera di
due studiosi tedeschi, Rudolf Ernst Brünnow [1858-1917] e
Alfred von Domaszewski [1856-1927].
Il loro
lavoro è stato quello di redigere piante precise di tutti i monumenti,
fornendone una accurata misurazione, una descrizione, una ipotesi del probabile
uso e una analisi dello stile.
Sotto
il profilo architettonico i monumenti di Petra si possono dividere in sei
gruppi principali, che rappresentano le fasi di uno sviluppo stilistico, di una
evoluzione, che ci può insegnare molte cose a proposito della storia culturale
e politica della città. Il lavoro di descrizione e di catalogazione, prima
ancora di quello di scavo, è stato, dunque, di capitale importanza.
Il
primo gruppo è quello dello stile cosiddetto rettilineo, cui appartengono
pochissime facciate intagliate nella roccia. È il più antico, il più semplice,
che riproduce nella pietra l’architrave ligneo che coronava la porta delle
abitazioni.
Il
secondo stile, quello cosiddetto assiro, raggruppa quasi metà delle facciate
scolpite di Petra. È la prima autentica espressione architettonica dei Nabatei
e, probabilmente, riproduce l’aspetto esteriore delle case in muratura
mesopotamiche. La caratteristica dominante è una banda di scalini, che corona
la composizione della facciata, la quale, in origine, era, certamente, stuccata
e dipinta. La quasi totalità dei monumenti è costituita da tombe, ma non è
escluso che alcune di esse siano, prima o poi, servite quali abitazioni. In
ogni caso, le facciate assire ci danno un’idea, abbastanza, precisa di come
dovesse apparire l’agglomerato urbano di Petra, simile in certo modo alle città
arabe. I Nabatei, che, prima di stabilirsi nell’area della Bassa Giordania,
erano un popolo nomade del deserto arabo, avevano, probabilmente, appreso l’arte
di costruire dai neo-Babilonesi, che avevano stabilito diverse colonie militari
nell’Arabia settentrionale. Non ci deve, dunque, stupire l’aspetto mesopotamico
della Petra più antica.
Nella
fase stilistica seguente, cavetto, troviamo, invece, la presenza di un
elemento, il cavetto appunto, molto frequente nell’architettura egizia. Le
facciate si arricchiscono di pilastri e di altri elementi decorativi, che
trovano, poi, il loro sviluppo più naturale nello stile doppia cornice, in cui
salta, subito, all’occhio l’influsso dell’arte ellenistica. Questo periodo ci
dimostra, infatti, un crescente desiderio da parte della locale cultura nabatea
di assimilare e incorporare i nuovi elementi artistici e culturali propri di
quelle civiltà con cui era venuta a contatto. Non vi è dubbio, tuttavia, che,
al tempo stesso, si registrasse un certo conservatorismo, che tendeva a non
eliminare quei risultati che erano, già, stati raggiunti in precedenza. Il
compromesso tra queste opposte tendenze è la caratteristica precipua di tutta l’arte
nabatea, che riesce, in questo modo, a raggiungere una sua strana originalità.
Una
radicale rivoluzione stilistica si ebbe, a Petra, dopo la costruzione del Tesoro,
il grande monumento posto all’uscita del Siq, che, con ogni probabilità, doveva
trattarsi di un tempio. È un’opera squisitamente ellenistica e, senza dubbio,
fu creata da artisti stranieri, invitati a Petra da Aretas III Filelleno [prima
metà del I secolo a.C.]. Il Tesoro fece una grande impressione nel mondo
artistico nabateo, che si sentì obbligato a emulare lo stile e le proporzioni.
Vediamo così nascere lo stile cosiddetto nabateo classico, che abbandona, del
tutto, quegli elementi orientali dei periodi precedenti e si estrinseca,
invece, in un complesso monumentale di colonne, archi e architravi, che, non di
rado, risulta di effetto piuttosto pesante.
Nell’ultima
fase, quella romana classica, la tradizione locale è, ormai, completamente,
sommersa dal lavoro standardizzato degli architetti romani. Ma lo studio di
questi ultimi monumenti è, particolarmente, interessante dal punto di vista
storico. Analizzando le grandiose ristrutturazioni urbanistiche del periodo
dell’amministrazione romana si è, completamente, screditata l’opinione, un
tempo abbastanza diffusa, che l’inserimento del regno nabateo nell’impero sia
stato seguito da una immediata decadenza economica della città.
Gli
studi di architettura, cui contribuirono considerevolmente anche i tedeschi Walter Bachmann, Carl Hans Watzinger [1908-1994] e Theodor Wiegand [1864-1936], Hermann
Gustav Dolman [1908-1912] e l’inglese sir Alexander Blackie William Kennedy [1847-1928] e quelli di epigrafia, dovuti
essenzialmente all’abbé Jean Starcky [1909-1988], non furono, tuttavia,
sufficienti per realizzare una documentazione completa della complessa civiltà
nabatea: occorreva una dettagliata ricerca archeologica. Questa fu iniziata
soltanto, nel 1929, da due archeologi inglesi, George Horsfield [1882-1956] e
sua moglie Agnes Ethel Conway [1885-1950], e proseguita da Margaret Alice Murray
[1863-1963], nel 1937.
Entrambe
queste spedizioni non si occuparono del centro della città, ma aprirono delle
trincee di scavo nelle zone periferiche, mettendo in luce tratti di mura,
strutture di abitazioni.
Gli
scavi più importanti furono quelli del dopoguerra: dopo i primi lavori del Department of Antiquities of Jordan,
diretti da Diana Kirkbride [1915-1997], che davano una sistemazione definitiva
alla strada colonnata romana, la quale attraversava tutta la città di Petra,
nel 1958, Peter J. Parr e Crystal-Marie Bennett della British School of Archaeology in
Jerusalem condussero sistematiche esplorazioni in tutta l’area
centrale della città.
Si poterono,
così, aggiungere molte tessere mancanti al grande mosaico della storia di
Petra, datare i monumenti principali e ottenere nuove preziose informazioni
sulla storia economica e commerciale della città, che, per molti versi, è
legata a quella di tutto l’Occidente.
È,
ormai, chiara, infatti, l’importante posizione di Petra, proprio in età romana,
come tramite tra Roma e il più lontano Oriente. Vi sono molte prove che il
commercio con la Cina
passasse attraverso le vie carovaniere dei Nabatei e le fonti cinesi
riferiscono del luogo dove avvenivano gli scambi commerciali come Li-Kan, nome
che potrebbe essere una corruzione di Reqem o Raqmu [la variopinta], l’antico
nome di Petra nella lingua locale, o di Leuce Come [Villaggio Bianco] il porto
più meridionale [sulla costa araba] del regno nabateo.
Gli scavi
archeologici più recenti hanno fornito informazioni anche sul passato
pre-nabateo di Petra.
La zona
era, infatti, già, abitata, nel VII millennio e gli scavi sulla collina di Al-Beidha
[La Bianca], condotti da Diana Kirkbride, nelle campagne 1958-1967, hanno messo
in luce ben otto livelli di occupazione di un villaggio neolitico, occupazione
che sembra essere stata interrotta dal 7000 al 6500 a.C.
La
documentazione dell’evoluzione architettonica neolitica, eccezionalmente
completa, è del massimo interesse.
Il
passato biblico di Petra è stato, invece, investigato da Chrystal-Marie Bennett,
che ha portato alla luce due stanziamenti edomiti, uno sulle colline di Tawilan
e l’altro in cima alla roccia di Umm al-Biyara. Sui risultati di queste due
spedizioni si basa gran parte della attuale conoscenza di questo popolo, più
volte menzionato nella Bibbia come uno dei tre tradizionali nemici di Israele [Edom,
Moab e Ammon].
Gli
Edomiti, dunque, erano stanziati proprio nella zona della futura Petra, non
nella valle, ma sulle colline circostanti. Per aver negato il permesso di
passare attraverso la loro terra agli Ebrei, si guadagnarono una mortale
inimicizia, e, in una serie di guerre, pressoché ininterrotte, furono quasi
sterminati e fatti schiavi. Già, allora, era della massima importanza, dunque,
la via carovaniera che collegava la Palestina al Mar Rosso e alle miniere del Sinai.
E proprio per questo, Re Salomone fu costretto a lasciare liberi gli schiavi
edomiti, perché andassero a ripopolare una zona strategicamente importante, che,
altrimenti, avrebbe rischiato di essere inghiottita, nuovamente, dal deserto.
Quando
i Nabatei, popolo nomade del deserto arabo iniziarono a migrare verso Nord, nel
VI secolo a.C., assimilarono, gradatamente, gli originari abitanti della valle
di Petra, dai quali appresero, certamente, molte tecniche e molte tradizioni. In
pochi secoli, quell’informe agglomerato di abitazioni troglodite, attendamenti
e villaggi arroccati sui monti si sarebbe trasformato grazie al genio
commerciale dei Nabatei, in una delle più fiorenti città di tutto l’Oriente.
Daniela Zini
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