“Tout crépuscule est double, aurore et soir. Cette formidable chrysalide que l’on appelle l’univers trésaille éternellement de sentir à la fois agoniser la chenille et s’éveiller le papillon.” Victor Hugo
“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”
Nikos Kazantzakis
Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:
Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.
Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.
To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.
I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.
Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.
Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.
Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan
traduzione dal persiano di Daniela Zini
Dormire, dormire e sognare…
Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.
Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.
Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.
Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.
Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.
È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.
Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.
L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.
D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.
Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.
Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.
Quel tentativo fece completo fallimento.
Perché?
Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.
In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.
Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.
Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.
Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.
Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.
E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?
La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.
Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.
Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.
Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?
Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.
Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.
La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:
“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”
Roma, 20 gennaio 2014
Daniela Zini
martedì 10 dicembre 2024
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domenica 1 dicembre 2024
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martedì 19 novembre 2024
Caro Babbo Natale, ti scrivo perché... di Daniela Zini
Caro Babbo Natale,
ti scrivo questa lettera perché credo che tu abbia dovuto dimenticare molti camini, lo scorso anno.
E ho una gran paura, quando penso all’anno prossimo, se lo farai di nuovo.
Così, per quest’anno, vorrei che tu facessi uno sforzo.
Ti domando di fare quello che puoi perché non ci siano le elezioni.
È da quando sono in età di votare che non ho, mai, saputo per chi farlo.
È probabile che io abbia sentore di quello che c’è dietro.
Per una volta, vorrei fosse qualcuno che parli franco e nel suo tempo.
Che non avesse una quantità di progetti, ma uno solo.
Uno solo, che comprendano tutti.
Vorrei che i suoi discorsi non fossero, come sempre, improntati sul principio di “dopo di me il diluvio…”
E, se non ci riesci, fai in modo che non sia ancora un monarchico.
Sai, da molto tempo, sono stati estromessi i re!
Io non ho niente contro i re… ma smetti di fare loro regali.
Ne hanno già troppi.
E, almeno, avessero nobiltà!
Se puoi, fai in modo che ci siano meno ladri, truffatori, impostori.
E, a questo proposito, se puoi, fai in modo che coloro che fanno le leggi siano realmente competenti.
Sarebbe una buona cosa!
Leggi, ma anche convenzioni, accordi, statuti, norme, avvisi, regolamenti, circolari, decreti, in realtà, non si fanno per proteggere alcuni e ostacolare Altri.
Non si fanno che per coloro che non hanno il coraggio di mettersi in gioco da “uomini”.
E, poi, non portare niente a coloro che si sottraggono, sempre, con piroette, che vivono di quello che prendono agli Altri.
Lo so, ce ne sono molti, ma se non lo fai tu, non vedo, proprio, chi possa farlo.
Non dimenticare gli spergiuri, coloro che hanno cariche protette, ne abusano e non si curano delle conseguenze delle loro azioni. È insopportabile che abbiano, per definizione, ragione, quando si lamentano, denunciano, accusano, o esigono più morale, più etica o, come dicono, più costituzione.
Come se fossero i portatori della morale, la sola, la vera.
È insopportabile!
E, poiché non accade loro niente, continuano più di prima, senza che qualcosa o qualcuno li fermi.
Sono numerosi!
E, sembra siano da prendere a modello, oggi.
Sono una sorta di élite, caduta molto in basso.
Ma fai attenzione, per l’80% sono normali, vale a dire che sanno, ma non fanno niente e non si palesano facilmente. Hanno paura, perché gli Altri sono cattivi, anche senza ragione, solo per far vedere che tutti debbano avere paura di loro.
Non sanno che il numero è una forza; la forza.
Ricordo che, alle elementari, avevamo tutti paura di un cattivo che, per un nonnulla, picchiava chiunque.
Ci minacciava.
Ci terrorizzava.
Allora, senza dire niente, ho parlato a tutti e, un giorno, poiché gli adulti non facevano nulla, siamo andati tutti verso di lui.
Insieme.
Io posso assicurarti che lui e la sua banda hanno passato un brutto quarto d’ora.
Lui ha ricominciato.
Anche noi.
Ogni volta.
Poi, non si è più sentito parlare di lui.
Se tu hai cento braccia, cento mani, cento piedi, cento teste, cento volontà, cento determinati, contro dieci.
Sono i cento che vincono.
SEMPRE!
La sola riforma possibile passa da qui.
Altrimenti, così resterà e si aggraverà, ancora, per decenni.
Se non fai tu qualcosa, io ho una gran paura, se non è già troppo tardi, che tutti facciano come loro.
Che disastro sarebbe!
Torno alle elezioni.
Se puoi, fai in modo che se ne vadano a casa tutti coloro che truffano ripetutamente, solo quelli; non quelli che hanno truffato qualche volta, sarebbe troppo!
Che non siano rieletti.
Sarebbe una buona cosa!
Ma penso che sia difficile per te.
E pensare che credono di essere eletti, scelti, mentre la maggior parte dei voti sono voti contro Altri.
Si vota per eliminare i peggiori e, mai, per il meglio.
E, da molto tempo!
Una cosa è possibile: porta un regalo a ogni funzionario. Voglio dire a tutti coloro, che, per la gente, sono funzionari. E aggiungi loro una espressione del genere:
“Per incoraggiarti a fare una cosa, una sola, ma tutto l’anno, che non hai fatto, durante l’anno trascorso, nell’interesse generale.”
Sarebbe una buona cosa!
Sarebbe un cambiamento non trascurabile!
Ma, per favore, impedisci loro di fare leggi per questo.
Ogni volta è peggio!
E, sempre, se puoi, fai in modo di passare, per una volta, dopo molto tempo, sopra il mio camino.
Non per i regali, non per gli auguri, solo per un segno.
Buon Natale e felice anno nuovo.
E copriti, fa freddo fuori.
E per alcuni, molti, troppo numerosi, fuori, è anche dentro.
Daniela Zini
domenica 20 ottobre 2024
Bill Gates digital ID implant into Kenyans and youth approved
venerdì 11 ottobre 2024
J'ACCUSE! - PARTE PRIMA - PERCHE' LA GUERRA? di Daniela Zini
IL TESTO INTEGRALE DI
J’ACCUSE!
PARTE PRIMA
PERCHE' LA GUERRA?
PROSSIMAMENTE QUI…
J’ACCUSE!
Ai Soldati Italiani in Libano, a tutti i Soldati Italiani impegnati nelle Missioni di Pace all’Estero e sul Territorio, nella consapevolezza della professionalità con la quale affrontano il Loro Compito e della passione che anima il Loro Cuore.
https://www.youtube.com/watch?v=TUb37MlJw9A
Ninna
nanna della guerra
Trilussa
Ninna
nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co le zeppe,
co le zeppe d’un impero
mezzo giallo e mezzo nero.
Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Ché quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse.
Fa la ninna, cocco bello,
finché dura sto macello:
fa la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!
https://www.youtube.com/watch?v=OyBNmecVtdU[2].
“[…]
Ora questa combinazione tra un grande apparato militare e una vasta industria bellica è un fatto nuovo nell’esperienza americana. La totale influenza – economica, politica, perfino spirituale – viene sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del Governo Federale. Riconosciamo il bisogno ineluttabile di questo sviluppo, ma non dobbiamo esimerci dal comprendere le sue gravi implicazioni. Ne sono, inevitabilmente, coinvolti il nostro lavoro, le nostre risorse e il nostro stile di vita. La stessa struttura portante della nostra società.
Nei consigli di governo, dobbiamo vigilare per impedire il conseguimento di un’influenza ingiustificata, più o meno ricercata, da parte del complesso industriale-militare. L’eventualità dell’ascesa disastrosa di un potere mal riposto esiste e persisterà.
Non dobbiamo mai permettere che la pressione di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i nostri processi democratici. Non dobbiamo dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza vigile e accorta è in grado di esigere una corretta integrazione della gigantesca macchina industriale-militare di difesa con i nostri metodi e obiettivi pacifici in modo tale che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme.
[…]”
Prima di divenire presidente e di fare il suo ingresso alla Casa Bianca, il 20 gennaio 1953, Dwight David Eisenhower Eisenhower aveva condotto una brillante carriera militare, che aveva fatto di lui il soldato di più alto grado nella gerarchia militare americana [generale a cinque stelle]. La posizione centrale, che occupava in questa gerarchia, faceva di lui un osservatore privilegiato delle pratiche poco ortodosse del complesso industriale-militare. E gli otto anni passati alla Casa Bianca avevano finito per convincerlo della pericolosità di questa potente lobby, che, senza la presenza di una “cittadinanza vigile e accorta”, rischiava di fare man bassa dei meccanismi decisionali della strategia militare e della politica estera degli Stati Uniti.
Il monito di Eisenhower è stato ignorato, perché non c’è stata negli Stati Uniti questa “cittadinanza vigile e accorta” a impedire le derive militari e politiche che, da decenni, non cessano di minare lo statuto, la reputazione e le finanze della superpotenza americana.
Trattandosi di grandi scelte di strategia militare e di politica estera del Paese, la cittadinanza americana, nella sua maggioranza, non è né “vigile” né “accorta” nel senso auspicato da Eisenhower, vale a dire nel senso di una forza capace di controllare, strettamente, le decisioni governative e di opporvisi, eventualmente, se queste vadano contro l’interesse generale. La sua assoluta indifferenza a quanto accade fuori delle sue frontiere la predispone a fare affidamento nei propri leaders e a prendere per oro colato tutto quello che questi dicono.
L’esempio più sbalorditivo è la convergenza della maggioranza degli americani con l’ex-presidente George Walker Bush. Non è un segreto per nessuno che questi sia stato la marionetta comune del complesso industriale-militare e della lobby petrolifera, che lo hanno utilizzato e manipolato a volontà. Per servire gli interessi dei fabbricanti di armi e delle compagnie petrolifere, Bush e il suo staff hanno manipolato, a loro volta, il popolo americano, facendogli ingoiare la menzogna delle armi di distruzione di massa e del pericolo rappresentato da Saddam Hussein per il mondo, in generale, e per gli Stati Uniti, in particolare.
E nonostante la menzogna di Bush fosse venuta alla luce, nonostante la sua invasione dell’Iraq volgesse al disastro, i cittadini americani lo rieleggevano, nel novembre del 2004, per un secondo mandato.
“Ai nostri giorni, i discorsi politici servono in gran parte alla difesa dell’indifendibile.”,
scrive George Orwell, nel 1946.
“Cose come il dominio britannico in India, le epurazioni e le deportazioni russe, il lancio della bomba atomica sul Giappone, possono essere certamente difese, ma solo con argomenti troppo brutali da recepire per la maggior parte delle persone e non attinenti agli scopi professati dai partiti politici. Pertanto, il linguaggio politico deve consistere, soprattutto, in eufemismi vaghi e scontati.”
Orwell è un acuto osservatore del rapporto tra politica e linguaggio.
Non conia il termine doublespeak, linguaggio doppio, ma rende popolare il concetto, fondendo due termini che usa in 1984, il suo più grande romanzo. Orwell usa il termine doublethink o bi-pensiero, per descrivere un pensiero contraddittorio, mediante cui esprimere un significato opposto a ciò che si pensa. Usa il termine newspeak o neolingua, per descrivere espressioni “formulate appositamente a scopi politici: ovvero, termini che, pur avendo sempre implicazioni politiche, impongano l’attitudine mentale desiderata a chi li utilizza”.
La storia delle guerre statunitensi per scopi nobili è iniziata con la Prima Guerra Mondiale, che viene venduta agli americani come “ la guerra per terminare la guerra” e “la guerra per un mondo adatto alla democrazia”.
Oggi, un secolo dopo, troviamo che questi slogans siano, decisamente, vuoti.
Di solito, chi dichiara guerre metaforicamente si rende conto, fino dall’inizio – come del resto per le guerre reali – che non vi sarà alcuna vittoria.
L’uso di droghe, la povertà, la malattia e il terrorismo sono tutte cose che esistono, da lungo tempo, e non scompariranno, semplicemente, perché qualche politico dichiara a esse guerra.
Invece, accade, generalmente, che queste guerre generino sistemi burocratici permanenti che prosciugano le risorse, limitandosi a diffondere periodiche esortazioni al pubblico, per compensare il fatto che nessuna vittoria è in vista.
Il popolo americano, che conta 335 milioni di individui e rappresenta il 4,52% della popolazione mondiale, non si è mai posto la domanda perché si spenda per il suo esercito e per la sua sicurezza quanto se non di più del resto del mondo. Basti pensare che solamente negli ultimi venti anni il Governo americano ha speso la cifra di 8 trilioni di dollari, il cui principale beneficiario non è altri che il complesso industriale-militare.
Il popolo americano, che conta 335 milioni di individui e rappresenta il 4,52% della popolazione mondiale, non si è neppure mai posto la domanda perché attualmente occorrano più di 750 basi militari americane disseminate nel mondo, dal momento che l’America è il Paese meglio protetto del mondo, e non solo da un potente esercito e da una competitiva difesa antiaerea, ma soprattutto da due immensi oceani, capaci di scoraggiare, da soli, qualsiasi nemico tentasse di attraversarli per invaderlo. Anche in questo caso, il principale beneficiario della disseminazione e della moltiplicazione delle basi americane attraverso il mondo è il complesso industriale-militare, da cui aveva messo in guardia Eisenhower, sessantatrè anni fa.
La corsa all’armamento nucleare e convenzionale, imposto dagli Stati Uniti ai loro rivali della Guerra Fredda, le politiche aggressive condotte da Washington in Vietnam e in diversi Paesi del Medio Oriente e in America Latina e la “Guerra Globale contro il terrorismo” possono essere comprese solo attraverso l’”influenza ingiustificata” del complesso industriale-militare, il cui unico interesse si limita al numero di contratti ottenuti e al calcolo della percentuale relativa all’incremento annuale del numero di affari.
Fino a quando continuerà?
Fino all’emersione di quella “cittadinanza vigile e accorta”.
Se mai emergerà un giorno!
“Io sono qui per provare qualcosa in cui credo: che la guerra è inutile e sciocca, la più bestiale prova di idiozia della razza terrestre. Io sono qui per spiegare quanto è ipocrita il mondo che si esalta per un chirurgo che sostituisce un cuore con un altro cuore, e poi accetta che migliaia di creature giovani, col cuore a posto, vengano mandati a morire, come vacche al macello, per la bandiera.”
Oriana Fallaci
Dedicato a Chi ha il coraggio delle scelte, talvolta impopolari, in nome dei principi e della coerenza ed è considerato folle in un mondo di corrotti, perché incapace di piegarsi e rinunciare a se stesso pur di essere parte di un tutto che lo vorrebbe diverso, omologato a una logica che baratta l’umanità e la dignità con uno sprazzo di illusoria notorietà.
Dedicato a Chi ha il coraggio di seguire la propria Stella, tenendo la barra sempre ben dritta, che il vento sia favorevole o no, resistendo alla voce melodiosa di ammalianti sirene, contro ogni lucido calcolo di convenienza.
Dedicato ai folli, ai coraggiosi, agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane, Donne e Uomini custodi di Verità, il cui valore nessuno, né in questa né in altra epoca, potrà mai stimare.
Dedicato ai miei Amici folli, coraggiosi, anticonformisti, ribelli, piantagrane, che vedono le cose in modo diverso.
Agli Altri dico:
Arrendetevi, siamo folli, coraggiosi, anticonformisti, ribelli, piantagrane e vediamo le cose in modo diverso!
“A volte sono le persone che nessuno immagina possano fare certe cose, quelle che fanno cose che nessuno può immaginare.”,
è una frase di grande impatto e di incontestata veridicità ripetuta più volte – e non a caso! – nel film di Morten Tyldum The imitation game, l’adattamento cinematografico della biografia di Andrew Hodges: Alan Turing[3].
Il mondo è in debito con Alan Turing, il geniale matematico inglese che, durante la Seconda Guerra Mondiale, decifrò Enigma[4], salvando, così, milioni di vite.
Proviamo a immaginare quanti conflitti sono attualmente nel Mondo…
Proviamo a capire le cause che li generano…
“Le differenze reali di tutto il mondo oggi non sono tra ebrei e arabi; protestanti e cattolici; musulmani, croati, e serbi. Le differenze reali sono tra coloro che abbracciano la Pace e coloro che vorrebbero distruggerla; tra coloro che guardano al futuro e coloro che si aggrappano al passato; tra coloro che aprono le loro armi e le persone che sono determinati a ripudiarle.”,
sono parole di Bill Clinton, rimaste solo parole!
A volte la Pace è più stressante della guerra.
Non spara nessuno...
Tutti prendono la mira!
Ma…
“Un giorno faranno una guerra e nessuno vi parteciperà.”,
scriveva Carl August Sandburg.
La Pace viene celebrata con una Giornata Speciale il 21 settembre[5] di ogni anno e io sogno di un Bambino che chieda:
“Mamma, cos’era la guerra?”
Sono folle, credo, ancora, che la Pace possa essere raggiunta in qualche modo...
Una Pace senza vittoria…
Solo una Pace tra eguali può durare!
I Trattati di Pace mi ricordano tanto la stretta di mano che si scambiano i pugili prima e dopo di rompersi il muso...
Il famoso detto latino:
“Si vis pacem para bellum!”
non è che un gioco di parole da oracolo di Delfo. Torniamo al senso comune che impone:
“Si vis pacem para Pacem!”
Parte Prima
Why war?
Perché la guerra?
Pourquoi la guerre?
“Someday they’ll give a war and nobody will come.”
“Un giorno faranno una guerra e nessuno vi parteciperà.”
“Un Jour, on organisera une guerre et personne ne viendra.”
Carl Sandburg
Grass
Carl Sandburg
Pile the bodies high at Austerlitz and Waterloo,
Shovel them under and let me
work –
I am the grass; I cover
all.
And pile them high at Gettysburg
And pile them high at Ypres
and Verdun.
Shovel them under and let me
work.
Two years, ten years, and
passengers ask the conductor:
What place is this?
Where are we now?
I am the grass.
Let me work..[6]
Carteggio Einstein – Freud
[1932]
Einstein una volta chiese a Freud: “Perché la guerra? C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”
Freud rispose: “Una sola risposta si impone: perché l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del complesso di fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani.
Arriviamo così all’ultima domanda.
Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione?
Non penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte. L’esperienza prova che piuttosto la cosiddetta “intellighenzia” cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata.”
Arnold Böcklin, Autoritratto con la morte che suona il violino, 1872.
Cosa spinge gli uomini alla guerra e come liberarli da questa terribile fatalità?
È la domanda che, il 30 luglio 1932, Albert Einstein pone a colui che può considerarsi il grande “conoscitore della vita istintiva umana”, Sigmund Freud.
Il giorno dopo, in Germania, si tengono le elezioni politiche generali. Dalle urne escono vincitori i nazionalsocialisti di Adolf Hitler, che con 13,7 milioni di voti [il 37% dei votanti] e 230 deputati, diventano il primo partito tedesco.
Nella primavera del 1915, in pieno conflitto mondiale, Freud aveva, già, pubblicato, su Imago, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, un’amara meditazione sul senso e il non senso della guerra.
“La Storia primordiale dell'Umanità è infatti piena di assassinii. Ancor oggi quella che i nostri figli imparano a scuola come storia universale non è in realtà altro che una lunga serie di uccisioni fra i popoli.”[7]
“La guerra a cui non volevamo credere è scoppiata e ci ha portato… la delusione. Non soltanto è più sanguinosa e rovinosa di ogni guerra del passato, e ciò a causa dei tremendi perfezionamenti portati alle armi di offesa e di difesa, ma è anche perlomeno tanto crudele, accanita e spietata quanto tutte le guerre che l'hanno preceduta.”[8]
“Essa infrange tutte le barriere riconosciute in tempo di pace e costituenti quello che è stato chiamato il diritto delle genti.”[9]
“Abbatte quanto trova sulla sua strada con una rabbia cieca, come se dopo di essa non dovesse più esservi avvenire e pace tra gli uomini. Spezza tutti i legami di solidarietà che possono ancora sussistere tra i popoli in lotta e minaccia di lasciare dietro di sé un rancore tale da rendere impossibile per molti anni una loro ricostituzione.”[10]
“Due fatti hanno suscitato in questa guerra la nostra delusione: la scarsa moralità verso l’esterno di quegli Stati che all’interno si erigono a custodi delle norme morali, e la brutalità del comportamento di quei singoli individui che, in quanto membri della più progredita civiltà umana, non ci saremmo aspettati capaci di tanto.”[11]
Il 28 giugno 1914, l’Impero Austro-ungarico, a seguito dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, aveva dichiarato guerra alla Serbia e moltissimi giovani, tra cui Ernst Jünger, Franz Rosenzweig e tre figli maschi di Freud, Oliver, Martin ed Ernst, provarono l’ebbrezza della guerra e si arruolarono volontari per andare a combattere al fronte: il bagno di sangue veniva percepito come l’occasione per una rinascita collettiva. Ma l’entusiasmo della guerra durò solo pochi mesi. E così fu, anche, per Freud: aveva immaginato una rapida conclusione del conflitto, ma, alla fine del 1914, gli fu chiaro che alla guerra di invasione succedeva la guerra, lunga e cruenta, di posizione e di trincea. La guerra non aveva fatto che mettere in evidenza quello che la psicoanalisi aveva, già, teorizzato sull’aggressività umana. I cinque anni di guerra avevano causato circa 10 milioni di vittime, anche grazie alla “scienza” e alla tecnologia, che avevano prodotto automobili, gas tossici, lanciafiamme, sommergibili, bombardamenti sui civili. L’armistizio del novembre 1918 portò un sollievo, ma anche l’illusione che la guerra fosse finita. Tutto non era più quello di prima: erano crollati i miti della razionalità umana, propri dell’illuminismo e del positivismo, i miti dei valori dell’Occidente e del progresso scientifico, tecnico, economico, morale e politico. Le conseguenze del potenziamento degli armamenti e delle politiche di disuguaglianza e sopraffazione si sono svelate sempre di più fino ad oggi: la promessa del progresso e dell’”uomo nuovo” di tutte le ideologie è diventata l’orrenda spettacolarizzazione dell’atroce distruzione della Terra e degli uomini che ci vivono.
La risposta a Einstein di Freud, instancabile distruttore delle illusioni, da quelle religiose a quelle marxiste, è complessa. La consueta limpidezza di scrittura nasconde a malapena la difficoltà dei temi e delle argomentazioni e, soprattutto, riunisce quanto c’è di più inquietante, ambivalente, disunito, nell’agire umano.
Freud ha vissuto la prima catastrofe del Novecento, ha visto l’ascesa del nazismo, ha presagito ciò che sarebbe accaduto di là a poco e ha, lucidamente, compreso che il seme della distruzione è infitto nel cuore della civiltà, come scrive, il 4 marzo 1923, a Romain Rolland:
“Io appartengo, invero, a una razza che nel Medioevo fu resa responsabile di tutte le epidemie e che oggi dovrebbe sopportare la colpa della distruzione dell’impero in Austria e della sconfitta in Germania. Esperienze del genere lasciano disincantati e rendono poco inclini a credere nelle illusioni. Del resto, ho effettivamente impiegato una gran parte del lavoro della mia vita [ho dieci anni più di Lei] a distruggere le illusioni mie e dell’umanità. Ma se quest’unica non si realizzerà almeno approssimativamente, se nel corso dell’evoluzione non impareremo a deviare dai nostri simili i nostri istinti di distruzione, se continueremo a odiarci reciprocamente per piccole diversità e ad ammazzarci per guadagni meschini, se continueremo a utilizzare i grandi progressi nel dominio delle forze della natura per la nostra distruzione reciproca, qual futuro ci attende?”
Caputh [Potsdam], 30 luglio 1932
Caro signor Freud,
la proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto per la Cooperazione Intellettuale” di Parigi, di invitare una persona a mio gradimento a un franco scambio di opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la benvenuta occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare a me, nella presente condizione del Mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? È ormai sufficientemente risaputo che, col progredire della tecnica moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante la massima buona volontà, tutti i tentativi di soluzione sono purtroppo miseramente falliti. Penso anche che coloro ai quali spetta di affrontare il problema da un punto di vista professionale e pratico diventino di giorno in giorno più consapevoli della propria impotenza e abbiano oggi un vivo desiderio di conoscere le opinioni di persone impegnate nella ricerca scientifica, le quali per ciò stesso vedano i problemi del Mondo con sufficiente distacco. Quanto a me, l’obiettivo cui si rivolge abitualmente il mio pensiero non mi è d’aiuto nel discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano. Pertanto, riguardo a tale inchiesta, dovrò limitarmi a cercare di porre il problema nei suoi giusti termini, consentendoLe così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di valersi della Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce la scienza psicologica non può esplorare le correlazioni e i confini, pur avendone un vago sentore; sono convinto che Lei potrà suggerire percorsi educativi, più o meno estranei all’ambito politico, che elimineranno questi ostacoli.
Essendo immune da sentimenti nazionalistici, vedo una maniera semplice di affrontare l’aspetto esterno, cioè organizzativo, del problema: gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro. Ogni Stato si assuma l’obbligo di rispettare i decreti di questa autorità, di invocarne la decisione in ogni disputa, di accettarne senza riserve il giudizio e di attuare tutti i provvedimenti che essa ritenga necessari per far applicare le proprie ingiunzioni. Qui s’incontra la prima difficoltà: un tribunale è un’istituzione umana che tanto più è soggetto alle pressioni extragiudiziali quanto meno potere ha di far rispettare le proprie decisioni. Vi è qui una realtà da cui non possiamo prescindere: diritto e potere sono inscindibili, e le decisioni del diritto tanto più s’avvicinano all’ideale di giustizia, cui la comunità aspira e nel cui nome e interesse vengono pronunciate le sentenze, quanto più cui tale comunità ha il potere effettivo di imporre il rispetto del proprio ideale di giustizia. Oggi siamo però lontanissimi dal possedere una organizzazione sovranazionale che sia in grado di emettere verdetti di autorità incontestata e imporre con la forza di sottomettersi all’esecuzione delle sue sentenze. Giungo così al mio primo assioma: la ricerca della sicurezza internazionale implica che ogni Stato rinunci, entro certi limiti, alla propria libertà d’azione, vale a dire alla propria sovranità, ed è incontestabilmente vero che non v’è altra strada per arrivare a siffatta sicurezza.
L’insuccesso degli sforzi pur generosissimi che nell’ultimo decennio sono stati profusi per raggiungere questa meta ci fa concludere senz’ombra di dubbio che agiscono in questi casi forti fattori psicologici che paralizzano gli sforzi. Alcuni di questi fattori sono evidenti. La sete di potere della classe dominante si oppone in ogni Stato a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere politico viene sovente alimentato dalla brama di potere di un altro ceto sociale, che mira a conquistare vantaggi materiali, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di persone che, attive in ogni popolo e inaccessibili a qualsivoglia considerazione o scrupolo sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e commercio delle armi, soltanto un’occasione per ottenere vantaggi personali e ampliare l’ambito del proprio potere.
Tuttavia l’aver riconosciuto questo dato inoppugnabile ci ha soltanto fatto fare il primo passo per capire come stiano oggi le cose. Ci troviamo subito di fronte a un’altra domanda: com’è possibile che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha soltanto da soffrire e da perdere? [Parlando della maggioranza non escludo i soldati, di ogni grado, che hanno fatto della guerra il loro mestiere, convinti di giovare alla difesa dei più alti interessi della loro stirpe e persuasi che qualche volta il miglior metodo di difesa è l’attacco]. Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che questa minoranza di individui al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di dominare e orientare i sentimenti delle masse, rendendoli docili strumenti della propria politica.
Pure, questa risposta non dà neanch’essa una soluzione completa e fa sorgere un ulteriore interrogativo: com’è possibile che la massa si lasci infiammare con i suddetti mezzi fino al furore e all’olocausto di sé? Una sola risposta è possibile. Perché l’uomo alberga in sé il bisogno di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua inclinazione rimane latente, solo in circostanze eccezionali essa viene alla luce; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del fatale complesso di fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani.
Arriviamo cosi all’ultima domanda. Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino più capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione? E non penso affatto solo alle cosiddette masse incolte. La mia esperienza dimostra anzi che è proprio la cosiddetta “intellighenzia” a cedere per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata.
Concludendo: ho parlato sinora soltanto di guerre tra Stati, ossia di conflitti internazionali. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che l’aggressività umana opera anche in altre forme e in altre circostanze [penso alle guerre civili, per esempio, dovute un tempo al fanatismo religioso, oggi a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di minoranze razziali]. Ma ho insistito a bella posta sulla forma più rappresentativa, rovinosa e sfrenata di conflitto tra comunità umane, in quanto mi è sembrato che ciò mi offrisse il destro di dimostrare quali siano le strade per rendere impossibili tutti i conflitti armati.
So che nei Suoi scritti possiamo trovare risposte esplicite o implicite a tutti gli interrogativi connessi con questo problema urgentissimo al quale ci stiamo interessando. Sarebbe tuttavia della massima utilità per noi tutti se Lei illustrasse direttamente il problema della pace mondiale alla luce delle Sue recenti scoperte; tale esposizione potrebbe infatti indicare la strada a nuovi e validissimi modi d’azione.
Molto cordialmente Suo
Albert Einstein
Vienna, settembre 1932
Caro signor Einstein,
quando ho saputo che Lei aveva intenzione di invitarmi a uno scambio di idee su di un tema che Le interessa e che inoltre Le sembra degno dell’interesse di altre persone, mi sono subito dichiarato disponibile. Mi aspettavo che Lei avrebbe scelto un problema al limite del conoscibile al giorno d’oggi, cui ciascuno di noi, il fisico come lo psicologo, avrebbe potuto aprirsi la sua particolare via d’accesso, in modo che da diversi lati ci si potesse incontrare sul medesimo terreno. Ma poi Lei mi ha sorpreso ponendomi la domanda di che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la fatalità della guerra. Sono stato spaventato per prima cosa dall’impressione della mia - starei quasi per dire: della nostra - incompetenza, sembrandomi infatti questo un compito pratico la cui soluzione spetta agli uomini di Stato. Ma ho compreso poi che Lei ha sollevato la questione non come scienziato e come fisico, bensì come amico dell’umanità, che aveva risposto alla sollecitazione della Società delle Nazioni, così come fece l’esploratore polare Fridtjof Nansen allorché si assunse l’incarico di soccorrere gli affamati e le vittime senza patria della guerra mondiale. Ho anche riflettuto che non si pretende da me che io faccia proposte pratiche, ma che devo soltanto indicare come il problema della prevenzione della guerra si presenta alla considerazione di uno psicologo. Ma anche a questo riguardo quel che c’era da dire è già stato detto in gran parte nel Suo scritto. In certo qual modo Lei mi ha tolto vento alle mie vele, ma io viaggio volentieri nella Sua scia, preparandomi perciò a confermare tutto ciò che Lei mette innanzi e svolgendolo più ampiamente seguendo le mie migliori conoscenze [o congetture].
Lei comincia con il rapporto tra diritto e potere. È certamente il punto di partenza giusto per la nostra indagine. Posso sostituire la parola “potere” con la parola più incisiva e più dura “violenza”?
Diritto e violenza sono per noi oggi termini opposti. È facile mostrare che l’uno si è sviluppato dall’altro e, se risaliamo ai primordi della vita umana per verificare come ciò sia da principio accaduto, la soluzione del problema ci appare senza difficoltà. Mi scusi se nelle pagine che seguono parlo di cose universalmente note come se fossero novità; il presente contesto mi obbliga a farlo.
I conflitti d’interesse tra gli uomini sono dunque in linea di principio decisi mediante l’uso della violenza. Ciò avviene in tutto il regno animale, di cui la creatura umana fa inequivocabilmente parte; per gli uomini si aggiungono, a dire il vero, anche i conflitti di opinione, che giungono fino ai più alti vertici dell’astrazione e che, per essere decisi, esigono, a quanto pare, una tecnica diversa. Ma questa è una complicazione più tarda. Inizialmente, in una piccola orda umana, la maggiore forza muscolare decise a chi dovesse appartenere qualcosa o la volontà di chi dovesse essere realizzata. Presto la forza muscolare è accresciuta o sostituita dall’uso di certi strumenti; vince chi possiede le armi migliori o chi le adopera con maggior destrezza. Con l’introduzione delle armi la superiorità intellettuale comincia già a prendere il posto della forza muscolare bruta, benché lo scopo finale della lotta rimanga il medesimo: una delle due parti, a cagione del danno che subisce e dell’infiacchimento delle proprie forze, è costretta a desistere dalle proprie rivendicazioni od opposizioni. Ciò è ottenuto nel modo più radicale quando la violenza toglie di mezzo l’avversario definitivamente, cioè lo uccide. Questo sistema ha due vantaggi: che l’avversario non può riprendere le ostilità in altra occasione e che il suo destino distoglie gli altri dal seguire il suo esempio. Inoltre l’uccisione del nemico soddisfa un’inclinazione pulsionale di cui parlerò più avanti. All’intenzione di uccidere subentra talora la riflessione che il nemico può essere impiegato in mansioni servili utili se lo si lascia in vita in condizioni di soggezione. In questo caso la violenza si accontenta di sottometterlo, anziché di ucciderlo. Si comincia così a risparmiare il nemico, ma il vincitore d’ora in poi ha da fare i conti con la smania di vendetta del vinto, sempre in agguato, e deve rinunciare in parte alla propria sicurezza.
Questo è dunque lo stato originario, il predominio del più forte, della violenza bruta o sostenuta dall’intelligenza. Sappiamo che questo regime è stato mutato nel corso dell’evoluzione, che una strada condusse dalla violenza al diritto, ma quale? Una sola a mio parere: quella che passava per l’accertamento che allo strapotere di uno solo poteva contrapporsi l’unione di più deboli. L’union fait la force. La violenza viene spezzata dall’unione di molti, la potenza di coloro che si sono uniti rappresenta ora il diritto in opposizione alla violenza del singolo.
Vediamo così che il diritto è la forza di una comunità. È ancora sempre violenza, pronta a volgersi contro chiunque le si opponga, operante con gli stessi mezzi, intenta a perseguire gli stessi fini; la differenza risiede in realtà solo nel fatto che non è più la violenza di un singolo a trionfare, bensì quella di una comunità. Ma perché si compia questo passaggio dalla violenza al nuovo diritto deve adempiersi una condizione psicologica. L’unione dei più deve essere stabile, durevole. Se essa si costituisse solo allo scopo di combattere il singolo prepotente e si dissolvesse dopo che costui è stato sopraffatto, non si otterrebbe nulla. Il prossimo personaggio che si ritenesse più forte ambirebbe di nuovo a dominare con la violenza, e il giuoco si ripeterebbe all’infinito. La comunità deve essere mantenuta permanentemente, deve organizzarsi, prescrivere le norme che prevengano le temute ribellioni, istituire gli organi che veglino sull’osservanza delle prescrizioni - le leggi - provvedendo all’esecuzione degli atti di violenza conformi al diritto. Nel riconoscimento di una tale comunione di interessi s’instaurano tra i membri di un gruppo umano coeso quei legami emotivi, quei sentimenti condivisi sui quali sì fonda la vera forza del gruppo.
Con ciò, a mio avviso, è stato detto tutto l’essenziale: il trionfo sulla violenza mediante la trasmissione del potere a una comunità più vasta che viene tenuta insieme dai legami emotivi che si stabiliscono tra i suoi membri. Tutto il resto sono precisazioni e ripetizioni.
La cosa è semplice finché la comunità consiste solo di un certo numero di individui ugualmente forti. Le leggi di questo sodalizio determinano allora fino a che punto debba essere limitata la libertà individuale di usare la forza in modo violento, al fine di rendere possibile una vita collettiva sicura. Ma un tale stato di pace è pensabile solo teoricamente, nella realtà le circostanze si complicano perché la comunità comprende fin dall’inizio elementi di forza disuguale, uomini e donne, genitori e figli, e ben presto, in conseguenza della guerra e dell’assoggettamento, vincitori e vinti, che si trasformano in padroni e schiavi. Il diritto della comunità diviene allora espressione dei rapporti di forza disuguali esistenti al suo interno, le leggi vengono fatte da e per quelli che comandano, concedendo ben pochi diritti a quelli che sono stati assoggettati. Da allora in poi vi sono nella comunità due fonti d’inquietudine - ma anche di perfezionamento - del diritto. In primo luogo il tentativo di questo o quel signore di ergersi al di sopra delle restrizioni valide per tutti, e tornare dunque dal regno del diritto a quello della violenza; in secondo luogo gli sforzi costanti dei sudditi per procurarsi più potere e per vedere riconosciuti dalla legge questi mutamenti; dunque, al contrario, uno sforzo per inoltrarsi nella via che dal diritto fondato sulle diseguaglianze porta al diritto uguale per tutti. Questo movimento in avanti diviene particolarmente notevole quando si danno effettivi spostamenti dei rapporti di forza all’interno della collettività, come può accadere per l’azione di molteplici fattori storici. Il diritto può allora conformarsi gradualmente ai nuovi rapporti di forza, oppure, come accade più sovente, la classe dominante non è pronta a tener conto di questi mutamenti, e si giunge allora all’insurrezione, alla guerra civile, dunque a una temporanea revoca del diritto e a nuove testimonianze di violenza, in seguito alle quali viene instaurato un nuovo ordinamento giuridico. C’è anche un’altra fonte di mutamento del diritto, che si manifesta solo in modi pacifici, ed è la trasformazione degli ideali civili dei membri di una collettività; essa appartiene però a un contesto che potrà essere preso in considerazione solo più avanti.
Vediamo dunque che anche all’interno di una collettività non può venire evitata la risoluzione violenta dei conflitti. Ma le necessità e le coincidenze di interessi che derivano dalla vita in comune sulla medesima terra favoriscono una rapida conclusione di tali lotte, e le probabilità che in queste condizioni si giunga a soluzioni pacifiche sono in continuo aumento.
Uno sguardo alla storia dell’umanità ci mostra tuttavia una serie ininterrotta di conflitti tra una collettività e una o più collettività diverse, tra unità più o meno vaste, città, paesi, tribù, popoli, Stati: conflitti che vengono decisi quasi sempre mediante la prova di forza della guerra.
Tali guerre si risolvono o in saccheggio o in completa sottomissione, conquista dell’una parte ad opera dell’altra. Non si possono giudicare con un unico metro le guerre di conquista. Alcune, come quelle dei Mongoli e dei Turchi, hanno arrecato solo calamità, altre al contrario hanno contribuito al trapasso dal regno della violenza a quello del diritto, avendo prodotto unità più grandi, al cui interno la possibilità di ricorrere alla violenza è stata annullata e un nuovo ordinamento giuridico è riuscito a comporre i conflitti. Così le conquiste dei Romani hanno dato ai paesi mediterranei la preziosa pax romana, e la cupidigia dei re francesi di ingrandire i loro possedimenti ha creato una Francia fiorente e pacificamente unita.
Per quanto ciò possa sembrare paradossale, si deve ammettere che la guerra non è di per sé un mezzo inadatto alla costruzione dell’agognata pace “eterna”, poiché potrebbe riuscire a creare quelle più vaste unità al cui interno un forte potere centrale rende impossibili guerre ulteriori. Tuttavia la guerra non ottiene questi risultati perché i successi della conquista di regola non sono durevoli; le unità appena create si disintegrano, perlopiù a causa della insufficiente coesione delle parti forzatamente unite. E inoltre la conquista ha potuto fino ad oggi creare soltanto unificazioni parziali, anche se di grande estensione, e sono proprio i conflitti sorti all’interno di queste unificazioni ad aver reso inevitabile il ricorso alla violenza. Così l’unica conseguenza di tutti questi sforzi bellici è che l’umanità ha sostituito alle continue guerricciole le grandi guerre, che sono assai più rare, ma proprio per questo tanto più devastanti.
Per quanto riguarda la nostra epoca, si impone la medesima conclusione a cui Lei è giunto per una via più breve. Una prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interessi.
È evidente che sono qui compendiate due esigenze diverse: quella di creare una simile Corte suprema, e quella di assicurarle il potere che le abbisogna. La realizzazione dell’una senza l’altra non servirebbe a niente. Ora la Società delle Nazioni è stata concepita come suprema potestà del genere, ma la seconda condizione non è stata adempiuta; la Società delle Nazioni non dispone di forza propria e può averne una solo se i membri della nuova associazione - i singoli Stati - gliela concedono. Tuttavia per il momento ci sono scarse probabilità che ciò accada. Ci sfuggirebbe il significato di un’istituzione come quella della Società delle Nazioni, se non tenessimo nel dovuto conto che si tratta di un tentativo coraggioso, raramente intrapreso nella storia dell’umanità e forse mai in questa misura. È il tentativo di acquisire mediante il richiamo a determinati principi ideali l’autorità [cioè l’influenza coercitiva] che di solito si basa sul possesso della forza.
Abbiamo visto che gli elementi che tengono insieme una comunità sono due: la coercizione violenta e i legami emotivi tra i suoi membri [quelle che in termini tecnici si chiamano identificazioni]. Nel caso in cui venga a mancare uno di questi due fattori non è escluso che l’altro possa tenere unita la comunità. Le idee cui ci si appella hanno naturalmente un significato solo se mettono in luce importanti affinità tra i membri di una determinata collettività.
Sorge poi il problema: che forza si può attribuire a queste idee? La storia insegna che una certa funzione l’hanno pur svolta. L’idea panellenica, per esempio, la coscienza di essere qualche cosa di meglio che i barbari confinanti, idea che trovò così potente espressione nelle anfizionie, negli oracoli e nei Giuochi, fu abbastanza forte per mitigare i costumi nella conduzione della guerra fra i Greci, ma ovviamente non fu in grado di impedire il ricorso alle armi fra le diverse componenti del popolo ellenico, e neppure fu mai in grado di trattenere una città o una federazione di città dallo stringere alleanza con il nemico persiano per abbattere un rivale. Parimenti il sentimento che accomunava i Cristiani, che pure fu abbastanza potente, non impedì durante il Rinascimento a Stati cristiani grandi e piccoli di sollecitare l’aiuto del Sultano nelle loro guerre intestine. Anche nella nostra epoca non vi è alcuna idea cui si possa attribuire un’autorità unificante del genere. È fin troppo chiaro che gli ideali nazionali da cui oggi i popoli sono dominati spingono in tutt’altra direzione. C’è chi predice che soltanto la penetrazione universale del modo di pensare bolscevico potrà mettere fine alle guerre, ma in ogni caso siamo oggi ben lontani da tale meta, che forse sarà raggiungibile solo a prezzo di spaventose guerre civili. Sembra dunque che il tentativo di sostituire la forza reale con la forza delle idee sia per il momento votato all’insuccesso. È un errore di calcolo non considerare il fatto che il diritto era in origine violenza bruta e che esso ancor oggi non può fare a meno di ricorrere alla violenza.
Posso ora procedere a commentare un’altra delle Sue proposizioni. Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in essi ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza di tale pulsione e negli ultimi anni abbiamo appunto tentato di studiare le sue manifestazioni. Mi consente, in proposito, di esporLe parte della teoria delle pulsioni cui siamo giunti nella psicoanalisi dopo molti passi falsi e molte esitazioni?
Noi presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare e a unire - da noi chiamate sia erotiche [esattamente nel senso in cui Platone usa il termine “Eros” nel Simposio] sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità, - e quelle che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva.
Come Lei vede, si tratta propriamente soltanto della dilucidazione teorica della contrapposizione tra amore e odio, universalmente nota, e forse originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che interviene anche nel Suo campo di studi. Non ci chieda ora di passare troppo rapidamente ai valori di bene e di male. Entrambe le pulsioni sono parimenti indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto. Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire isolatamente, essa è sempre connessa - legata, come noi diciamo - con un certo ammontare della controparte, che ne modifica la meta o, talvolta, subordina il raggiungimento di quest’ultima a determinate condizioni. Così, per esempio, la pulsione di autoconservazione è certamente erotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo alla pulsione amorosa, rivolta agli oggetti, necessita un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole impadronirsi del proprio oggetto. La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni nelle loro manifestazioni ha fatto sì che per tanto tempo non riuscissimo a identificarle.
Se Lei è disposto a proseguire con me ancora un poco, vedrà che le azioni umane sono soggette anche a un’altra complicazione. È assai raro che l’azione sia opera di un singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una combinazione di Eros e distruzione. Di regola devono concorrere parecchi motivi similmente strutturati per rendere possibile l’azione. Uno dei Suoi colleghi l’aveva già avvertito, un certo professor G. C. Lichtenberg, che insegnava fisica a Gottinga al tempo dei nostri classici; ma forse egli era anche più notevole come psicologo che come fisico. Egli scoprì la rosa dei moventi, nell’atto in cui dichiarò: “I motivi per i quali si agisce potrebbero essere disposti come i trentadue venti e i nomi formati in maniera analoga, per esempio ‘Pane-Pane-Fama’ o ‘Fama-Fama-Pane’.” Pertanto, quando gli uomini vengono incitati alla guerra, è possibile che si desti in loro un’intera serie di motivi consenzienti, nobili e volgari, alcuni di cui si parla apertamente e altri che vengono taciuti. Non è il caso di enumerarli tutti. Il piacere di aggredire e distruggere ne fa certamente parte; innumerevoli crudeltà della storia e della vita quotidiana confermano la loro esistenza e la loro forza. Il fatto che questi impulsi distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici e ideali, facilita naturalmente il loro soddisfacimento. Talvolta, quando sentiamo parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi ideali siano serviti da mero paravento alle brame di distruzione; altre volte, ad esempio per le crudeltà della Santa Inquisizione, che i motivi ideali fossero preminenti nella coscienza, mentre i motivi distruttivi recassero loro un rafforzamento inconscio. Entrambi i casi sono possibili.
Ho qualche scrupolo ad abusare del Suo interesse, che si rivolge alla prevenzione della guerra e non alle nostre teorie. Tuttavia vorrei indugiare ancora un attimo sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua importanza. Con un po’ di speculazione ci siamo in effetti persuasi che essa opera in ogni essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l’aiuto di certi organi, si rivolge all’esterno, contro gli oggetti. L’essere vivente protegge, per così dire, la propria vita distruggendone una estranea. Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane attiva all’interno dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è spinto troppo oltre; in tal caso sortisce un effetto immediatamente malsano. Invece il volgersi di queste forze pulsionali distruttive nel Mondo esterno scarica l’essere vivente e non può non sortire un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica a tutti gli impulsi esecrabili e perniciosi contro i quali noi ci battiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quanto lo sia la resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una spiegazione. Forse Lei ha l’impressione che le nostre teorie siano una specie di mitologia, neppure lieta in verità. Ma non approda forse ogni scienza naturale a una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei, nel campo della fisica?
Per gli scopi immediati che ci siamo proposti da quanto precede ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini. Si dice che in contrade felici della terra, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, ci siano popoli la cui vita scorre nella mitezza. presso i quali la coercizione e l’aggressione sono sconosciute. Ci credo poco; mi piacerebbe saperne di più, su queste felici creature. Anche i bolscevichi sperano di riuscire a sopprimere l’aggressività umana, garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza sotto tutti gli altri aspetti tra i membri della loro comunità. Io ritengo questa un’illusione. Intanto, si sono armati con il massimo scrupolo, e per tenere uniti i loro adepti ricorrono non da ultimo all’odio contro tutti gli stranieri. D’altronde non si tratta, come Lei stesso osserva, di abolire completamente l’aggressività umana; si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione nella guerra.
Partendo
dalla nostra mitologica dottrina delle pulsioni, giungiamo facilmente a una
formula per definire le vie indirette di lotta alla guerra. Se la propensione
alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio
ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere
legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami
possono essere di due tipi. In primo luogo relazioni che, pur essendo prive di
meta sessuale, assomiglino a quelle che si hanno con un oggetto d’amore. La
psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la
religione dice la stessa cosa: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.
Ora, questa è un’esigenza facile da porre, ma difficile da realizzare. L’altro
tipo di legame emotivo è quello che si stabilisce mediante identificazione.
Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia
sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in
buona parte l’assetto della società umana.
L’abuso di autorità da Lei lamentato mi suggerisce un secondo metodo per
combattere indirettamente l’inclinazione alla guerra. Fa parte dell’innata e
ineliminabile diseguaglianza tra gli uomini la loro distinzione in capi e
seguaci. Questi ultimi sono la stragrande maggioranza, hanno bisogno di un’autorità
che prenda decisioni per loro, alla quale perlopiù si sottomettono
incondizionatamente. Richiamandosi a questa realtà, si dovrebbero dedicare
maggiori cure, più di quanto si sia fatto finora, all’educazione di una
categoria di persone elevate, dotate di indipendenza di pensiero, inaccessibili
alle intimidazioni e cultrici della verità, alle quali dovrebbe spettare la
guida delle masse incapaci di autonomia. Non c’è bisogno di dimostrare che le
intrusioni del potere statale e le proibizioni intellettuali sancite dalla
Chiesa non creano le condizioni più propizie affinché prosperino cittadini
simili. L’ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse
assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nient’altro
potrebbe produrre un’unione tra gli uomini altrettanto perfetta e tenace,
capace di resistere perfino alla rinunzia di reciproci legami emotivi. Ma con
ogni probabilità questa è una speranza utopistica. Le altre vie per impedire
indirettamente la guerra sono certo più praticabili, ma non danno garanzie di
un rapido successo. È triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la
gente muore di fame prima di ricevere la farina.
Come vede non si riesce a cavare granché da un teorico, che nulla sa del Mondo, quando lo si chiama a pronunciarsi su problemi pratici urgenti. Meglio sarebbe che in ciascun caso particolare si cercasse di affrontare il pericolo con i mezzi che si hanno a disposizione.
Vorrei
tuttavia trattare ancora un problema, che nel Suo scritto Lei non solleva e che
m’interessa particolarmente. Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e
io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle molte penose calamità
della vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata
biologicamente, in pratica assai poco evitabile. Non inorridisca perché pongo
la domanda. Al fine di compiere un’indagine come questa è forse lecito assumere
la maschera di un finto distacco. La risposta sarà: perché ogni uomo ha diritto
alla propria esistenza, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse,
pone i singoli individui in condizioni avvilenti, li costringe, contro la
propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori
materiali, frutto del lavoro umano, e altre cose ancora. Perdipiù, nella sua
forma attuale, la guerra non dà più alcuna opportunità di attuare l’antico
ideale eroico e, nella forma che è destinata ad assumere in futuro, a causa del
perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o
forse di entrambi i contendenti. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile
che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora
ripudiato universalmente dagli uomini mediante un accordo che li impegni tutti.
Qualcuno dei punti qui enumerati può evidentemente essere discusso: ci si può
chiedere se la comunità non debba anch’essa avere un diritto sulla vita del
singolo; non si possono condannare nella stessa misura tutti i tipi di guerra;
finché esistono Stati e nazioni pronti ad annientare senza pietà altri Stati e
altre nazioni, questi ultimi sono necessitati a prepararsi alla guerra. Ma noi
vogliamo sorvolare rapidamente su tutto ciò, giacché non è questa la
discussione a cui Lei mi ha impegnato. Ho in mente qualcos’altro, credo che la
ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che non possiamo
fare diversamente. Siamo pacifisti perché a ciò siamo necessitati da ragioni
organiche: ci è poi facile giustificare il nostro atteggiamento con
argomentazioni.
So che non sarò capito se non mi spiego meglio. Ecco quello che voglio dire: da
tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento [altri,
lo so, chiamano più volentieri questo processo: civilizzazione]. Dobbiamo ad
esso il meglio di ciò che siamo divenuti e buona parte dei nostri mali.
Le sue cause e origini sono oscure, il suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente penetrabili. Forse esso porta all’estinzione del genere umano, giacché in più di una guisa pregiudica la funzione sessuale, e già oggi le razze incolte e gli strati arretrati della popolazione si moltiplicano più rapidamente dei ceti sociali di elevata cultura. Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di certe specie animali; senza dubbio comporta modificazioni fisiche; tuttavia non ci si è ancora familiarizzati con l’idea che l’incivilimento sia un processo organico di tale natura. Le modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento sono invece vistose e per nulla equivoche. Esse consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsionali. Sensazioni che per i nostri progenitori erano dense di piacere, sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili; esistono ragioni organiche del fatto che le nostre esigenze ideali, etiche ed estetiche, sono mutate. Dei caratteri psicologici della civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo di incivilimento, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, di una idiosincrasia portata, per così dire, al massimo livello. E mi sembra in effetti che le degradazioni estetiche della guerra concorrano a determinare il nostro rifiuto in misura quasi pari alle sue atrocità.
Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è utopistico sperare che l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dire una cosa: tutto ciò che favorisce l’incivilimento lavora anche contro la guerra.
La
saluto cordialmente e Le chiedo scusa se le mie osservazioni L’hanno delusa.
Suo
Sigm. Freud
“Lo Stato in guerra si permette tutte le ingiustizie, tutte le violenze, la più piccola delle quali basterebbe a disonorare l'individuo. Esso ha fatto ricorso, nei confronti del nemico, non solo a quel tanto di astuzia permessa, ma anche alla menzogna cosciente e voluta, e questo in una misura che va al di là di tutto ciò che si era visto nelle guerre precedenti. Lo Stato impone ai cittadini il massimo di obbedienza e di sacrificio, ma li tratta da sottomessi, nascondendo loro la verità e sottomettendo tutte le comunicazioni e tutti i modi di espressione delle opinioni ad una censura che rende la gente, già intellettualmente depressa, incapace di resistere ad una situazione sfavorevole o a una cattiva notizia. Si distacca da tutti i trattati e da tutte le convenzioni che lo legano agli altri stati, ammette senza timore la propria rapacità e la propria sete di potenza, che l'individuo è costretto ad approvare e a sanzionare per patriottismo.”
Sigmund Freud
Qual è lo scopo della vita di un essere umano?
“Il vero valore di un essere umano è determinato principalmente dalla misura e dal senso in cui egli ha raggiunto la liberazione dal sé.”
Questo era, per Albert Einstein, il vero significato ultimo dell’esistere. Era stato l’insegnamento del Mahatma Gandhi ad averlo colpito: trascendere il sé individuale significava sperimentare il sé universale, ovvero la pura coscienza. Einstein era intransigente sia come scienziato, sia come uomo. Nel 1913, si era rifiutato di firmare un manifesto a favore della guerra che gli era stato proposto da un buon numero di scienziati tedeschi.
L’FBI aveva raccolto un fascicolo di 1.427 pagine sulla sua attività e aveva raccomandato che gli fosse impedito di emigrare negli Stati Uniti, in quanto credeva, consigliava, difendeva e insegnava una dottrina che, in senso legale, era stata ritenuta dai tribunali, in altri casi, “capace di permettere all’anarchia di progredire indisturbata” e che portava a “un Governo solo di nome”. Il suo peccato era scritto chiaro nel faldone dove compariva una definizione per quegli anni gravissima “membro, sostenitore o affiliato a 34 movimenti comunisti”.
Nel 1929, Einstein aveva scritto:
“Rendo omaggio a Lenin come a colui che ha dedicato tutte le sue forze alla realizzazione della giustizia sociale, sacrificando a questo fine la propria individualità. Non credo però che il suo metodo sia giusto.”
Il 2 agosto 1939, Einstein scriveva con Leó Szilárd una lettera al presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, per allertarlo sulla possibilità che la Germania nazista potesse arrivare a sviluppare la bomba atomica, e la concludeva suggerendo l’opportunità che si stabilisse “un contatto continuo tra il Governo e i fisici che lavorano alla reazione a catena in America”, allo scopo di passare su un vero e proprio terreno operativo nel caso in cui la situazione fosse degenerata.
Signore,
alcuni recenti lavori di E. Fermi e L. Szilárd, che mi sono stati comunicati in manoscritto, mi fanno pensare che l’elemento uranio possa essere trasformato in una nuova e importante fonte di energia nell’immediato futuro. Alcuni aspetti della situazione che è emersa sembrano richiedere vigilanza e, se necessario, tempestività da parte dell’Amministrazione. Ritengo pertanto che sia mio dovere portare alla vostra attenzione i seguenti fatti e raccomandazioni.
Negli ultimi quattro mesi i lavori di Joliot in Francia e di Fermi e Szilárd in America hanno dimostrato la possibilità di stabilire una reazione nucleare a catena in una grande massa di uranio, generando enormi quantità di energia e nuovi elementi radioattivi. Adesso sembra alquanto certo che ciò possa avvenire nell’immediato futuro.
Il nuovo fenomeno potrebbe anche portare alla costruzione di bombe, e si può ritenere, anche se con minore certezza, che le bombe così costruite sarebbero di enorme potenza. Una sola di queste bombe, trasportata su nave e fatta esplodere in un porto, potrebbe distruggere tutto il porto e parte del territorio circostante. Ma, forse, una bomba di tale fatta sarebbe troppo pesante per consentirne il trasporto aereo.
Gli Stati Uniti posseggono modeste quantità di uranio. Miniere più ricche si trovano in Canada e nell’ex-Cecoslovacchia, mentre la fonte più importante è il Congo Belga. La situazione che si è creata sembra richiedere attenzione e, se necessario, una rapida azione da parte del Governo.
Sarebbe, forse, desiderabile che lei istituisse un contatto continuo tra il Governo e i fisici che lavorano alla reazione a catena in America tramite una persona di sua piena fiducia che agisse in forma ufficiosa. I suoi compiti potrebbero essere:
a] Tenere informati i vari Ministeri degli sviluppi scientifici e formulare raccomandazioni per il Governo, con particolare attenzione al problema di assicurare agli Stati Uniti il rifornimento di materiale uranifero.
b] Accelerare le ricerche sperimentali incrementando gli stanziamenti.
So che la Germania ha, già, interrotto la vendita dell’uranio ricavato dalle miniere cecoslovacche occupate. Questo provvedimento così improvviso potrebbe, forse, spiegarsi con l’assegnazione del figlio [Carl Friedrich Freiherr von Weizsäcker, n.d.r.] del sottosegretario di Stato tedesco, [Ernst n.d.r.] von Weizsäcker al Kaiser Wilhelm Institut a Berlino, dove sono, attualmente, in corso esperimenti con l’uranio analoghi a quelli svolti in America.”[12]
Sinceramente suo,
Albert Einstein
[1] Il 17 gennaio 1961, tre giorni prima di lasciare la Casa Bianca, dopo due mandati, Dwight David Eisenhower, trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti, ammoniva la popolazione del suo Paese di fare attenzione al complesso industriale–militare, che non era affatto interessato alla pace e avrebbe tentato, per mantenersi in vita e potenziarsi, di portare il paese nuovamente in guerra.
[2] Il 17 gennaio 1961, tre giorni prima di lasciare la Casa Bianca, dopo due mandati, Dwight David Eisenhower, trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti, ammoniva la popolazione del suo Paese di fare attenzione al complesso industriale–militare, che non era affatto interessato alla pace e avrebbe tentato, per mantenersi in vita e potenziarsi, di portare il paese nuovamente in guerra.
[3] Il 3 settembre 1939, la Gran Bretagna entrò in guerra con la Germania. Fu allora che Alan Turing venne assunto come crittografo dall’Esercito inglese a Bletchley Park, una base militare segretissima localizzata nel Buckinghamshire e nota come Stazione X.
Nel marzo del 1952, Turing fu accusato di “indecenza grave e perversione sessuale” e condannato a un anno di prigione per un’imputazione che nella Gran Bretagna di quell’epoca era pesantemente sanzionata: essere omosessuale. Per evitare il carcere Turing si sottopose a una “terapia” di castrazione chimica per ridurre la libido, basata su un composto attualmente noto come dietilestilbestrolo, un estrogeno sintetico.
In una lettera inviata a un amico, Turing scrive:
“La storia di come tutto questo si è venuto a sapere è lunga e affascinante e, un giorno, te la racconterò, ma ora non ne ho il tempo. Senza dubbio ne uscirò come un uomo diverso, ma non so ancora quale…”
Il 7 giugno 1954, il corpo senza vita di Alan Turing fu ritrovato accanto a una mela morsicata coperta di cianuro [c’è sostiene che il logo della Apple abbia qualcosa a che vedere con la mela che presumibilmente pose fine alla vita del matematico]. Il verdetto ufficiale di morte fu il suicidio, ma le indagini condotte non trovarono indizi certi che lecose fossero andate davvero così. Naturalmente sorsero teorie del complotto, secondo le quali sarebbero stati i servizi segreti britannici a uccidere Turing, dato che costituiva una minaccia per le sue conoscenze di criptoanalisi e che, secondo alcuni, era stato sul punto di essere reclutato dai sovietici.
Nel 2009, l’allora primo ministro britannico Gordon Brown chiese scusa a nome del Governo britannico per il trattamento “assolutamente ingiusto” riservato a Turing e, quattro anni più tardi, nel 2013, il geniale matematico ricevette l’indulto dalla regina Elisabetta II.
[4] Enigma era stata inventata dall’ingegnere tedesco Arthur Scherbius dopo la Prima Guerra Mondale. Questa macchina singolare generava codici basandosi sullo scambio di segnali. Il suo funzionamento consisteva nell’inviare messaggi criptati alterati nella forma ma non nel contenuto, per evitare che le crittografie potessero essere decifrate nel caso che il nemico le intercettasse.
Il “segreto” del codice Enigma cominciò ad essere svelato quando Hans Thilo Schmidt, un ex-agente tedesco, vendette ai francesi i manuali operativi di Enigma in uso alle forze armate tedesche. Nel 1943, scoperto dalla polizia nazista, Schmidt si suicidò in carcere.
[5] Istituita, il 30 novembre 1981, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, tramite la Risoluzione 36/67, la Giornata Internazionale della Pace nasce dalla volontà di creare un giorno all’insegna della Pace mondiale e della non violenza.
[6] Erba
Carl Sandburg
Ammucchiate tutti i corpi ad Austerlitz e a Waterloo
Seppelliteli qui e lasciatemi lavorare –
Io sono l’erba; io copro tutto.
E raccoglieteli tutti a Gettysburg
E accumulateli tutti a Ypres e a Verdun.
Seppelliteli qui e lasciatemi lavorare.
Due anni, dieci anni, e i passeggeri chiederanno al conducente:
Che posto è questo?
Dove siamo ora?
Io sono l’erba.
Lasciatemi lavorare.
[7] Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte [1915].
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] Albert Einstein
Old Grove Road
Peconic, Long Island
August 2nd, 1939
F.D. Roosevelt
President of the United States
White House
Washington, D.C.
Sir:
Some recent work by E. Fermi and L. Szilárd, which has been communicated to me in manuscript, leads me to expect that the element uranium may be turned into a new and important source of energy in the immediate future. Certain aspects of the situation which has arisen seem to call for watchfulness and if necessary, quick action on the part of the Administration. I believe therefore that it is my duty to bring to your attention the following facts and recommendations.
In the course of the last four months it has been made probable through the work of Joliot in France as well as Fermi and Szilard in America--that it may be possible to set up a nuclear chain reaction in a large mass of uranium, by which vast amounts of power and large quantities of new radium-like elements would be generated. Now it appears almost certain that this could be achieved in the immediate future.
This new phenomenon would also lead to the construction of bombs, and it is conceivable--though much less certain--that extremely powerful bombs of this type may thus be constructed. A single bomb of this type, carried by boat and exploded in a port, might very well destroy the whole port together with some of the surrounding territory. However, such bombs might very well prove too heavy for transportation by air.
The United States has only very poor ores of uranium in moderate quantities. There is some good ore in Canada and former Czechoslovakia, while the most important source of uranium is in the Belgian Congo.
In view of this situation you may think it desirable to have some permanent contact maintained between the Administration and the group of physicists working on chain reactions in America. One possible way of achieving this might be for you to entrust the task with a person who has your confidence and who could perhaps serve in an unofficial capacity. His task might comprise the following:
a] to approach Government Departments, keep them informed of the further development, and put forward recommendations for Government action, giving particular attention to the problem of securing a supply of uranium ore for the United States.
b] to speed up the experimental work, which is at present being carried on within the limits of the budgets of University laboratories, by providing funds, if such funds be required, through his contacts with private persons who are willing to make contributions for this cause, and perhaps also by obtaining co-operation of industrial laboratories which have necessary equipment.
I understand that Germany has actually stopped the sale of uranium from the Czechoslovakian mines which she has taken over. That she should have taken such early action might perhaps be understood on the ground that the son of the German Under-Secretary of State, von Weizsacker, is attached to the Kaiser-Wilhelm Institute in Berlin, where some of the American work on uranium is now being repeated.
Yours very truly,
Albert Einstein