“Tout crépuscule est double, aurore et soir. Cette formidable chrysalide que l’on appelle l’univers trésaille éternellement de sentir à la fois agoniser la chenille et s’éveiller le papillon.” Victor Hugo
“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”
Nikos Kazantzakis
Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:
Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.
Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.
To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.
I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.
Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.
Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.
Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan
traduzione dal persiano di Daniela Zini
Dormire, dormire e sognare…
Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.
Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.
Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.
Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.
Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.
È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.
Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.
L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.
D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.
Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.
Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.
Quel tentativo fece completo fallimento.
Perché?
Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.
In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.
Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.
Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.
Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.
Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.
E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?
La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.
Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.
Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.
Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?
Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.
Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.
La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:
“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”
Roma, 20 gennaio 2014
Daniela Zini
giovedì 19 giugno 2025
How America Created Benjamin Netanyahu (short documentary)
Gli interventi ai confini della realtà contro il Pride a Budapest: da Sa...
🔥 Iran-Israël : Un bouleversement planétaire est IMMINENT! (C'est plus g...
Iran-Israel War: Why Didn't Mossad Kill Khomeini In 1979? This Mistake B...
Throwback Thursday: Iran, Israel, and the U.S. in 1979
French village where Iran revolution was forged
Iran’s Ayatollah Khomeini (1979) | 60 Minutes Archive
Il viaggio di Gronchi nell'Iran
Egitto e Iran. Incontro con Enrico Mattei
mercoledì 18 giugno 2025
Il Mossad ha introdotto armi clandestine in Iran prima degli attacchi is...
Footage released by the Mossad claims to show Israeli agents in Iran
Inside Iran's Savak torture museum
Reza Pahlavi, le fils du shah, appelle les Iraniens au soulèvement national
The Shah of Iran and SAVAK (1976) | 60 Minutes Archive
How the US Turned Iran Into a Dictatorship (Documentary)
Franck Ferrand raconte : Reagan et l'Irangate (récit intégral)
The Bibi Files: Binyamin Mileikowsky's ('Netanyahu') Corruption Exposed ...
CNN asks Netanyahu, ‘how much is too much?’ Hear his response
Rav Nathan Mileikowsky, grand-père de Netanyahou - Un jour notre Histoir...
How Did The Assassination Of Yitzhak Rabin Affect Benjamin Netanyahu? - ...
Netanyahu, Rabin and the Assassination That Shook History | Netanyahu at...
Was Netanyahu Responsible for Rabin’s Assassination? | A Deep Dive into ...
Yitzak Rabin Compares Benjamin Netanyahu to Hamas for Opposing Peace Pro...
¿Quien era Haim Arlosoroff?
1933 Funeral Of Haim Arlosoroff - Assassinated!!!
How and Why Israel Created its Secret Nuclear Program
Why America Supports Israel | Richard Nixon on Nightline with Ted Koppel...
How Israel Developed Nuclear Weapons in Secret | Flashback with Palki Sh...
Who was Zeev Jabotinsky? What was his impact on Zionism?
A Budapest Netanyahu si scaglia contro la “folle” Europa
The Evolution of the Israeli Right: From Jabotinsky to Begin to Netanyahu
Carri Idf irrompono nella base Unifil, Netanyahu all'Onu: "Via i caschi ...
Netanyahu: "l'Onu annulli il rapporto Goldstone"
Netanyahu contro l’Onu. Card. Parolin: eliminare tutte le armi nucleari
1983, Minoli a Mixer intervista Kissinger
Cosa ha appena detto il Pakistan sull'attacco di Israele all'Iran? | Daw...
Trump: Don't Drag the US Into Netanyahu's War with Iran | Sen. Bernie Sa...
Jeremy Corbyn exposes Israel and Trump’s illegal war on Iran
Israele-Iran, Santoro: "Non c'è nessuno che dica Netanyahu di farla fini...
Il Regno Unito impone sanzioni ai ministri di Israele, Ben Gvir e Smotri...
Questa non è una minaccia futura, è una realtà presente.
martedì 17 giugno 2025
Garlasco: l'incubo continua
Emmanuel Macron ne comprend jamais rien selon Donald Trump
Comment le Mossad a infiltré tous les réseaux en Iran
#garlasco LE SEDIE, I FRUTTOLO, I CUCCHIAINI 🔍
Le gouvernement fait cacher le stand israélien au Bourget
lunedì 16 giugno 2025
🇮🇷 🇫🇷 What was France's role in the 1979 Iranian revolution? l Al Jazeer...
Franco #FRACASSI: L’Iran può costruire la BOMBA #ATOMICA? Israele ha ape...
A Middle East Mediator's Murder in Palestine 1948
venerdì 13 giugno 2025
Israël bombarde l’Iran, Téhéran riposte
giovedì 12 giugno 2025
Roma - TG SANITÀ. SI PARLA DI DL LISTE ATTESA, LEA, VACCINI E TUMORE SEN...
Il diavolo a Garlasco | ARCHIVIO TRUE CRIME LIVE
giovedì 5 giugno 2025
"IL VAUT MIEUX HASARDER DE SAUVER UN COUPABLE QUE DE CONDAMNER UN INNOCENT", VOLTAIRE, ZADIG [1747] di Daniela Zini
LETTERA APERTA
Je vous en prie!
“Il vaut mieux de sauver un coupable
que de condamner un innocent.”
VOLTAIRE, ZADIG, 1747
a Mimmo M.
Ieri, il Ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani, intervenendo sulla riapertura dell’Affaire Garlasco da parte della Procura Generale di Pavia, ha dichiarato:
“Chiudere i processi per riaprirli crea confusione.”,
sottolineando, altresì, che “la persona assassinata è già vittima una volta, non può diventare vittima due volte: dell’omicidio e della damnatio memoriae[1]“ [https://www.alanews.it/politica/tajani-sul-delitto-di-garlasco-chiudere-i-processi-per-poi-riaprirli-crea-confusione/].
Questo modo di vedere le cose presuppone una visione della Società e della Giustizia contraria ai fondamenti della nostra Civiltà e intendo dimostrarlo, senza toccare, neppure marginalmente, l’Affaire Garlasco, per il giusto riguardo che si deve alle indagini in corso della Procura Generale di Pavia.
È Voltaire, in Zadig ou La Déstiné, a scrivere nel 1747:
“Le Roi avait perdu son premier ministre. Il choisit Zadig pour remplir cette place. Le Roi avait perdu son premier ministre. Il choisit Zadig pour remplir cette place. Toutes les belles dames de Babylone applaudirent à ce choix, car depuis la fondation de l’Empire il n’y avait jamais eu de Ministre si jeune. Tous les courtisans furent fâchés; l’Envieux en eut un crachement de sang, et le nez lui enfla prodigieusement. Zadig ayant remercié le roi et la reine, alla remercier aussi le perroquet: “Bel oiseau, lui dit-il, c’est vous qui m’avez sauvé la vie, et qui m’avez fait premier ministre: la chienne et le cheval de Leurs Majestés m’avaient fait beaucoup de mal, mais vous m’avez fait du bien. Voilà donc de quoi dépendent les destins des hommes! Mais, ajouta-t-il, un bonheur si étrange sera peut-être bientôt évanoui.” Le perroquet répondit: “Oui.” Ce mot frappa Zadig. Cependant, comme il était bon physicien, et qu’il ne croyait pas que les perroquets fussent prophètes, il se rassura bientôt; il se mit à exercer son ministère de son mieux. Il fit sentir à tout le monde le pouvoir sacré des lois, et ne fit sentir à personne le poids de sa dignité. Il ne gêna point les voix du divan, et chaque vizir pouvait avoir un avis sans lui déplaire. Quand il jugeait une affaire, ce n’était pas lui qui jugeait, c’était la loi; mais quand elle était trop sévère, il la tempérait; et quand on manquait de lois, son équité en faisait qu’on aurait prises pour celles de Zoroastre. C’est de lui que les Nations tiennent ce grand principe: Qu’il vaut mieux hasarder de sauver un coupable que de condamner un innocent. Il croyait que les lois étaient faites pour secourir les citoyens autant que pour les intimider. Son principal talent était de démêler la vérité, que tous les hommes cherchent à obscurcir.
Dès les premiers jours de son administration il mit ce grand talent en usage.”
[Zadig ou La Destinée – Histoire orientale, Chapitre VI, Le Ministre][2]
https://www.youtube.com/watch?v=G3dmo8m4G-8
Nella Francia della metà del Settecento sono presenti forti contrasti ideologico-religiosi. La pratica della tortura e dell’incriminazione sommaria è più che in uso e basta poco perché un clima tanto avvelenato esploda in ritorsioni estremamente violente verso gli esponenti della parte avversa, quale che sia in quel momento. In questo ambiente culturale, Voltaire si batte contro quella che definisce “superstizione”: un misto di fanatismo religioso, irrazionalità e incapacità di vedere le gravi conseguenze del ricorso alla violenza gratuita, alla sopraffazione, alla tortura e alla diffamazione, che, sovente, spazza via intere famiglie. In particolare, Voltaire rivolge la sua attenzione e l’opera della sua penna a diversi casi di clamorosi errori giudiziari finiti in tragedia, tra i quali l’Affaire Calas.
La sera del 13 ottobre 1761, a Tolosa, viene trovato “in camicia, impiccato a una porta, e il suo vestito piegato sul banco; la camicia non era per nulla stropicciata, i capelli erano ben pettinati: non aveva sul corpo nessuna ferita, nessun livido”, Marc-Antoine Calas, studente di diritto e primogenito dei sei figli dei Calas, commercianti ugonotti.
Del ragazzo si vocifera che fosse sul punto di convertirsi al cattolicesimo, come suo fratello Pierre e che sia stato ucciso dal padre, Jean Calas, per impedirne la conversione.
Il Capitoul David de Beaudrigue, volendo farsi valere con una pronta azione giudiziaria, segue una procedura contraria alle regole e alle ordinanze.
La Famiglia Calas, la domestica cattolica Jeanne Viguière e il diciannovenne Alexandre Lavaysse, figlio di un celebre avvocato di Tolosa, presenti la sera della tragedia, vengono gettati in carcere e torturati.
Il 9 marzo 1762, il Parlamento di Tolosa condanna Jean Calas a morte per ruota.
Marc-Antoine Calas, dichiarato Martire, è sepolto secondo il rito cattolico con la più grande pompa nella Chiesa di Saint-Étienne, nonostante le proteste del curato contro tale profanazione.
Informato del processo, Voltaire organizza la difesa postuma di Jean Calas e ne chiede la riabilitazione. È un Voltaire impegnato sul fronte della coscienza civile in nome della ragione e della tolleranza, in aspra lotta contro ogni forma di oscurantismo, che, in quegli anni, promana da entrambi i fronti religiosi, cattolici e protestanti.
Il 22 marzo 1762, Voltaire scrive al Consigliere del Parlamento di Borgogna Antoine-Jean-Gabriel Le Bault:
A Ferney, le 22 mars 1762.
Je crois, monsieur, que les voyageurs que vous avez eu la bonté de m’adresser auront été un peu étonnés de la cohue qu’ils trouvèrent dans un ermitage qui devait être consacré au repos. Nous leur donnâmes la comédie et le bal, mais monsieur votre parent eut bien de la peine à trouver un lit. Ils furent si effarouchés de notre désordre que je n’ai plus entendu parler d’eux ; j’en suis très-fâché. Votre parent, monsieur, me parut infiniment aimable, dans la presse; et j’entrevis que dans la société il doit être de la meilleure compagnie du monde. Vous ne voulez donc pas que je boive du vin de Mme Le Bault, vous m’avez abandonné, vous ne me jugez ni ne m’abreuvez. Je n’ai plus, je crois, de procès avec M. le président de Brosses, mais aussi je n’ai plus de son vin de Tournay; j’ai abandonné le tout à un fermier pour éviter toute noise.
Vous avez entendu parler peut-être d’un bon huguenot que le parlement de Toulouse a fait rouer pour avoir étranglé son fils; cependant ce saint réformé croyait avoir fait une bonne action, attendu que son fils voulait se faire catholique, et que c’était prévenir une apostasie: il avait immolé son fils à Dieu, et pensait être fort supérieur à Abraham, car Abraham n’avait fait qu’obéir, mais notre calviniste avait pendu son fils de son propre mouvement, et pour l’acquit de sa conscience. Nous ne valons pas grand’chose, mais les huguenots sont pires que nous, et de plus ils déclament contre la comédie
J’ai l’honneur d’être avec bien du respect, monsieur, votre très-humble et très-obéissant serviteur.
Il 25 marzo 1762, Voltaire scrive al Marchese Claude-Philippe Fyot de la Marche:
A Ferney, le 25 mars.
Permettez, monseigneur, que ce vieux barbouilleur vous remercie bien sincèrement du plaisir qu’il a eu. Sans vos bontés, sans vos conseils, mon œuvre de six jours eût toujours été le chaos : permettez que je fasse lire à Votre Éminence la petite relation historique que j’envoie à M. le duc de Villars. Quand elle l’aura lue, si tant est qu’elle daigne lire un tel chiffon, un peu de cire mis proprement sous le cachet par un de vos secrétaires rendra le paquet digne de la poste. Voilà de plaisantes négociations que je vous confie.
Je profite de tous vos conseils; je me donne du bon temps, peut-être un peu trop, car il ne m’appartient pas de donner à souper à deux cents personnes. J’ai eu cette insolence. Nota bene que nous avions deux belles loges grillées. Nous avons combattu à Arques: où était le brave Crillon? pourquoi était-il à Montélimart?
Voulez-vous, quand vous voudrez vous amuser, que je vous envoie le Droit du Seigneur? Cela est gai et honnête; on peut envoyer cette misère à un cardinal. Je ne dis pas à tous les cardinaux, Dieu m’en garde!
Pauci, quos æquus amavit Juppiter
(Virgilius, Æneid., lib. VI, v. 129.)
J’ai encore à vous dire que je suis très-soumis à la leçon que vous me donnez de ne point lire, ou de ne lire guère, tous ces livres où des marquis et des bourgeois gouvernent l’État. Connaissez-vous, monseigneur, la comédie danoise du Potier d’étain? C’est un potier qui laisse sa roue pour faire tourner celle de la fortune, et pour régler l’Europe: on lui vole son argent, sa femme, sa fille, et il se remet à faire des pots.
Oserai-je, sans abandonner mes pots, supplier Votre Éminence de vouloir bien me dire ce que je dois penser de l’aventure affreuse de ce Calas, roué à Toulouse pour avoir pendu son fils? C’est qu’on prétend ici qu’il est très-innocent, et qu’il en a pris Dieu à témoin en expirant. On prétend que trois juges ont protesté contre l’arrêt; cette aventure me tient au cœur; elle m’attriste dans mes plaisirs, elle les corrompt. Il faut regarder le parlement de Toulouse ou les protestants avec des yeux d’horreur. J’aime mieux pourtant rejouer Cassandre, et labourer mes champs. O le bon parti que j’ai pris!
Le rat retiré dans son fromage de Gruyère souhaite à Votre très-aimable Éminence toutes les satisfactions de toutes les espèces qui lui plairont; il est pénétré pour elle du plus tendre et du plus profond respect.
Lo stesso 25 marzo 1762, Voltaire scrive al Cardinale François-Joachim de Pierre de Bernis:
A Ferney, le 25 mars.
Il y a longtemps que je n’ai eu l’honneur d’écrire à celui qui sera toujours mon premier président. J’ai bien des choses à lui dire. Premièrement, son parlement m’afflige. Le Roi se soucie fort peu qu’on juge ou non les procès auxquels je m’intéresse; mais moi, je m’en soucie. Voilà une plaisante vengeance d’écolier de dire: Je ne ferai pas mon thème parce que je suis mécontent de mon régent. C’est pour cela au contraire qu’il faut bien faire son thème. J’apprends que vous faites tous vos efforts pour parvenir à une conciliation. Qui peut y réussir mieux que vous? Vous serez le bienfaiteur de votre compagnie, c’est un rôle que vous êtes accoutumé à jouer.
Je vous demande pardon de donner des fêtes quand la province souffre, mais il est bon d’égayer les affligés. Il y en a de plus d’une sorte: il vient de se passer au parlement de Toulouse une scène qui fait dresser les cheveux à la tête; on l’ignore peut-être à Paris; mais si on en est informé, je défie Paris, tout frivole, tout opéra-comique qu’il est, de n’être pas pénétré d’horreur. Il n’est pas vraisemblable que vous n’ayez appris qu’un vieux huguenot de Toulouse, nommé Calas, père de cinq enfants, ayant averti la justice que son fils aîné, garçon très-mélancolique, s’était pendu, a été accusé de l’avoir pendu lui-même en haine du papisme, pour lequel ce malheureux avait, dit-on, quelque penchant secret. Enfin le père a été roué, et le pendu, tout huguenot qu’il était, a été regardé comme un martyr, et le Parlement a assisté pieds nus à des processions en l’honneur du nouveau saint. Trois juges ont protesté contre l’arrêt; le père a pris Dieu à témoin de son innocence en expirant, a cité ses juges au jugement de Dieu, et a pleuré son fils sur la roue. Il y a deux de ses enfants dans mon voisinage qui remplissent le pays de leurs cris; j’en suis hors de moi: je m’y intéresse comme homme, un peu même comme philosophe. Je veux savoir de quel côté est l’horreur du fanatisme. L’intendant de Languedoc est à Paris; je vous conjure de lui parler ou de lui faire parler: il est au fait de cette aventure épouvantable. Ayez la bonté, je vous en supplie, de me faire savoir ce que j’en dois penser. Voilà un abominable siècle: des Calas, des Malagrida, des Damiens, la perte de toutes nos Colonies, des billets de confession et l’opéra-comique.
Mon cher et respectable ami, ayez pitié de ma juste curiosité. Je soupçonne que c’est vous qui m’avez écrit il y a environ deux mois; mais les écritures quelquefois ressemblent à d’autres. Quand vous aurez la bonté de m’écrire, mettez un M au bas de la lettre, cela avertit. Je devrais vous reconnaître à votre style et à vos bontés; mais mettez un M, car, quand je vous renouvelle mon tendre et respectueux attachement, je mets un V.
La morte o come meglio definisce Voltaire, “l’assassinio di Jean Calas, commesso a Tolosa il 9 marzo 1762 con la spada della Giustizia è uno degli avvenimenti più singolari che siano accaduti, degno dell’attenzione nostra e dei posteri”. L’argomentazione di Voltaire a favore di Jean Calas, per giungere alla revisione del processo trova sede nel Traité sur la tolerance à l’occasion de la mort de Jean Calas [http://www.jelsi.com/news/2017/01/28/Voltaire_-_Trattato_sulla_tolleranza.pdf], pubblicato nel 1763.
Nel suo Trattato Voltaire insiste sui particolari di compostezza della scena, del corpo e delle vesti del defunto e dei suoi familiari per dare conto dell’insensatezza dell’arresto di questi ultimi. Le prove confutano, palesemente, l’ipotesi di un atto di prevaricazione su un giovane prestante. Fin da subito, infatti, il filosofo avanza la tesi del suicidio dettato dallo stato di depressione di Marc-Antoine, incapace di realizzarsi lavorativamente e oppresso dai debiti di gioco. Il padre, per primo, confuta questa eventualità, ma il buon senso suggerisce che il suo rifiuto sia imputabile a un senso di pudore, piuttosto che a una convinzione, in quanto una simile violenza contro se stessi è, all’epoca, considerata un disonore. Purtroppo, però, viene istituito un processo frettoloso e irregolare, nel quale si persegue, più che la ricerca della verità, la soddisfazione dei calunniosi sospetti diffusi tra la folla, fomentata dal clima di fanatismo e di intolleranza religiosa che regna in città. È, così, che da questa massa bigotta e rancorosa nasce un grido che, “ripetuto, divenne in un momento la voce di tutti”: è stato Jean Calas ad assassinare il figlio.
A “un popolo superstizioso e impulsivo”, che guarda come “Mostri” i fratelli che non sono della stessa religione, sembra ovvio che un padre protestante non possa trovare altre soluzioni davanti alla decisione del figlio di convertirsi al Cattolicesimo. Nessuno ha verificato che tale mutamento di professione di fede sia veritiero: “la religione tradita sostituiva le prove”. L’“immaginazione popolare”, sollecitata dall’approssimarsi dell’anniversario del massacro di 4mila ugonotti avvenuto cento anni prima, determina, al contrario, l’innalzamento di Marc-Antoine allo status di Santo, con tanto di miracoli all’attivo. Inoltre “si diceva pubblicamente che il patibolo sul quale avrebbero pestato i Calas sarebbe stato il più grande ornamento della festa; si diceva che la Provvidenza portava essa stessa queste vittime per essere sacrificate” al Cattolicesimo. Il peso dell’opinione pubblica diviene tanto stringente che è impossibile per i difensori di Jean Calas compiere il proprio dovere: la condanna è inevitabile. Tuttavia la morbosità generale rimane delusa quando il vecchio commerciante, morendo sulla ruota, non confessa la colpa sua e dei suoi complici, ma “chiamò Dio a testimone della sua innocenza e lo scongiurò di perdonare ai suoi giudici”.
Voltaire evidenzia l’insensatezza e l’incoerenza delle condanne. Se il sessantottenne Jean Calas fosse l’assassino, allora, data la sua debolezza, si sarebbe dovuto avvalere dell’aiuto di qualcun altro. Questi non poteva che essere uno dei familiari, ma non c’erano state né urla né altri segni di aggressione. Inoltre, se tutti i familiari fossero stati colpevoli, unanime avrebbe dovuto essere la loro punizione.
Non è stato così!
Forse, per salvare il proprio onore di fronte alla mitezza dimostrata da Jean Calas anche in punto di morte, che smentisce il movente del fanatismo, i giudici non destinano al patibolo il resto della famiglia. Semplicemente i figli sono sottratti alla madre, con la specifica messa al bando del secondogenito.
L’Affaire Calas è uno dei primi casi in cui l’opinione pubblica diviene una poderosa leva di cambiamento e pressione sull’autorità. Il filosofo argomenta finemente che “un padre potrebbe uccidere il figlio che voglia convertirsi a una religione diversa dalla sua solo se fosse preda del fanatismo religioso, ma è riconosciuto e attestato da tutti i testimoni che Jean Calas non era un fanatico”. Dunque, non può essersi macchiato del crimine che gli è stato attribuito e per i motivi che gli sono stati imputati come movente. Le prove sulle quali i giudici si sono pronunciati sono state fornite dalle autorità religiose – queste sì fanatiche! –, che tante prove hanno dato della loro intolleranza violenta. La società si definisce civile, ma uccide sulla spinta del fanatismo religioso, sostenendo di voler fare cosa grata a Dio e di voler sradicare con la forza il Male. Tuttavia, continua il filosofo, “se si considerano le guerre di religione, i quaranta scismi dei Papi che sono stati quasi tutti sanguinosi, le menzogne, che sono state quasi tutte funeste, gli odi inconciliabili accesi dalle differenze di opinione; se si considerano tutti i mali prodotti dal falso zelo, gli uomini da molto tempo hanno avuto il loro inferno su questa terra”. Voltaire raccomanda, al posto di tanta inutile violenza, la carità poiché “là dove manca la carità, la legge è sempre crudele”, mentre “la debolezza ha diritto all’indulgenza”.
“La tolleranza è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana. Siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini all’errore. Non resta, dunque, che perdonarci vicendevolmente le nostre follie. È questa la prima legge naturale: il principio a fondamento di tutti i diritti umani.”
È l’impegno pubblico di Voltaire, che a Ginevra aveva conosciuto l’esiliato Pierre Calas, a permettere alla famiglia Calas di portare il caso all’attenzione del Re Luigi XV e ottenere la revisione del processo.
Il 9 marzo 1765, Jean Calas veniva dichiarato innocente e la sua Famiglia riabilitata.
Il Capitoul David de Beaudrigue, che aveva contribuito a montare le false accuse contro Jean Calas, venne destituito.
Poco più di un secolo dopo, è Émile Zola, il più importante scrittore di Francia, a pubblicare, il 13 gennaio 1898, sul quotidiano L’Aurore, un articolo di fuoco, sotto forma di lettera aperta al Presidente della Repubblica francese, Félix Faure, in difesa di Alfred Dreyfus contro i vertici dell’Esercito francese e gli insabbiamenti che hanno portato all’ingiusta condanna per tradimento dell’ufficiale. Quell’invettiva – il cui titolo “J’accuse…!”, sarebbe rimasto nella Storia – condurrà, infine, alla scarcerazione e alla riabilitazione di Dreyfus e si rivelerà uno dei massimi momenti di rottura del confine tra il mondo della Letteratura e la Società: la manifestazione del potere della parola scritta di influire sull’opinione pubblica e sul destino di un Paese.
È il 1894 quando scoppia, in Francia, l’Affaire Dreyfus. Il capitano Alfred Dreyfus, un alsaziano di origine ebraica viene arrestato, il 15 ottobre, con l’accusa, poi, rivelatasi falsa, di spionaggio a favore della Germania. Come è noto, la Francia era stata sconfitta, nel 1870, dalla Prussia e l’Impero germanico, nato proprio in occasione di quel conflitto, era visto come il principale nemico della Repubblica francese. Il processo rapidissimo, che si svolge dal 18 al 22 dicembre 1894, a Parigi, e porta alla condanna di Dreyfus – dapprima, degradato pubblicamente e, poi, deportato nella Guyana francese –, si trasforma in uno scontro politico tra le sinistre repubblicane e socialiste, favorevoli a Dreyfus, e le destre monarchiche, cattoliche e antisemite. In quelle drammatiche giornate Theodor Herzl è a Parigi, come corrispondente del quotidiano austriaco Neue Freie Presse, e vede sfilare migliaia di francesi al grido di “A mort les juifs!”. Le accuse contro Dreyfus sono relative a un biglietto, strappato e poi ricomposto, con il quale sarebbero state fornite a un addetto militare dell’Ambasciata tedesca, informazioni di carattere tecnico, peraltro di scarsa importanza, essenzialmente riferibili a caratteristiche dell’artiglieria francese. In realtà, si saprà, poi, che l’autore del famoso bordereau era un altro ufficiale francese, il maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy, ma le prove che portano alla sua identificazione, raccolte principalmente da un altro ufficiale, il colonnello Georges Picquart dei servizi segreti, che, coraggiosamente e contro tutta d’élite militare si è schierato con Dreyfus, non bastano a far assolvere il capitano in un secondo processo, sempre svoltosi, davanti a una corte militare, a Rennes, nel 1899.
Il clamore per l’ingiusta sentenza portò, nel settembre dello stesso anno, dieci giorni dopo il verdetto, alla concessione della grazia da parte del Presidente della Repubblica francese Emile Loubet, ma fu solo nel 1906 che Dreyfus fu, definitivamente, riabilitato, reintegrato e insignito della Légion d’Honneur.
Tra il 1924 e il 1927, a Roma, in piena epoca fascista, 7 bambine tra i 18 mesi e i 6 anni sono rapite e seviziate, solo 3 sopravvivono:
- Emma Giacomini di 3 anni e 8 mesi [31 marzo 1924] sopravvissuta;
- Bianca Carlieri di 4 anni, [4 giugno 1924] uccisa;
- Rosina Pelli di 2 anni [24 novembre 1924] uccisa;
- Elsa Berni di 6 anni [29 maggio 1925] uccisa;
- Celeste Tagliaferri di 18 mesi [26 agosto 1925], rapita nella culla, viene ritrovata ancora viva nei campi di via Tuscolana, ma a causa della violenza subita morirà, qualche giorno dopo, in ospedale;
- Elvira Coletti di 6 anni [12 febbraio 1926] sopravvissuta;
- Armanda Leonardi di 5 anni [12 marzo 1927] uccisa.
I giornali parlano di un “Mostro” che si aggira per i vicoli più poveri del centro della città.
Tutto ha inizio il 4 giugno 1924, nel Rione Ponte, in Via del Gonfalone, una traversa di Via Giulia, la piccola Bianca Carlieri, di 4 anni, gioca sotto casa con altri Bambini, quando un uomo vestito di grigio, di aspetto giovanile, le si avvicina, le rivolge alcune parole e, poi, la prende per mano. L’uomo e la Bambina si avviano verso Lungotevere Sangallo, in direzione del Ponte Gianicolense. La sua amichetta Valeria Proietti, vedendola allontanarsi con uno sconosciuto, le chiede:
“Do’ vai biocche’?”.
La piccola Bianca risponde:
“Vado co’ zio mio che me compra ‘e caraelle!”
Le ore passano e della piccola non si hanno più tracce.
La mamma, Alessandrina Negri, lavandaia di 44 anni, si dispera e con lei tutti i familiari impegnati nelle infruttuose ricerche.
Il corpicino della piccola Bianca viene ritrovato, la mattina seguente, nei pressi della Basilica di San Paolo Fuori le Mura.
È stata violentata e, poi, strangolata.
Sulle pagine del Nuovo Paese si legge:
“Alle grida della madre angosciata sono accorsi i militi della milizia nazionale di servizio alla Casa dei Corrigendi delle carceri nuove e subito sono iniziate le indagini. Si è così potuto sapere che, verso le 22, un giovane alto, slanciato, vestito con abito grigio, aveva transitato per via del Gonfalone.”
Tre mesi prima, il 31 marzo 1924, Emma Giacomini, di 4 anni, era stata rapita, mentre giocava nei giardini di Piazza Cavour, ed era stata ritrovata, la sera stessa, nei pressi di Monte Mario con segni evidenti di violenza, ma ancora viva.
I giornali si buttano a capofitto nella vicenda, senza risparmiare al lettore particolari orribili sulle sevizie subite dalla piccola Bianca. L’opinione pubblica inorridisce e, come accade sempre in casi del genere, invoca al più presto l’arresto e la punizione per il colpevole: l’uomo in grigio.
Inizia, così, la caccia al “Mostro”.
Le Forze dell’Ordine fermano invalidi, storpi, dementi, barboni, in sostanza, i rifiuti di quella società perfetta che non può contare tra i propri componenti un seme così malato, sebbene tutti i testimoni descrivano il rapitore come un uomo alto, sulla cinquantina, ben vestito e con i baffi, un “paino”, come, all’epoca, viene definito, a Roma, un tipo per bene.
Un vetturino, devastato dalla vergogna di essere sospettato nel quartiere come l’assassino, si suicida, ingerendo dell’acido muriatico.
Il “Mostro” continua la sua opera, ma il regime fascista ha preferito mettere la sordina ai giornali che non titolano più a nove colonne come per i precedenti casi. Una sorta di silenzio stampa. Ma questo velo di “riservatezza” viene squarciato, il 12 marzo 1927, con l’uccisione di Armanda Leonardi, di anni 5.
Da 6 mesi è Capo della Polizia Arturo Bocchini.
Sotto la pressione del colpevole a ogni costo, le “febbrili indagini” della Polizia, al cui vertice siede il Maresciallo d’Italia Emilio De Bono, quadrumviro della Marcia su Roma, portano all’incriminazione del trentottenne scapolo Gino Girolimoni, figlio di nn.
Il 10 maggio 1927, i giornali titolano a tutta pagina: “Gino Girolimoni l’osceno martoriatore di bambine è stato arrestato”.
E ancora: “Il
cuore generoso del popolo esulta per l’arresto del turpe assassino”.
Il criminologo Samuele Ottolenghi – discepolo di Cesare Lombroso – individua
nei tratti somatici dell’arrestato i chiarissimi segni del criminale.
Ma chi è Gino Girolimoni, nel quale i cronisti si affrettano a riconoscere i “tratti del tipico degenerato”, “con gli occhi stranissimi, dal taglio quasi mongoloide, lo sguardo obliquo, falso, sfuggente” e come si è arrivati al suo arresto?
Alto, capelli castani, leggermente stempiato, di aspetto distinto, Gino Girolimoni, classe 1889, si guadagna da vivere facendo il sensale. Dopo una infanzia difficile, segnata dal marchio del “figlio della colpa” – come si usa dire all’epoca! – e, dopo avere svolto i mestieri più disparati, ha raggiunto, grazie al suo ultimo lavoro, una discreta comodità che gli permette di ostentare una certa eleganza. In casa vengono contati ben 12 vestiti. Dispone, anche, di una auto a due posti, una Peugeot verde targata 55-21033, cosa, per quegli anni veramente, insolita. Girolimoni ha, però, la sfortuna di attirare su di sé l’attenzione di un brigadiere, tale Giampaoli, “segugio dal fine odorato” secondo la definizione che ne danno i giornali. Girolimoni non solo viene visto aggirarsi, spesso, nella zona in cui vivono le bambine rapite, ma viene, anche, notato conversare, insistentemente, accanto alla sua vettura verde, con Olga Nardicchioni, una dodicenne a servizio di una famiglia. Alcuni agenti di Pubblica Sicurezza di pattuglia, presenti alla scena, hanno la certezza di assistere a un tentativo di rapimento. Il resto lo faranno i testimoni, primo tra tutti un oste, tale Massacesi, che non esita a puntare il dito accusatore contro il malcapitato Girolimoni. È, soprattutto, questa testimonianza a trasformare l’innocuo mediatore nel “Mostro di Roma”.
Peccato che Girolimoni sia del tutto estraneo ai fatti!
Nel periodo compreso tra il 1910 e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale Il pastore anglicano Ralph Lyonel Brydges (Cheltenham, 1856 – Daytona Beach, 18 aprile 1946] esercita il ministero a New York, dove viene più volte denunciato alle autorità locali per molestie su minori. Rientrato in Inghilterra, durante il conflitto svolge l'ufficio di cappellano militare e riporta una grave ferita alla testa. Risale al 1922 il suo arrivo a Roma, dove occupa, con la moglie Florence Caroline Jarvis, un appartamento in via Po fino alla primavera del 1927.
Il 24 aprile 1927, in vacanza a Capri, il pastore, sorpreso a molestare una Bambina inglese che alloggia nel suo stesso albergo, viene arrestato per la prima volta. A Capri si trova in licenza matrimoniale, anche, Giuseppe Dosi, che non è stato, ancora, coinvolto nell’Affaire del Mostro di Roma. Dosi cerca di approfondire gli elementi di colpevolezza contro Brydges, ma ne viene impedito dai superiori che temono un incidente diplomatico con la Gran Bretagna, dopo che il Console inglese di Napoli ne ha richiesto il rilascio.
L’indagine si arena e Dosi torna a Roma.
Dopo l’assoluzione di Girolimoni, le indagini proseguono e sono affidate al Superpoliziotto. Dosi ascolta le testimonianze e raccoglie ben 90 indizi a carico del pastore anglicano. È arrivato al pastore in seguito all’audizione della cameriera della casa romana dei Brydges ed è giunto alla conclusione che il ricercato è un uomo con precedenti in reati di tipo sessuale, di statura superiore alla media italiana del tempo, di mezza età, dall’accento straniero, che, occasionalmente, cambia colore di capelli e baffi. Convince i suoi superiori a fermare il reverendo – che dopo essere tornato a Londra – si è imbarcato su una nave inglese diretta a Suez che attraccherà a Genova.
Il 13 aprile 1928, il commissario Dosi raggiunge Brydges a bordo della nave per interrogarlo e gli chiede se sia a conoscenza del fatto che accanto al corpo di una delle vittime, la piccola Armanda Leonardi, siano state rinvenute pagine accartocciate e bruciacchiate di un catalogo ascetico in lingua inglese. Ebbene, alla domanda se Brydges sia solito ordinare cataloghi di arte sacra e libri ascetici, la risposta è:
“Yes! From Mowbray Library!”
Durante la perquisizione della cuccetta di Brydges emergono numerosi indizi. Un taccuino che fa riferimento a tempi e luoghi dei delitti; alcuni fazzoletti cifrati, simili a quello ritrovato vicino al corpo della piccola Rosina Pelli; ritagli di giornali su omicidi di Bambine, avvenuti a Ginevra, in Germania e in Sud Africa, tutti Paesi in cui il pastore si trovava al momento degli omicidi. Di più, Dosi verifica di persona che la mano sinistra di Brydges, fatta eccezione per un dito, è, totalmente, paralizzata, come riferito dal questore di Capri. Nonostante le proteste del Console britannico presente e il tentativo di far salpare il piroscafo, Dosi ottiene il trasferimento del pastore a Roma per un serrato interrogatorio, al termine del quale Brydges viene rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Una perizia stabilisce che il pastore è capace dei delitti addebitatigli. Ciò nonostante, per le continue pressioni della Chiesa Anglicana e delle Autorità Consolari britanniche, Brydges viene scarcerato 3 mesi dopo e lascia, immediatamente, l’Italia per Toronto, dove farà perdere le sue tracce.
Il 23 ottobre 1929, Brydges viene prosciolto, in contumacia, dalla Corte di Appello di Roma “per insufficienza di prove”. È una sentenza “politica” per non incrinare i rapporti diplomatici tra Italia e Regno Unito.
Ufficialmente, quindi, il l’Affaire del Mostro di Roma è un caso irrisolto.
[https://www.poliziadistato.it/statics/32/dosi_con_copertine.pdf]
Per la sua determinazione nell’Affaire del Mostro di Roma Giuseppe Dosi si inimica i vertici della Polizia e, per questo, viene trasferito in diverse città italiane. Durante questo periodo di esilio forzato da Roma, scrive un memoriale, che, più tardi, lui stesso definisce Libro del Diavolo, in cui critica tutto l'apparato di Polizia dell'epoca. Il memoriale, che Dosi ha dedicato a Benito Mussolini e alla figlia Gabriella scomparsa appena nata, viene messo sotto sequestro e Dosi viene, dapprima, dispensato dal servizio per “eccesso di potere” e, infine, arrestato.
Il 19 giugno 1939, viene condotto al Carcere di Regina Coeli nel terzo braccio quello dei politici. La famiglia rimane allo sbando e senza sostentamento.
Dopo 3 mesi di carcere duro, il 21 settembre, viene prelevato dal carcere e condotto nel Manicomio di Santa Maria della Pietà, dove rimane ben 17 mesi.
Liberato, nel gennaio del 1941, quando la guerra è, già, scoppiata, torna a vivere in un palazzo nei pressi della Basilica di San Giovanni in Laterano e ottiene un posto di funzionario amministrativo presso l’EIAR [odierna RAI], che ha sede in Via delle Botteghe Oscure, dove si occuperà di reportages giornalistici fino al gennaio del 1944, quando si rifiuterà di trasferirsi al Nord per lavorare nei servizi radio della Repubblica Sociale Italiana.
Il 4 giugno 1944, l’arrivo degli Alleati a Roma e la fuga degli occupanti nazisti porterà Dosi a rivelare, ancora una volta, le sue doti di Superpoliziotto nell’Operazione Via Tasso.
Il castello di macroscopiche false prove inizia a scricchiolare quando un operaio friulano, Domenico Maritutti, si riconosce, con assoluta certezza, nell’uomo che si è recato in compagnia di una bambina nell’osteria di Massacesi, la sera dell’assassinio della piccola Leonardi. Maritutti, in un primo momento, non è considerato attendibile; dal canto suo, l’oste si rifiuta, ostinatamente, di ritrattare, ancorché messo a confronto con Maritutti. Tra le tante falle dell’indagine, nessuno ha rilevato che, il giorno dell’uccisione di Armanda Leonardi, Girolimoni non si trovava a Roma.
Nonostante i depistaggi e le false testimonianze, in meno di un anno, il caso si sgonfia e crolla sotto i colpi dell’indagine parallela condotta da un superpoliziotto, il commissario Giuseppe Dosi, convinto di avere individuato il colpevole in un pastore protestante, che officia, a Roma, nella Holy Trinity Church of England in via Romagna, dal novembre del 1922, e, seppure mai processato, ha precedenti per abusi sessuali su minori: Ralph Lyonel Brydges. Suo è il fazzoletto con ricamate le iniziali R. L., ritrovato accanto al corpicino di Rosa Pelli. Sue sono le pagine bruciacchiate di un breviario in lingua inglese, rinvenute vicino alla piccola Leonardi; suo un catalogo di libri ascetici le cui pagine sono state repertate sul luogo dove è stata stuprata Bianca Carlieri. Dosi riesce ad arrestarlo, ma i suoi superiori preferiscono rilasciarlo per evitare un incidente diplomatico. Bridges viene estradato in silenzio. Mussolini è troppo impegnato in quegli Anni Venti a flirtare con l’Inghilterra e sembra non vedere di buon occhio un “fattaccio”, nel quale è implicato un figlio di Albione, allora non ancora “Perfida”. Dosi vedrà il suo zelo premiato con l’ostracismo da parte dei vertici del Viminale e, successivamente, con l’internamento in un manicomio. Solo dopo la caduta del fascismo, Dosi sarà reintegrato nella Polizia e contribuirà alla nascita dell’Interpol, di cui coniò anche il nome.
Il commissario Dosi ottiene, a ogni buon conto, la riapertura del caso e, l’8 marzo 1928, dopo 11 mesi di carcere, Girolimoni viene prosciolto.
La stampa
di regime non dedica una sola riga all’innocenza e alla scarcerazione di
Girolimoni. Per ragioni di convenienza politica, come ancora oggi accade, la notizia passa sotto
silenzio per ordine dello stesso Mussolini.
Solo alcuni trafiletti di giornale, nelle pagine interne, la riportano. Sul
quotidiano La Tribuna del 10 marzo
1928, a pagina 4, tra le notizie di cronaca, una di poche righe riferisce che,
presso la Cancelleria della Corte di Appello è stata depositata la sentenza che
chiude l’istruttoria di “tale Gino
Girolimoni, assolto da ogni accusa, su conforme parere del Pubblico Ministero
Marinangeli, per non aver commesso il fatto”.
Si mette, così, la parola “fine” a un capitolo di cronaca nera gravissimo, tra
l’indifferenza generale.
Tornato alla quotidianità, Girolimoni vede il suo nome finire nell’immaginario collettivo come sinonimo di ‘‘pedofilo’’. La sua vita è stata distrutta da un’inchiesta sbagliata e insabbiata, dopo clamorosi errori, dal regime fascista e reinventata per le bocche fameliche del popolo che vuole per forza un Mostro da sbattere in prima pagina. Il ‘‘Sor Gino’’, come viene chiamato da tutti quelli che lo conoscono nel popolare rione di Testaccio, finirà i suoi giorni in miseria in una camera d’affitto su Lungotevere degli Artigiani. Non riuscirà più a reinserirsi nel suo lavoro e si guadagnerà da vivere con lavoretti saltuari tra San Lorenzo e Testaccio.
Il 19 novembre 1961, il “Sor Gino” muore in solitudine, senza essere, mai, stato riabilitato e, ancora oggi, paga per quella condanna, ogni volta che il suo nome viene associato alla pedofilia. Al suo funerale, celebrato, il 26 novembre, nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, poche persone seguono il feretro, tra loro, quel Commissario Dosi che ha sostenuto la sua innocenza e lo ha salvato da una condanna ingiusta.
L’Affaire Girolimoni, che ha tenuto i romani con il fiato sospeso per anni e ha scatenato una delle più cieche cacce all’Uomo che la storia della cronaca nera ricordi, seguita da un vero e proprio linciaggio morale ai danni di un Uomo, è l’esempio emblematico di come un errore giudiziario possa coinvolgere un innocente all’improvviso, in un assurdo meccanismo che purtroppo, si è ripetuto tante volte, troppe volte. È l’esempio emblematico degli effetti perversi sulla pubblica opinione di una campagna giornalistica pilotata e accusatoria.
Perché si è dovuto incarcerare un innocente?
Un capro espiatorio andava trovato e, come insegna René Girard:
“La violenza inappagata cerca e finisce sempre per trovare una vittima sostitutiva.”
Su questa triste vicenda è stato realizzato, nel 1972, dal regista Damiano Damiani un bellissimo film, Girolimoni, il Mostro di Roma, con una grande interpretazione di Nino Manfredi. La colonna sonora del film è stata composta da Riz Ortolani, ma esiste una versione cantata dallo stesso Nino Manfredi con il testo di Iaia Fiastri, che merita di essere ascoltata:
Caro nome mio,
che a dillo me manca la voce,
quando passo io
la gente se fa er segno dela croce…
Basta che incontro un bambino
a me me batte er core all’ impazzata:
quando l’ orco ha paura d’ una creatura
vuol dire che la favola è sbagliata…
Triste nome mio,
il tempo non cambierà niente:
tanto per la gente
è meglio incensurato che innocente…
Pare che Cristo dicesse
che chi non pecca po’ tirà li sassi:
è bastata alla gente una parola
e daje sotto con la sassaiola!
Io ero io,
adesso sò un nome soltanto:
questo nome mio
che addosso a n’ omo pesa, pesa tanto…
Prima de damme ‘ste pene
la vita e io ce volevamo bene;
mò se semo guastati, disamorati,
perchè da un po’ non ce capimo più…
Nun ve fate illusioni, cattivi o boni
è facile finì Girolimoni…
[https://www.youtube.com/watch?v=3wdzo82-K60]
Un monito contro la malagiustizia.
Sono passati cento anni dall’Affaire Girolimoni, il mondo è cambiato, ma l’Uomo, purtroppo, ancora no!
Forse perché, come diceva Konrad Lorenz:
“L’anello di congiunzione da tanto tempo cercato tra gli Animali e l’Essere Umano siamo noi.”
L’ingranaggio messo in moto all’epoca gira ancora ai nostri giorni: il controllo delle masse attraverso l’informazione.
Invidie, carrierismo, genuflessioni e bugie hanno determinato la parabola della vita dell’innocente Gino Girolimoni…
Sbatti il mostro in prima pagina è un film del 1972 diretto da Marco Bellocchio e interpretato da Gian Maria Volonté. È la storia dell’omicidio di una studentessa, che si ispira a un fatto di cronaca che occupò, per mesi, le prime pagine dei giornali dell’epoca: l’Affaire Milena Sutter, una studentessa modello appartenente a una famiglia della buona società genovese, uccisa in circostanze simili a quelle narrate dal film. Nel clima teso degli Anni di Piombo, a Milano, nella redazione del quotidiano di destra Il Giornale – nessuna correlazione con il quotidiano, fondato da Indro Montanelli, due anni dopo – il redattore capo Bizanti segue gli sviluppi di un omicidio a sfondo sessuale, in cui è rimasta vittima una studentessa, allo scopo di incastrare un militante della sinistra extraparlamentare e strumentalizzare politicamente la vicenda. La campagna mediatica sortisce l’effetto sperato e il “Mostro” viene condannato, innanzitutto, sulle prime pagine del giornale. Il vero colpevole è il bidello della scuola frequentata dalla vittima, ma quando Bizanti ne viene informato dal giovane giornalista Roveda, minaccia l’assassino, inducendolo a non rivelare nulla alle Forze dell’Ordine. In una discussione conclusiva con l’ingegner Montelli, un industriale finanziatore del giornale, i due concordano di tenere segreta la vicenda fino a quando non si conoscerà l’esito delle elezioni, per poi deciderne l’eventuale utilizzo.
Su Sentieri Selvaggi Tonino De Pace ha scritto:
“Sbatti il mostro in prima pagina, nonostante gli anni, costituisce un’utile riflessione sull’utilizzo della stampa in rapporto ad ogni reale o presunta verità-”
Negli Anni Ottanta, Enzo Tortora, Uomo garbato, colto, che con l’asta del suo occhialino conduce Portobello, è protagonista di un’infondata odissea giudiziaria. Il 17 giugno 1983, viene arrestato dai Carabinieri con l’accusa di associazione camorristica nell’ambito del processo Nuova Camorra Organizzata. L’unica presunta prova consiste in un’agendina, trovata nell’abitazione di un camorrista, in cui gli inquirenti hanno identificato il nome di Tortora, con a fianco un numero di telefono. Dopo una perizia calligrafica, il nome risulta non essere quello del presentatore, ma quello di un tale Tortona. E neppure il recapito telefonico appartiene al giornalista. La sua innocenza, tuttavia, viene riconosciuta solo il 15 settembre 1986 dalla Corte di Appello di Napoli e confermata, dalla Corte di Cassazione, il 13 giugno 1987.
Tortora tornerà alla conduzione di Portobello, il 20 febbraio 1987, con una frase che si è incisa nella memoria degli italiani:
“Dove eravamo rimasti?”
Morirà l’anno dopo.
La vicenda, definita da Giorgio Bocca “il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese” , è costata a Enzo Tortora una ingiusta detenzione: 7 mesi di carcerazione preventiva e ulteriori 6 mesi di arresti domiciliari.
Lo scorso anno, a 41 anni dall’arresto ingiusto di Enzo Tortora, una Stele in sua Memoria è stata inaugurata, a Roma, in Via del Corso, di fronte all’Hotel Plaza, perché nessuno possa, mai, dimenticare l’orrore giudiziario e il massacro umano cui è stato sottoposto, ma sull’indire una Giornata in Memoria delle Vittime della Giustizia in Commissione Giustizia della Camera si sono astenuti i Deputati del Partito Democratico…
“Fate pietà.”,
ha commentato la figlia Gaia Tortora sui social networks [https://opinione.it/politica/2024/12/16/gianluca-perricone-giornata-vittime-della-giustizia-pd-commissione-camera-gaia-tortora/] .
“Loro sono il PD e al massimo la principale preoccupazione è non dare troppo fastidio a certa Magistratura.” [https://www.ilfoglio.it/giustizia/2024/12/12/news/-fate-pieta-gaia-tortora-attacca-il-pd-sulla-giornata-per-le-vittime-degli-errori-giudiziari-7240378/],
“Un insulto ai
mille innocenti che ogni anno in Italia finiscono in carcere, e al simbolo di
tutti loro, Enzo Tortora, che di ingiustizia è anche morto.
È quel che è accaduto alla commissione
giustizia della Camera,
chiamata a votare l’istituzione di una giornata che ricordi ogni anno quelle
mille vittime nel giorno in cui fu arrestato Enzo Tortora, il 17 giugno. Quello
è stato il momento che ha inaugurato, insieme all’ingiustizia, il circo
mediatico-giudiziario. Con il giornalista-presentatore buttato in pasto ai
fotografi, sgomento, in manette. Un insulto che ha visto sottobraccio ancora
una volta le forche di sinistra con il sindacato delle toghe (che notizia!
sic.).
Così, ventiquattro ore dopo che nessun esponente del PD – dopo il voto di astensione – si era degnato neppure di farle una telefonata, Gaia Tortora fa sentire la propria voce, alta e piena di dignità. “Toglietevi il nome di mio padre dalla bocca”, ingiunge ai compagnucci. Certo, il PD è il PD, butta lì, “loro sono il PD e al massimo la principale preoccupazione è non dare troppo fastidio a certa magistratura”. Non fa il nome del deputato Federico Gianassi che si è assunto l’onere di spiegare la posizione del proprio partito e i rifiuti di un voto positivo all’istituzione del giorno del ricordo, nella data dello sfregio a Tortora, con argomenti assurdi anche dal punto di vista tecnico-giuridico.
Il caso Tortora non rappresenterebbe un errore giudiziario perché non c’è stata una revisione del processo e inoltre Enzo era stato condannato in primo grado. Spiegatemi voi, ha detto Gaia, se non è stato un errore, che cosa è. Le voci dissonante, e anche questo non è nuovo, che si alzano da sinistra sono quelle di Filippo Sensi, che ha invitato a “prendere nota” di quel che dice Gaia Tortora quando parla e a fare “un passo avanti” per ricordare in modo adeguato chi “è stato ingiustamente messo in croce” e dell’altra DEM Lia Quartapelle: “La memoria di Enzo Tortora, e delle altre vittime di errori giudiziari, merita rispetto non tentennamenti. Spero che il mio partito possa discutere della proposta e riveda l’astensione”. Sarà difficile che vengano ascoltati anche perché il PD, e non parliamo di AVS, vive da tempo acquattato sotto le toghe. Senza provare rossore per quel che ha detto il loro capo del Sindacato Giuseppe Santalucia sul timore che il ricordo di Tortora generi sfiducia dei cittadini nei confronti della Magistratura, come se questa non fosse già sotto zero.
Una dichiarazione
che meriterebbe l’attenzione della sezione disciplinare delCSM. Che nel
frattempo si è occupato di nomine. Con qualche risultato interessante.
Un magistrato “normale”, che non aspira alla santificazione, era quello che ci
voleva a Catanzaro nel dopo-Gratteri. Una volta tanto il CSM l’ha azzeccata con
la nomina di Salvatore Curcio al vertice
della Procura e della DDA. Un sessantenne calabrese in arrivo da Lametia e nato
a Soverato, amatissimo dalle Forze dell’Ordine e dei loro Sindacati, che si sono
sgolati nella giornata di ieri a manifestare il proprio giubilo. Di lui si dice
che sia mite e ironico, l’opposto dello scintillante Gratteri che lo ha
preceduto, che amava i blitz e le conferenze stampa, oltre alla promozione dei
propri libri, uno all’anno e più o meno tutti simili, con cui continua anche
oggi quando ormai è a Napoli, la sua attività itinerante.
Di Curcio si conoscono inchieste di successo, ma soprattutto dichiarazioni in controtendenza con l’andazzo esibizionistico di tanti suoi colleghi. Lungi dal suo carattere l’idea di smontare la Calabria come un Lego, anzi un appello ai suoi concittadini perché lo considerino uno di loro. “Tutti noi calabresi – aveva detto di recente a un giornale locale – abbiamo bisogno né di supereroi né di superpoteri, tanto meno di un deus ex machina che possa risolvere i nostri problemi, primo in testa quello relativo al crimine organizzato mafioso”. C’è bisogno invece, aveva aggiunto, di una “straordinaria ordinarietà”. Frasi che ricordano quelle di un altro procuratore, quello di Milano Marcello Viola il quale, al momento dell’insediamento che aveva rotto la sequela di toghe tutte di magistratura Democratica. Aveva paragonato la propria pazienza e caparbietà alla figura del “mulo” da contrapporre, si suppone, alla ferocia del leone e alla supponenza dell’aquila,
Ma anche a certe
astuzie della faina. La nomina da parte del plenum del CSM del procuratore
Curcio non è stata un atto indolore per la casta delle toghe, che si sono
divise, così come i membri laici del Consiglio, benché la quinta commissione –
quella competente sugli incarichi direttivi – avesse presentato al plenum un
solo nome. Quello che ha portato all’astensione di otto consiglieri è stato
probabilmente un fatto piuttosto spiacevole messo sul piatto da uno dei
concorrenti di Curcio la cui candidatura era stata scartata, il procuratore
aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo che ha presentato una memoria di
dodici pagine per ricordare una vicenda di cui la commissione non aveva tenuto
nessun conto. Uno scontro tra magistrati sulla fallimentare inchiesta “Why not”
di Luigi De Magistris in seguito a cui Curcio aveva ricevuto la sanzione minima
della censura.
Gli è andata male e il CSM ha tenuto in maggior conto la professionalità
rispetto alla litigiosità.” [https://www.ilriformista.it/errori-giudiziari-il-pd-si-astiene-sfogo-tortora-fate-pieta-intanto-da-catanzaro-spira-aria-nuova-fino-al-csm-449169/]
ha scritto, il 13 dicembre 2024, Tiziana Maiolo su Il Riformista.
La stessa Tiziana Maiolo che, il 28 maggio scorso, twitta:
“Per favore, cittadini di Garlasco, piantatela di scovare testimoni, più o meno super. Chi non ha parlato 18 anni fa, abbia il pudore di stare zitto oggi.” [https://x.com/tizianamaiolo/status/1927683384022589934]
“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.”
Nell’incipit de Il Processo, definito il più surreale e angoscioso dei romanzi di Franz Kafka, pubblicato post-mortem, nel 1925, si delinea l’esordio di una vicenda grottesca, angosciante e paradossale vissuta dal giovane impiegato di banca Josef K. K. riceve un ordine di arresto e la comunicazione di un processo che lo attende, senza che gli venga contestato un addebito, senza che alcuno gli spieghi il motivo dell’accusa che pende su di lui.
Ma, a ben guardare, talvolta la realtà giudiziaria supera l’immaginazione letteraria!
https://www.youtube.com/watch?v=D6hI3M6RYWI
https://www.youtube.com/watch?v=LEspKrlYilA
https://www.youtube.com/watch?v=FQAV6HNVdrk
Più prossimo a noi è l’Affaire Krone. Ray Krone, condannato, nel 1992, per l’omicidio di una cameriera in un bar dell’Arizona, è stato il centesimo condannato a morte da innocente, scagionato negli Stati Uniti, a partire dal 1973.
La mattina del 19 dicembre 1991, il corpo senza vita della trentaseienne Kim Ancona viene trovato nel bagno degli uomini di un bar di Phoenix, dove lavorava. L’arma del delitto, un coltello da cucina, nascosto in un cestino; l'impronta di una scarpa Converse misura 43,5 nel corridoio e alcuni peli non appartenenti alla vittima sono gli unici indizi a disposizione degli inquirenti, che si concentrano, così, sui segni dei morsi sul seno sinistro e sul collo di Kim.
I sospetti cadono su un postino Ray Krone, frequentatore abituale del bar. La sua dentatura presenta una corrispondenza definita “perfetta al 100%” con il morso dall’allora Senatore repubblicano dello Stato del Nevada, il dottor Raymond D. Rawson: un incisivo sinistro sporgente.
Nonostante un alibi confermato da un suo coinquilino, Ray Krone, che si è guadagnato l’appellativo di The Snaggletooth Killer, è arrestato, alla vigilia di Capodanno del 1991, e condannato a morte per omicidio di primo grado.
Un morso è, dunque, una prova sufficiente per condannare un Uomo!
Nel 2001, però, una nuova legge dell’Arizona permette a Krone di richiedere un nuovo test del DNA. L’analisi di minuscole macchie di sangue trovate sui jeans della vittima rivelano un profilo genetico sconosciuto. Inserito nel database nazionale, il DNA porta a un nome: Kenneth Phillips, un uomo con precedenti per molestie sessuali, che, all’epoca dell’omicidio, viveva a poche centinaia di metri dal bar. Le sue impronte digitali sono trovate nel bagno del locale, la sua misura di scarpe corrispondeva e, incredibilmente, anche la sua impronta dentale presenta lo stesso incisivo sinistro sporgente. Confessa di essersi svegliato, la mattina dopo l’omicidio, con le mani sporche di sangue e i postumi di una sbornia.
Si scopre, così, che l’esame dell’arcata dentale non possiede la stessa infallibilità delle impronte digitali.
Raymond [Ray[ D. Rawson, Senatore repubblicano dello Stato del Nevada dal 1985 al 2001 [https://www.leg.state.nv.us/Session/71st2001/legislators/Senators/Rawson.cfm].
Il 18 aprile 2002, dopo 10 anni e 4 mesi di ingiusta detenzione, Krone viene rilasciato e la famiglia Ancona può, finalmente, conoscere la verità sulla tragica morte di Kim.
La tecnica di identificazione dei criminali basata sul confronto delle impronte genetiche esiste solo dal 1987 e ha permesso a un gran numero di innocenti condannati di essere scagionati, tuttavia, l’Affaire Krone è un monito sui pericoli di un'eccessiva fiducia nelle perizie scientifiche, soprattutto, se non sono supportate da altre prove inconfutabili.
Di fronte a delitti efferati si parla comunemente dell’autore come del “Mostro”, ma la definizione è, davvero, corretta?
Chi commette un reato, anche il peggiore tra i reati, come può essere l’abuso di Bambini e ogni altro comportamento inaccettabile dal punto di vista morale e giuridico che offenda l’innocenza, la purezza, la dignità dei più deboli, è considerato disumano e da qui la definizione di “Mostro”.
Ma è un errore!
Sono proprio gli umani, gli unici capaci di uccidere senza motivo, di commettere azioni delittuose, violenze immani nei confronti dei propri simili.
Sono proprio gli umani che godono nel fare la guerra.
Sono proprio gli umani che provano piacere nel prevaricare gli altri e non per la propria sopravvivenza, ma per i propri banali interessi.
Sono proprio gli umani che sfogano la propria frustrazione su altri umani, perfino su coloro che meno sono capaci di stimolare sentimenti negativi, come possono essere i Bambini.
Se è vero che i “Mostri” esistono, i più pericolosi ci camminano accanto indisturbati in strada, e indossano gli abiti eleganti di distinti signori; Altri, gli innocenti, diventano “Mostri” loro malgrado attraverso le maldicenze della gente e le pagine dei giornali.
In psicologia, si parla di emozioni negative che vivono dentro di noi come “Mostri” che ci perseguitano e che vengono fuori nel momento meno opportuno; sono colpa, paura, superbia, egoismo, invidia, gelosia, rabbia, insoddisfazione, frustrazione, senso di inferiorità. Quando queste emozioni sono fuori controllo possono avere effetti devastanti su chi le prova e conseguenze a volte tragiche sugli Altri.
Siamo tutti umani, dovremmo ricordarcelo quando, poco cristianamente, puntiamo il dito!
L’esposizione del Crocifisso sopra lo scranno del giudice è prescritta da una Circolare Ministeriale che risale al 29 maggio 1926 e non per ragioni di carattere squisitamente religioso, come aveva avuto modo di osservare un grande giurista del secolo scorso, Piero Calamandrei:
“Non disdice all’austerità delle aule giudiziarie il Crocifisso: soltanto non vorrei che fosse collocato, come è, dietro le spalle dei giudici. In questo modo può vederlo soltanto il giudicabile, il quale, guardando in faccia i giudici, vorrebbe aver fede nella loro giustizia; ma poi, scorgendo dietro a loro, sulla parete di fondo, il simbolo doloroso dell’errore giudiziario, è portato a credere che esso lo ammonisca a lasciare ogni speranza: simbolo non di fede ma di disperazione. Quasi si direbbe che sia stato lasciato lì, dietro le spalle dei giudici, apposta per impedire che lo vedano: e invece si vorrebbe che fosse collocato proprio in faccia a loro, ben visibile nella parete di fronte, perché lo considerassero con umiltà mentre giudicano, e non dimenticassero mai che incombe su di loro il terribile pericolo di condannare un innocente”.
[Elogio dei giudici scritto da un avvocato, IV ed., Firenze, 1959]
Il Crocifisso sia, dunque, nelle aule giudiziarie di monito ai Giudici per ricordare loro, costantemente, che un Innocente è stato torturato e condannato a morte nel modo più orribile in nome dell’intolleranza religiosa.
Voltaire e Zola hanno messo a repentaglio la propria reputazione per una causa che sembrava loro giusta. La loro lutte sans merci per riabilitare un innocente ha permesso di ouvrir les yeux sugli errori di un sistema giudiziario iniquo e asservito, svilito da pregiudizi razziali e religiosi. Sono gli stessi abusi giudiziari commessi, durante le guerre o sotto le dittature, da tribunali d’eccezione per volere dell’occupante o del potere.
È contro queste ingiustizie che dobbiamo lottare in nome della Libertà.
Tollerare il rischio di condannare un innocente, accettarlo in nome di una presunta efficienza che non si cura degli errori giudiziari, è criminale.
Nulla può giustificare una tale iniquità.
È una parodia della Giustizia.
Questi innocenti condannati ingiustamente al termine di indagini e di processi mal condotti, in cui i diritti della difesa vengono calpestati a causa di avvocati poco motivati o a causa di intollerabili pregiudizi, sono loro stessi vittime, così come le loro famiglie.
Perché una famiglia possa piangere la brutale perdita di un Essere caro, deve poter essere certa che sia il vero autore del crimine a essere arrestato e condannato.
Il dubbio, il timore di essersi sbagliati, l’idea che il condannato possa essere innocente e il colpevole ancora in libertà, non possono che essere un’ulteriore tormento per la Famiglia della Vittima.
Non aggiungiamo sventura a sventura, ingiustizia a crimine!
Preghiera a Dio
“Non è più dunque agli uomini che mi rivolgo; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi, di tutti i tempi: se è lecito che delle deboli creature, perse nell’immensità e impercettibili al resto dell’universo, osino domandare qualche cosa a te, che tutto hai donato, a te, i cui decreti sono e immutabili e eterni, degnati di guardare con misericordia gli errori che derivano dalla nostra natura.
Fa’ sì che questi errori non generino la nostra sventura.
Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l’un l’altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda; fa’ che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera.
Fa’ sì che le
piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi,
tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole,
tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate,
tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali
avanti a te, insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli
atomi chiamati “uomini” non siano altrettanti segnali di odio e di
persecuzione.
Fa’ in modo che coloro che accendono ceri in pieno giorno per celebrarti
sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole; che coloro che
coprono i loro abiti di una tela bianca per dire che bisogna amarti, non
detestino coloro che dicono la stessa cosa sotto un mantello di lana nera; che
sia uguale adorarti in un gergo nato da una lingua morta o in uno più nuovo.
Fa’ che coloro il cui abito è tinto in rosso o in violetto, che dominano su una
piccola parte di un piccolo mucchio di fango di questo mondo,
e che posseggono qualche frammento arrotondato di un certo metallo, gioiscano
senza inorgoglirsi di ciò che essi chiamano “grandezza” e “ricchezza”, e che
gli altri li guardino senza invidia: perché tu sai che in queste cose vane non
c’è nulla da invidiare, niente di cui inorgoglirsi.
Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli!
Abbiano in
orrore la tirannia esercitata sulle anime, come odiano il brigantaggio che
strappa con la forza il frutto del lavoro e dell’attività pacifica!
Se sono inevitabili i flagelli della guerra, non odiamoci, non laceriamoci gli
uni con gli altri nei periodi di pace, ed impieghiamo il breve istante della
nostra esistenza per benedire insieme in mille lingue diverse, dal Siam alla
California, la tua bontà che ci ha donato questo istante.”
Voltaire
[1] Damnatio memoriae [Condanna della memoria] è una locuzione latina che indica la pratica di cancellare ogni ricordo di una persona, come se essa non fosse mai esistita. Nel diritto romano, era una condanna che prevedeva la rimozione di ritratti, iscrizioni, documenti e qualsiasi altra traccia della persona.
[2] “Il Re aveva perduto il suo Primo Ministro. Zadig fu chiamato a sostituirlo. Tutte le belle dame di Babilonia furono liete di questa scelta, poiché fin dalle origini dell’Impero, non s’era mai avuto un Ministro così giovine.
Invece tutti i cortigiani furono irritati; l’Invidioso ebbe uno sbocco di sangue e il naso gli si gonfiò prodigiosamente. Zadig, dopo aver ringraziato il Re e la Regina, andò anche a ringraziare il pappagallo.
— Simpatico uccello, – gli disse, – sei tu che mi hai salvato la vita e mercé tua io sono ora Primo Ministro. Il cavallo e la cagna di Loro Maestà mi avevano fatto molto male, ma tu mi hai fatto del bene. Ecco, dunque, da che cosa dipende il destino degli uomini! Però, – soggiunse, – una felicità così strana può essere che sfumi presto.
— Sì, – rispose il pappagallo.
Questo monosillabo fece senso a Zadig. Tuttavia siccome egli era un buon naturalista e non credeva affatto alle profezie dei pappagalli, in breve si tranquillizzò e cominciò ad assolvere il suo nuovo compito di Ministro come meglio poteva.
A tutti fe’ sentire il sacro poter delle leggi, ma non fece gravare su nessuno il peso della sua dignità. Non s’immischiò nelle votazioni del Divano ed ogni Vizir fu libero d’aver la propria opinione, senza perciò inimicarselo. Quando prendeva in esame un affare, non era lui che giudicava, bensì la legge; e se questa era troppo rigorosa, ei la temperava e, nei casi in cui non esistevano leggi scritte, la sua equità ne improvvisava di cosiffatte che sembravano veramente emanate da Zoroastro.
È a lui che le Nazioni sono debitrici del grande principio: “È meglio salvare un colpevole che condannare un innocente”. Egli era d’avviso che le leggi erano fatte tanto per intimidire quanto per venire in aiuto ai cittadini. Il suo pregio più cospicuo consisteva nel mettere sempre in luce la verità, mentre tutti gli uomini cercano di nasconderla.
E fin dai primi giorni in cui salì al potere si regolò in questo senso.”