“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

lunedì 20 gennaio 2025

J'ACCUSE! PERCHE' LA GUERRA? PRIMA PARTE di Daniela Zini

J’ACCUSE!

 


“Il ricordo della felicità non è più felicità;

il ricordo del dolore è ancora dolore.”

George Byron

What Happened to the Bodies Just After the Hiroshima Bomb Exploded?

 

“Io sono qui per provare qualcosa in cui credo: che la guerra è inutile e sciocca, la più bestiale prova di idiozia della razza terrestre. Io sono qui per spiegare quanto è ipocrita il mondo che si esalta per un chirurgo che sostituisce un cuore con un altro cuore, e poi accetta che migliaia di creature giovani, col cuore a posto, vengano mandati a morire, come vacche al macello, per la bandiera.”

Oriana Fallaci

 

A tutti gli Italiani Morti in nome dell’Unità d’Italia

“Lo Stato italiano [sabaudo, n.d.r.] è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia Meridionale e le Isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.”,

questa la sintesi del pensiero di Antonio Gramsci non sul fascismo ma sull’Unità d’Italia nel suo saggio sulla Questione meridionale; cui va sommata questa icastica descrizione – contenuta nel saggio successivo: Il Risorgimento – della situazione di fatto:

“La miseria del Mezzogiorno era inspiegabile storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’Unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una piovra che si arricchiva alle spese del Sud, che il suo incremento economico industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale.”

 

Ai 17 milioni di Morti durante la Prima Guerra Mondiale

 

Ai circa 600.000 Soldati Italiani catturati dai tedeschi e dagli austro-ungarici tra il 1915 e il 1918 durante la Prima Guerra Mondiale

La cattura fu 1’inizio di una vita di stenti alla quale non tutti sopravvissero. Avrebbero dovuto essere garantiti dalla Seconda Convenzione dell’Aja  del 1907 su leggi e usi della guerra terrestre [https://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=20041031202458], un accordo firmato da 44 Stati, ma non fu così. Nel documento era, infatti, sancito che i prigionieri dovessero ricevere la stessa razione di cibo di quella destinata ai soldati dell’esercito che li aveva catturati, ma, ovviamente, le contingenze del momento non poterono garantire questo diritto. Per i primi tre mesi dalla cattura, i più duri, l’Italia non consentì neppure alle famiglie di inviare ai propri figli i soccorsi vitali. I primi “pacchi di Stato” giunsero ai prigionieri nel novembre del 1918, un anno dopo la Battaglia di Caporetto. La maggior parte venne deportata a Mathausen, tristemente nota anche nella Seconda Guerra Mondiale; a Theresienstadt, in Boemia; a Rastatt, in Germania Meridionale e a Celle, nei pressi di Hannover. Circa 100.000 Soldati Italiani non fecero più ritorno dalle loro famiglie. Gli stenti, la fame, il freddo e le malattie, prima tra tutte la tubercolosi, furono le principali cause di questo grande numero di decessi.

Niccolò Nicchiarelli, come altri 3.000 ufficiali, venne rinchiuso nel Gefangenenlager di Celle ed è attraverso le sue memorie che viene ricostruita la cronaca pressoché quotidiana della loro comune vicenda che non si concluse con la fine della guerra.

“L’impressione fu di entrare in un campo di morti, dove per caso i cadaveri fossero balzati su dalle fosse e girassero barcollando nei viali. Il bagno, la disinfezione. Quell’ammasso di corpi scheletriti, di pelli arrossate dai morsi della scabbia; quel tanfo di carni sudicie, di cenci impidocchiati.

[...]

Questa fu la prima conoscenza di Cellelager.”,

così il tenente Nicchiarelli riporta la sua prima visione del campo di concentramento. Un “campo di morti”, cadaveri che balzano su dalle fosse, corpi scheletriti… Sembra la descrizione dell’indicibile orrore che si aprì davanti agli occhi dei Soldati Sovietici dell’Armata Rossa, il 27 gennaio 1945, superando il cancello del campo di sterminio nazista di Auschwitz. Accolti da un fetore insopportabile, videro solo mucchi di scarpe, persone in condizioni subumane che vagavano senza meta, cadaveri a terra e Bambini terrorizzati nelle baracche che gridavano:

“Noi non siamo ebrei!”

Sono stato ad Auschwitz. Ho visto tutto con i miei occhi. Ora ti amo ancora di più. Non perdere la calma: non succederà più, mamma. Ce ne assicureremo noi.”,

scrive Vladimir Brylev, un Soldato dell’Armata Rossa, in una lettera alla madre [https://www.storicang.it/a/liberazione-di-auschwitz-salvati-dallinferno-nazista_15965].

  

 
27 gennaio 1945: le truppe sovietiche dall’Armata Rossa aprono i cancelli di Auschwitz.

 

 
Alessandro Barbero contro Benigni sulla liberazione di Auschwitz.
 [https://www.youtube.com/watch?v=AKnqHo_mg80]

Lo storico Alessandro Barbero contro la falsificazione storica nel film “La vita è bella” di Roberto Benigni, nel quale i carri armati statunitensi liberano il campo di concentramento di Auschwitz nella famosa scena finale. Barbero ribadisce che si tratta di una delle tante falsificazioni storiche attuate dai “vincitori” di ogni epoca. Infatti, come ben sappiamo, sono stati i sovietici a liberare quel campo di concentramento, come del resto la maggior parte dei campi di concentramento e sterminio nazisti, essendo stata l’Armata Rossa a distruggere oltre il 70% dell’esercito tedesco nella Seconda Guerra Mondiale.

 

 
Le immagini sconvolgenti dell’apertura dei campi di concentramento.

 

   

I ricordi del liberatore di Auschwitz, Ivan Martinushkin.

[https://www.youtube.com/watch?v=81phbjNZVlo]

 

 

Luca Gallesi, Vita, guerre e avventure di Niccolò Nicchiarelli un gerarca senza paura, il Giornale, 8 Gennaio 2014 [https://www.ilgiornale.it/news/cultura/vita-guerre-e-avventure-niccol-nicchiarelli-gerarca-senza-980826.html].

 

 
Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia – Giorgio Pinotti.

 

Anche Carlo Emilio Gadda, che si trovava in prima linea, a Caporetto, venne fatto prigioniero dagli austriaci sulle rive dell’Isonzo, il 25 ottobre 1917, e rinchiuso nel Gefangenenlager di Celle. Tra il 24 agosto 1915 e il 31 dicembre 1919, il sottotenente degli Alpini Gadda tenne un diario, in cui riporta quelle drammatiche giornate. Rimasto, a lungo, nascosto, protetto “dal più rigoroso silenzio”, è stato  pubblicato solo molti anni dopo la morte dello scrittore.

“Soffro sì per la famiglia, per la patria, specie nei gravi momenti: allora anzi l’angoscia mi prende alla strozza. Ma il dolor bestiale, il macigno che devo reggere più grave, la rabbia porca, è quella, che già dissi: è il mancare all’azione, è l’essere immobile mentre gli altri combattono, è il non potermi più gettare nel pericolo.” [1]

Per Gadda, che l’aveva auspicata come “necessaria e santa” si rivelò uno scontro drammatico.  Più ancora che con il nemico, con ciò che scatenava in lui un’indignazione così violenta da sfiorare la “volontà omicida”: la meschinità della “vita pantanosa” di caserma, che spegne ogni aspirazione alla lotta; l’incompetenza dei grandi generali; l’egotismo cretino dell’italiano” che di tutto fa una questione personale; l’indegnità morale dei vigliacchi, degli imboscati e dei profittatori, che costringevano gli Alpini a marciare con scarpe rotte:

“Se ieri avessi avuto innanzi un fabbricatore di calzature, l’avrei provocato a una rissa, per finirlo a coltellate.”,

confessa. Ma lo scontro più lacerante, e fondatore, è quello che Gadda ingaggia con se stesso: con l’orrore e la tristezza della solitudine, con un “sistema nervoso” viziato da “una sensitività morbile”, con una insufficienza nell’agire che gli impedisce di tradurre in atto i tesori di preparazione tecnica, senso di sacrificio, spirito di disciplina che abitano in lui:

“Mi manca l’energia, la severità, la sicurezza di me stesso, proprie dell’uomo che… agisce, agisce, agisce a furia di spontaneità e di estrinsecazione volitiva.”

 

Ai 60 milioni di Morti durante la Seconda Guerra Mondiale

 

A tutti i Soldati Italiani, a mio Padre, deportati nei campi di prigionia francesi, inglesi, americani e sovietici durante la Seconda Guerra Mondiale

Nell’agosto del 1945, poco prima dei rimpatri di massa, i Militari Italiani prigionieri degli inglesi, degli americani, dei francesi, dei russi e dei tedeschi ammontavano a più di 1.500.000. Centinaia i campi che spaziavano dall’Inghilterra al Medio Oriente, dal Sudafrica all’India. Se con l’Armistizio dell’8 settembre 1943 e la successiva dichiarazione di guerra alla Germania [13 ottobre 1943] l’Italia aveva potuto modificare il proprio status da potenza nemica a cobelligerante, lo stesso non poté dirsi dello status degli Italiani detenuti, che, al di là delle definizioni, restarono prigionieri di guerra e poterono rientrare in Patria solo a distanza di molti mesi dalla fine delle ostilità. L’interesse degli Alleati per i prigionieri fu dovuta, innanzitutto, al loro utilizzo di manodopera a basso costo. E quando il Referendum, tenutosi il 2 e il 3 giugno 1946, chiese agli Italiani di scegliere tra la Monarchia e la Repubblica, 200.000 prigionieri Italiani erano, ancora, sparsi nei cinque continenti. La maggioranza di loro non si scrollò, mai, di dosso la percezione che l’Italia si fosse dimenticata di loro.

Come si evince dalla corrispondenza tra il Governo britannico e il nuovo Governo italiano guidato da Pietro Badoglio, ai “Prisoners Of War [P.O.W.]”, in veste di “cooperanti”, non sarebbero state più applicate le limitazioni imposte dalla Convenzione di Ginevra del 1923 e, quindi, avrebbero potuto essere utilizzati in servizi e lavori direttamente connessi allo sforzo bellico. Il Governo britannico, inizialmente, non intendeva detenere i prigionieri sul suolo della madrepatria, quanto, piuttosto, deportarli nei Paesi del Commonwealth. I campi indiani furono istituiti, in tutta fretta, per raccogliere una parte del rilevante numero di militari catturati già durante la Campagna d’Africa [gennaio 1941- maggio 1943], alla fine della quale in India si contavano 68.320 prigionieri. La Gran Bretagna aveva dovuto allontanarli velocemente dai teatri di guerra e, mentre contrattava la loro distribuzione con Stati Uniti, Canada e Australia, trovò in India un’immediata destinazione. Considerando l’Impero Britannico come unica entità territoriale, eluse la Convenzione di Ginevra all’articolo relativo alla destinazione dei prigionieri. Non mancarono le fughe, o meglio, i tentativi di fughe con epiloghi drammatici o rocamboleschi. Alcuni Italiani detenuti furono freddati sul filo spinato, altri ripresi e rinchiusi nelle celle di punizione per i previsti 28 giorni o più. Nonostante fosse, perfettamente, a conoscenza del dramma vissuto dai Pows e del loro status, il Governo italiano non desiderava che il rimpatrio dei prigionieri avvenisse troppo alla svelta, date le condizioni in cui versava il Paese, e inviò a Londra il conte Nicolò Carandini, nel novembre del 1944, per mostrare agli inglesi il volto della “nuova Italia” e riallacciare rapporti bilaterali, con l’indicazione di fare di tutto per evitare che quel mezzo milione di uomini [il totale dei prigionieri nelle mani anglo-americane] fosse restituito in blocco – e di lasciare agli Alleati l’onere del mantenimento e della gestione dei detenuti. Il ritorno di 150.000 prigionieri di guerra dalla Gran Bretagna – ma il numero sarebbe salito a 340.000 sommando i Pows sparsi per tutto l’Impero britannico – avrebbe potuto avere conseguenze drammatiche. Era preferibile mantenerli lontani finché la situazione italiana non fosse migliorata. La parabola dei Soldati Italiani prigionieri in Gran Bretagna si concluse solo dopo molti mesi dalla fine della guerra, diversamente, i prigionieri inglesi in Italia, intervenuto l’Armistizio, furono, immediatamente, liberati. Il conte Carandini non poté, mai, presentare le credenziali al re Giorgio VI. Gli avevano fatto capire che rappresentava una Nazione che, per quanto “cobelligerante”, era e doveva rimanere una Potenza sconfitta. Per questo non fu, mai, considerato ambasciatore, ma mero “rappresentante italiano”. Per la Gran Bretagna, che aveva, già, deciso unilateralmente di ritardare il rimpatrio dei prigionieri per motivi meramente economici, i Pows erano assolutamente necessari per compensare la carenza di manodopera, soprattutto nel settore agricolo, almeno fino a quando non si fosse provveduto alla loro sostituzione con i soldati inglesi, a smobilitazione conclusa. Dietro la decisione di mantenere in prigionia contro le leggi internazionali migliaia di uomini, c’era anche la precisa volontà del Governo britannico di scaricare su quegli uomini il risentimento per una guerra vinta, ma rovinosa, che aveva creato lutti e distruzioni. La Gran Bretagna considerò, sempre, il lavoro dei Pows come un risarcimento che l’Italia doveva pagare per le sue colpe e il Governo italiano non fu in grado di opporsi.

Il 25 aprile 1945, mentre in Italia si festeggiava la Liberazione, 150.000 Soldati Italiani si trovavano ancora sparsi in più di 200 campi di prigionia disseminati sull’intero territorio britannico. Per loro il 25 aprile non significò libertà, ma l’inizio di una lunga e snervante attesa. Vennero rimpatriati solo a partire dal dicembre del 1945 e i più sfortunati dovettero attendere, perfino, gli inizi del 1947. Le Autorità britanniche, nel giugno del 1945, avevano, infatti, deciso di non prendere alcun impegno preciso riguardo alla tempistica dei rimpatri per poter completare il raccolto di quell’anno. La carenza di navi da trasporto fu la giustificazione ufficiale delle Autorità britanniche.

“Il Governo italiano ci ha dimenticati e venduti agli inglesi.”,

era la convinzione dei Pows.

Grazie all’utilizzo dei prigionieri Italiani – ritenuti buoni lavoratori e soprattutto meno pericolosi rispetto ai tedeschi – le Autorità britanniche avevano trovato la soluzione per sopperire ai vuoti lasciati dagli inglesi partiti per il fronte e per garantirsi un ritorno economico.

Nel settembre del 1945, il guadagno per la Cancelleria dello Scacchiere fu calcolato in circa 8 milioni di sterline mensili!

I Soldati Italiani detenuti nei campi de detenzione inglesi subirono sofferenze fisiche e morali indicibili, rimosse dall’opinione pubblica, dalla storiografia italiana del Dopoguerra e, perfino, dal loro stato matricolare!

All’indomani della caduta di Benito Mussolini, già dai primi giorni dell’agosto del 1943, avevano avuto inizio i contatti tra il Governo italiano e gli Alleati per una cessazione delle ostilità. Le trattative erano divenute febbrili negli ultimi giorni di agosto, per giungere, infine, all’accordo di firmare una resa in Sicilia, territorio già occupato dalle forze anglo-americane. La resa venne firmata, il 3 settembre 1943, a Cassibile, località nei pressi di Siracusa, dal generale Giuseppe Castellano, per l’Italia, e, per gli Alleati, dal generale statunitense Walter Bedell Smith, il principale collaboratore del generale Dwight Eisenhower. Con questo atto, che sarebbe stato reso noto solo l’8 settembre, gli Alleati imponevano all’Italia una resa incondizionata: il Regno d’Italia doveva cessare da quel momento le ostilità nei confronti delle Forze Alleate. L’accordo prevedeva, altresì, che l’Italia liberasse tutti i prigionieri di guerra e desse la disponibilità agli Alleati di utilizzare il suo territorio per la prosecuzione delle operazioni belliche contro la Germania. Le richieste italiane, volte a potere, in qualche modo, negoziare il trattato, si dovettero confrontare con la risolutezza degli Alleati a non concedere nulla; i 12 articoli dell’Armistizio lasciavano, infatti, assai poco margine di autonomia al Governo italiano. L’esercito non venne, in alcun modo informato, delle trattative e, proprio per questa ragione, l’8 settembre, quando la notizia dell’Armistizio venne divulgata – dapprima, da Eisenhower sulle frequenze di Radio Algeri e, successivamente, da un comunicato del generale Pietro Badoglio, trasmesso dall’EIAR – le truppe italiane erano del tutto prive di direttive e andarono incontro allo sbandamento che ne avrebbe caratterizzato il successivo destino. Alcuni Soldati decisero di unirsi alle formazioni partigiane; altri si arresero ai tedeschi e altri ancora si rifiutarono di cedere le armi e preferirono combattere.

In quel proclama si legge:

“Il Governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un Armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle Forze Alleate anglo-americane.

La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le Forze anglo-americane deve cessare da parte delle Forze italiane in ogni luogo.

Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.

I tre Stati sconfitti – Italia, Germania e Giappone – avrebbero incluso nelle loro Costituzioni postbelliche, tuttora vigenti, un articolo che vieta il ricorso alla guerra non difensiva.

L’Armistizio dell’8 settembre 1943 aggravò il dramma dei Pows. Derisi dai loro carcerieri-alleati; ignari degli accadimenti drammatici che si consumavano in Patria a migliaia di chilometri di distanza; privi di notizie delle loro famiglie, molte delle quali li consideravano morti, quegli Uomini privati della loro dignità scelsero il silenzio sulla loro penosa prigionia, lasciando cadere nell’oblio i ricordi di una guerra perduta. Un lutto mai elaborato, di cui tacquero, perfino, ai familiari, che li accomuna ai deportati nei campi di concentramento nazisti.

Troppi orrori, troppe morti!

Per dirla con le parole di Immanuel Kant “nel Regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con qualcos’altro come equivalente. Ciò che invece non ha prezzo, e dunque non ammette alcun equivalente, ha una dignità”. Per il filosofo tedesco la dignità è il valore intrinseco che esprime l’unicità e l’insostituibilità di ogni persona.

“L’uomo considerato come persona”, sostiene Kant, “è al di sopra di ogni prezzo”, ossia non può, mai, essere considerato come un “mezzo” né per fini altrui né per fini propri.

Nessuna croce al merito di guerra, nessuna medaglia potrà mai valere la dignità di un Uomo!

Sull’ultimo conflitto mondiale si è scritto molto, ma restano molti lati oscuri sulla storia di tanti giovani Mmilitari Italiani, prigionieri di guerra, condannati a espiare, inopinatamente, la sola colpa di essere Italiani.

Financo nel Dopoguerra il Governo italiano continuò a disinteressarsi della  loro condizione e a considerarli “merce di scambio” per accreditarsi presso gli Alleati.

Anche i Soldati Italiani internati negli Stati Uniti, molti dei quali ceduti dagli inglesi e dai francesi, in violazione della Convenzione di Ginevra che vietava il passaggio di prigionieri da una Nazione alleata all’altra, non furono rimandati in Patria dopo l’Armistizio e continuarono a lavorare per gli americani come manodopera a basso costo.

Tra il 1945 e il 1946, l’Unione Sovietica restituì all’Italia circa 21.000 Soldati Italiani, tranne 28. Il loro calvario durò fino al 1954. Erano circa 200.000 i Soldati Italiani partiti per la Campagna Russa, di cui 11.872 Morti in azioni di guerra e 70.275 Dispersi. Con l’apertura degli archivi sovietici negli Anni Novanta, è stata redatta una mappa di cimiteri e fosse comuni con luoghi e cifre: Tambov [6.846 militari italiani]; Kirov [1.136]; Saratov [1.084]; Ivanovo [922]; Vladimir [928]; Gorki [520] e Odessa [429]. 

 

[https://vhd.heritagecouncil.vic.gov.au/places/126275/download-report]

 


Campi Prigionieri di Guerra della Seconda Guerra Mondiale  in Australia.

Furono internati circa 17.000 Prigionieri Militari Italiani e considerati dalle Autorità Australiane come amici e collaboratori indispensabili per il progresso del loro Paese [https://www.pastorevito.it/campi-prigionieri-di-guerra-della-seconda-guerra-mondiale-in-australia/].

 

 

  

The Jarrahdale POW Camp - What Remains?

[https://www.youtube.com/watch?v=CpiPQFX6sak].


  


 

Soldati Italiani Prigionieri di Guerra a Tobruk.

 

Soldati Italiani Prigionieri di Guerra a Bangalore.

 

1942: Soldati Italiani Prigionieri di Guerra a El-Alamein
 
 

Soldati Italiani catturati in Tunisia.

  

 
Italian Prisoners Arrive In South Africa [1941].

    

 
Prisoners Exchanged [1943].


 
Italian Prisoners of War return to Naples in Italy HD Stock Footage.

 

 
One Of The “Darkest” Chapters of Australia’s History: Italian Internment Camps | Time Travels.
 

 



“6 luglio 1941 – Inizia la Campagna di Russia”

Un treno militare parte con un carico di soldati diretti al fronte russo. Benito Mussolini raggiunge Adolf Hitler per coordinare le operazioni militari della Campagna di Russia. Una colonna di automezzi delle Forze Armate italiane avanza lentamente, i Soldati spingono cannoni risalenti alla Prima Guerra Mondiale e le Forze Armate tedesche avanzano con i carri armati. Campagne e abitazioni incendiate e devastate dai bombardamenti. I Soldati avanzano a piedi nella steppa battuta dal vento.

[https://archivio.quirinale.it/aspr/gianni-bisiach/AV-002-001348/6-luglio-1941-inizia-campagna-russia]



Ai circa 800.000 Soldati Italiani catturati e disarmati dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale di cui 600.000 finirono nei campi di prigionia tedeschi in Germania, in Austria e in Europa Orientale, dopo viaggi interminabili nei famigerati vagoni piombati e su navi, non poche delle quali affondarono. 

Considerati come Internati Militari Italiani [IMI] e non prigionieri di guerra furono privati delle tutele garantite ai prigionieri dalla Convenzione di Ginevra e sottratti alla protezione della Croce Rossa Internazionale.

In 45.000 non tornarono.

Dopo l’Armistizio e la fuga del re d’Italia Vittorio Emanuele III, nella notte tra l’8 e il 9 settembre 1943, le Forze Militari italiane in Italia e nella vicina Albania, dove l’Italia era presente come occupante affiancata dalla Germania, non furono in grado di tenere testa ai tedeschi. Il loro collasso fu quasi immediato e senza combattimenti, determinato dalla mancanza di ordini dai comandi superiori dell’Esercito Regio. I Soldati subirono il disarmo totale da parte dei tedeschi e il cambio di ruolo da alleati a prigionieri.

Nel rapporto trasmesso, il 28 settembre 1943, al responsabile della Civil Affairs Division di Washington, generale John Henry Hillding [1895-1974], dal capo della Military Government Section dell’AFHQ, generale Julius C. Holmes [1899-1968], inviato a Brindisi con lord Francis James Rennell Rodd [1895-1978] per trovare un modus vivendi con il Governo di Brindisi, in attesa di istruzioni definitive dei Capi di Stato Maggiori congiunti anglo-americani, si legge:

“Il Generale Rennell ed io abbiamo fatto una visita la settimana scorsa e con il generale MacFarlane [sir Frank Noel Mason-MacFarlane, n.d.r.] abbiamo lavorato su un accordo ad interim con il maresciallo Badoglio, sotto i cui termini abbiamo concordato di non proclamare il Governo Militare nelle quattro province della Puglia. Nella circostanza ci parve inopportuno dare pubblica notizia del nostro controllo del diritto di sovranità [italiana[ sotto il naso del piccolo re e del vecchio maresciallo. Anziché insediare il Governo militare, abbiamo deciso di permettere al maresciallo di governare queste quattro province con ufficiali dell’AMG nelle Prefetture e in altri posti in qualità di ufficiali di collegamento, ma con la precisa intesa che avrebbero esercitato un’effettiva influenza nell’amministrazione locale. Badoglio era perfettamente d’accordo su questo perché lui e tutti gli interessati erano pienamente consapevoli del fatto che qualsiasi riluttanza da parte degli italiani a fare quello che noi chiedevamo per portare avanti la campagna poteva portare rapidamente all’instaurazione di un totale controllo militare.”

 

Dopo i devastanti bombardamenti anglo-americani, il 3 settembre 1943, l’Italia firma la resa incondizionata con la sottoscrizione dell’Armistizio Corto di Cassibile, prodromo, insieme al successivo Armistizio Lungo di Malta del 29 settembre 1943 e al Trattato di Pace Punitiva di Parigi del 10 febbraio 1947, della perdita della sovranità nazionale e della trasformazione dell’Italia in una colonia anglo-americana. Gravissime furono le responsabilità della Corona, di Pietro Badoglio e di tutti i consiglieri militari e politici nella sottoscrizione della resa, ufficializzata solo dopo 5 giorni, alle ore 17:30 [18:30 in Italia], con un proclama diffuso dal generale Dwight David Eisenhower attraverso i microfoni di Radio Alger e comunicata, successivamente, agli Italiani da Pietro Badoglio alle 19:45, a Roma, dai microfoni dell’EIAR. Il caos che ne seguì determinò la spaccatura in due del nostro Paese e il dissolvimento dell’Esercito italiano, forte di oltre un milione di uomini dislocati in Italia e di altri 900.000 dislocati nei Paesi occupati dall’Italia in Iugoslavia, in Grecia e in Africa. I tedeschi, nei giorni immediatamente successivi all’Armistizio, disarmarono e catturarono in Italia e all’estero circa 800.000 Soldati Italiani, la gran parte dei quali vennero deportati nei lager, mentre diverse decine di migliaia, dopo la consegna delle armi, furono trucidati, come a Cefalonia.

 

[https://museonazionaleresistenza.it/story/il-massacro-della-divisione-acqui/]

 

“A Cefalonia non deve essere fatto alcun prigioniero italiano a causa dell’insolente e proditorio contegno da essi tenuto.”

Ordine dell’Oberkommando Wehrmacht, 15 settembre 1943.

 

 
La Divisione Acqui – L’eccidio  di Cefalonia, 1943 – Documentario.

 

 
Il rientro in Italia delle spoglie dei caduti di Cefalonia [1953].

 

A tutti i Civili e Soldati Italiani, Vittime dei crimini degli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale

Il 27 giugno 1943, per motivare le truppe statunitensi in vista dello Sbarco in Sicilia [Operazione Husky], il comandante della 7th Army statunitense, il generale George Smith Patton, tenne un discorso agli ufficiali della 45th Infantry Division, che, in alcuni passaggi, fu molto duro ed esplicito:

“Se si arrendono quando voi siete a due-trecento metri da loro, non badate alle mani alzate. Mirate tra la terza e la quarta costola, poi, sparate. Si fottano, nessun prigioniero!

È finito il momento di giocare, è ora di uccidere!

Io voglio una divisione di killers, perché i killers sono immortali!”

Sulle navi, prima dello sbarco, gli altoparlanti ripetevano il discorso di Patton.

Fino all’8 settembre 1943, gli Alleati non si comportarono affatto da “liberatori”. La Sicilia era stata attaccata e occupata come terra nemica e, soprattutto, rappresentava l’avamposto del fascismo che bisognava abbattere. Subito dopo lo sbarco le unità statunitensi si diressero verso gli aeroporti siti nella parte meridionale dell’isola. Nel corso dell’avanzata, truppe statunitensi della 7th Army verso Canicattì-Caltanissetta e verso Gela-Caltagirone-Ragusa si resero responsabili di stragi di civili. Il 10 luglio 1943, furono fucilati, a Vittoria, quasi sicuramente dai paracadutisti dell’82nd Airborne Division, 12 civili, tra i quali il podestà di Biscari, Giuseppe Mangano, la moglie, il fratello ufficiale medico, il figlio Valerio diciassettenne e la donna di servizio.

Purtroppo solo di due stragi, avvenute il 14 luglio 1943, nelle campagne di Piano Stella, vicino a Biscari, oggi Acate, località a Sud di Caltagirone e in provincia di Ragusa, si è scritto e parlato sino dalla fine della guerra, [https://issuu.com/rivista.militare1/docs/70_anni_fa_l_assalto_degli_alleati_alla_sicilia/s/19249066].

Il 14 luglio 1943, nei pressi dell’Aeroporto di Biscari, 36 Soldati, in massima parte Italiani, con nuclei tedeschi, dopo un’accanita resistenza si arresero alla Compagnia C del 180th Infantry Regiment del capitano John Travers Compton [1918-1943], sventolando un fazzoletto bianco in segno di resa. I prigionieri, ai quali furono tolti vestiti, scarpe, oggetti di valore, furono fucilati su ordine dello stesso capitano Compton. Nella strage perì anche il famoso atleta tedesco di salto in lungo, Carl Ludwig Hermann Long, detto Luz [1913-1943], amico di Jesse Owens, che partecipò ai Giochi Olimpici di Berlino del 1936.

Lo stesso giorno, in contrada Ficuzza la Compagnia A dello stesso 180th Infantry Regiment catturò 45 italiani e 3 tedeschi. Il sergente Horace T. West [1911-1974] fu incaricato con altri soldati americani di scortare 37 prigionieri – gli altri 11, compresi i 3 tedeschi erano feriti – nelle retrovie, ma, dopo qualche chilometro, ordinò loro di togliersi le divise e le scarpe, li incolonnò e li fece camminare fino al Torrente Ficuzza, dove li trucidò a colpi di mitragliatore. Si salvarono solo 2 mitraglieri della M.A.C.A., il vicecaposquadra [caporale] Virgilio De Roit, la camicia nera Silvio Quaiotto, e l’aviere Giuseppe Giannola, i quali denunciarono con dovizia di particolari quanto era accaduto. Nella relazione di Giannola del 4 marzo 1947 al Comando Aeronautica della Sicilia si legge:

“Fummo avviati nelle vicinanze di Piano Stella ove fummo poi raggiunti da un altro contingente di prigionieri italiani, e questi ultimi in numero di circa 34. Tutti fummo schierati per due di fronte. Un sottufficiale americano con fucile mitragliatore sparò a falciare i circa 50 militari che si trovavano schierati. Il dichiarante rimasto ferito al braccio destro rimase per circa due ore e mezzo sotto i cadaveri, per sfuggire ad altra scarica di fucileria, poiché i militari anglo-americani rimasero sul posto molto tempo per finire di colpire quelli rimasti feriti e agonizzanti.” [http://www.associazione-memento.org/knowledgebase/giuseppe-giannola/, https://www.combattentiereduci.it/notizie/la-strage-di-biscari]

Nei verbali della Corte Marziale americana riguardanti i procedimenti del sergente West e del capitano Compton, responsabili dei due massacri, si trova la testimonianza del cappellano militare della 45th Division, il tenente colonnello William E. King [1901-1985], che denunciò per primo le Stragi di Biscari al Comando americano.

Il mattino del 15 luglio 1943, il tenente colonnello King, mentre viaggiava sulla sua jeep lungo la provinciale Biscari-Aeroporto di Biscari, subito dopo avere attraversato il Torrente Ficuzza, trovò una fila di 34 cadaveri italiani e 2 tedeschi sulla strada che dall’aeroporto portava a Biscari. In un primo momento, pensò che fossero stati, così, sistemati per la sepoltura, ma subito capì, ispezionando i cadaveri, che erano stati colpiti da proiettili calibro 90 e che alcuni presentavano anche una ferita alla testa provocata da una pistola a distanza ravvicinata. Era evidente che si era trattato di una esecuzione e, pertanto, inoltrò formale rapporto ai suoi superiori. Poi, King trovò altri cadaveri allineati, presumibilmente fucilati, prima di giungere all’aeroporto. Qui seppe di un ulteriore gruppo di Militari Italiani fucilati. Dell’accaduto informò il tenente colonnello Willerm O. Perry, ispettore generale di Divisione, figura simile ai nostri pubblici ministeri. Perry riferì al generale Omar Bradley. Dal carteggio tra Patton e Bradley si evince che Patton, venuto a conoscenza delle due stragi, avesse fatto pressione su Bradley per insabbiare i fatti di Biscari, ma Bradley non accettò e ordinò che il capitano Compton e il sergente West fossero deferitì alla Corte Marziale con l’imputazione di avere fucilato i prigionieri di guerra in violazione dell’articolo 92 del codice militare di guerra. Tra i documenti si trovano anche lettere del futuro presidente Dwight David Eisenhower e di membri del Congresso con cui si chiedeva una revisione processuale.

Nei due processi si cercò di salvaguardare gli ufficiali.

L’unico a essere condannato fu, infatti, il sergente West, matricola 20827888, che, il 30 agosto 1943, comparve davanti ai giudici militari. Nato il 13 dicembre 1909 a Barron Fork, in Oklahoma, coniugato con due figli, rispettivamente di 8 e 3 anni, con alle spalle due arruolamenti nell’esercito, il primo nella Guardia Nazionale del Colorado e il secondo, nel 1939, nella Guardia Nazionale dell’Oklahoma, West si difese sostenendo che gli ordini dal Comando d’Armata erano di uccidere i militari nemici che non si fossero arresi immediatamente.

Il suo avvocato aveva invocato l’infermità mentale temporanea e, sottoposto, il 26 agosto 1943, a visita da  una apposita Commissione Medica, composta da 5 ufficiali, era stato giudicato al momento dei fatti addebitati “essere sano ed era sano anche nel momento dell’incontro con la Commissione”, tuttavia, la Commissione, presieduta dal maggiore Ira C. Wolfe, medico della divisione, ma non psichiatra, stilò un rapporto decisamente scagionatorio, avanzando “l’ipotesi di una sua temporanea infermità mentale quando commise l’atto di uccidere 37 prigionieri perché stressato”. Al termine del dibattimento la Corte Marziale, ravvisando la responsabilità degli atti di West, lo condannò all’ergastolo, ma senza espellerlo dal Corpo, nel rispetto dell’articolo 104, paragrafo “b” del manuale della Corte Marziale. West avrebbe dovuto scontare la pena negli Stati Uniti presso il penitenziario di Lewisburg, in Pensilvania, ma la sentenza non venne, mai, eseguita. Fu trattenuto agli arresti in una base del Nord Africa fino alla fine di novembre del 1944, per evitare che la sua presenza in un penitenziario federale potesse essere motivo di imbarazzo per l’Esercito. Washington temeva che quei massacri avrebbero potuto provocare ripercussioni in Italia, con cui era stato, appena, concluso l’Armistizio, e ritorsioni sugli alleati prigionieri in Germania. Il primo febbraio del 1944, il capo delle pubbliche relazioni del Ministero della Guerra americano sollecitò al Comando Alleato di Caserta un atto di clemenza. Nella lettera è scritto:

“Non possiamo permettere che questa storia venga divulgata.”

Fu rimesso in servizio sul fronte italiano, come soldato semplice. Suo fratello era intervenuto sollecitando l’intervento di Eisenhower e fu deciso di dargli una possibilità di riscatto e riportarlo in servizio attivo. Al termine della guerra fu congedato con onore. È deceduto nel gennaio del 1974.

Anche il capitano John Travers Compton, matricola 0-406922, sostenne di avere agito dietro istruzione del comandante d’Armata, generale con tre stelle e una grande esperienza di combattimento. La Corte formulò una sentenza di non colpevolezza, in quanto giustiziò i prigionieri, subito dopo la loro cattura, ubbidendo agli ordini del Comando Supremo. La difesa del capitano Compton sostenne anche che, prima dell’invasione della Sicilia, il comandante del gruppo in missione, il colonnello William Herbert Schaefer [1900-1979], soprannominato King Kong, tenne un discorso ad alcuni ufficiali, tra cui Compton, usando, appunto, un linguaggio che l’accusato e gli altri ufficiali presenti interpretarono come “l’ordine di non fare prigionieri”. Citati al processo, davanti alla Corte Marziale, gli ufficiali testimoniarono che avevano interpretato le istruzioni di Schaefer così come il capitano Compton e che “anche loro avrebbero operato alla stessa maniera in quelle circostanze”.

Il capitano Compton fu assolto dalla Corte Marziale il 23 ottobre 1943 – anche se una sentenza del JAG Corps riconobbe le sue azioni illegali –, mantenne il grado e fu trasferito al 179th Infantry Regiment “Tomahawks”.

Secondo i giudici, quanto commesso da Compton era giustificato dal fatto che, trovandosi in un intenso scontro a fuoco con dei nemici e avendo avuto l’ordine di uccidere coloro che intralciavano l’avanzata, mise in atto gli ordini ricevuti dai superiori. Il responsabile dell’inchiesta, il procuratore militare William R. Cook, avrebbe voluto presentare appello contro la sentenza assolutoria, così lontana dal senso americano di giustizia, ma, l’8 novembre 1943, Compton cadde in combattimento, sul fronte di Cassino, per ironia della sorte, colpito da un cecchino, mentre cercava di avvicinarsi ad alcuni soldati tedeschi, sventolando la bandiera bianca.

Mentre, in Italia, per motivi di opportunità politica i crimini di guerra compiuti, nel 1943, in Sicilia sono stati, sostanzialmente, ignorati – né la giustizia militare né quella civile, in 80 anni, hanno, mai, avviato procedimenti nei confronti dei militari coinvolti –, le Stragi di Biscari sono state, più volte, riproposte negli Stati Uniti, nel 1988, da James J. Weingartner e, nel 2003, da Stanley Hirshson. Sono state, perfino, citate come giurisprudenza, nel corso dei processi per le sevizie inflitte ai prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib, nel 2004.

Il mandante morale delle stragi è, ovviamente, il generale Patton, che, già, prima di partire per l’Algeria, e, poi, durante le fasi dello sbarco, aveva diramato ordini perentori:

“Kill, kill, and kill some more!”

[“Uccidere, uccidere e uccidere ancora!”]

Ordini inequivocabili di un generale, che le truppe eseguirono.

Di conseguenza, è lecito porsi la domanda:

Quanti soldati americani obbedirono a quegli ordini?

Patton, in un colloquio, tenuto il 5 aprile 1944, con il tenente colonnello C. E. Williams, ispettore del Ministero della Guerra sui fatti di Biscari, ammise di avere tenuto un discorso pretty bloody, ma di averlo fatto per stimolare lo spirito combattivo della 45th Infantry Division, che si trovava, per la prima volta, sotto il fuoco nemico.

Nessun procedimento fu, mai, avviato nei confronti di Patton, né Patton fu, mai, interrogato come testimone.

La Sicilia, con le sue numerose vittime civili e con i tanti prigionieri inermi fucilati dagli americani, ha pagato un prezzo altissimo alla “LIBERAZIONE”.

Le Stragi di Biscari, in Italia, sono ricordate solo a livello locale, i crimini dei “liberatori”, semplicemente, NON esistono!

È rimasto il mistero dei corpi di quei Soldati Italiani, molti originari della provincia di Brescia, che non sono stati, MAI, ritrovati.

Negli archivi storici italiani risultano dispersi e, ancora oggi, le loro famiglie sono in attesa di notizie.

Nessuna notizia, nessuna lapide!

Il 9 gennaio 1951, il presidente della Repubblica Luigi Einaudi firmava la Legge n. 204, [Gazzetta Ufficiale 7 aprile 1951, n. 80], che, al secondo comma dell’articolo 4, vietava il rimpatrio delle salme dei Caduti, sepolti in cimiteri militari italiani all’estero:

“Le Salme definitivamente sistemate a cura del commissario generale non possono essere più concesse ai congiunti.” [https://www.edizionieuropee.it/LAW/HTML/27/zn52_04_021.html#_ftn5]

Molti dei parenti di questi sventurati non vennero, mai, a sapere di avere un congiunto sepolto in uno di questi cimiteri. Solo nel 1999, la Legge 9 gennaio 1951, n. 204 è stata modificata, permettendo il rientro in Italia dei resti mortali dei Caduti sepolti nei cimiteri militari italiani d’onore. Dal novembre 2009, il Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in Guerra ha posto in rete la banca dati delle sepolture dei Caduti in guerra.

 


 

  

Le stragi americane non si limitarono all’episodio di Vittoria e ai due episodi di Biscari, ma proseguirono a Comiso, dove furono uccisi 60 soldati tedeschi e 50 Soldati Italiani; a Piano Stella, dove, il 13 luglio, fu trucidato un gruppo di contadini; a Canicattì, dove furono uccisi 8 Civili per mano di un ufficiale americano e a Butera. Sono stragi rimaste nella Memoria delle comunità e confermate da diverse testimonianze oculari di soldati italo-americani, per le quali non è, mai, stata fatta avviata alcuna inchiesta giudiziaria, rimaste, ancora una volta, impunite.

Ma chi ha perduto, ingiustamente, i propri familiari, ha diritto alla Giustizia!

Ha diritto alla Verità!

Era Gente umile…

E gli eroici americani esportavano Libertà, Democrazia, Pace… con le armi...

Al pari di oggi…

Non ci fu nulla di eroico in quell’Operazione Husky…

La Storia raccontata dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale ha nascosto molto bene fatti che avrebbero rotto da subito l’immagine dei soldati inglesi e americai che distribuiscono biscotti e cioccolato, dei soldati americani che sono venuti d’Oltreatlantico a “liberare” l’Italia dal tallone di ferro tedesco…

Grazie a una martellante narrazione che ha bombardato il mondo per 80 anni, l’opinione pubblica ha recepito e fatto propria, come verità di fede, una certa oleografia storico-militare, che nessuno ha, mai, cercato di sottoporre a verifica.

Ed è, di certo, uno dei motivi per cui gli Italiani faticano a creare una Memoria comune.

Che la Storia la scrivano i vincitori è noto e ha, anche, una spiegazione, seppure perversa e inaccettabile, ma ciò che indigna è il silenzio di tanti politici, storici, giornalisti, che, per più di 80 anni, non hanno indagato sugli accadimenti di quei giorni.

Ritengo che si debba ristabilire la Verità storica sul Passato, seppure tardivo sarebbe un atto di giustizia e il giusto riconoscimento al tributo di sangue pagato dalla nostra Gente.

Il principio di irretroattività della legge penale incriminatrice così come la prescrizione non si applicano ai CRIMINI CONTRO L’UMANITA’ e stabilire chiaramente le colpe, anche a tanti anni di distanza dai fatti, contribuisce a confermare un giudizio storico e storiografico aulle parti in causa.



 
Generale George S. Patton, Il massacro di Biscari e gli incidenti degli schiaffi.



  

Codice Husky. Lo sbarco alleato in Sicilia.

[https://www.youtube.com/watch?v=vZsBRj9jHLw&t=1s]

 

Daniel Seiden, CACI Fights “Unprecedented”Abu Ghraib Torture Liability Ruling, Bloomberg Law, April 25, 2019 [https://news.bloomberglaw.com/federal-contracting/unprecedented-ruling-returns-abu-ghraib-case-to-fourth-circuit].

 

 
Abu Ghraib torture survivors win US civil case, $42m damages.

 

Ai Civili Italiani uccisi dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale

Nei giorni dello Sbarco in Sicilia, mentre gli Alleati, nostri nemici, bombardavano ogni angolo dell’isola, episodi stragisti da parte dei tedeschi, nostri alleati, si verificarono nella Sicilia Orientale. La zona etnea fu quella con il maggiore numero di episodi e di vittime.

 

Alle Vittime Italiane delle “Marocchinate” durante la Seconda Guerra Mondiale

Il 18 maggio 1944, nelle stesse ore in cui le truppe polacche issavano la loro bandiera sulle rovine dell’Abbazia di Monte Cassino, si consumavano stupri di gruppo, uccisioni, saccheggi e violenze da parte dei Goumiers del Corps Expéditionnaire Français en Italie ai danni della popolazione italiana. Il generale Adolph Juin, comandante del CEF, aveva concesso un po’ di “svago” ai suoi uomini, circa cinquanta ore. Vittime delle violenze delle truppe coloniali francesi furono non solo Donne di ogni età, ma anche Bambini, Uomini, Suore e Preti.

Ancora oggi, nel Basso Lazio, è tristemente noto il detto:

“Stavamo ad aspettare i liberatori, sono arrivati gli ‘nculatori.”

 

 
L’altra faccia della “Liberazione” [Gli stupri del Corpo di Spedizione Francese].[https://www.youtube.com/watch?v=wU2aPNZyWr4]

 

 

Nella seduta notturna della Camera del 7 aprile 1952 [https://legislature.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed0890/sed0890.pdf], la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi [1906-1995], impegnata nelle zone della Ciociaria per dare volto, voce e dignità alle Donne e ai Bambini, vittime delle marocchinate, intervenne in Parlamento su questo tema delicatissimo. Maria Maddalena Rossi era ben consapevole di affrontare un discorso considerato sconveniente:

“So che vi è chi si finge scandalizzato perché noi prendiamo nel Parlamento e nel Paese la difesa di queste donne. Credo piuttosto che ci si debba scandalizzare perché fra noi vi è chi vorrebbe coprire questa piaga, questo delitto orrendo che fu commesso contro Donne inermi, contro giovinette, con un velo di silenzio.

[…]”

Maria Maddalena Rossi denunciò che, solo nella provincia di Frosinone, c’erano state 60.000 violenze da parte delle truppe del generale Juin.

 

 
BOTTINO DI GUERRA – LE MAROCCHINATE.

 

 

A tutti gli Italiani Caduti e Dispersi nelle due Guerre Mondiali

“Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis.”[2]

Cicerone, De Oratore, II, 9, 36

Dimenticati mai!

 

A tutti i Soldati Italiani esposti all’URANIO IMPOVERITO nelle Missioni di Pace in Iraq, in Bosnia, in Kosovo, in Somalia, in Afghanistan, in Libano e in Siria

“Vorrei che gli Italiani sapessero di tanti altri ragazzi soldato, decine e decine, ormai centinaia, morti ugualmente per aver servito lo Stato nelle Missioni di Pace nelle zone di guerra. Ma lo fanno in silenzio, tra atroci dolori, in un lettino d’ospedale, uccisi dai tumori diagnosticati dopo il Kosovo, la Somalia, l’Iraq, l’Afghanistan. E non hanno nessun funerale ufficiale, nessun sostegno se non quello dei genitori e delle mogli che li assistono sino all’ultimo.”

Giuseppe Di Giorgio, ex-parà della Folgore, malato di linfoma di Hodgkin [http://sadefenza.blogspot.it/2009/10/la-verita-e-radioattiva-parla-un-ex.html]

In una nota declassificata al generale Leslie R. Groves, datata 30 ottobre 1943, tre dei più importanti fisici del Project Manhattan, James B. Conant, A. H. Compton e H. C. Urey, formularono le loro raccomandazioni, in quanto membri del Sotto-Comitato dell’Esecutivo S-1, sull’uso di materiali radioattivi come arma militare [https://www.osti.gov/servlets/purl/211414, https://sgp.fas.org/library/quist/chap_5.pdf].

Le armi all’Uranio Impoverito sono state fornite dagli Stati Uniti, per primi, a Israele, sotto la supervisione americana, nella Guerra del Sinai contro gli arabi, nel 1973. Un tabù internazionale ha impedito il loro utilizzo fino al 1991, quando gli Stati Uniti hanno rotto il tabù e le hanno utilizzate, per la prima volta, sui campi di battaglia di Iraq e del Kuwait. Da allora, gli Stati Uniti e i loro partners militari hanno ingaggiato guerre nucleari, utilizzando sporche armi nei Paesi dove si trovano risorse che hanno bisogno di controllare per stabilire e matenere il loro primato.

Descritto come il Cavallo di Troia della guerra nucleare, l’Uranio Impoverito è l’arma che continua a distruggere. Sotto forma di aerosol l’Uranio Impoverito contaminerà, in modo permanente, vaste regioni e distruggerà,  gradualmente, il futuro genetico delle popolazioni che vivono in quelle regioni.

L’emivita dell’Uranio 238 è di 4,5 miliardi di anni, l’Età della Terra e, poiché l’Uranio 238 degenera in sottoprodotti radioattivi, in quattro fasi prima di trasformarsi in grafite, continua a emettere più radiazioni a ogni fase. Non c’è modo per arrestarlo e non c’è modo per ripulirlo. Si accorda con la definizione del Governo americano delle armi di distruzione di massa:

“Weapons that are capable of a high order of destruction and/or of being used in such a manner as to destroy large numbers of people. Weapons of mass destruction can be high explosives or nuclear, biological, chemical, and radiological weapons, but exclude the means of transporting or propelling the weapon where such means is a separable and divisible part of the weapon.” weapon where such means is a separable and divisible part of the weapon.” [https://www.militaryfactory.com/dictionary/military-terms-defined.asp?term_id=5781][3]

Dal 1997, gli Stati Uniti potenziano e “migliorano” il loro arsenale di missili e di bombe guidate e “intelligenti”. Alcuni prototipi di queste armi erano stati testati sulle montagne del Kosovo, nel 1999, ma un arsenale ben più vasto è stato dispiegato in Afghanistan.

In un documentario diffuso da Canal+, nel gennaio del 2001, un’équipe di ricercatori francesi aveva presentato i risultati di una inchiesta condotta nella fabbrica di ritrattamento di Paducah [http://www.sortirdunucleaire.org/IMG/pdf/atom-valley.pdf], nel Kentucky.

Secondo il rappresentante legale dei circa 100.000 querelanti, operai in servizio e in pensione, tutti contaminati per una flagrante inosservanza delle più elementari norme di sicurezza, l’intera fabbrica e tutta la sua produzione era, irreparabilmente, contaminata. Secondo gli investigatori, proprio da questa installazione sarebbe provenuto l’Uranio Impoverito dei missili lanciati su Jugoslavia, Afghanistan e Iraq.

Queste armi rappresentano molto più che un nuovo strumento per guerre moderne. Il programma di riarmo americano, lanciato dal presidente Ronald Reagan, si basava sulla convinzione che il vincitore dei nuovi conflitti fosse quello che distruggesse più efficacemente i centri di comando e di comunicazione del nemico, che si trovano, quasi sempre, sotto terra, in bunkers rinforzati. E, poiché un bombardamento nucleare avrebbe avuto ragione del cemento armato, ma avrebbe, anche, prodotto radiazioni, definite dallo stesso Pentagono spaventose, con pesanti ripercussioni sulla opinione pubblica, in un mondo sempre più attento ai pericoli di una guerra nucleare, appariva più confacente il ricorso a una testata all’Uranio Impoverito, che avrebbe scatenato un incendio di una potenza altrettanto distruttrice, ma neppure paragonabile alle conseguenze di una  esplosione nucleare.

Le informazioni raccolte da Dai Williams dimostrano che gli Stati Uniti, dopo avere effettuato tests al computer, nel 1987, avevano sperimentato, per la prima volta, questi ordigni nel 1991, contro l’Iraq. La guerra nel Kosovo aveva, poi, dato la possibilità di testare le armi all’Uranio Impoverito, prototipi o già in produzione, su bersagli di estrema durezza e l’Afghanistan avrebbe permesso di estendere e prolungare questi studi. Dai Willliams cita molti articoli di stampa, che riferiscono, agli inizi di dicembre del 2001, di équipes NBC [nucleare-biologico-chimico], mandate sul campo per verificare eventuali contaminazioni, imputate dagli americani ai talebani. Ma, dall’ottobre del 2001, i medici afghani, di fronte a morti improvvise, che all’osservazione dei sintomi – emorragie, difficoltà respiratorie, vomito –, facevano pensare a una contaminazione radioattiva, avevano mosso accuse alla coalizione di utilizzare armi chimiche.

Il mercoledì 5 dicembre 2001, quando una bomba americana, sganciata da un B-52, aveva colpito, erroneamente, 3 soldati americani nei pressi di Kandahar, tutti gli inviati dei media erano stati, immediatamente, prelevati e rinchiusi in un hangar. Secondo il Pentagono, si trattava di una Gbu-31 armata con una testata Blu-109. Nel documentario di Canal+, viene intervistato il rappresentante di un fabbricante di armi – presente alla fiera internazionale delle armi tenutasi a Dubai, il 14 novembre 1999, dopo la Guerra del Kosovo – il quale presenta la testata Blu-109 e descrive le sue capacità di penetrazione contro bersagli sotterranei fortificati e rinforzati, precisando che l’arma era stata, appena, testata in una guerra.

Il 16 gennaio 2002, il segretario americano alla difesa, Donald Rumsfeld, ammise che erano state trovate tracce di radioattività in Afghanistan: 

“One site registered an increased level of radioactivity but it appeared to be a result of depleted uranium in some warheads and not from any nuclear or radiological weapon of mass descruction.”  [http://www.eoslifework.co.uk/du2012.htm, http://cursor.org/stories/uranium.htm]

Ma garantiva che fossero testate all’Uranio Impoverito appartenenti ad Al-Qaeda, senza chiarire, tuttavia, come, sprovvista di aerei, avesse potuto lanciarle.

A metà degli Anni Novanta, nella contea di Jefferson [Indiana], il Pentagono chiuse il Jefferson Provin Ground, un poligono di tiro, dove testava obici all’Uranio Impoverito e sarebbero stati sparati 60mila chili di Uranio Impoverito. Il preventivo più basso per bonificare la zona ammontava a 7,8 miliardi di dollari, senza contare lo stoccaggio perenne di uno spessore di sei metri di terra e la vegetazione da eliminare. Ritenendo il prezzo troppo alto, l’Esercito aveva cercato altre soluzioni e aveva, infine, deciso di offrire il terreno al servizio dei parchi nazionali per crearvi una riserva naturale, offerta che era stata rifiutata.

L’ex-poligono di tiro è stato riconosciuto “zona di sacrificio nazionale” con conseguente divieto di accesso in eterno!

Ecco una notizia che chiarisce quale sarà il futuro delle diverse zone del Ppianeta in cui gli Stati Uniti hanno utilizzato e utilizzeranno armi all’Uranio Impoverito.

Nell’agosto del 1996, la Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite aveva condannato l’uso delle armi all’Uranio Impoverito e aveva chiesto al segretario generale dell’ONU, Boutros Boutros-Ghali, una inchiesta che riconoscesse che i proiettili all’Uranio Impoverito fossero armi di distruzione di massa con effetto indiscriminato, vietate dalle convenzioni internazionali, in particolare dalla Convenzione dell’Aja del 29 luglio 1899 concernente le leggi e gli usi della guerra terrestre [http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=20041031201007]. Ma gli sforzi per vietare l’uso di queste armi avevano cozzato contro gli interessi dei militari, degli industriali e dei responsabili dei depositi di Uranio Impoverito.

 


Yom Kippur: Israele valutò il ricorso all’atomica, Analisi Difesa, 15 Settembre 2013. [https://www.analisidifesa.it/2013/09/yom-kippur-israele-valuto-il-ricorso-allatomica/]

 

 

 13 Off Limit Areas In Jefferson Proving Ground That The General Public Will Never See.

[https://www.youtube.com/watch?v=SP-qe8EfWR4 ]




OMICIDI DISASTRI

VERITA’ E GIUSTIZIA

RELAZIONE FINALE

ON. MAURO PILI

Parte Terza

[https://documenti.camera.it/_dati/leg17/lavori/documentiparlamentari/indiceetesti/022bis/023bis_v3/00000001.pdf]


 
 
Uranio Impoverito, colonnello Croce Rossa: “Traditi: vertici sapevano, anche Mattarella”. 

 

Alessandro Mantovani, Uranio 238: qualcuno informò male Mattarella, L’audizione mancata del generale Mosca Moschini lascerà irrisolto il caso, il Fatto Quotidiano, 10 Febbraio 2018 [https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2018/02/10/uranio-238-qualcuno-informo-male-mattarella/4150237/].

 

Uranio Impoverito, Mattarella aveva negato tradendo i militari italiani morti grazie alle munizioni USA impiegate in Bosnia, la Nato nel frattempo invoca l’immunità per evitare di essere processata, DC News, Giugno 6, 2022 [https://www.dcnews.it/2022/06/06/uranio-impoverito-mattarella-aveva-negato-tradendo-i-militari-italiani-morti-grazie-alle-munizioni-usa-impiegate-in-bosnia-la-nato-nel-frattempo-invoca-limmunita-per-evitare-di-essere-processata/].

 

 

Bill Clinton, Madeleine Albright e Hashim Thaci.

 

Kouchner: “J’ai une tête à vendre des organes ?”

[https://www.dailymotion.com/video/xcjpt8]

Ricordiamo la risata a piena gola di Bernard Kouchner – alto rappresentante del segretario generale dell’ONU in  Kosovo, nel periodo dal luglio del 1999 al gennaio del 2001 –, quando, nel marzo del 2010, un giornalista serbo lo interrogò sulla “Casa Gialla”.

  

 
Trafic d’organes au Kosovo: un rapport demande la vérité”. 
 

 

 
Interrogé sur la “maison jaune”, Bernard Kouchner nie toujours le trafic d’organes au Kosovo.

In visita  ufficiale in Kosovo, Bernard Kouchner, era stato intervistato da un giornalista, il primo marzo del 2010, circa le voci secondo cui sarebbe stato coinvolto nello scandalo del traffico di organi. Diversi media serbi avevano accusato Kouchner di aver coperto tali azioni, quando era alto rappresentante delle Nazioni Unite nella regione [1999-2001]. Nel 2010, intervistato dal canale televisivo BBC riguardo al rapporto che Dick Marty aveva presentato al Consiglio d’Europa sul traffico di organi durante la Guerra nella ex-Jugoslavia, Kouchner si era detto scettico, ma comunque a favore di una inchiesta internazionale. L’ex-alto rappresentante aveva, anche, ritenuta falsa l’accusa di Dick Marty a proposito di un numero considerevole di servizi segreti e di leaders  occidentali che fossero a conoscenza del traffico di organi alla fine degli Anni Novanta:

“Anche io sono stato accusato di esserne al corrente ma non ne sapevo nulla. Se avessi saputo avrei premuto perché fossero avviate delle indagini. Ho sentito parlare del traffico di organi, per la prima volta, nel 2008, quando l’ex-procuratrice Carla Del Ponte ne aveva scritto nel suo libro e ne ero rimasto molto sorpreso.”

“Dick Marty è un pover’uomo.”

aveva dichiarato Kouchner ai microfoni della BBC,

“Nei Balcani ci siamo sempre battuti contro il crimine organizzato, abbiamo sempre operato nel nome della giustizia. Non mi devo difendere da alcuna accusa. Chi è Dick Marty? Non lo conosco. Fa parte del Consiglio d’Europa e come tale va rispettato. Lo rispetto, ho letto il suo rapporto ma sono scettico. E devo dire di non aver mai incontrato Marty in Kosovo.”

Riguardo all-ex premier del Kosovo Hashim Thaci, Kouchner era stato prudente:

“Non sono in grado di giudicare il suo operato. È un politico che rispetto. Il fattore importante è che la pace venga mantenuta in una regione dove la Comunità Internazionale ha investito sforzi e denaro. Ritengo che i leaders occidentali non debbano sentirsi a disagio all’idea di incontrare Thaci, perché lui non è un ostacolo. Neppure le accuse che pesano su di lui devono essere un ostacolo.”

 

Bernard Kouchner e Hashin Thaci.

 

Dans les Chambres spécialisées du Kosovo à La Haye, le procès contre Hashim Thaci et d’autres se poursuit aujourd’hui.

Selon le DHSK, comme cela arrive habituellement, la séance commence à 09h00.

L’ancien président du Kosovo, Hashim Thaci, a plaidé non coupable de tous les chefs d’accusation du deuxième acte d’accusation retenu contre lui, pour entrave à la justice devant les Chambres spécialisées du Kosovo à La Haye.

Le Tribunal spécial a déclaré que Thaci avait plaidé coupable par écrit le 6 janvier, après avoir refusé de témoigner devant le juge de la mise en état en décembre.

“Il a plaidé non coupable de tous les chefs d’accusation”, dit l’annonce.

Nous soulignons que l’équipe de procureurs dans le cas des quatre anciens dirigeants de l’Armée de Libération, Hashim Thaci, et d’autres accusés de complicité de crimes de guerre a sur la liste 72 témoins pour clôturer son dossier.

Toutefois, en mars, il sera décidé si l’accusation ajoutera de nouveaux témoins à sa liste initiale de plus de 320.

Le Bureau du Procureur des Chambres spécialisées devrait décider en mars s’il appellera des témoins supplémentaires, dans le cas des anciens hauts dirigeants de l’Armée de libération du Kosovo, Hashim Thaci, Kadri Veseli, Rexhep Selimit et Jakup Krasniqi, accusés de coopération dans des crimes guerre.

Le procès se poursuit à La Haye dans l’affaire “Thaci et autres” , Insajderi, 21 janvier 2025 [https://insajderi.org/fr/vazhdon-gjykimi-ne-hage-per-rastin-thaci-dhe-te-tjeret/].


 

In questa famosa fotografia, cinque personalità giurano, nel mese di ottobre del 1999, di portare il Kosovo verso l’indipendenza. A sinistra, si riconosce Hashim Thachi [allora leader dell’UCK], Bernard Kouchner [allora alto rappresentante delle Nazioni Unite in Kosovo], sir Mike Jackson [ex-comandante delle truppe britanniche nel massacro del Bloody Sunday, in Irlanda, allora comandante delle forze di occupazione della NATO, successivamente, consulente di una società di mercenari], Agim Ceku [comandante dell’UCK, accusato di crimini di guerra dall’esercito canadese e dalla Serbia] e a destra, il generale Wesley Clark [allora comandante supremo della NATO, successivamente, un lobbista per i biocarburanti].

Una foto nell’album di famiglia della NATO che qualcuno a Bruxelles, oggi, pensa sarebbe stato meglio non venisse, mai, scattata.

 


A tutti i Soldati impegnati all’Estero e sul Territorio, nella consapevolezza della professionalità con la quale affrontano il loro compito e della passione che anima il loro Cuore.

 

A tutte le Donne dell’Iraq, della Somalia, dell’ex-Jugoslavia, dell’Afghanistan, del Libano e della Palestina che hanno paura di avere Bambini e, quando partoriscono, anziché chiedere se è un maschio o una femmina, chiedono:

“È normale?”

 

 


 



 

 

A tutte le Vittime di Genocidio

“Qui non c’è Perché!”,

si sentì rispondere Primo Levi, al suo arrivo ad Auschwitz.

Nel 2025, anno di commemorazione degli 80 anni della liberazione dei campi nazisti, dei 110 anni dei Genocidi Armeno[4] e Assiro-Caldeo[5] e dei 50 anni della presa di Phnom Penh – che apriva la via al massacro di 1,7 milione di cambogiani da parte dei Khmer Rossi[6] – chi ha tentato di analizzare la Storia non è, ancora, riuscito a dare una risposta soddisfacente alla lancinante domanda:

“Perché?”

Come dimenticare un simile orrore?

Oggi, noi sappiamo che c’è di peggio di un Genocidio:

Sapere che si sarebbe potuto evitare un Genocidio!

Confessiamocelo, gli Apache, i Cheyenne, gli Irochesi e i Sioux non ci ispirano un senso di colpa. Non più del jazz o del blues suscitano tristezza negli intenditori e non risvegliano in loro il tragico ricordo dei linciaggi dei neri.

Quando un americano dell’Illinois vuole acquistare le sue sigarette a basso costo – un pacchetto costa circa 12 dollari [8,76 euro], in America – prende la strada del Sud dello Stato o della vicina Indiana, per rifornirsi in uno dei territori concessi alle tribù indiane locali. Là, pagherà il suo pacchetto di sigarette 4 dollari in media. In alcune tribù, che sono più di 500 attraverso gli Stati Uniti, si può, anche, acquistare alcol a buon mercato, giocare al casinò o consultare uno sciamano. È molto esotico offrirsi una escursione in questi strani posti, ma l’americano medio non ci si arrischia troppo. La visione offerta da molti accampamenti è quella di una bidonville. E, una volta passati i suoi confini, è un viaggo nell’inferno che inizia. Gli stessi Indiani, che vivono fuori delle tribù, non tornano che per farsi curare quando non hanno accesso al sistema sanitario americano. Le comunità di Nativi Americani hanno sofferto a lungo di abbandono e di discriminazione. Molti programmi statistici del Governo degli Stati Uniti li lasciano da partecompletamenteo semplicemente li classificano come “altri”.

Il 25% dei Nativi Americani vive al di sotto della soglia di povertà.

Tale è il prezzo da pagare per gli Indiani d’America per restare sulla Terra dei loro Antenati!

E, tuttavia, gli Stati che ospitano queste riserve non cessano di lesinare questi diritti e di tentare di recuperare, con tutti i mezzi, questi spazi. Una certa propaganda, che lascia intendere che i Nativi Americani avrebbero fatto la scelta di vivere in queste condizioni, ha funzionato molto bene nell’immaginario collettivo. Ora, ciò riposa su una contro-verità storica. Pochi, infatti, ricordano il grande movimento di delocalizzazione, susseguente all’Indian Removal Act [https://loveman.sdsu.edu/docs/1830IndianRemovalAct.pdf][7], che, nella metà del XIXesimo Secolo, costrinse gli Indiani a cedere le proprie terre al Governo e a concentrarsi nelle zone riservate loro in cambio.

Nel 1890, fu loro vietato anche di uscire dalle loro riserve per procurarsi il cibo. A tale proposito, uno studio del professor Jeffrey E. Holm, dell’Università di Medicina del Nord Dakota, ha messo in evidenza come il cambiamento della dieta alimentare, imposto, per decenni, alle tribù indiane abbia ingenerato una sovramortalità. 

 

 
The Siege Of Wounded Knee: Feb. 27th - May 8th 1973 - Wounded Knee, South Dakota.

 

Nel 2010, gli Stati Uniti, sulla scia del Canada, sono stati l’ultimo Paese al mondo a ratificare la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni [http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/DRIPS_it.pdf], adottata il 13 settembre 2007. Una delle rare concessioni,  fatte da un Paese che mette, sovente, la Storia all’ultimo posto delle sue preoccupazioni, se non per offrirne una versione edulcorata. Ma, in questo caso, è impossibile idealizzare la realtà sulla quale si è costruita l’America. Una realtà, che tocca i 9,7 milioni di Nativi Americani, che vivono, attualmente, sul territorio degli Stati Uniti e che costituisce uno dei casi più emblematici di violazione dei diritti umani.

Il 90% delle tribù dei Nativi Americani è scomparso in seguito all’arrivo degli europei nell’America del Nord,  la maggioranza a causa delle malattie, la restante a causa delle armi.

 

A noi Ribelli che abbiamo il coraggio delle scelte “sbagliate”, in nome della coerenza, e siamo considerati Folli, Sognatori, Piantagrane, in un mondo di corrotti, perché incapaci di piegarci e rinunciare a noi stessi pur di essere parte di un tutto che ci vorrebbe diversi, omologati a una logica che baratta l’umanità e la dignità con uno sprazzo di illusoria notorietà.

 

Agli Altri dico:

Arrendetevi, siamo Ribelli, Folli, Sognatori, Piantagrane e vediamo le cose in modo diverso!

“A volte sono le persone che nessuno immagina possano fare certe cose, quelle che fanno cose che nessuno può immaginare.,

è una frase di grande impatto e di incontestata veridicità ripetuta più volte – e non a caso! – nel film di Morten Tyldum, The imitation game, l’adattamento cinematografico della biografia di Andrew Hodges: Alan Turing[8].

Il mondo è in debito con Alan Turing, il geniale matematico inglese che, durante la Seconda Guerra Mondiale, decifrò Enigma[9], salvando, così, milioni di vite.

Proviamo a immaginare quanti conflitti sono attualmente nel Mondo…

Proviamo a capire le cause che li hanno generati…

I conflitti in corso nel mondo sono ben 56 e l’invasione russa dell’Ucraina e quella israeliana di Gaza sono solo i più noti di un lungo elenco.

Le guerre, si dice, ci sono sempre state!    

Ci sono state sempre anche le rivolte, le ribellioni, le rivoluzioni, le guerre popolari condotte volontariamente contro l’oppressione o per modificare l’ordine sociale, ma, nella maggior parte dei casi, le guerre sono volute e guidate dai potenti e vanno a vantaggio dei potenti stessi, i quali mostrano, spesso, molta più empatia verso i nemici del proprio rango che verso i propri soldati. Un caso emblematico è la Prima Guerra Mondiale, condotta, in gran parte, da casate reali imparentate tra loro e in cui la decimazione inflitta ai Ssoldati che rifiutano la morte, quasi certa in battaglia, è la norma in ogni esercito.

Nel corso del secolo scorso, si è invertita la percentuale dei Morti Civili e Militari: dal 90% dei Militari, nella Prima Guerra Mondiale, al 90% dei Civili delle Guerre Jugoslave, negli Anni Novanta.

 

 

“Onorare tutti i Sopravvissuti che, nonostante le sofferenze fisiche e i ricordi dolorosi, hanno scelto di utilizzare la loro costosa esperienza per coltivare la speranza e l’impegno per la Pace.”,

con questa motivazione è stato assegnato, lo scorso 11 ottobre, il Premio Nobel per la Pace all’organizzazione giapponese Nihon Hidankyo, fondata nel 1956. Un meritato riconoscimento agli sforzi dei Sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki, gli  Hibakusha, per raggiungere il disarmo nucleare globale. Tre ideogrammi – subire, esplosione, persona – identificano “coloro che sono stati colpiti dal bombardamento atomico” statunitense.

“Gli straordinari sforzi di Nihon Hidankyo e di altri rappresentanti degli Hibakusha hanno contribuito enormemente all’istituzione del tabù nucleare. È quindi allarmante che oggi questo tabù contro l’uso delle armi nucleari sia sotto pressione. Le Potenze nucleari stanno modernizzando e potenziando i loro arsenali; sembra che nuovi Paesi si stiano preparando a dotarsi di armi nucleari e si minaccia l’uso di armi nucleari nelle guerre in corso. In questo momento della Storia Umana, vale la pena ricordare cosa sono le armi nucleari: le armi più distruttive che il mondo abbia mai visto.”,

ammonisce il Comitato norvegese del Nobel.

Non sono purtroppo le uniche a seminare il terrore. Nella corsa al riarmo c’è oltre a quella del nucleare la minaccia delle armi autonome, dei robot che, guidati a distanza, uccidono persone e distruggono città mentre compiono interventi di chirurgia bellica. L’acronimo che in inglese le definisce è LAWS, Lethal Autonomus Weapons System [Sistema di armi  letali autonome],  fa parte di una “dottrina militare” che oggi è, già, applicata sul campo, come documentano le guerre in corso nell’Est europeo e nel Medio Oriente. All’ONU la questione è all’ordine del giorno, anche se la diversità di posizione dei Paesi Membri rende difficile il percorso verso un trattato giuridicamente vincolante contro le armi autonome.

A quasi 80 anni dall’attacco atomico degli Stati Uniti sul Giappone, che incenerì Hiroshima e Nagasaki, lo spettro di un conflitto globale con l’impiego di armi nucleari è tornato ad aleggiare come non accadeva dalla Guerra Fredda.

All’Assemblea Generale dell’ONU, che prenderà in esame la risoluzione sulle armi autonome per giungere a un trattato vincolante entro il 2026, arriverà la voce degli Hibakusha di Hiroshima e Nagasaki?

Risuonerà nell’Assemblea Generale dell’ONU il grido “MAI PIU’ LA GUERRA” di chi non confonde la vittoria con la Pace?   

Si potrà porre fine all’indescrivibile e all’impensabile?

Il nostro è un Pianeta in guerra, con un livello medio della Pace sceso, per la dodicesima volta consecutiva nel corso degli ultimi 16 anni, dello 0,56%, rilevandosi sempre maggiore il rischio di conflitti dalle più vaste dimensioni.

Tra i 163 Paesi analizzati dall’Institute for Economics and Peace, nella XVIIesima edizione del Global Peace Index [IEP], se 65 mostrano una situazione in miglioramento, 97 sono quelli che registrano un peggioramento della loro condizione di Pace, con l’Islanda, stabilmente considerata dal 2008 il Paese più pacifico del mondo, seguita da Austria, Nuova Zelanda e Singapore, mentre lo Yemen, sceso di 24 posizioni, si trova all’ultimo gradino ed è valutato, insieme al Sudan, all’Afghanistan e all’Ucraina, tra i territori con il più basso indice di Pace. Negli ultimi 16 anni, risulta ampliarsi anche il divario tra i Paesi più o meno pacifici. All’Europa, considerata la regione più pacifica, ospitando 8 dei 10 Paesi più pacifici del mondo, si contrappongono Medio Oriente e Nord Africa, ritenute le zone meno pacifiche del nostro Pianeta. L’Italia risulta occupare il 33° posto, davanti all’Inghilterra, alla Svezia e alla Grecia. Come riportato nel Global Peace Index, i conflitti appaiono sempre più internazionalizzati e ben 92 sono i Paesi impegnati in combattimenti oltre i propri confini, circostanza questa, finora, mai, registrata dall’avvio delle rilevazioni, ovvero dal 2008. Di fatto, siamo, oramai, abituati ad ascoltare, giorno dopo giorno, le preoccupanti notizie focalizzate sull’Ucraina e sul Medio Oriente, venendosi a trascurare la complessa situazione socio-politica-militare che interessa l’intero Pianeta. Basti considerare che i conflitti attualmente attivi nelle diverse aree geografiche sono ben 56 e la percezione, con le eccezioni di cui sopra, è di un qualcosa a noi estraneo e lontano, che non può più di tanto incidere sulla nostra sfera di interessi e di rapporti sociali, economici, finanche politici.

Da questi numeri emerge un quadro devastante di un Pianeta sempre più minato da conflitti e da una corsa agli armamenti, che non risparmia quasi più alcun Paese.

Ma ciò che maggiormente preoccupa è come questo quadro sia destinato a peggiorare perché, nonostante gli sforzi diplomatici e gli inviti alla Pace, ancora non si vede una fine né del conflitto russo-ucraino, diventato una vera e propria guerra di posizioni, né di quello in Medio Oriente, che, peraltro, si è allargato, coinvolgendo sempre più Paesi [Iran, Libano e Siria] dell’area.

Secondo una revisione dell’UNICEF degli ultimi dati disponibili e delle tendenze globali prevalenti, l’impatto dei conflitti armati sui Bambini di tutto il mondo ha raggiunto livelli devastanti e probabilmente record nel 2024.

Oltre 473 milioni di Bambini – ovvero più di 1 su 6 a livello globale – vivono in aree colpite da conflitto, mentre nel mondo si verifica il più alto numero di conflitti dalla Seconda Guerra Mondiale. La percentuale dei Bambini nel mondo che vivono in zone di conflitto è raddoppiata da circa il 10%, nel 1990, a quasi il 19%, oggi. I Bambini rappresentano il 30% della popolazione globale e, in media, rappresentano circa il 40% delle popolazioni rifugiate e il 49% degli sfollati interni. Nei Paesi colpiti da conflitti, in media più di un terzo della popolazione è povero [34,8%], rispetto a poco più del 10% nei Paesi non colpiti da conflitti.

“Secondo quasi tutti i parametri, il 2024 è stato uno dei peggiori anni della storia dell’UNICEF per i Bambini in conflitto, sia in termini di numero di Bambini colpiti che di impatto sulle loro vite,

dichiara, il 28 dicembre scorso, la direttrice generale dell’UNICEF, Catherine Mary Russell.

“Un Bambino che cresce in una zona di conflitto ha molte più probabilità di non andare a scuola, di essere malnutrito o di essere costretto a lasciare la propria casa, troppo spesso ripetutamente, rispetto a un Bambino che vive in luoghi di Pace. Questa non deve essere la nuova normalità. Non possiamo permettere che una generazione di Bambini diventi un danno collaterale alle guerre incontrollate del mondo.”

E aggiunge: 

“I Bambini nelle zone di guerra ogni giorno lottano per sopravvivere, deprivandoli dell’infanzia. Le loro scuole vengono bombardate, le case distrutte le famiglie distrutte. Perdono non solo la sicurezza e l’accesso ai beni di prima necessità, ma anche la possibilità di giocare, di imparare e di essere semplicemente Bambini. Il mondo sta deludendo questi Bambini. In vista del 2025, dobbiamo fare di più per invertire la tendenza e salvare e migliorare la vita dei Bambini.”

La situazione per le donne e le ragazze è particolarmente preoccupante, con notizie diffuse di stupro e violenza sessuale in contesti di conflitto. A Haiti, c’è stato un incremento del 1.000% degli episodi di violenza sessuale nei confronti dei Bambini. In situazioni di conflitto armato, anche i Bambini con disabilità tendono a essere esposti in modo sproporzionato alla violenza e alle violazioni dei diritti.

L’istruzione è stata gravemente interrotta nelle zone di conflitto. Più di 52 milioni di Bambini nei Paesi colpiti da conflitto si stima non frequentino le scuole. I Bambini nella Striscia di Gaza e una significativa parte dei Bambini in Sudan hanno perso più di un anno di scuola, mentre in Paesi come l’Ucraina, la Repubblica Democratica del Congo e la Siria le scuole sono state danneggiate, distrutte o utilizzate per altri scopi, lasciando milioni di Bambini senza accesso all’apprendimento. La distruzione di infrastrutture essenziali e l’insicurezza nei pressi delle scuole hanno aggravato una situazione già difficile per l’istruzione dei Bambini in queste regioni.

Anche la malnutrizione tra i Bambini nelle zone di conflitto è aumentata a livelli allarmanti, poiché i conflitti e la violenza armata continuano a essere i principali fattori di fame in numerosi punti, interrompendo i sistemi alimentari, sfollando le popolazioni e ostacolando l’accesso umanitario. Anche le conseguenze sulla salute mentale dei Bambini sono profonde. L’esposizione a violenza, distruzione e perdita di persone care si può manifestare nei Bambini attraverso reazioni come, tra le altre, depressione, incubi, difficoltà a dormire, comportamenti aggressivi o di isolamento, tristezza e paura.

L’UNICEF chiede a tutte le parti in conflitto e a coloro che possono esercitare un’influenza di attuare azioni decisive per porre fine alla sofferenza dei Bambini e garantire che i loro diritti siano rispettati e rispettare gli obblighi secondo il diritto internazionale umanitario.

 

 

 


 

 Disegno di Legge d’iniziativa del senatore Cutrufo

Comunicato alla Presidenza il 2 maggio 2006
Norme contro il traffico e la vendita degli organi prelevati ai Bambini
[https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00208882.pdf].

 

 
Franca Porciani: “Vite a perdere”- il lato oscuro dei trapianti d’organo [traffico e mercato nero].

 

Benedetta Verrini, Traffico di bimbi, la Moldavia blocca le adozioni, La decisione, presa ieri dal primo ministro Vasile Tarlev, giunge dopo episodi poco chiari di adozioni internazionali che potrebbero celare un traffico d’organi, Vita, 31 maggio 2001 [https://www.vita.it/traffico-di-bimbi-la-moldavia-blocca-le-adozioni/].

 

Interrogazione parlamentare - E-2644/2007

Parlamento Europeo

Traffico di cellule staminali e organi prelevati da neonati ucraini uccisi

10 maggio 2007

Interrogazione Scritta E-2644/07

di Hiltrud Breyer (Verts/ALE)

alla Commissione

[https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/E-6-2007-2644_IT.html]

 

Interrogazione parlamentare - E-2644/2007(ASW)

Parlamento Europeo

Answer given by Ms Ferrero-Waldner on behalf of the Commission

[https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/E-6-2007-2644-ASW_IT.html].

 

Proposta di Legge d’iniziativa del deputato Volontè

Norme contro il traffico e la vendita degli organi prelevati dai Bambini

Presentata il 29 aprile 2008

[https://documenti.camera.it/_dati/leg16/lavori/schedela/apriTelecomando_wai.asp?codice=16PDL0004230].

 

Antonio Guidi, Antonio Guidi: “Traffico di Bambini in case-famiglia spesso legato a vendita organi e pedofilia” , Roma.it, 18 febbraio 2021 [https://www.romait.it/antonio-guidi-traffico-di-bambini-in-case-famiglia-spesso-legato-a-vendita-organi-e-pedofilia.html].

 


Maroni lancia allarme su traffico d’organi, Il ministro dell’interno: “Evidente coinvolgimento di minori” [http://www.televideo.rai.it/televideo/pub/articolo.jsp?id=1381&p=&idmenumain=0].

 



La guerra in Ucraina favorisce il traffico di organi (Andrea Lucidi), Faro di Roma, 17 luglio 2024 [https://www.farodiroma.it/la-guerra-in-ucraina-favorisce-il-traffico-di-organi-andrea-lucidi/].

 

In questo momento storico di forte instabilità nel mondo, conseguenza di scelte controverse operate dalle classi dirigenti, ho voluto comprendere le fratture che, ancora oggi, impediscono la convivenza pacifica tra i popoli. Evitando di lasciarmi coinvolgere da sterili polemiche, ho preferito soffermarmi sulle “possibilità mancate” attraverso il riferimento di chi, come Sigmund Freud, Albert Einstein e Hannah Arendt, si fece promotore della convivenza paritaria e pacifica tra i popoli, destinato a rimanere una voce inascoltata.  Le esperienze dolorose che ci hanno riguardato, anche direttamente, in passato, ci insegnano che le guerre non portano che orrore, distruzione e morte anche a chi le vince.

Oltre alle motivazioni sentimentali, occorreva recuperare una pagina di Memoria ignorata dalla storiografia ufficiale. Era opportuno dare voce a coloro che normalmente non lasciano tracce nella Storia.

Chi vince una guerra acquista, di fatto, anche il diritto a non essere giudicato per come si è comportato durante il conflitto: è la legge del più forte.

La Costituzione italiana ripudia la guerra.

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” [https://www.senato.it/documenti/repository/istituzione/costituzione.pdf]

Le Forze Armate hanno l’impegno di garantire la Pace e di portare un valido soccorso ovunque si trovino popolazioni in difficoltà. Non, dunque, strumento di morte, ma di Vita, laddove questa cerchi di riaffermare la propria priorità.

L’Italia ha avuto molti Morti, Feriti, Mutilati, nel corso delle tre Guerre d’Indipendenza, delle due Guerre Mondiali e, in tempi più recenti, nell’assolvimento del proprio dovere e, perfino, nelle Missioni di Pace.

Troppi!

Le loro vite sono state, brutalmente, sconvolte dalla follia di pochi.

La Pace riacquistata al prezzo delle loro Vite, MAI PIU’, venga violata da altre guerre.

Il modo più giusto per ricordarli è convertire lo sdegno di oggi nell’impegno di domani affinché tacciano le armi e si levi la voce della ragionevolezza a risolvere le contese tra i popoli. 

 


 
 
 Piero Calamandrei e il discorso sulla Costituzione agli studenti di Milano -26 gennaio 1955 [https://www.youtube.com/watch?v=wFeL69hkMdo].

A che serve oggi l’Alleanza atlantica [NATO], nata nel 1949 – mentre il Patto di Varsavia nascerà nel 1955, solo sei anni dopo?

È strumento imperialistico o umanitario e di pace?

Nella seduta della Camera dei Deputati del 18 marzo 1949, parlando a nome dei socialisti indipendenti, Piero Calamandrei dice “no”alla Nato: perché costringe l’Italia “a una scelta”fra USA e URSS, ed espone al maggior rischio l’Italia, che non ha alcuna ragione a contrapporsi all’Unione Sovietica, e alla quale la libertà è venuta non solo dalla lotta eroica della Gran Bretagna contro il nazismo e dall’intervento in guerra degli Stati Uniti, ma anche dall’Unione sovietica, dall’“eroico popolo russo”, che “seppe compiere il miracolo di Stalingrado”. Calamandrei ha motivato il suo “no”, testualmente, su tre ordini di motivi. “A nome dei socialisti indipendenti, dei quali sono rimasto l’unico rappresentante nel gruppo di Unità socialista, ritengo che sulla soglia di una decisione che ci turba e quasi ci schiaccia col suo peso, e che noi dovremmo prendere qui ad occhi chiusi senza poter esaminare il testo di un patto, che ormai tutti i cittadini italiani fuori di qui, ma non i deputati in quest’aula, hanno il diritto di discutere, non sia abbastanza chiara, anche se motivata, l’astensione: e sia doveroso un voto esplicito e netto.

Dichiaro quindi serenamente che il mio voto sarà contrario.

Dopo che un numero così grande di colleghi, mossi tutti dalla stessa ispirazione politica, hanno esposto i motivi del loro voto contrario al patto atlantico, permettete a me, per evitare equivoci e confusioni, di esprimere i motivi in parte diversi del voto egualmente contrario che sto per dare; il quale soprattutto si distingue dal loro per questa fondamentale diversità: che mentre essi muovono da una concezione politica che logicamente li porta, nell’urto tra i due blocchi contrapposti, ad opporsi a questa scelta che il patto propone perché essi hanno già fatto potenzialmente la scelta contraria, io per mio conto sono contrario in questo momento a qualsiasi scelta, e non sono favorevole al patto atlantico proprio perché esso forza l’Italia a questa scelta preventiva, che io ritengo pericolosa e non necessaria in questo momento.

Né d’altra parte potrei sentirmi solidale con alcune delle dichiarazioni udite finora, le quali, mentre hanno espresso la loro solidarietà col popolo russo, hanno in termini talvolta assai aspri accentuato la loro ostilità contro l’America. Non posso pensare che gli italiani della Resistenza abbiano già dimenticato che, se la libertà ci fu restituita perché l’eroico popolo russo seppe compiere il miracolo di Stalingrado, essa ci fu restituita anche perché nell’agosto del 1940 il popolo inglese resisté eroicamente all’uragano di fuoco che infuriava sul cielo di Londra, e perché l’America portò nella mischia lo schiacciante peso delle sue armi formidabili. Né possiamo scordare che per molti di noi il ritorno della libertà fu annunciato dall’apparire lungamente invocato, nel polverone di una strada, del primo brillio di un carro armato americano.

E tuttavia io sono contrario a questo patto. E i motivi, schematicamente, sono di tre ordini.

Primo: sotto l’aspetto della politica europea, noi socialisti federalisti pensiamo che un patto militare, anche se difensivo, che trasforma gli stati europei in satelliti di uno dei blocchi che si fronteggiano, e dà al suolo europeo la funzione di un trinceramento di prima linea di eserciti che stanno in riserva al di là dell’Atlantico, allontani la nascita di quella Federazione occidentale europea, politicamente e militarmente unita e indipendente, che noi auspichiamo, non alleata né ostile, ma mediatrice tra i due blocchi opposti, e capace di conciliare in una sua sintesi di democrazia socialista due esigenze per noi ugualmente preziose e irrinunciabili, quella della libertà democratica e parlamentare, e quella della giustizia sociale.

Secondo: sotto l’aspetto della politica interna italiana, noi temiamo che l’adesione data dall’Italia a questo patto, anche se esso non minaccerà la pace internazionale, costituirà però un ostacolo immediato alla pacificazione interna e al funzionamento normale della nostra democrazia; perché la contrapposizione militare di due schieramenti che difendono due contrapposte concezioni sociali, darà sempre maggiore asprezza alla lotta interna dei corrispondenti partiti, e sempre più ai dissensi politici darà minacciosi aspetti di guerra civile. E questo potrà rimettere in discussione le libertà costituzionali che sono scritte per il tempo di pace e non per la vigilia di guerra, per gli avversari politici e non per supposte quinte colonne; e darà sempre più ai provvedimenti di polizia il carattere di repressioni di emergenza, che si vorranno giustificare colle rigorose esigenze della preparazione militare. Auguriamoci che mentre la costituzione repubblicana attende ancora il suo compimento, la firma di questo patto atlantico non sia il primo colpo di piccone dato per smantellarla.

Ma soprattutto ciò che ci angustia è una terza ragione: cioè le conseguenze di carattere militare. Se per tutti gli altri Stati europei la firma del patto sarà accompagnata da rischi ma anche da vantaggi, c’è da temere che solo per l’Italia essa possa significare pericoli senza corrispettivo. Diventare alleato militare di uno dei due blocchi in conflitto significa assumere fin da ora la posizione di nemico potenziale dell’altro blocco: firmando quel patto colle potenze occidentali noi ci saremo condannati a non poter essere più amici degli Stati orientali, dei quali, per l’ipotesi di guerra, saremo fin d’ora predestinati nemici. Anche se il patto è difensivo, bisogna vedere se sembrerà difensivo a coloro da cui ci apprestiamo a difenderci: e quali saranno le loro reazioni contro i firmatari del patto, e soprattutto contro l’Italia che di tutti i firmatari è il più debole ed il più esposto. All’Italia questo patto non solo non dà la garanzia di allontanare dal nostro territorio la catastrofe della guerra, ma dà anzi ad essa la certezza della immediata invasione anche se il conflitto sarà provocato da urti extraeuropei; se la nostra posizione geografica è tale che anche ad un’Italia neutrale lascerebbe assai poche probabilità di rimaner fuori dal flagello, son proprio queste pochissime superstiti probabilità di salvezza, poniamo anche una su mille, che saranno perdute, quando l’Italia si sarà schierata tra i nemici dei possibili invasori e avrà assunto la tragica missione di un avamposto sperduto destinato a riceverne il primo urto. Ed anche se l’ammissione al patto atlantico può dar l’illusione di aver così conseguito una prima revisione del trattato di pace da alcune delle potenze firmatarie, troppo a caro prezzo si pagherà questo vantaggio quando contemporaneamente il nostro riarmo, sospettato anche se non vero, ci porrà, nei confronti delle altre potenze, nella pericolosa condizione di ritenuti trasgressori degli obblighi da noi assunti con quel trattato.

Ma più che argomenti logici e politici, qui sono in giuoco motivi morali e religiosi. Questa è una scelta che impegna la nostra anima. Il problema di coscienza che ciascuno di noi si pone, è lo stesso: mentre su di noi si addensa l’ombra di un’altra catastrofe, che posso fare io, quale contributo posso portare io, piccolo uomo, atomo effimero, per allontanare dal mio paese questo flagello? Son certo, voglio esser certo, che tutti gli uomini che seggono in quest’aula, e primi quelli che seggono al banco del governo, si pongono il problema in questi stessi termini: si tratta di fare il bene dell’Italia e di salvare la pace.

Tutti su questo siamo d’accordo. Ma io temo che quando si dice che con questo patto militare la guerra si allontana, si ricada in quel tremendo equivoco del vecchio motto illusorio “si vis pacem para bellum”, che gli uomini ciechi continuano a ripetere, senza accorgersi da cento tragiche esperienze che per voler la pace non c’è altra via che quella di prepararla coi trattati di commercio e di lavoro, che stringono tra gli uomini legami di solidarietà; e che chi prepara la guerra, anche a fini che crede difensivi, non fa altro, senza accorgersene, che volere la guerra.

Mi auguro di cuore che le previsioni che spingono il governo a questo patto siano esatte; e che sbagliate siano le nostre. Ma queste son decisioni, in verità, che non si possono prendere con criteri di politica elettorale e di cui si debba render conto alle direzioni dei partiti o dei gruppi. Son decisioni solenni e gravi, delle quali ognuno di noi risponde individualmente, per proprio conto, non solo di fronte al popolo, ma di fronte alla memoria dei suoi morti, di fronte ai verdetti dell’avvenire e soprattutto di fronte a quella voce segreta che è in fondo alla nostra coscienza, e che i filosofi chiamano la storia e i credenti chiamano Dio.

Io so che qualcuno della maggioranza, prima di decidersi di votare, si è raccolto lungamente in preghiera. Lo ricordo con rispetto e con commozione: se egli voterà a favore, vuol dire che in tal senso la risposta della sua intima voce avrà messo in pace la sua coscienza. Ma per pregare non ci si raccoglie soltanto nelle chiese: anche noi, dopo essere stati lungamente raccolti con noi stessi, abbiamo udito in fondo alla nostra coscienza una voce che ci mette tranquilli.

E la voce ci ha detto: – No”.

 

 

Sandro Pertini: “Contro il Patto Atlantico” [7 marzo 1949]

L’11 marzo 1949, il Consiglio dei Ministri approvava l’ingresso dell’Italia nella NATO. Il precedente 7 marzo, Sandro Pertini aveva pronunciato al Senato un discorso contro il Patto Atlantico. L’Italia avrebbe poi sottoscritto il Trattato del Patto Atlantico il successivo 4 aprile, entrando ufficialmente a farne parte dal 4 maggio.

Quella seduta del 7 marzo 1949, segnò di fatto la sudditanza dell’Italia alla NATO. Oggi, per la NATO, l’Italia è la più bella portaerei stesa sul Mediterraneo e in alcune Isole tra le più belle di Mare Nostrum, a guardia di un mondo in ebollizione.     

Onorevoli colleghi, dirò brevemente le ragioni per cui voteremo contro il Patto Atlantico: cercherò di riassumere in sintesi quello che è già stato detto in questa discussione ampia, profonda e serena. Noi siamo contro il Patto Atlantico, prima di tutto perché questo Patto è uno strumento di guerra. Abbiamo ascoltato con attenzione la replica del Presidente del Consiglio e speravamo che egli ci dicesse qualche cosa di nuovo, ma tre quarti del suo discorso li ha dedicati esclusivamente ad esaminare la eventualità di una nuova guerra. Quindi maggiormente adesso, dopo la sua replica, onorevole Presidente del Consiglio, noi siamo persuasi che il Patto Atlantico è uno strumento di guerra.

Basterebbe leggere i giornali. Proprio su quelli di stamane ci si comunica che mai come oggi in Inghilterra si è constatata, dopo il Patto Atlantico, una così diffusa psicosi di guerra. Esso è quindi uno strumento di guerra per noi, ed abbiamo il dovere, perciò, di votare contro.

Ha ragione l’onesto amico Rocco [Luigi Rocco, senatore del gruppo Unità Socialista] di dire che, se oggi il vecchio Turati fosse qui con noi, voterebbe contro il Patto Atlantico e farebbe sentire da questa Aula ancora il suo grido pieno di passione e di angoscia: “Guerra al regno della guerra, morte al regno della morte!“.

Ma il nostro voto è ispirato anche ad un’altra ragione. Questo Patto Atlantico in funzione antisovietica varrà a dividere maggiormente l’Europa, scaverà sempre più profondo il solco che già separa questo nostro tormentato continente. Non si illudano i federalisti – mi rivolgo naturalmente ai federalisti in buona fede – di poter costruire sulla Unione europea la Federazione degli Stati uniti d’Europa; essi costruiranno una Santa Alleanza in funzione antisovietica, un’associazione di nazioni, quindi, che porterà in sé le premesse di una nuova guerra e non le premesse di una pace sicura e duratura. Noi siamo contro questo Patto Atlantico dato che esso è in funzione antisovietica. Perché non dimentichiamo, infatti, come invece dimenticano i vostri padroni di oltre Oceano, quello che l’Unione Sovietica ha fatto durante l’ultima guerra. Essa è la Nazione che ha pagato il più alto prezzo di sangue: 17 milioni di morti ha avuto [Secondo le stime attuali, ben 27 milioni di sovietici avrebbero perso la vita nel corso della seconda guerra mondiale.

]. Senza il suo sforzo eroico le Potenze occidentali non sarebbero riuscite da sole a liberare l’Europa dalla dittatura nazifascista. Questo noi non dimentichiamo.

[Voce da destra: “E viceversa“.]

[Pertini risponde:] No, soprattutto per lo sforzo eroico dell’Unione Sovietica: lo stesso Churchill lo ha riconosciuto.

[Pertini riprende il discorso:] Siamo contro questo Patto Atlantico in funzione antisovietica, perché ormai ci siamo avveduti che la lotta di classe ha valicato i confini delle Nazioni per trasferirsi in modo violento ed evidente sul terreno internazionale. Vi sono da una parte le forze imperialistiche e plutocratiche, dall’altra le forze del lavoro. Allora, noi prendiamo la stessa posizione che presero nel secolo scorso i liberali. Quando la Santa Alleanza cercò di stroncare la rivoluzione francese, i liberali di tutti i Paesi insorsero in difesa della Francia, perché consideravano giustamente quella rivoluzione come la loro rivoluzione. E noi socialisti sentiamo che se domani, per dannata ipotesi – soltanto per dannata ipotesi, non illudetevi – dovesse crollare l’Unione Sovietica sotto la prepotenza della nuova Santa Alleanza, con l’Unione Sovietica crollerebbe il movimento operaio e crolleremmo noi socialisti.

Ma vi è un’altra ragione che ci induce a votare contro questo Patto Atlantico: è l’aspetto che questo Patto Atlantico ha in rapporto alla politica interna, come è già stato detto ampiamente dai colleghi di questa parte. La prima conseguenza che deriverà da questo Patto sarà una lotta più aspra – e lo sa, naturalmente, nel suo intimo l’onorevole Scelba – e più dura contro l’estrema sinistra del proletariato. Io lo so quello che voi volete dirmi: noi non ce l’abbiamo con voi socialisti; noi ce l’abbiamo soltanto col Partito Comunista. E l’eterna storia che abbiamo sentito dire, adolescenti, nel 1919, ’20 e ’21 e allora, in quell’epoca, il Partito comunista non esisteva. Si agitava, allora, lo spauracchio del pericolo rosso. E parecchi han creduto al pericolo rosso ed hanno assecondato il fascismo sul suo nascere: parecchi di voi, credendo a questo pericolo, aprirono la strada alla dittatura fascista; parecchi di voi si rallegrarono quando videro distrutto, per opera delle squadre d’azione fasciste, tutto ciò che la classe operaia aveva costruito pazientemente in 50 anni di lotta. Parecchi di voi si rallegrarono quando videro piegata sotto la dittatura fascista la classe operaia italiana e costoro non compresero che, quando in una Nazione crolla la classe operaia, o tosto o tardi, con la classe operaia, finisce per crollare la Nazione intera.

In proposito non vi devono essere esitazioni da parte di nessun socialista. Guai se qualcuno tra noi avesse in questo momento delle riserve mentali, guai se accettasse la discriminazione insidiosa quanto offensiva che ci offrono le forze della conservazione, quando affermano che il loro bersaglio sono i comunisti. Non dimenticate che le forze della reazione, con la stessa arma di cui si serviranno per colpire i comunisti, finirebbero poi per colpire noi socialisti e tutte le forze progressive del Paese!

D’altra parte – e mi avvio alla fine – oggi, in Italia, appare chiaro a tutti come le forze della reazione e della conservazione si vadano coalizzando contro le forze del lavoro. I termini della lotta di classe, che oggi appaiono in tutta la loro evidenza, erano stati offuscati in un primo tempo da quella collaborazione leale e sincera che noi abbiamo dato nei Comitati di liberazione nazionale e quando eravamo al Governo. Ormai questa lotta appare in modo evidente a tutti e ne abbiamo avuto l’esempio anche qui questa sera in quest’Aula. Abbiamo visto degli uomini, che noi, sin dalla nostra adolescenza, abbiamo ammirato per il loro ingegno, abdicare al loro pensiero politico, umiliare la loro mente, mutilare la propria coscienza, dare prova di una suprema incoerenza politica e ideologica, pur di stringersi a fianco delle forze clerico-conservatrici. Cattivo esempio della gioventù d’Italia voi avete dato oggi! Comunque noi dobbiamo assumere la nostra posizione. L’assumete voi con tanta decisione, perché non dovremmo fare altrettanto noi? Lo sappiamo, onorevole De Gasperi, che la nostra sarà una posizione dura e difficile; ma voi un po’ ci conoscete e sapete che noi, per il nostro temperamento, non siamo adatti per le situazioni di ordinaria amministrazione. Le posizioni pericolose ci seducono e le assumiamo con fermezza, come abbiamo fatto sotto il fascismo e contro i tedeschi. Pagheremo, se sarà necessario, ma sappiate che noi preferiremmo sempre cadere con la classe operaia piuttosto che trionfare con le forze clerico-conservatrici.

Mi consenta, onorevole Presidente, di dire ancora una parola in nome dei partigiani d’Italia – ne sono autorizzato quale uno dei Presidenti onorari dell’Anpi – una parola in nome di questi partigiani, onorevole De Gasperi, che hanno veramente riscattato l’onore d’Italia.

[Interviene Zoli [Adone Zoli, senatore della Democrazia Cristiana]: “Non solo i vostri!“.]

[Rumori ed interruzioni da sinistra.]

[Pertini riprende il discorso:] Non escludo nessuno: parlo per l’Anpi, onorevole Presidente del Consiglio, parlo di quei partigiani che si sono veramente battuti per l’indipendenza dell’Italia. Oggi noi abbiamo sentito gridare “Viva l’Italia” quando voi avete posto il problema dell’indipendenza della Patria. Ma non so quanti di coloro che oggi hanno alzato questo grido, sarebbero pronti domani veramente ad impugnare le armi per difendere la Patria. Molti di costoro non le hanno sapute impugnare contro i nazisti. Le hanno impugnate invece contadini e operai, i quali si sono fatti ammazzare per la indipendenza della Patria!

Onorevole Presidente del Consiglio, domenica scorsa a Venezia, in piazza San Marco, sono convenuti migliaia di partigiani da tutta l’Italia – donne e uomini – ed hanno manifestata precisa la loro volontà contro la guerra, contro il Patto Atlantico e per la pace. Questi partigiani hanno manifestato la loro decisione di mettersi all’avanguardia della lotta per la pace, che è già iniziata in Italia; essi sono decisi a costituire con le donne, con tutti i lavoratori una barriera umana onde la guerra non passi. Questi partigiani anche un’altra volontà hanno manifestato, ed è questa: saranno pronti con la stessa tenacia, con la stessa passione con cui si sono battuti contro i nazisti, a battersi contro le forze imperialistiche straniere qualora domani queste tentassero di trasformare l’Italia in una base per le loro azioni criminali di guerra.

Per tutte queste ragioni noi voteremo contro il Patto Atlantico. Sentiamo che votando contro questo Patto, votiamo contro la guerra e per la pace, serbando fede, in questo modo, al mandato che abbiamo ricevuto dai nostri elettori. Votando contro il Patto sentiamo di compiere onestamente il nostro dovere di rappresentanti del popolo, di socialisti e di italiani!”

 

 

Giorgio Almirante, Seduta del 14 luglio 1949

Presidente. L’onorevole Almirante ha presentato il seguente ordine del giorno, sollevando anch’egli una questione sospensiva:

La Camera, conscia delle gravi responsabilità che la ratifica del Patto Atlantico comporta; ansiosa di interpretare e di tutelare, al di là di ogni interesse di parte, le vitali necessità del Paese; ritiene che nessun motivo di particolare urgenza giustifichi la ratifica italiana del Patto, prima che il Patto stesso venga ratificato dagli Stati Uniti d’America; e che d’altra parte possa essere fortemente pregiudizievole al nostro Paese il ratificare un Patto sul quale non si sono ancora in via definitiva e in modo formale pronunciati colora che ne furono i promotori e che ne sono gli unici effettivi garanti; e pertanto delibera: di sospendere la discussione intorno alla ratifica del Patto, per iniziarla solamente quando i maggiori contraenti del Patto stesso avranno assunto tutte la loro responsabilità.

Ha facoltà di svolgerlo.

Almirante: “Questa nostra iniziativa è connessa con altra precedente che l’onorevole Ambrosini lo sa fu presa in sede di Commissione degli esteri dall’onorevole Russo Perez a nome del Movimento Sociale Italiano. È con qualche impaccio personale che prendo la parola su questa precisa proposta, dopo che analoga proposta è stata avanzata dal settore opposto. Dovrei avanzare le stesse preoccupazioni, che avanzò ieri, respingendole subito, l’onorevole Togliatti, il quale disse che non si preoccupava se in qualche occasione i suoi voti coincidevano con i nostri, perché i nostri sono pochi voti. Egli è il capo di un partito di massa, ragiona come capo di un partito di massa, fa considerazioni di quantità; io non sono il capo di un partito di massa, voglio considerarmi il capo di un partito d’avanguardia e faccio considerazioni di qualità. Rispondo perciò all’onorevole Togliatti che i suoi molti voti non ci preoccupano, perché conosciamo la loro qualità. ”

Matteucci: “La sua è buona qualità!”

Almirante: “E si può anche rilevare che, trovandomi in questa particolare situazione politica, che potrebbe giustificare il solito slogan, di cui la maggioranza fa uso largo e facile: «collusione fra comunisti e Movimento sociale», mi converrebbe forse rinunziare a prendere la parola in simile circostanza. In verità, onorevoli colleghi, nel prendere la parola, più che impaccio o imbarazzo politico, sento in me una specie di ripugnanza morale, perché ancora una volta ci è toccato sentire in questa Assemblea i temi nazionali [le colonie, Trieste] usurpati e profanati da coloro che siedono in quel settore. Vi prego, onorevoli colleghi della maggioranza, di accettare questa mia ripugnanza e questa angoscia come qualcosa che travaglia noi tutti. Se vogliamo strappare a costoro la falsa etichetta tricolore, bisogna avere il coraggio di sventolare il tricolore dentro e fuori di qui. ”

Pajetta Gian Carlo: “Con la croce uncinata. ”

Almirante: “Coloro che ragionano e sentono in buona fede non possono confondere noi con loro. ”

Pajetta Gian Carlo: “Trieste non ha fatto parte nemmeno della Repubblica di Salò quando il vostro gruppo l’ ha vivamente regalata ai tedeschi. Risponda su questo! ”

Almirante: “A questo linguaggio io non mi adeguo ed evito a me stesso la vergogna di pronunziare apprezzamenti su quello che è stato detto. Replico soltanto che i triestini hanno già risposto in modo adeguato al Partito comunista. E vengo all’argomento. Il mio ordine del giorno è molto chiaro. Noi chiediamo che la discussione sia rinviata, perché il Patto Atlantico non è stato ancora ratificato dagli Stati Uniti d’America. Sarò costretto a servirmi di argomentazioni in verità banali; non credo che sia colpa mia, ma della situazione che si è determinata. Nella stessa relazione di maggioranza si fa una constatazione ovvia: la formazione del Patto del Nord Atlantico si deve principalmente agli Stati Uniti d’America; essi ne sono stati i maggiori artefici e si sono assunti gli oneri economici e militari più gravi connessi con la sua attuazione. Ed allora due semplicissime constatazioni: 1°] gli Stati Uniti non sono dei contraenti qualsiasi del Patto Atlantico; essi ne sono gli autori e gli unici effettivi garanti. 2°] Il Patto Atlantico, comunque lo si giudichi, da amici o da avversari, in tanto ha un valore effettivo e in tanto serve a qualcosa, in quanto abbiano una funzione effettiva, esistano e siano approvati i provvedimenti di carattere militare ed economico che soltanto gli Stati Uniti d’America possono adottare. Qual è la situazione? L’abbiamo seguita su tutti i giornali governativi o comunque largamente favorevoli alla ratifica del Patto Atlantico. Che cosa hanno detto questi giornali? Che si è determinata nel Senato americano ed in genere nella opinione pubblica statunitense una certa perplessità che prima della conferenza di Parigi non esisteva intorno al Patto Atlantico; che comunque questa perplessità non pare tale da mettere in grave pericolo la ratifica, ma che in ogni modo in grave pericolo è l’approvazione dei piani militari ed economici connessi alla ratifica del Patto Atlantico. Inoltre la stampa ci ha detto che vi è la possibilità da parte del Senato americano, dell’approvazione di qualche clausola modificativa del patto, soprattutto per quanto concerne i poteri del presidente degli Stati Uniti e l’automatismo del Patto medesimo. Desidero leggervi qualche stralcio di giornali favorevoli alla ratifica del Patto, non per dimostrarvi cose che già sapete, ma per ricordarvi che queste mie dichiarazioni sono assolutamente obiettive e facilmente documentabili. Si legge su IlTempo del 6 luglio: «Dal modo come si svolgerà la discussione sul Patto Atlantico, si deciderà in America se insistere ancora per far passare in questa sessione anche il programma del riarmo europeo». Quindi si mette in gravissimo dubbio la possibilità che il piano di riarmo passi. Ancora nello stesso giornale: «L’ostacolo principale è sempre quello che, approvando il Patto, si impegna automaticamente la nazione americana a pagare le spese per il riarmo delle nazioni europee». Ed ancora: «I senatori, ormai convinti nella grande maggioranza della necessità di ratificare il Patto, esitano ancora se approvarlo senza introdurvi qualche clausola che limiti i poteri del presidente e riconfermi il diritto esclusivo del Congresso di dichiarare la guerra. Un altro ostacolo è poi rappresentato dall’opinione che il Patto sia ormai inutile dal momento che la Russia è stata fermata in Germania». Mi permetto di osservare che questa opinione è alquanto illusoria, ma l’apprezzamento non è mio. Ed ancora: «È stato un grave errore non aver ratificato il Patto prima della conferenza di Parigi, errore da parte del Dipartimento di Stato americano». Un’altra citazione, dello stesso giornale: «Si parla del pericolo che la ratifica del Patto possa venir compromessa. Tale pericolo era seriamente aumentato negli ultimi giorni in conseguenza dell’ostilità della opposizione repubblicana e di una parte dei senatori democratici degli Stati del sud contro la politica interna ed estera del presidente». Posso citarvi anche un giornale americano, il New York Times, del 9 luglio, che parla anch’esso di una forte opposizione repubblicana alla ratifica del patto e del pericolo che questa forte opposizione determini qualche squilibrio nella votazione del Senato. Comunque è lungi da me l’idea o l’intenzione di voler forzare questa interpretazione, di voler far credere a qualcuno che la ratifica del Patto da parte del Senato americano possa correre serio pericolo. Vi prego però di riflettere ancora una volta su quanto dicevo prima. La ratifica del patto, se avvenisse indipendentemente dall’approvazione del piano economico e militare connesso col Patto stesso, avrebbe un determinato valore; se invece avvenisse in connessione con il piano economico-militare avrebbe un altro valore, e questa differenza di valore esiste, tanto per coloro che al Patto sono favorevoli quanto per coloro che al Patto sono contrari. Anzi debbo dire di più: queste perplessità debbono proprio sentirle coloro che al Patto sono favorevoli, proprio coloro che ritengono necessario che il Patto funzioni in tutta la sua portata, che non è una portata cartacea o una portata politica soltanto, ma è chiaramente e ostensibilmente una portata economico-militare. In sostanza ci troviamo di fronte ad un atto politico di enorme importanza senza poterne valutare obiettivamente e coscienziosamente tutti gli elementi. Mi si farà una facile obiezione, e cioè che la discussione del patto al Senato americano è già in corso e che si attende la ratifica domani o dopodomani e quindi durante la nostra discussione si potranno avere notizie precise in merito alla ratifica o alla non ratifica. Potrei fare, allora, una controbiezione altrettanto facile, e cioè che per iniziare la nostra discussione è opportuno e necessario avere già in mano elementi di giudizio definitivo. E d’altra parte non è tanto la ratifica stessa, quanto l’insieme della politica nord americana, che noi dobbiamo valutare. È questo un momento politico assai delicato, anche senza arrivare agli allarmismi dell’estrema sinistra e non si possono ancora prevedere i risultati finali. Si può dedurre ciò dalla lettura di tutti i giornali. E allora perché l’Italia deve imbarcarsi in questa avventura ad occhi chiusi? Perché noi dobbiamo rifiutare di valutare la situazione nell’interesse del paese? Una soluzione affrettata può forse essere interesse del Governo. Ma sulla politica estera in questi giorni si sono avvertite talune perplessità anche in seno alla maggioranza. I giornali hanno pubblicato che un certo numero di deputati democristiani hanno fatto opposizione alla politica estera in seno al loro gruppo. Probabilmente quei deputati non prenderanno la parola in questa discussione, o se la prenderanno lo faranno per approvare la ratifica senz’altro. Ma è indubbio che perplessità vi siano qui e fuori di qui. Ora, per quali ragioni ripeto il paese deve trovarsi ancora una volta di fronte a non sufficientemente meditate decisioni? Perché ancora una volta dobbiamo dare l’impressione di votare a «scatola chiusa»? Ragioniamo ampiamente e serenamente, ciascuno dal suo punto di vista, ma ciascuno con illuminata coscienza, intorno ad un problema di tanta gravità! Ecco perché, onorevoli colleghi, vi invito ad accogliere la nostra proposta di sospensiva: essa, lo posso dire, è stata meditata con piena coscienza, come tutte le proposte che provengono da questo settore della Camera, piccolo di numero, ma nello spirito impavido; essa è dettata veramente da una visione chiara e onesta del supremo interesse del nostro paese.”  [Applausi all’estrema destra].

 

 

 

L’Unione Europea è figlia della sanguinosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale. I padri fondatori dell’Europa hanno costruito la prima Comunità Europea “tra popoli per lungo avversi per divisioniti da sanguinose divisioni” [Preambolo del Trattato CECA del 18 aprile 1951, https://def.finanze.it/DocTribFrontend/getAttoNormativoDetail.do?ACTION=getSommario&id={B65EEA5E-A571-4A82-9324-DCFF73C19AC5}]. 

“Le differenze reali di tutto il mondo oggi non sono tra ebrei e arabi; protestanti e cattolici; musulmani, croati, e serbi. Le differenze reali sono tra coloro che abbracciano la Pace e coloro che vorrebbero distruggerla; tra coloro che guardano al futuro e coloro che si aggrappano al passato; tra coloro che aprono le loro armi e le persone che sono determinate a ripudiarle.”[10],

sono parole di Bill Clinton, rimaste solo parole!

A volte la Pace è più stressante della guerra.

Nessuno spara...

Tutti prendono la mira!

Ma…

“Un giorno faranno una guerra e nessuno ci parteciperà.”,

scriveva Carl August Sandburg.

La Pace viene celebrata con una Giornata Speciale il 21 settembre[11] di ogni anno e io sogno di un Bambino che chieda:

“Mamma, cos’era la guerra?”

Sono ribelle, folle, sognatrice, piantagrane…

Vedo le cose in modo diverso e credo, ancora, che la Pace possa essere raggiunta in qualche modo...

Una Pace senza vittoria…

Solo una Pace tra eguali può durare!

I Trattati di Pace mi ricordano tanto la stretta di mano che si scambiano i pugili prima e dopo di rompersi il muso...

Il famoso detto latino:

“Si vis Pacem para bellum!”

non è che un gioco di parole da oracolo di Delfo.

Torniamo al senso comune che impone:

“Si vis Pacem para Pacem!”

 

 

 

 

Un elemento vitale nel mantenimento della Pace sono le nostre istituzioni militari. Le nostre armi devono essere poderose, pronte all’azione istantanea, in modo che nessun aggressore potenziale possa essere tentato dal rischiare la propria distruzione.

[…]

Ora questa combinazione tra un grande apparato militare e una vasta industria bellica è un fatto nuovo nell’esperienza americana. La totale influenza – economica, politica, perfino spirituale – viene sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del Governo Federale. Riconosciamo il bisogno ineluttabile di questo sviluppo, ma non dobbiamo esimerci dal comprendere le sue gravi implicazioni. Ne sono, inevitabilmente, coinvolti il nostro lavoro, le nostre risorse e il nostro stile di vita. La stessa struttura portante della nostra società.

Nei Consigli di Governo, dobbiamo vigilare per impedire il conseguimento di un’influenza ingiustificata, più o meno ricercata, da parte del complesso industriale-militare. L’eventualità dell’ascesa disastrosa di un potere mal riposto esiste e persisterà.

Non dobbiamo mai permettere che la pressione di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i nostri processi democratici. Non dobbiamo dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza vigile e accorta è in grado di esigere una corretta integrazione della gigantesca macchina industriale-militare di difesa con i nostri metodi e obiettivi pacifici in modo tale che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme.

[…]”

Discorso di commiato alla Nazione del presidente statunitense Dwight David Eisenhower, 17 gennaio 1961[12]

 

Prima di divenire presidente e di fare il suo ingresso alla Casa Bianca, il 20 gennaio 1953, Dwight David Eisenhower aveva condotto una brillante carriera militare, che aveva fatto di lui il soldato di più alto grado nella gerarchia militare americana [generale a cinque stelle]. La posizione centrale, che occupava in questa gerarchia, faceva di lui un osservatore privilegiato delle pratiche poco ortodosse del complesso industriale-militare. E gli otto anni passati alla Casa Bianca avevano finito per convincerlo della pericolosità di questa potente lobby, che, senza la presenza di una “cittadinanza vigile e accorta”, rischiava di fare man bassa dei meccanismi decisionali della strategia militare e della politica estera degli Stati Uniti.

“In the Councils of Government, we must guard against the acquisition of unwarranted influence, whether sought or unsought, by the military-industrial complex. The potential for the disastrous rise of misplaced power exists and will persist.”,

ammoniva il presidente repubblicano. L’inquietante previsione si è ahimè! – avverata: mai come oggi, infatti, i legami tra quel complesso e i rappresentanti politici all’interno del Congresso e dell’Esecutivo sono stati più forti. Non solo i grandi produttori di armi come Raytheon, Boeing, Lockheed-Martin, Northrop Grumman o General Dynamics – ossia, le società che monopolizzano il mercato delle armi e della tecnologia militare per la difesa – sono presenti con le loro fabbriche in quasi ogni Stato dell’Unione, soprattutto nei distretti elettorali in cui vengono eletti i presidenti dei cruciali comitati del Congresso che, debitamente finanziati, ne fanno in quella sede gli interessi, ma, perfino, nel Dipartimento di Stato, in quello della Difesa e nella National Intelligence si vedono alla loro testa personaggi i cui rapporti con l’industria bellica sono caratterizzati da un legame di porte girevoli. Si pensi a Tony Blinken, scelto dall’ex-presidente statunitense Joe Biden come segretario di Stato, noto per avere, sempre, abbracciato la linea interventista più dura possibile in materia di politica estera, dalle invasioni in Afghanistan e in Iraq all’operazione in Libia, fino alla richiesta di pesanti interventi militari contro la Siria. Uscito dall’Amministrazione Obama, forte della sua esperienza governativa, nel 2018, aveva co-fondato una società di consulenza, la WestExec Advisors, che offre i propri servizi alle più importanti società di high tech, aerospaziali e, in generale, del settore militare privato, tra cui [secondo un’indagine di The American Prospect] la Winward, società israeliana di elevata tecnologia di guerra. Dello staff della società di “informata” consulenza faceva parte anche Avril Haines, di fede ebraica, nominata dallex-presidente statunitense Joe Biden a capo della National Intelligence [prima donna a ricoprire tale carica, il cui compito principale è sostanzialmente quello di coordinare le 18 agenzie che compongono la comunità d’Intelligence a stelle e strisce] e nota non solo per il suo ruolo nella strategia di guerra con i droni inaugurata da Barack Obama; ma anche per avere coperto le torture dei prigionieri perpetrate durante la presidenza di George Walker Bush. Anche il primo afro-americano mai nominato a capo del Pentagono, l’ex-generale Lloyd Austin, oltre ad avere fortissimi legami con il mondo militare da cui si era congedato, ha, ampiamente, partecipato al sistema di revolving door tra pubblico e privato. È stato, infatti, nei consigli di amministrazione delle più disparate società, ma soprattutto in quello della Raytheon Technologies, leader nella costruzione di armamenti per lo stesso  Pentagono. È questo il quadro all’interno del quale è possibile comprendere non solo la richiesta dell’Amministrazione Biden, già nel dicembre del 2021 – ad avventura Afghanistan conclusa e con un personale bellico in Iraq ridotto rispetto all’anno prima – di aumentare il budget per la difesa, cui il Congresso aveva risposto entusiasticamente, incrementandola addirittura di ben 24 miliardi e approvando così – con maggioranze straordinariamente altissime – uno stanziamento militare senza precedenti. 

 

 
How Raytheon Became the Worlds Defense Company.

 

Jeremy Kuzmarov, Defense Secretary Lloyd Austin—Former Member of Raytheon Board of Directors—Has Awarded Over $30 Billion in Contracts to Raytheon Since His Confirmation in January, 2021, CovertAction Magazine, https://covertactionmagazine.com/2023/03/10/defense-secretary-lloyd-austin-former-member-of-raytheon-board-of-directors-has-awarded-over-30-billion-in-contracts-to-aytheon-since-his-confirmation-in-january-2021/].

 


 

 Proteste contro Raytheon fuori dell’Università del Massachusetts.

 

 

  

Senatrice Elizabeth Warren.

 

Mercoledì, 12 gennaio 2022: soldati ucraini durante le esercitazioni militari nella regione di Donetsk, in Ucraina.

 

Lloyd Austin e Benny Gantz.

  

4 dicembre 2003: Lloyd Austin e Donald Rumsfeld.

 

7 marzo  2023: Lloyd Austin e Matthew McFarlane.


Joe Biden e Lloyd Austin III.

 

 


Le guerre in Ucraina e in Medio Oriente rappresentano una splendida opportunità di crescita per il military industrial complex e giustificano l’inversione di rotta di una politica volta a ridurne i proventi, che pur Biden aveva dichiarato di voler inaugurare al momento della rovinosa ritirata dall’Afghanistan, esprimendo l’intenzione di dedicare finalmente parte del danaro speso in quella guerra – 300 milioni al giorno per due decenni – al cosiddetto “dividendo di Pace”, ossia a spese sociali interne. Gli interessi della potentissima industria bellica, che apparivano in crisi per lo svanire dei teatri di guerra più redditizi, paiono, insomma, chiamare a raccolta i loro debitori nel Governo e nel Congresso, diretti o indiretti, democratici o repubblicani che siano, e tutti rispondono tendenzialmente compatti, mossi non solo – pare lecito immaginare – da ragioni umanitarie e di solidarietà tra popoli.

Anche il riarmo dell’Europa – Germania in testa – che l’invasione russa ha portato con sé contribuisce ad aumentare i profitti dell’industria bellica statunitense.

“Dallo scoppio del conflitto i titoli dei grandi gruppi della difesa hanno spiccato il volo. Nulla di strano, è chiaro che, indipendentemente da come e quando finirà la guerra in Ucraina, i budget per la difesa di molti Paesi sono destinati a salire nei prossimi anni. Germania, Norvegia, Italia, Danimarca hanno già annunciato revisioni più o meno consistenti dei loro stanziamenti. Di conseguenza titoli come le statunitensi Northrop Grumman e Lockheed Martin hanno guadagnato oltre il 30% in meno di un mese. In deciso rialzo anche il terzo colosso della difesa USA Raytheon Technologies. Sono le aziende che costruiscono, tra l’altro, i missili stinger e javelins di cui si sente molto parlare nello scenario ucraino, oltre ai jet F35 per cui stanno fioccando nuovi ordini. In Europa è accaduto lo stesso, anzi di più. Il più grande produttore di armi tedesco Rheinmetall ha quasi raddoppiato il suo valore così come Hensoldt, Leonardo e Thales hanno incamerato rialzi del 50%, la britannica Bae Systems si è limitata a un progresso di circa il 30%.

Ma chi c’è dietro a questi Big della difesa e delle armi? Ci sono i grandi nomi della finanza, più o meno i soliti che hanno quote significative dei gruppi di mezzo mondo. Nell’industria delle armi si distingue in particolare la statunitense State Street Global Advisory, quarto gestore di patrimoni al mondo. Detiene una partecipazione del 14,5% in Lockheed Martin, del 9,2% in Raytheon Technologies e del 9,5% in Northrop Grumann. Altro grande socio dell’industria militare è Vanguard, società statunitense che gestisce asset per oltre 5mila miliardi di dollari. Possiede il 7,2% di Northrop Grumann, il 7,2% di Lockheed Martin, il 7,5% di Raytehon. Ha una quota del 2,8% nella tedesca Rheinmetall, l’1,3% della francese Thales, l’1,9% di Leonardo e lo 0,7% di Hensoldt. Tra i nomi più noti della finanza si segnalano l’onnipresente Blackrock che in portafoglio tiene il 4,1% di Northrop Grummann, il 4,8% di Lockheed Martin, il 4,7% di Raytheon, il 3% di Leonardo e lo 0,2% della britannica Bae Systems. C’è poi Jp Morgan, con quote in Northrop Grumann [2,9%] e Raytheon [1,5%]. Soci di peso sono anche i gruppi di investimento Fidelity e Capital Research.

Meno prevedibile la presenza, in molti di questi gruppi, della divisione di investimenti della Banca Centrale norvegese. “Lavoriamo per costruire la sicurezza e la ricchezza finanziaria delle nuove generazioni” si legge nella home page del sito. Norges Bank è presente nell’azionariato di Rheinteall [2,5%], di Hensoldt [0,6%], Leonardo [0,6%], Thales [1,2%]. In concreto cosa significa avere in portafoglio queste partecipazioni? Prendiamo ad esempio il caso di State Street, uno dei più rappresentativi. Le tre aziende di armi in cui è presente hanno registrato nelle ultime settimane un incremento della capitalizzazione complessivo di circa 35 miliardi di dollari. Significa che il valore delle sue partecipazioni è cresciuto di 3,7 miliardi in mendo di un mese. C’è anche qualcuno che forse, nonostante tutto, stappa champagne.”[13]

 

Anthony Blinken 3rd most infkuential Jew in the World, Zelensky dropped from the list, Helsinki Times, 26 October 2023 [https://www.helsinkitimes.fi/world-int/24380-anthony-blinken-3rd-most-influential-jew-in-the-world-zelensky-dropped-from-the-list.html].

 

U.S. Gov't Agencies Found Israel Was Blocking Gaza Aid. Blinken Ignored Them to Keep Weapons Flowing [https://www.youtube.com/watch?v=uQNcLT_Ten8].

 

Jonathan Guyer, Corruption Is What Other People Do, The Biden Administration has embarked on a global anti-corruption campaign. It should start with Washington. The American Prospect, June 9, 2021 [https://prospect.org/power/biden-anti-corruption-west-exec-iron-dome-raytheon-ransomware/].

 

Jonathan Guyer, Ryan Grim, Meet the Consulting Firm That’s Staffing the Biden Administration, WestExec represented major corporations throughout the Trump years. Now it’s in the White House, The Intercept, July 6 2021 [https://theintercept.com/2021/07/06/westexec-biden-administration/].

 



Obama names Blinken State Department No. 2, AFP, 8 November 2014  [https://www.timesofisrael.com/obama-names-blinken-state-department-no-2/].

 

Ann Brown, Who Are WestExec Advisors? Would Dr. Martin Luther King Jr. Support Biden And America’s Risky March Toward Nuclear WW3?, The Moguldom Nation, May 09, 2022 [https://moguldom.com/407241/who-are-westexec-advisors-would-dr-martin-luther-king-jr-support-biden-and-americas-risky-march-toward-nuclear-ww3/].

 

Dan Steinbock, The Great Collusion: How Big Defense Took Over the White House, China-Us Focus, Jun 02, 2022 [https://www.chinausfocus.com/foreign-policy/the-great-collusion-how-big-defense-took-over-the-white-house].

 


Jessica Chasmar, Cameron Cawthorne, Obama-era emails reveal Hunter's extensive ties to nearly a dozen senior-level Biden admin aides, Fox News, https://www.foxnews.com/politics/obama-era-emails-reveal-hunters-extensive-ties-dozen-senior-level-biden-admin-aides].

 


Sabri Ben Rommane, Blinken mentì al Congresso sul blocco degli aiuti a Gaza: Israele colpevole, secondo le agenzie USA, La Luce, 26 settembre 2024 [https://www.laluce.news/2024/09/26/blinken-menti-al-congresso-sul-blocco-degli-aiuti-a-gaza-israele-colpevole-secondo-le-agenzie-usa/].

 

Nell’epoca delle guerre mondiali, del terrorismo internazionale, del drammatico divario tra Nord e Sud del mondo, l’Europa non può ignorare la Pace, come supremo ideale cui aspirano tutti i popoli del Pianeta.

Il 12 dicembre scorso, Mark Rutte, neo-segretario generale della NATO, presenziando a un evento promosso da Carnegie Europe, uno dei più influenti think tank di Bruxelles, ha chiesto, senza alcuna vergogna, ai Paesi Membri di tagliare il welfare [pensioni e sanità] per investire in armi:

“Abbiamo alzato la spesa militare, ma spendiamo meno che nella Guerra Fredda. Allora gli europei spendevano più del 3%. Con quella mentalità abbiamo vinto. Ma la spesa è scesa con la caduta della Cortina di Ferro. Nel 2023 abbiamo deciso di spendere almeno il 2%. Ora serve molto di più. I Paesi europei spendono il 25% in media in welfare ma abbiamo bisogno di una piccola parte per la difesa: può essere difficile nel medio periodo ma essenziale nel lungo.”

 

 

 

 [https://ezdubs.ai/watch?id=1868239744125280628_ru_en]

 


 

Rebecca Project for Human Rights Condemns Netherlands-Turkey Trade Talks While Senior Dutch and Turkish Government Officials Continue to Cover Up the Pedophile Accusations Against Former Dutch Justice Ministry Secretary General Joris Demmink, Rebecca Project for Human Rights, November 06, 2012 [https://www.prnewswire.com/news-releases/rebecca-project-for-human-rights-condemns-netherlands-turkey-trade-talks-while-senior-dutch-and-turkish-government-officials-continue-to-cover-up-the-pedophile-accusations-against-former-dutch-justice-ministry-secretary-general-j-177476141.html].

 

Putin, Dutch PM discuss human rights, pedophilia, Interfax, 8 April 2013 [https://interfax.com/newsroom/top-stories/50581/]


 


 
 
Dutch Injustice: When Child Traffickers Rule A Nation.

 

BEWEERD WORDT DAT MARK RUTTE EEN ZOON IS VAN JORIS DEMMINK EN DEMMINK EEN ZOON IS VAN PRINS BERNHARD! DE NIEUWE MEDIA, 02/09/2023 [https://www.de-nieuwe-media.nl/l/is-mark-rutte-een-zoon-van-joris-demmink-en-demmink-een-zoon-van-prins-bernhard/].

 

 

 

Aliberti Editore ha pubblicato Club Bilderberg, gli uomini che comandano il mondo di Domenico Moro. In questo estratto Moro ricostruisce la storia del Bilderberg, e la composizione dei suoi organismi dirigenti.

Precursore e per certi versi padre del Bilderberg è il Council on Foreign Relations. Il CFR fu fondato nel 1921 da prominenti personalità statunitensi allo scopo di completare l’uscita dal tradizionale isolazionismo degli USA, iniziata con l’intervento militare nel conflitto che si combatteva in Europa. L’obiettivo era far assumere agli USA una maggiore responsabilità e il ruolo di decision maker nei nuovi assetti mondiali post bellici. Cosa che, però, si realizzò solo dopo la seconda guerra mondiale con la liquidazione di Germania e Giappone. Anche se con molte somiglianze con il Bilderberg il Council on Foreign Relations se ne distingueva per l’essere almeno inizialmente ristretto ai soli cittadini statunitensi e perché non rifletteva ancora il ruolo guida che gli USA avrebbero assunto. Tuttavia, il CFR svolse un ruolo attivo di consulente del governo USA durante la guerra, confermando la tesi di Wright Mills sulla formazione dell’élite del potere nel corso del conflitto e, secondo alcuni, influenzò direttamente le politiche di ricostruzione post-belliche, tra le quali la formazione delle istituzioni previste negli Accordi di Bretton Woods [Banca Mondiale, FMI].

Il periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale presenta, rispetto al primo dopoguerra, uno scenario internazionale mutato e contrassegnato da due fenomeni. Il primo è la ricostruzione di un mercato mondiale capitalistico sotto l’egemonia Usa, e basato sulla ricostruzione, sul modello statunitense, delle economie giapponese e soprattutto europea occidentale. Il secondo è la sfida rappresentata dal rafforzamento dell’URSS e dei partiti socialisti e comunisti non solo nel Terzo mondo ma anche in molti Paesi avanzati. Ciò evidentemente poneva questioni importanti di mantenimento della stabilità politica ed economica. Davanti alle élites si presentavano, quindi, problemi nuovi e più globali, che rendevano necessaria la formazione di sedi di confronto e di elaborazione di strategie adeguate. In particolare, sedi transnazionali, che riunissero le élites atlantiche, ovvero quelle di USA ed Europa occidentale. Le élites venivano così a costituire un livello informale e parallelo a quello ufficiale degli Stati. Questi, infatti, sul piano economico avevano costituito l’FMI e la Banca Mondiale e sul piano politico-militare la NATO, che, per l’appunto nacque come alleanza atlantica, tra USA e Europa Occidentale, in funzione di contrasto all’URSS.

Il Gruppo Bilderberg nacque il 29 maggio 1954 e prese il nome dall’albergo in Olanda in cui si riunì per la prima volta. Tra i principali ispiratori e primo segretario ci fu Joseph Retinger, di origine polacca e fondatore anche del Movimento Europeo, organizzazione ispiratrice del processo di unificazione europea. Lo scopo dichiarato della costituzione del Bilderberg era incentivare il dialogo tra i leading citizens di USA ed Europa Occidentale per «creare una migliore comprensione delle forze complesse e delle principali tendenze che influenzavano le nazioni occidentali nel periodo postbellico». Ma, tiene a precisare il Gruppo, la fine della Guerra Fredda non ha diminuito bensì ha aumentato l’importanza di queste riunioni. Secondo il Bilderberg, ciò che rende unici gli incontri sono tre caratteristiche. L’ampia presenza di leading citizens, provenienti da vari settori della società, in incontri che hanno una durata di tre giorni e impegnano i convenuti in discussioni informali e off-the records su tematiche di importanza attuale, specialmente di politica estera ed economia internazionale. Il forte feeling tra i partecipanti, che permette di superare la varietà di orientamento e impostazione derivata dalla provenienza da nazioni diverse. La privacy degli incontri, che non ha altro scopo se non quello di permettere ai partecipanti di esprimersi apertamente e liberamente.

Il Bilderberg si presenta come «un forum internazionale, piccolo, informale e non ufficiale nel quale possono essere espressi punti di vista diversi e la reciproca comprensione sviluppata. L’unica attività del Bilderberg sono le conferenze. Durante gli incontri non vengono fatte votazioni, né prese risoluzioni, e neanche fatte dichiarazioni politiche». Dal 1954 si sono tenuti cinquantanove incontri, uno all’anno, i cui partecipanti e l’agenda vengono resi pubblici alla stampa, a differenza dei contenuti dei dibattiti. I partecipanti ai dibattiti variano ogni volta e vengono scelti dal presidente dopo consultazioni con lo Steering Committee sulla base delle loro conoscenze ed esperienze a riguardo delle tematiche che verranno affrontate. La composizione dei partecipanti, che solitamente sono circa 120, è la seguente: sul piano della provenienza geografica per i due terzi vengono dall’Europa Occidentale ed il rimanente dagli Stati Uniti. Sul piano dei settori sociali, essi provengono per un terzo dalla politica e dalla istituzioni, e per due terzi dalla finanza, dall’industria e dalle comunicazioni. Ad ogni modo, i convenuti partecipano a livello personale e non ufficiale.

Gli organismi di autogoverno del Bilderberg sono il presidente e lo Steering Committee, il comitato direttivo. Il presidente è eletto dallo Steering Committee, mentre quest’ultimo è eletto non si capisce bene da chi per quattro anni ed i suoi membri possono essere rieletti. Esiste, inoltre, la figura del segretario esecutivo che riporta al presidente. Compiti del presidente sono presiedere il direttivo, decidere con esso le tematiche da discutere e, come detto, selezionare i partecipanti alle conferenze annuali. Le spese del mantenimento del segretariato sono a carico del direttivo, mentre quelle dei meeting annuali sono a carico dei membri del direttivo del Paese ospitante.
Vediamo ora da dove vengono, quanti e chi sono i membri del direttivo. I Paesi cui appartengono sono 18 e sono collocati esclusivamente in Nord America [con l’esclusione del Messico] e in Europa Occidentale, con la sola eccezione della Turchia. Tali Paesi fanno quasi tutti parte, spesso sin dall’inizio, della Nato, tranne la Svizzera, la Finlandia, l’Austria, la Svezia e l’Irlanda. I membri del gruppo dirigente sono 35, di cui 33 dello Steering Committee, cui si aggiungono il presidente, il francese Henri de Castries, ed il membro anziano dell’Advisory Group, lo statunitense David Rockefeller. L’egemonia statunitense è chiara, come del resto lo è anche nella Nato, anche se il presidente è europeo. Numericamente prevalgono le personalità anglosassoni, in tutto 16 [45,7 per cento]. In particolare gli statunitensi sono 11 [31,4 per cento], ai quali si aggiungono 3 britannici e 2 canadesi. Gli altri Paesi, con l’eccezione della Francia con 3 membri [che ha il presidente Jean Claude Trichet classificato come “internazionale”] e della Germania con 2, hanno tutti un solo membro nel direttivo. Molti Paesi sono sottorappresentati, a partire dalla Germania che pure è la seconda nazione presente nel comitato direttivo per economia e popolazione e dall’Italia, che ha un solo membro, Franco Bernabè, presidente di Telecom Italia, come la Norvegia, il Portogallo e la Grecia.

La composizione è piuttosto varia e copre quasi tutti i settori, anche se prevale la finanza. Nello Steering Committee ci sono membri che hanno incarichi direttivi in 13 grandi imprese finanziarie. Di queste 2 sono grandi gruppi assicurativi, 4 fondi d’investimento [attivi in hedge fund e private equity], e 7 grandi banche. Dopo la finanza c’è l’industria con 11 imprese. Vi sono rappresentati quasi tutti i settori più importanti, il metalmeccanico [2], i mass media [2], il siderurgico [2], il chimico e farmaceutico [2], il petrolifero [1], l’informatico [1], e le telecomunicazioni [1]. Inoltre, sono presenti esponenti di 4 think-tank, 3 esponenti del mondo politico [un ministre d’Etat belga, un membro della Camera dei Lord e il Lord cancelliere e segretario alla giustizia britannico], 2 di quello accademico e infine un esponente del mondo della distribuzione e uno di uno studio legale internazionale. Gli USA prevalgono nella finanza, mentre gli europei nell’industria. Sono statunitensi 2 banchieri e 4 dirigenti di fondi d’investimento, ovvero la totalità del sottosettore, 3 rappresentanti dei think-tank, il che suggerisce una egemonia ideologica, un accademico e soltanto 2 esponenti di imprese industriali. La Gran Bretagna ha 2 politici e un banchiere. Il resto dell’Europa occidentale ha 8 dirigenti di imprese industriali su 11 totali, 3 banchieri e un dirigente di un fondo d’investimento, 2 di assicurazioni, il presidente di un think-tank, un accademico, un legale internazionale e un politico. In effetti, la nazionalità dei membri del direttivo non coincide sempre con quella delle imprese cui fanno riferimento, dato che si tratta spesso di imprese transnazionali. Ad esempio, l’irlandese Peter D. Sutherland è dirigente di Goldman Sachs che in effetti è una banca statunitense. Non tutte tra le imprese presenti sono gruppi transnazionali al vertice della classifica delle imprese mondiali come Royal Dutch Shell e Microsoft – quinta e decima al mondo per profitti nel 2010 – o ai primi posti nel ranking dei loro settori, come Alcoa, EADS, Novartis, e Telecom Italia tra le industriali, Goldman Sachs, Barclays, Axa, Zurich Insurance tra le finanziarie. Le altre sono grandi imprese ma non hanno una dimensione particolarmente grande a livello mondiale, anche se spesso si tratta di aziende prestigiose e con contatti ramificati come la banca Lazard. In effetti, l’appartenenza allo Steering Committee del Bilderberg non dipende strettamente dalla grandezza o importanza dei gruppi che si dirigono, ma – come vedremo – dalla internità al network dell’élite degli affari mondiale. È, insomma, una appartenenza in gran parte personale, anche se ovviamente l’essere inseriti in certe imprese aiuta.

Vale forse la pena soffermarsi sulle biografie di qualcuno dei membri del gruppo dirigente. Henri Conte de Castries, presidente del Bilderberg dal 2010, proviene da una antica famiglia della nobiltà francese, cui appartiene anche Christian de Castries comandante a Dien Bien Phu, ed è un esempio dell’intreccio tra aristocrazia e mondo degli affari. Nella storia del Bilderberg un esempio importante ne è anche il principe Bernhard van Lippe-Biesterfeld, marito della regina Giuliana d’Olanda e tra i fondatori del Bilderberg di cui fu primo presidente dal 1954 al 1976, allorché dovette dimettersi per il suo coinvolgimento nello scandalo delle tangenti Lockheed. Il principe occupò anche posizioni di responsabilità in due corporation che ricorrono spesso nel Bilderberg e nella Trilaterale, la Shell e SGB. Henri de Castries è rappresentativo dell’esistenza del meccanismo delle revolving doors anche in Francia. Fu alto funzionario del Ministero del Tesoro francese sotto il Governo Chirac, durante il quale [1986] partecipò alla privatizzazione di varie aziende tra cui Compagnie Générale d’Electricité, ora chiamata Alcatel-Lucent. Nel 1989 entrò in AXA, la seconda compagnia assicuratrice mondiale per asset [2011], di cui è diventato presidente nel 2000. Caratteristiche simili ha anche il belga Etienne visconte Davignon, nominato dal re del Belgio ministre d’Etat, che è stato prima Commissario europeo agli affari industriali e poi dirigente di importanti gruppi industriali belgi, come Société Générale e GDF Suez. Altra figura interessante è il già citato David Rockefeller, una specie di trait d’union in carne ed ossa di varie organizzazioni dell’elite statunitense e mondiale. È, infatti, uno dei fondatori del Bilderberg e della Trilaterale ed è stato presidente tra 1970 e 1985 del Council on Foreign Relations. Il nonno, John Davison Rockefeller, fu uno dei protagonisti dell’espansione economica statunitense di fine Ottocento, attraverso la fondazione della Standard Oil, grazie alla quale acquisì il monopolio della produzione e raffinazione di petrolio e divenne l’uomo più ricco del mondo. Il padre di David, John Davison Rockefeller Junior, fu punto di riferimento dell’alta finanza negli anni Venti-Trenta e rimase coinvolto in scandali per la corruzione di membri del Congresso e nel massacro di Ludlow, durante lo sciopero dei minatori nel 1914. David Rockefeller, oggi patriarca della famiglia, oltre ad essere stato presidente della JP Morgan Chase, ottava banca mondiale per asset totali nel 2012, di cui è ancora il principale azionista, ha ricoperto importanti ruoli in multinazionali di primaria importanza, come Exxon Mobil e General Electric. Recentemente David Rockefeller ha siglato una alleanza strategica con lord Jacob Rothschild, patriarca dell’altra storica dinastia della finanza internazionale. Un altro personaggio la cui presenza nel comitato direttivo di Bilderberg è alquanto significativa è Richard Perle, uno degli ideologi principali della corrente neoconservatrice, che ha influenzato la politica estera USA dell’ultimo decennio. Perle fu assistente del ministro della Difesa sotto la presidenza Reagan e successivamente con Bush II è stato membro e poi presidente del Defence Policy Board. Perle è nel Bilderberg come Resident Fellow dell’American Enterprise Institute, ma è anche membro di un altro think-tank neoconservatore, il Project for the New American Century, formatosi nel 1997 con lo scopo di promuovere la leadership globale americana. Nel gennaio 1998 Perle firmò, insieme ad altri membri di questo gruppo di pressione, tra cui Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz, una lettera diretta al presidente Clinton in cui si chiedeva di rimuovere con la forza Saddam Hussein. L’obiettivo del gruppo era, come si evince da un altro documento «mantenere nell’area del Golfo una consistente forza militare americana», dato che il Golfo è «una regione di vitale importanza», a causa della concentrazione di riserve petrolifere che vi si trova. Perle, insieme a Rumsfeld e Wolfowitz che diventeranno rispettivamente ministro e vice ministro alla Difesa con Bush II, sarà parte del gruppo dirigente statunitense che inizierà, sull’onda emotiva dell’attacco alle torri gemelle, l’invasione dell’Iraq e la cosiddetta “guerra al terrore”, che dura ancora oggi.

Molto interessante è anche osservare la composizione del Gruppo Bilderberg nel passato. Cominciamo dai presidenti, che, compreso l’attuale, sono stati sette e sempre europei occidentali, con una prevalenza britannica con tre presidenti, ai quali si aggiungono un olandese, un belga, un tedesco e attualmente un francese. Si tratta di personaggi di primissimo piano nella politica europea. Come abbiamo detto il primo presidente del comitato direttivo fu il principe Bernhard van Lippe-Biesterfeld della Casa Reale olandese. Il secondo, tra 1975 e 1977, fu Walter Scheel, già vice primo ministro e ministro degli esteri tedesco dal 1969 al 1974 e presidente della Repubblica Federale di Germania dal 1974 al 1979. Gli succedette tra 1977 e 1980 il duca Alexander Douglas-Home, primo ministro britannico dal 1963 al 1964 e ministro degli esteri nel 1970. Fu poi la volta di Eric Roll barone di Roll of Ipsden dal 1986 al 1989, che tra 1968 e 1977 è stato uno dei direttori della Banca d’Inghilterra, e del barone Peter Carington, che fu segretario di Stato britannico per gli affari esteri e del Commonwealth e segretario generale della NATO dal 1984 al 1988. Infine, Etienne Davignon, di cui abbiamo già parlato, fu presidente tra 1998 e 2011, allorché fu sostituito da Henri de Castries tutt’ora in carica.

Vi sono inoltre 135 personaggi che hanno fatto parte dello Steering Committee nel passato e ora non ne fanno più parte. Tra questi citiamo solo alcuni nomi prestigiosi, come Henri Kissinger, forse il maggiore tra i segretari di Stato USA dopo la seconda guerra mondiale e sempre presente come invitato anche agli ultimi incontri, Edmond de Rothschild della omonima dinastia finanziaria, l’olandese Wim Duisenberg, primo presidente della Bce, e il già citato Paul Wolfowitz. La presenza anglosassone è sempre preponderante, ma in modo meno forte di quanto non sia nel direttivo attuale, con il 44,4 per cento dei membri, di cui 39 sono statunitensi [29,1 per cento], 15 britannici [11,1 per cento] e 5 canadesi [3,7 per cento]. Il terzo Paese in assoluto e primo Paese europeo, con l’esclusione della Gran Bretagna, è questa volta sorprendentemente l’Italia che è stata presente nei vari direttivi con 11 personalità [8,1 per cento], seguita dalla Germania con 8 [5,9 per cento], e da Francia e Danimarca con 7 [5,2 per cento]. La forte presenza numerica italiana e le personalità di spicco assoluto dei membri italiani dello Steering Committee sta a dimostrare il consistente impegno italiano nella storia dell’organizzazione. La composizione del gruppo italiano vede la prevalenza di personalità provenienti dalla burocrazia economica e politica internazionale e europea e dal mondo della grande industria. In particolare alcuni hanno svolto un ruolo importante nella costruzione del mercato europeo e della valuta unica. Quasi sempre si registra un intreccio tra i due ambiti, della grande industria e della burocrazia internazionale. Inoltre, si nota anche un intreccio con la politica nazionale, visto che 4 membri hanno ricoperto incarichi in almeno un governo italiano, due sono stati presidenti del Consiglio, due ministri e uno sottosegretario.

È importante notare che ben 7 su undici degli italiani che hanno fatto parte dello Steering Committee nella storia del Bilderberg sono stati legati, seppure in modalità diverse, al gruppo Fiat. Senza contare che anche l’attuale e unico membro italiano dello Steering, Franco Bernabè, è passato per la Fiat, in gioventù come Chief Economist nell’ufficio pianificazione e successivamente come membro del Cda. Ad ogni modo, dei 7 «uomini Fiat», Gianni e Umberto Agnelli appartengono alla famiglia fondatrice che ancora controlla il gruppo. La presenza degli Agnelli e della Fiat in organizzazioni a forte presenza USA come il Bilderberg e la Trilaterale non deve stupire. Essi hanno stabilito fin dall’origine con gli USA un forte legame, che con la recente acquisizione della Chrysler si è consolidato anche sul piano industriale. Il capostipite della famiglia, Giovanni Agnelli, era amico di un altro magnate statunitense dell’auto, Henry Ford. Il nipote Gianni, l’“avvocato”, il cui bisnonno materno, George W. Campbell, fu ministro del Tesoro USA, era in gioventù membro del jet-set internazionale, divenendo amico di personalità influenti come John Fitzgerald Kennedy, presidente USA. Dal 1966 alla morte, avvenuta nel 2003, Gianni occupò la carica di presidente della Fiat. Il fratello Umberto, già presidente dell’Ifil, la «cassaforte» di famiglia, gli successe nel 2004 come presidente del Gruppo Fiat. L’importanza di Gianni Agnelli nel Bilderberg è testimoniata dalle parole di un abituale frequentatore degli incontri del gruppo: «Nelle occasioni in cui fui presente, Agnelli era in qualche modo, così mi sembrò, la figura chiave; la figura cui gli altri facevano riferimento e si rimettevano».

Uomo Fiat fu anche Vittorio Valletta, che aderì alla massoneria negli anni Venti e che diventò amministratore delegato della Fiat nel 1939. Epurato nel 1944 dal Comitato nazionale di liberazione [Cnl] per collaborazionismo con l’occupante tedesco, fu reintegrato nel suo ruolo nel 1946 divenendo anche presidente della Fiat fino al 1966. Dal mondo della burocrazia economica e politica europea ed internazionale provengono 6 personaggi, di cui 4 hanno fatto parte del mondo Fiat. Il marchese Gian Gaspare Cittadini-Cesi fu ambasciatore e segretario generale di quella che sarebbe diventata l’Organization for Economic Cooperation and Development [Ocse] e amministratore delegato di Fiat Francia. Straordinaria è la figura di Renato Ruggero, che ha attraversato tutti gli ambiti, accumulando incarichi di vertice ai livelli politico-burocratico nazionali e soprattutto internazionali. Fu capo gabinetto e poi portavoce [1977] del presidente della Commissione europea e tra i negoziatori dell’entrata dell’Italia nel Sistema monetario europeo [Sme], che anticipò l’euro. Divenne successivamente ambasciatore italiano a Bruxelles e segretario generale del ministro degli Esteri [massima carica della diplomazia italiana]. Dal 1987 al 1991 fu ministro degli Esteri in due governi successivi e dal 1991 al 1995 responsabile delle relazioni internazionali del Gruppo Fiat. Dal 1995 al 1999 fu direttore generale del Wto e poi presidente dell’Eni. Nel 2006 fu ministro degli esteri, ma solo per sei mesi dopodiché diede le dimissioni dal governo di Silvio Berlusconi, che non sembra avere un gran feeling con la Fiat in particolare e con i membri del Bilderberg. Tra questi c’è sicuramente Tommaso Padoa-Schioppa, alla cui nomina come governatore della Banca d’Italia Berlusconi si è sempre opposto. Ad ogni modo, la carriera di Padoa-Schioppa è stata notevole. Direttore generale per l’economia e le finanze della Commissione Europea nel periodo di lancio dello SME [1979-1983], vicedirettore della Banca d’Italia [1984-1987], membro del comitato istituito dal presidente della Commissione Europea Delors, suo amico personale, per redigere il progetto di Unione Monetaria Europea, presidente Consob, membro del comitato esecutivo della Bce [1998-2006], ministro dell’economia con il Prodi II [2006-2008], presidente del Comitato Monetario e Finanziario Internazionale dell’FMI, e, dulcis in fundo, membro del consiglio di amministrazione di FIAT industrial [2010].

Un altro membro autorevole del Bilderberg con cui Berlusconi non sembra essersi sempre inteso è Mario Monti, ben noto come ex-rettore e presidente del consiglio d’amministrazione della Università Bocconi. Meno risaputo è che anche Monti, amico personale di Gianni Agnelli, è stato un uomo FIAT. Nel 1989, a soli 46 anni, fece tris d’assi, stando contemporaneamente nel consiglio d’amministrazione della FIAT, della Banca Commerciale Italiana e delle Assicurazioni Generali. Successivamente Berlusconi lo mandò a Bruxelles come commissario europeo, dove ebbe la delega al mercato interno e all’integrazione e ai servizi finanziari. Quando D’Alema, nuovo presidente del Consiglio, lo riconfermò, gli fu data la delega alla concorrenza che mantenne fino al 2004. Fatto questo che non gli ha impedito di diventare successivamente consulente antitrust della Coca-Cola e di Goldman Sachs. Presidente europeo della Commissione Trilaterale e membro del Bilderberg, se ne dimise nel momento in cui fu nominato presidente del Consiglio dei ministri da Napolitano in sostituzione di un Berlusconi ormai inviso a una buona fetta dell’élite italiana e soprattutto transnazionale.

Ma, forse il “calibro” più grande tra gli uomini Bilderberg italiani, almeno tra i burocrati-politici, è un altro professore: Romano Prodi. Presidente IRI, quando questa era una delle prime conglomerate del mondo, presidente della Commissione Europea e due volte presidente del Consiglio dei ministri italiano. La presenza di Prodi [e di Padoa-Schioppa] nello Steering Committee è abbastanza significativa di quanto il Bilderberg sia capace di mettere insieme figure conservatrici e progressiste, di centrodestra e di centrosinistra. E probabilmente è ancora più significativo del fatto che differenze tra le due ali dello schieramento politico non ce ne sono, o almeno non ce ne sono di significative per quanto attiene agli interessi del network del capitale transnazionale. L’elemento dominante è l’adesione alla prevalenza del mercato autoregolato sull’intervento statale. Non a caso Prodi fu l’artefice del progressivo smantellamento dell’IRI e della privatizzazione delle banche e dell’industria di Stato, nonché di provvedimenti di liberalizzazione in molti settori. Tuttavia, come il rapporto tra capitale finanziario e Stato muta, così mutano anche le personalità del Bilderberg. Infatti, nello Steering Committee fu presente anche Pasquale Saraceno, grande commis d’État italiano. Economista di orientamento cattolico come Prodi [fu anche docente alla Cattolica di Milano] entrò nell’IRI già durante il fascismo. Nel dopoguerra, da consulente del ministro Vanoni, fautore dell’intervento dello Stato in economia, e di altri ministri democristiani fu tra i sostenitori della programmazione economica e della Cassa del Mezzogiorno, nonché il fondatore dell’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno [Svimez]. Anche lui come altri del Bilderberg, inoltre, fece il suo necessario passaggio europeo, come rappresentante italiano nella Commissione economica per l’Europa di Bruxelles e consigliere della Banca Europea degli Investimenti [BEI], l’istituzione che dal 1957 finanzia gli investimenti per il raggiungimento degli obiettivi europei. Terminiamo la nostra carrellata sui membri italiani del comitato direttivo del Bilderberg con gli ultimi due personaggi, forse minori ma ugualmente significativi. Il primo è Stefano Silvestri, che è stato sottosegretario alla Difesa tra 1995 e 1996 e, oltre ad essere consulente di ministri della Difesa, Esteri e Industria, è presidente dell’Istituto Affari internazionali [Iai], un think-tank italiano impegnato sulle questioni militari e di chiaro indirizzo «atlantico». Il secondo è Paolo Zannoni, un top manager collegato al capitale transnazionale di origine USA ed italiana. Zannoni, di cui si dice che fossero ottime le entrature con Gianni Agnelli, è stato presidente di Prysmian Spa, azienda italiana leader mondiale nel settore cavi e sistemi per il trasporto di energia e telecomunicazioni, ma controllata da Goldman Sachs [banca collegata ai Rockefeller] con il 31,7 per cento e con la partecipazione di altre banche e fondi di investimento USA, come Blackrock, JP Morgan Chase, Lazard. Oggi, Zannoni è sempre nell’orbita di Goldman Sachs, di cui è managing director, e siede nel consiglio d’amministrazione e nel comitato risorse umane di Atlantia, holding operante nelle infrastrutture e controllata dalla famiglia Benetton.

Domenico Moro, La storia del gruppo Bilderberg, L’organizzazione delle élites internazionali nel libro Club Bilderberg, Il Post, Giovedì 6 giugno 2013 [https://www.ilpost.it/2013/06/06/la-storia-del-gruppo-bilderberg/].

 

 

Ashifa Kassam, Nazi party membership card of Dutch royal confirmed as authentic German-born Prince Bernhard, late grandfather of King Willem-Alexander, had denied being a paid party member, The Guardian, Fri 6 Oct 2023 [https://amp.theguardian.com/world/2023/oct/06/nazi-party-membership-card-of-dutch-royal-prince-bernhard-confirmed-as-authentic].

 

David Averre, Nazi membership card proves Holland’s Prince Bernhard – in charge of Dutch resistance forces in 1944 – joined  Hitler’s party… despite his repeated denials until the day he died, Daily Mail, 5 October 2023 [https://www.dailymail.co.uk/news/article-12598205/Nazi-membership-card-proves-Hollands-Prince-Bernhard-charge-Dutch-resistance-forces-1944-joined-Hitlers-party-despite-repeated-denials-day-died.html].

 

 

 

In altri termini, l’obiettivo del 2% del PIL per la spesa militare non basta più e “nei prossimi mesi dovremmo accordarci su quale sarà la nuova soglia”.

Ancora una volta, quindi, si pensa di fare cassa con la sanità e le pensioni per finanziare la corsa agli armamenti e nel momento in cui una modifica alla legge di bilancio, proposta dalla maggioranza, attribuiva un aumento mensile dello stipendio per i 17 membri del Governo Meloni, tra ministri e viceministri non parlamentari [il compenso mensile dei ministri è di 10.435 euro, cui si applicano i 3.503,11 euro di diaria che spettano a deputati e senatori e i 3.690 euro di rimborsi per l’esercizio del mandato; a questi 7.193,11 euro si aggiungono, poi, 1.200 euro l’anno per le spese telefoniche e i rimborsi di viaggio]. La legge di bilancio 2025 prevede un aumento delle spese militari del 12% rispetto al 2024: ben 32 miliardi di euro. Previsti ben 40 miliardi in tre anni per costruire e acquistare nuovi sistemi bellici. In questo il Governo Meloni segue una tendenza mondiale: l’ultimo rilevamento del SIPRI evidenzia, infatti, come la spesa mondiale per gli armamenti abbia superato i 2.100 miliardi di dollari.

Mister Teflon, come i media olandesi chiamano Rutte – che, dopo quattordici anni al governo dei Paesi Bassi, il 10 luglio 2023, in Parlamento, aveva annunciato il suo ritiro dalla scena politica dopo le elezioni di novembre, per dedicarsi agli studi – è succeduto, dal 26 giugno dello scorso anno, a Jens Stolteberg, per dieci anni a capo dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico. Nominando Rutte, convinto alleato degli Stati Uniti e forte sostenitore dell’Ucraina, l’ex-presidente statunitense Joe Biden sceglieva un leader che avrebbe continuato a spingere il sostegno a Kiev e gli sforzi per rafforzare la difesa dell’alleanza di fronte alla Russia.

 


 

 

Il 5 giugno dello scorso anno, con il messaggio inviato al vescovo di Bayeux, in occasione dell’Ottantesimo Anniversario del “colossale e impressionante sforzo collettivo e militare compiuto” sulle coste della Normandia “per ottenere il ritorno alla libertà” Papa Francesco[14] ha rinnovato il grido lanciato da Paolo VI alle Nazioni Unite, il 4 ottobre 1965:

“Mai più la guerra!”

“Sarebbe inutile e ipocrita ricordarlo senza condannarlo e rifiutarlo definitivamente.”

Il monito di Eisenhower è stato ignorato, perché non c’è stata negli Stati Uniti una “cittadinanza vigile e accorta” a impedire le derive militari e politiche che, da decenni, non cessano di minare lo statuto, la reputazione e le finanze della Superpotenza americana.

Trattandosi di grandi scelte di strategia militare e di politica estera del Paese, la cittadinanza americana, nella sua maggioranza, non è né “vigile”“accorta” nel senso auspicato da Eisenhower, vale a dire nel senso di una forza capace di controllare, strettamente, le decisioni governative e di opporsi, eventualmente, se queste vadano contro l’interesse generale. La sua assoluta indifferenza a quanto accade fuori delle sue frontiere la predispone a fare affidamento nei propri leaders e a prendere per oro colato tutto quello che dicono.

L’esempio più sbalorditivo è la convergenza della maggioranza degli americani con l’ex-presidente George Walker Bush. Non è un segreto per nessuno che questi sia stato la marionetta comune del complesso industriale-militare e della lobby petrolifera, che lo hanno utilizzato e manipolato a volontà. Per servire gli interessi dei fabbricanti di armi e delle compagnie petrolifere, Bush e il suo staff hanno manipolato, a loro volta, il popolo americano, facendogli ingoiare la menzogna delle armi di distruzione di massa e del pericolo rappresentato da Saddam Hussein per il mondo, in generale, e per gli Stati Uniti, in particolare. E nonostante la menzogna di Bush fosse venuta alla luce, nonostante la sua invasione dell’Iraq volgesse al disastro, i cittadini americani lo rieleggevano, nel novembre del 2004, per un secondo mandato. 

 

Richard Falk, Kuala Lumpur tribunal: Bush and Blair guilty, A war crimes tribunal in Malaysia offers a devastating critique of international criminal law institutions today, Al Jazeera, 28 November 2011https://www.aljazeera.com/opinions/2011/11/28/kuala-lumpur-tribunal-bush-and-blair-guilty].

 

  

Behind Colin Powell’s Weapons of Mass Destruction Claim.

 [https://www.youtube.com/watch?v=nyyhvgZpleo]

 

 

Anna Lombardi, Iraq 20 anni dopo: la "Grande Bugia" di Colin Powell che diede il via alla guerra, la Repubblica, 20 marzo 2023 [https://www.repubblica.it/esteri/2023/03/20/news/grande_bugia_discorso_colin_powell_guerra_iraq-392844001/].

 

“Ai nostri giorni, i discorsi politici servono in gran parte alla difesa dell’indifendibile.”,

scriveva George Orwell, nel 1946.

“Cose come il dominio britannico in India, le epurazioni e le deportazioni russe, il lancio della bomba atomica sul Giappone, possono essere certamente difese, ma solo con argomenti troppo brutali da recepire per la maggior parte delle persone e non attinenti agli scopi professati dai partiti politici. Pertanto, il linguaggio politico deve consistere, soprattutto, in eufemismi vaghi e scontati.” 

Orwell è un acuto osservatore del rapporto tra politica e linguaggio.

Non conia il termine doublespeak, linguaggio doppio, ma rende popolare il concetto, fondendo due termini che usa in 1984, il suo più grande romanzo. Orwell usa il termine doublethink o bi-pensiero, per descrivere un pensiero contraddittorio, mediante cui esprimere un significato opposto a ciò che si pensa. Usa il termine newspeak o neolingua, per descrivere espressioni “formulate appositamente a scopi politici: ovvero, termini che, pur avendo sempre implicazioni politiche, impongano l’attitudine mentale desiderata a chi li utilizza”. 

La storia delle guerre statunitensi per scopi nobili è iniziata con la Prima Guerra Mondiale, che venne venduta agli americani come “la guerra per terminare la guerra” e “la guerra per un mondo adatto alla Democrazia”.

Oggi, un secolo dopo, troviamo che questi slogans siano, decisamente, vuoti. Di solito, chi dichiara guerre metaforicamente si rende conto, sino dall’inizio – come del resto per le guerre reali – che non ci sarà alcuna vittoria. La droga, la povertà, la malattia e il terrorismo sono tutti mali che esistono, da lungo tempo, e non scompariranno, semplicemente, perché qualche politico dichiarerà guerra all’uno o all’altro. Invece, accade, generalmente, che queste guerre generino sistemi burocratici permanenti che prosciugano le risorse, limitandosi a diffondere periodiche esortazioni al pubblico, per compensare il fatto che nessuna vittoria è in vista.

Il popolo americano, che conta 335 milioni di individui e rappresenta il 4,52% della popolazione mondiale, non si è, mai, posto la domanda perché si spenda per il suo esercito e per la sua sicurezza quanto se non di più del resto del mondo. Basti pensare che solo negli ultimi venti anni il Governo americano ha speso la cifra di 8 trilioni di dollari, il cui principale beneficiario non è altri che il complesso industriale-militare.

Il popolo americano, che conta 335 milioni di individui e rappresenta il 4,52% della popolazione mondiale, non si è neppure mai posto la domanda perché, attualmente, occorrano più di 750 basi militari americane disseminate nel mondo, dal momento che l’America è il Paese meglio protetto del mondo, e non solo da un potente esercito e da una competitiva difesa antiaerea, ma soprattutto da due immensi oceani, capaci di scoraggiare, da soli, qualsiasi nemico tentasse di attraversarli per invaderlo. Anche in questo caso, il principale beneficiario della disseminazione e della moltiplicazione delle basi americane attraverso il mondo è il complesso industriale-militare, da cui aveva messo in guardia Eisenhower, sessantaquattro anni fa. Pochi allora vollero attribuire molta importanza alle parole pronunciate il 17 gennaio 1961, da quell’ex-generale a cinque stelle, nel momento in cui stava lasciando la Casa Bianca. Era stato eletto nelle liste del Partito Repubblicano, lo stesso di Donald Trump e di altri outsiders alla politica come l’attore Ronald Reagan. Per Ike – così era chiamato da tutti gli americani l’uomo più popolare degli Stati Uniti – furono sufficienti i due mandati, otto anni, alla Casa Bianca, per comprendere i rischi insiti in un’industria bellica capace di influenzare la politica di una grande potenza come gli Stati Uniti. Voleva un’America in grado di difendersi dagli orrori che aveva visto con i suoi occhi in un’Europa devastata dalla ferocia delle menti e delle armi, ma nutriva molto più di un sospetto sul mostro che era cresciuto in casa per combattere quei mali.

La corsa all’armamento nucleare e convenzionale, imposto dagli Stati Uniti ai loro rivali della Guerra Fredda, le politiche aggressive condotte da Washington in Vietnam, in Medio Oriente e in America Latina e la Guerra Globale contro il terrorismo possono essere comprese solo attraverso l’influenza ingiustificata del complesso industriale-militare, il cui unico interesse si limita al numero di contratti ottenuti e al calcolo della percentuale relativa all’incremento annuale del numero di affari.

Corruzione e finanziamenti sono all’ordine del giorno nel mondo degli armamenti. 

 

 
The Lockheed Bribery Scandals, Church committee

 

Nel 1976, il New York Magazine riferiva che la Commissione Parlamentare d’Inchiesta statunitense, presieduta dal senatore Frank Church, dal 1975 al 1976, che aveva accertato numerosi abusi perpetuati dalle agenzie governative [CIA, FBI] sotto il controllo di quasi tutti presidenti americani da Franklin Delano Roosevelt a Richard Nixon, “ha prove che la Lockheed ha pagato tangenti in almeno quindici Paesi, e che in almeno sei Paesi ha provocato gravi crisi di Governo”.

 L’Italia era uno di questi. 

La Lockheed, dapprima, aveva negato tutto, poi, nell’agosto del 1975, aveva ammesso di avere pagato, a  partire dal 1970, circa 22 milioni di dollari a politici, funzionari e partiti stranieri. 

Mario Tanassi, ex-ministro della difesa, fu condannato dalla Corte Costituzionale per corruzione, a causa dello scandalo Lockheed, nel 1979. Furono condannati anche il generale dell’Aeronautica Duilio Fanali, il segretario di Tanassi Bruno Palmiotti, i faccendieri Ovidio e Antonio Lefebvre e il presidente di Finmeccanica Camillo Crociani, che riuscì a evitare l’arresto, fuggendo in Messico [https://www.ostuniribelle.it/lotta-continua/1976/17-giu-1976.pdf]. 

 

 
SENTENCE PASSED IN LOCKHEED TRIAL
 

Negli Stati Uniti, sia il presidente sia il Congresso sono solo apparentemente l’espressione di chi li ha votati: senza il fondamentale aiuto dei grandi gruppi economici che ne finanziano le sempre più costose campagne elettorali, difficilmente, avrebbero potuto essere eletti. Ciò significa che, per assicurarsi la rielezione, la stragrande maggioranza di loro deve, costantemente, rispondere non ai bisogni di chi li ha votati, ma agli interessi di chi li ha finanziati.

Ecco perché le vere domande da porsi, per cercare di comprendere le scelte strategiche degli Stati Uniti concernono l’individuazione dei grandi gruppi economici che dominano la politica statunitense, strettamente intrecciati tra loro, ossia il complesso militare-industriale, quello energetico estrattivo e quello finanziario, e i loro interessi al riguardo.

In qualunque modo si guardi, e gli sguardi sono sempre molti e articolati, è sempre, fondamentale non perdere di vista la dignità e la vita degli individui che subiscono concretamente le guerre. Se non vogliamo svuotare di senso uno dei pilastri del pensiero moderno, dobbiamo ammettere che i diritti umani devono essere di tutta l’Umanità, che ciò che diamo per scontato per noi deve valere per chiunque, e che il rispetto per la vita umana deve avere la precedenza su qualunque altra considerazione politica o economica. Per questo non solo si deve operare per risolvere ogni conflitto senza l’uso delle armi, ma anche, attivamente, per combattere le disuguaglianze e le ingiustizie che le nostre Democrazie continuano a produrre e incentivare in ogni parte del mondo. 

La follia delle guerre in corso, che tante vittime sta mietendo anche tra gli innocenti civili, dimostra che l’appello di Eisenhower è caduto nel vuoto a causa di stolti ed egoistici dissidi, di contrasti mai sopiti, odi e rivalità, che, ricorrentemente, in varie parti del mondo, generano nuovi conflitti che minano e impediscono la convivenza pacifica tra i popoli.

Delle sofferenze di chi le armi le vede usare contro di sé, di chi dall’aumento dei prezzi dell’energia ricava povertà o più povertà, i grandi gruppi economici, che dominano gli Stati Uniti e ne influenzano le strategie politiche, si disinteressano. È questo il risultato di avere concentrato il potere nelle mani delle Corporations, ossia di persone non fisiche ma giuridiche, che non hanno un cuore o un’anima, ma sono mosse da puri meccanismi di accumulazione di capitale. Tornare alla perduta umanità nelle decisioni politiche, a rappresentare in quella sede i bisogni della gente comune – quella che non conta, ma che vota –, a una “Democrazia” degna del nome, insomma, sembra l’unica via di salvezza possibile, negli Stati Uniti come ovunque. 

Fino a quando continuerà?

Fino all’emersione di quella “cittadinanza vigile e accorta”.

Se mai, un giorno, emergerà!

 

 

Esplosione per le spese militari italiane: nel 2025 a 32 miliardi di cui 13 per le nuove armi

La trasmissione al Parlamento della Legge di Bilancio da parte del Governo permette, come ogni anno, di poter effettuare un’analisi delle allocazioni relative alla sfera della Difesa e degli armamenti, giungendo quindi ad una valutazione della spesa militare previsionale per il 2025. Ovviamente tale cifra è suscettibile di aggiustamenti da implementare nei prossimi mesi: in parte perché potranno essere affinate alcune stime per il momento solo parametrizzate [grazie ad acquisizione di maggiori informazioni specifiche], in parte perché solo fra qualche mese verranno assegnati nel dettaglio alcuni fondi per il momento solo allocati nelle loro cifre complessive [ad esempio quelli legati alle missioni militari all’estero]. Come quasi sempre, tranne in alcune annualità molto particolare in cui si sono realizzate delle modifiche alle legislazioni vigenti determinate da necessità di equilibrio finanziario, la prima parte del Disegno di Legge di Bilancio, che determina gli interventi voluti dal Governo per realizzare le proprie linee politiche, è abbastanza povera di decisioni legate alla sfera della Difesa. Anche il DDL 2112 presentato alle Camere dal Ministro Giorgetti lo scorso 23 ottobre non si discosta da questa consuetudine: nei 124 articoli che lo compongono gli unici riferimenti diretti ed espliciti ad interventi in questa sfera si trovano negli articoli 90 e 91 dedicati il primo ai programmi “Strade Sicure” e “Stazioni sicure”, e il secondo al rifinanziamento del NATO Innovation Fund. Mentre gli importi relativi a questo specifico programma sono di scarsa consistenza [circa 7,7 milioni di euro] ben più rilevanti dal punto di vista finanziario [tralasciando per un momento l’aspetto operativo e politico] sono i circa 240 milioni annui [fino al 2027] che garantiscono la proroga della presenza sulle strade del contingente di circa 6.000 militari già previsto e dell’incremento di 800 unità per quanto riguarda la vigilanza sulle stazioni.

Ovviamente anche questa cifra evidenziata nel DDL, in quanto necessitante di una esplicita proroga di missione, va ad inserirsi nel totale complessivo del Bilancio del Ministero della Difesa, che costituisce il punto di partenza di base per qualsiasi stima delle spese militari. La cifra messa a disposizione del Ministero di via XX Settembre guidato dall’On. Guido Crosetto come “bilancio proprio” evidenzia fin da subito la forte crescita [in termini assoluti e percentuali] di tali spese: per il 2025 il totale infatti si attesta su 31.295 milioni di euro, con una crescita netta di oltre 2,1 miliardi di euro [aumento del 7,31%] rispetto alle previsioni per il 2024. Per la prima volta nella storia viene dunque superata [e di gran lunga] la quota complessiva di 30 miliardi.

Al fine di comprendere la portata di questa continua [e robusta] crescita, non certo episodica, è opportuno fare alcuni confronti in prospettiva storica: nel 2016 – cioè dieci bilanci dello Stato fa – il budget proprio della Difesa era pari a 19.423 milioni di euro, mentre nel 2021 – cioè cinque bilanci dello Stato fa – si attestava su 24.541 milioni di euro. L’aumento decennale in termini assoluti [senza tenere conto di aggiustamenti inflattivi] è stato dunque pari a quasi 11,9 miliardi [+61% nel decennio], mentre quello quinquennale [ancora una volta a valori contabili, senza trasformazioni in valori costanti per tenere conto del potere di acquisto mutato] è stato pari a 6,7 miliardi [+27,5% nel lustro]. Si nota quindi un aumento medio leggermente più marcato negli ultimi cinque anni, con il salto maggiore avvenuto proprio tra il 2024 e il 2025 [l’unico con differenza in valore assoluto di più di 2 miliardi].

Per arrivare alla stima reale di spesa militare [sempre in accordo con la metodologia Mil€x da noi adottata da qualche anno ed esplicitata in questa pagina] è necessario poi effettuare alcuni ricalcoli per riflettere in maniera aderente alle reali operatività militare alcuni costi o interni al Ministero della Difesa ma con scopi differenti [quindi da sottrarre] o esterni allo stesso Ministero e quindi da aggiungere.

Le sottrazioni riguardano in primo luogo la parte non militare dell’impiego operativo dei Carabinieri all’interno della Missione 1 [Difesa e sicurezza del territorio – 005] di cui viene conservata solo una quota relativa al dispiegamento nell’ambito delle missioni militari all’estero. Per alcuni anni il Documento Programmatico Pluriennale della Difesa ha esplicitato tale cifra, da alcuni anni non più presente: per la valutazione previsionale 2025 Mil€x ha dunque utilizzato una parametrizzazione media derivata dalle annualità per cui tale dettaglio era disponibile, mantenendo dunque nell’ambito della spesa militare circa 590 milioni di euro appartenenti al Programma: 1.1 [Approntamento e impiego Carabinieri per la difesa e la sicurezza]. Una ulteriore sottrazione deve poi essere compiuta per la cifra totale [494 milioni] del Programma 2.1 [Approntamento e impiego Carabinieri per la tutela forestale, ambientale e agroalimentare] inserita nella Missione 2 [Sviluppo sostenibile e tutela del territorio e dell’ambiente – 018]. Effettuati questi scorpori, la parte preponderante del “bilancio proprio” della Difesa che rimane nel perimetro delle spese militari è relativa ai costi diretti, soprattutto per il personale, delle tre Forze Armate [5,95 miliardi di euro per l’Esercito; 2,3 miliardi di euro per la Marina; 2,87 miliardi di euro per l’Aeronautica]. Aggiungendo anche la quota prima calcolata per i Carabinieri impiegati nelle missioni all’estero si arriva ad un totale del personale operativo effettivo di 11,7 miliardi di euro. Il totale delle voci non operative, ma più di natura gestionale centrale e politica, è invece di 2,6 miliardi di euro così suddivisi: 1,3 miliardi di euro per lo Stato Maggiore della Difesa, poco più di 50 milioni di euro per il Gabinetto del Ministro, 745 milioni di euro per gli uffici amministrativi e di bilancio della Difesa [216 milioni dei quali riferiti a trasferimenti correnti verso l’estero per somme dovute in particolare per obblighi NATO] e circa 506 milioni di euro per costi di altra natura [trattamento di ausiliaria, indennità varie, rifornimenti, servitù]. Infine, nel “bilancio proprio” della Difesa proprio una quota sempre più rilevante [letteralmente esplosa negli ultimi anni e principale responsabile degli aumenti prima descritti] è quella relativa agli investimenti per nuovi sistemi d’arma. Per la prima volta nello stato previsionale per il 2025 tale cifra è spezzata in due tronconi a seguito della separazione tra Segretariato Generale della Difesa e Direzione Nazionale Armamenti voluta dal Ministro Crosetto, che ha richiesto la creazione di un nuovo Programma contabile [1.10 “Pianificazione dei programmi di ammodernamento e rinnovamento degli armamenti, ricerca, innovazione tecnologica, sperimentazione e procurement militare”] nell’ambito della Missione 1. Sommando a tale voce – che vale da sola 2,6 miliardi di euro di cui poco meno di 2,3 direttamente legati ad acquisizioni dirette di materiali e sistemi per lo strumento militare – quella di 7,1 miliardi [6,7 per acquisizioni dirette] relativa al programma 1.5 [Pianificazione generale delle Forze Armate e approvvigionamenti militari ed infrastrutturali] legato a SegreDifesa si deriva una quota totale di fondi a disposizione diretta della Difesa per i programmi di acquisto di nuovi sistemi d’armamento di oltre 9,7 miliardi di euro. Ma per valutare in maniera complessiva i fondi destinati all’investimento e al procurement militare occorre effettuare una delle aggiunte alla spesa militare extra bilancio della Difesa: quella relativa ai fondi del Ministero delle Imprese e del Made in Italy [ex Ministero dello Sviluppo Economico]. Nel bilancio di tale Ministero è infatti presente un intero Programma [1.9 “Interventi in materia di difesa nazionale” pari a circa 2,9 miliardi di euro] ed un capitolo inserito in un altro Programma [il 7423 “Interventi nei settori industriali ad alta tecnologia” dell’1.8, pari a circa 330 milioni di euro] che portano il totale globale delle spese per la realizzazione dei programmi di armamento previste nel 2025 ad un record storico che sfiora i 13 miliardi di euro [12.983 milioni per la precisione]. Anche per questo rilevante aspetto specifico la portata della continua e significativa crescita si può valutare con dati in prospettiva storica: i costi complessivi per gli investimenti in nuovi armamenti erano pari a 7,3 miliardi di euro nel 2021 [cinque bilanci fa] configurando dunque un balzo nel quinquennio di ben il 77%. Scorporando da questa cifra i costi relativi al personale che [nei due Ministeri] gestire i programmi di procurement si ottiene un totale “puro” di investimento per armi diretto all’industria militare di 12.485 milioni di euro.

Le ultime aggiunte di fondi che permettono di arrivare al totale di spesa militare previsionale per il 2025 riguardano le spese di circa 1,21 miliardi per le missioni militari all’estero [Stima del 90% del totale del Programma: 4.1 “Missioni internazionali” della Nota di previsione MEF pari a 1.345.000.000€] e la stima di 4,5 miliardi di spesa pensionistica militare [le nostre stime precedenti erano a circa 4,25 miliardi ma sono state aumentate per effetto inflativo e a seguito di valutazioni indirette derivate dagli aggiustamenti segnalati su DPP per elaborazione Bilancio in chiave NATO a partire da Bilancio integrato]. La somma complessiva di queste voci porta ad una valutazione – secondo la metodologia Mil€x – della spesa militare italiana diretta per il 2025 a 32.023 milioni di euro, ulteriore record storico con un aumento del 12,4% rispetto al 2024 [+3,5 miliardi in un anno] e del 60% sul decennio [rispetto alla spesa valutata da Mil€x per il 2016 di 19.981 milioni di euro [a valori correnti]

Aggiungendo poi ulteriori due voci di costi indiretti [da noi stimati in qualche caso in passato, ma non che si possono anche non inserire nel totale per coerenza di confronto] legati a costi ed investimenti [dentro e fuori bilancio Difesa] per basi militari e alle quote di compartecipazione per spese di natura militare in ambito UE si potrebbe aumentare il totale complessivo di un ulteriore miliardo, giungendo quindi a superare i 33 miliardi di euro. Considerando per valida [anche se in realtà appare eccessiva] la stima del PIL previsionale 2025 presente nel NADEF ciò equivale ad un rapporto di spesa militare sul PIL dell’1,42% se consideriamo i soli costi diretti e dell’1,46 se invece si inseriscono anche gli ultimi costi indiretti segnalati. Va qui notato come le stime Mil€x si sono sempre storicamente allineate, con scostamenti tutto sommato minimi, ai ricalcoli di spesa militare che il Ministero della Difesa esegue, esplicitandoli nel DPP, per organizzazioni come l’OCSE [200 milioni di differenza con Mil€x per il 2024] o istituti di ricerca come il SIPRI [600 milioni di differenza con Mil€x per il 2024] con le nostre stime sempre più conservative rispetto a quelle calcolate dal Ministero stesso anche con altre metodologie. Una grossa differenza si evidenzia invece con il conteggio effettuato per il cosiddetto “bilancio in chiave NATO” che, per quanto riguarda il dato 2024, vedeva una differenza di ben 3,8 miliardi in più per tale valutazione rispetto a quella prodotta dall’Osservatorio Mil€x. Se tale forbice dovesse mantenersi anche per il 2025, considerando l’aumento che abbiamo registrato e dettagliato a partire dalle Tabelle della Legge di bilancio, il rapporto sul PIL della spesa militare con valutazione NATO [quella che conta per l’Alleanza Atlantica come parametro per il raggiungimento del famoso 2% - non vincolante] potrebbe arrivare ad attestarsi a circa l’1,58% cioè in forte crescita [diversamente da quanto previsto nelle valutazioni esplicitate nel Documento Programmatico della Difesa].

NB In tutta questa analisi [condotta congiuntamente da Francesco Vignarca ed Enrico Piovesana] vengono tenuti in considerazione le cifre di Competenza per l’anno 2025, non quelle relative ai flussi di cassa.

Francesco Vignarca, Esplosione per le spese militari italiane: nel 2025 a 32 miliardi [di cui 13 per nuove armi], Mil€x,  30 ottobre 2024 [https://www.milex.org/2024/10/30/esplosione-per-le-spese-militari-italiane-nel-2025-a-32-miliardi-di-cui-13-per-nuove-armi/]

 

 

 

Meloni: “La NATO deve adeguarsi alle nuove sfide, che vanno dall’AI alle guerre sempre più ibride”.

Tenere al sicuro il nostro miliardo di persone è dovere della NATO e per questo stiamo rafforzando le nostre capacità industriali producendo più navi, missili e proiettili, ma bisogna farlo in modo più veloce ai fini della deterrenza e per sostenere l’Ucraina. Ringrazio per gli 8,2 miliardi di spesa annunciati dal vostro paese. Dobbiamo raggiungere il 2% del PIL”.

Sono queste le parole del Segretario Generale della NATOMark Rutte, al termine dell’incontro avvenuto oggi a Palazzo Chigi con il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Al centro dell’incontro il ruolo dell’Alleanza atlantica quale pilastro imprescindibile per la sicurezza comune a fronte delle molteplici aree di instabilità, nonché il contributo di primo piano dell’Italia alla difesa euroatlantica a 360 gradi. 

Discussi anche il sostegno alla legittima difesa dell’Ucraina, il rafforzamento del pilastro europeo dell’Alleanza anche a favore di un’industria della difesa sempre più innovativa e competitiva, nonché il necessario adattamento della NATO alle nuove sfide di sicurezza in modo particolare dell’AI.

“Tutti sappiamo che è necessario che la NATO sia sempre più capace di evolvere per essere all’altezza di un tempo che intorno a noi sta cambiando. Ci sono nuove sfide che sono inevitabilmente legate al concetto di difesa, al concetto di sicurezza, dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale fino ai domini di guerre che diventano sempre più ibride”, ha dichiarato il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. E quindi l’interconnessione necessaria nelle competenze dell’alleanza è una interconnessione fondamentale, una capacità di rimettersi continuamente in discussione”, ha aggiunto Meloni.

“L’incontro di oggi chiaramente è stata l’occasione per ribadire da parte nostra il ruolo fondamentale che l’Italia riveste all’interno dell’Alleanza Atlantica. Noi siamo leader nella Nato per la qualità, la quantità della nostra azione, particolarmente siamo il primo contributore in termini assoluti alle operazioni e alle missioni dell’Alleanza Atlantica e quindi anche al bilancio della NATO. Il ruolo della nostra azione – ha continuato il Presidente – si articola anche attraverso la nostra presenza lungo il fianco orientale dell’Alleanza, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Ungheria, ma anche con i dispositivi navali nel Mediterraneo, con le missioni in Iraq e in Kosovo, dove abbiamo nuovamente assunto il comando della Missione KFOR da pochi giorni, a testimonianza dello storico impegno in una regione come i Balcani, che per l’Italia è, e rimane cruciale. Voglio cogliere questa occasione per ringraziare ancora una volta i nostri uomini, le nostre donne, le nostre Forze armate che sono impegnate in queste missioni e operazioni, per la credibilità che conferiscono alla nostra Nazione e per la credibilità dell’Alleanza che contribuiscono a creare”, ha detto il presidente del Consiglio.

L’Ucraina al centro dell’incontro

“Al centro del nostro colloquio anche il sostegno degli alleati alla legittima difesa dell’Ucraina, il ruolo di coordinamento che la NATO può esercitare e deve esercitare da questo punto di vista. Il nostro obiettivo comune rimane lo stesso, ovvero costruire le migliori condizioni possibili per una Pace giusta, per aiutare l’Ucraina a guardare avanti. L’Italia – ha aggiunto – da questo punto di vista ha sempre fatto la propria parte: siamo arrivati al nono pacchetto di aiuti militari, concentrandoci come sempre in particolare sui sistemi di difesa antiaerea, che significa soprattutto difendere la popolazione civile, questo al netto del sostegno che l’Italia continua a dare a 360 gradi, dal punto di vista umanitario fino alla ricostruzione.

Ospiteremo nel 2025 la Ukraine Recovery Conference qui a Roma, un importante evento sul quale il Governo italiano è già al lavoro, sul quale tutto il sistema-Italia è già al lavoro. Ovviamente stiamo continuando a lavorare anche per garantire l’attuazione dell’accordo sull’utilizzo degli interessi generati dagli asset russi immobilizzati, che è stato uno dei grandi “achievements”, dei grandi obiettivi e risultati della Presidenza italiana del G7, del Vertice dei leader del G7. Abbiamo discusso di come rafforzare l’Alleanza nel suo complesso. Come sapete, noi sosteniamo da sempre la necessità che, al pilastro nordamericano della NATO, si affianchi un solido pilastro europeo. È una visione che condividiamo con il nuovo Segretario Generale e condividiamo il fatto che è essenziale per tutti noi lavorare a un’industria europea della difesa che sia innovativa, che sia competitiva, che sfrutti la complementarietà tra la NATO e l’Unione europea.

Il Segretario generale ed io siamo d’accordo anche sul fatto che l’Alleanza debba sempre più rivolgere il suo sguardo sul fianco sud dell’Alleanza. Questo è un lavoro di attenzione alla dimensione del fianco sud dell’Alleanza, che l’Italia ha contribuito a fare in questi due anni, che ha portato all’ultimo Vertice della NATO anche a realizzare uno specifico capitolo delle Conclusioni che parlava proprio di un rinnovato impegno, con degli strumenti da mettere in campo per rafforzare la nostra attenzione verso il fianco sud. Chiaramente per noi è molto importante che questo pacchetto di iniziative venga portato avanti e, su questo, c’è piena disponibilità da parte di Mark, che è sempre stato molto sensibile anche a questa dinamica”, ha concluso.

Piermario Boccellato, NATO, Rutte ringrazia l’Italia “per gli 8,2 miliardi di spesa”. Meloni: “Puntare su industria europea Difesa”, CyberSecurity Italia, 5 Novembre 2024 [https://www.cybersecitalia.it/nato-rutte-ringrazia-litalia-per-gli-82-miliardi-di-spesa-meloni-puntare-su-industria-difesa/40418/].

 

Ospite di Carnegie Europe, il segretario generale della NATO alza l’asticella della spesa militare: “Avremo bisogno di molto di più”, perché la Russia “si sta preparando a un conflitto a lungo termine”. Rutte punta il dito anche contro Pechino, che si sta rafforzando “senza trasparenza e limitazioni”

Bruxelles – Non perde tempo Mark Rutte, il nuovo segretario generale della NATO. La sua prima uscita pubblica di spicco dopo essersi insediato alla guida dell’Alleanza militare atlantica è quasi un appello alle armi: È ora di passare a una mentalità di guerra”, ha affermato l’ex premier olandese, perché “il pericolo si muove verso di noi a tutta velocità”. Di fronte ad una Russia che “si sta preparando a un conflitto a lungo termine” e che nel 2025 spenderà tra il 7 e l’8 per cento del PIL per armarsi, la soglia del 2 per cento fissata dalla NATO non basta più.

“Avremo bisogno di molto di più”, ha avvisato Rutte, incalzato dalla direttrice di Carnegie Europe, Rosa Balfour, di fronte ad una platea composta da giornalisti, funzionari europei, imprenditori ed esperti del settore della difesa. Un nuovo obiettivo di spesa militare condiviso a livello NATO ancora non c’è, “ma è evidente che nei prossimi mesi dovremmo accordarci su quale sarà la nuova soglia”. Rivolto non solo ai governi di quei pochi Paesi – tra cui l’Italia – che ancora non hanno raggiunto la soglia del 2 per cento, ma alle banche, ai fondi di pensione, fino all’opinione pubblica e ai cittadini, il segretario generale ha affermato chiaramente: “È inaccettabile rifiutarsi di investire nella difesa”. Anche se “significa spendere meno per le altre priorità”, le pensioni, la sanità, la previdenza sociale. L’Alleanza Atlantica “ha bisogno di una piccola percentuale” di quel denaro.

La minaccia militare, ha messo in chiaro Rutte, non è immediata: “Per ora il nostro deterrente è buono, ma tra tre o quattro anni potrebbe non esserlo più”. Perché è sempre più evidente che Russia, Cina, Corea del Nord e Iran “stanno lavorando insieme per assicurarsi la propria sfera di influenza”. A preoccupare sempre di più, al di là del nemico pubblico numero uno, Vladimir Putin, è l’atteggiamento di Pechino. La Cina “sta aumentando in modo sostanziale le sue forze, comprese le armi nucleari, senza trasparenza e limitazioni”, ha puntato il dito Rutte.

La “priorità assoluta” per i 32 alleati della NATO è quella di rafforzare l’industria della difesa, segnata da “decenni di investimenti insufficienti” e rimasta “troppo piccola, troppo frammentata e troppo lenta”. Non si tratta solo di spendere di più, ma di spendere meglio. E insieme: per Rutte, a livello europeo sarebbe importante insistere nella direzione di acquisti congiunti, “altrimenti l’impatto finanziario sarà enorme”. Per soddisfare le richieste del segretario generale, la Commissione europea ha già riconosciuto gli investimenti per la difesa come una priorità, allargando le maglie del rigore di bilancio per la spesa pubblica in questo ambito.

Eppure, alle porte c’è il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, che potrebbe intavolare molto prima del previsto una trattativa di Pace con il Cremlino. Dopo l’esito delle elezioni americane, l’eventualità di sedersi a un tavolo negoziale con Putin ha preso peso, anche perché altrimenti Washington potrebbe ridimensionare il suo impegno per la resistenza dell’Ucraina. Per Rutte, le speculazioni sui parametri da mettere in gioco per concludere la guerra vanno a vantaggio di Mosca: “C’è il rischio enorme di cominciare un negoziato senza nemmeno essere seduti al tavolo”, ha avvertito. L’importante sarà assicurare le garanzie di Pace richieste da Zelensky, perché se sarà Putin a uscire vincitore dalla trattiva, sarà “un cattivo accordo”.

Sul rapporto con il nuovo inquilino della Casa Bianca, che minaccia di chiudere l’ombrello di protezione a stelle e strisce sull’Europa, Rutte ha smorzato i toni. Trump vuole spingerci e ha perfettamente ragione, da quando è diventato presidente nel 2017 abbiamo accelerato” sulla difesa. Ma sia chiaro, la NATO “non vuole spendere di più perché lo vuole lui, ma perché è in gioco la nostra sicurezza”.

Simone De La Feld, NATO, l’allarme di Rutte: “Passare a una mentalità di guerra”. Il 2 per cento del PIL in difesa non basta più, Eunews, 12 dicembre 2024 [https://www.eunews.it/2024/12/12/nato-rutte-mentalita-difesa-2-per-cento/].

Dall’inizio della guerra in Ucraina, il 24 febbraio 2022, sono più di 270.000 le armi che sono state perse o rubate, vale a dire il 40% delle armi registrate. La situazione è peggiorata ulteriormente nel 2024, anno durante il quale sono state perse o rubate più armi rispetto all’intero anno precedente, raggiungendo le 78.217 unità di armi scomparse. Lo riporta Opendatabot, portale ucraino che si occupa dei problemi e delle cifre relative alle armi, riferendo anche che i dati sui furti sono quadruplicati rispetto al periodo antecedente l’invasione dell’Ucraina, ossia negli otto anni di conflitto nel Donbass. Lo scenario è preoccupante, in quanto la scomparsa delle armi può alimentare il mercato nero e facilitarne il convoglio nelle mani della criminalità organizzata. Le scomparse maggiori si sarebbero registrate nella regione in prima linea di Donetsk [19,4%] e nella regione di Zaporizhzhia [11,8%], nonché a Kiev [10%].

Come riferisce Ukrainian News, “I fucili da caccia [27,9%], i fucili d’assalto [27,8%] e le carabine [10,8%] sono quelli che vengono persi più spesso. E tra i modelli, il fucile d’assalto AK-74 è il leader – 51.008 unità [18,8%], così come le pistole PM [7,4%] e le carabine SKS [4,4%]”. Secondo i dati ufficiali, solo il 12% delle armi scomparse sarebbero state rubate, ma è assai probabile che la percentuale sia più alta, in quanto la sottrazione dai magazzini sembra essere la prima causa dello svuotamento degli arsenali ucraini, soprattutto da quanto il presidente ucraino Zelensky, nell’agosto 2024, ha firmato una legge che conferisce ai civili il diritto di dichiarare, possedere e utilizzare armi da fuoco e munizioni ritrovate per proteggersi dall’aggressione delle forze russe. Dal giugno del 2023, invece,è operativo il Registro elettronico unificato delle armi da fuoco: da allora, i cittadini possono chiedere un permesso per acquistare, custodire e portare armi. Secondo il Ministero degli Affari Interni dell’Ucraina, sono state presentate quasi 226.000 richieste di permesso per ottenere armi e il numero medio di domande mensili è aumentato di 1,8 volte rispetto ai primi mesi di esistenza del Registro unificato delle armi.

Nonostante vi sia l’obbligo di registrare tutte le armi, molti cittadini potrebbero scegliere di non registrarsi, poiché ciò li costringerebbe a restituire i propri mezzi di protezione alla fine della guerra. Secondo un articolo della Global Initiative Against Transnational Organized Crime [GI-TOC], “il vasto numero di armi non tracciate potrebbe costituire una riserva per la criminalità organizzata e i trafficanti. I crimini legati alle armi potrebbero aumentare, soprattutto dato l’elevato numero di utenti addestrati che tornano dalle linee del fronte”.  Un altro rapporto della stessa organizzazione evidenzia inoltre che “L’afflusso di armi in Ucraina dopo l’invasione su vasta scala della Russia nel febbraio 2022, aggiunto a una riserva di armi già ampia nel Paese [soprattutto dopo lo scoppio del conflitto nel 2014], ha suscitato preoccupazione per la diffusione di queste armi nelle mani di criminali nell’Europa occidentale e per il possibile effetto sulle attività della criminalità organizzata”.

Già nell’estate del 2022, l’emittente americana CBS aveva condotto un’inchiesta sulle forniture di armi all’Ucraina da parte dei Paesi occidentali – riassunta nel documentario Arming Ukraine – da cui emergeva che solo il 30% delle forniture di armi arriva effettivamente in Donbass, lungo la linea del fronte. Il restante 70% nella migliore delle ipotesi sarebbe rimasto fermo nei centri di smistamento allestiti in Europa o nei depositi situati nell’ovest dell’Ucraina; nella peggiore, sarebbe addirittura sparito. Il problema del controllo delle armi continua ad essere presente, specie ora che i civili hanno il permesso di utilizzarle, ed è peggiorato con il ritrovamento delle cosiddette “armi da trofeo”, vale a dire quelle raccolte sul campo di battaglia. Secondo una stima ufficiale, il numero di queste armi ammonta a circa cinque milioni. L’articolo della GI-TOC fa notare che “la situazione attuale in Ucraina richiede una riflessione nuova e specifica sul tema del controllo delle armi”, in quanto al momento ci sarebbe ancora “una finestra critica di opportunità per adottare e implementare un quadro giuridico efficace che possa affrontare le armi illegali in Ucraina prima che diventino un rischio importante per la criminalità organizzata”.

Giorgia Audiello, In Ucraina sarebbero scomparse almeno 270 mila armi dall’inizio della guerra, L’Indipendente, 19 Settembre 2024 [[https://www.lindipendente.online/2024/09/19/in-ucraina-sarebbero-scomparse-almeno-270-mila-armi-dallinizio-della-guerra/].

 

 

 
Guerra senza finee senza fini.

“Se c’è veramente una caratteristica fondamentale della guerra moderna, è quella - che abbiamo imparato a partire dalla Seconda guerra mondiale - per cui i danni causati ai civili e alle città non sono più considerati danni collaterali, ma sempre danni deliberati. Gli eserciti possono essere sconfitti sui campi di battaglia, ma poi per eliminare una forza avversaria bisogna trovare il modo di impedire che le città – che sono il centro della legge, dell’amministrazione, della sopravvivenza della persone – vengano distrutte. Questa è una cosa fondamentale, che non spiega il perché oggi si combatta nelle città. É una forma di comprensione, ovvero che esistono delle dinamiche al di fuori degli eserciti e degli stessi Stati. Una cosa  veramente importante, che è successa negli ultimi trent’anni, è che le guerre non hanno più fine: non è solo che la Pace non ha più possibilità, ma che la guerra non ha più fine e, soprattutto, non ha più fini. Non esistono scopi positivi della guerra, esistono soltanto scopi negativi: negazione a qualcun altro di qualcosa che, con diritto o senza diritto, lui vuole ottenere. Quindi siamo in una specie di morsa, con due ganasce: da una parte il diritto e dall’altra parte la difesa di quella che è l’umanità, la civiltà e la salvaguardia delle persone.”

 

 

Soldier

George L. Skypeck

 

I was that which others did not want to be.

I went where others feared to go,
And did what others failed to do.

I asked nothing from those who gave nothing,
And reluctantly accepted the thought of eternal loneliness
Should I fail.

I have seen the face of terror;
Felt the stinging cold of fear;
And enjoyed the sweet taste of a moment’s love.

I have cried, pained, and hoped
But most of all,
I have lived times others would say were best forgotten.

At least someday I will be able to say that I was proud of what I was.
A soldier.[15]

 

 

 

Ninna nanna della guerra
Trilussa


Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co le zeppe,
co le zeppe d’un impero
mezzo giallo e mezzo nero.

Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili

Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.

Ché quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse.

Fa la ninna, cocco bello,
finché dura sto macello:
fa la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.

E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!

 

 

Prima Parte

Why war?

Perché la guerra?

Pourquoi la guerre?


“Someday they’ll give a war and nobody will come.”

“Un giorno faranno una guerra e nessuno vi parteciperà.”

“Un Jour, on organisera une guerre et personne ne viendra.”

Carl Sandburg

 

 

 Grass

Carl Sandburg

 

Pile the bodies high at Austerlitz and Waterloo,
Shovel them under and let me work –
I am the grass;  I cover all.

 

And pile them high at Gettysburg
And pile them high at Ypres and Verdun.
Shovel them under and let me work.
Two years, ten years, and passengers ask the conductor:
What place is this?
Where are we now?

 

I am the grass.
Let me work.
.[16]

 

 

Arnold Böcklin, Autoritratto con la morte che suona il violino, 1872.

 


 

Carteggio Einstein – Freud

[1932]


Albert Einstein una volta chiese a Sigmund Freud:

“C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”


  

Cosa spinge gli uomini alla guerra e come liberarli da questa terribile fatalità?

È il quesito che, il 30 luglio 1932, Albert Einstein pone a colui che può considerarsi il grande “conoscitore della vita istintiva umana”, Sigmund Freud.

Il giorno dopo, in Germania, si terranno le elezioni politiche generali. Dalle urne usciranno vincitori i nazionalsocialisti di Adolf Hitler, che con 13,7 milioni di voti [il 37% dei votanti] e 230 deputati, diverranno il primo partito tedesco.  

Nella primavera del 1915, in pieno conflitto mondiale, Freud aveva, già, pubblicato, in Imago, Zeitgemässes über Krieg und Tod, un’amara meditazione sul senso e il non senso della guerra.

“La Storia primordiale dell’Umanità è infatti piena di assassinii. Ancor oggi quella che i nostri figli imparano a scuola come Storia universale non è in realtà altro che una lunga serie di uccisioni fra i popoli.”[17]

Il 28 giugno 1914, l’Impero austro-ungarico, a seguito dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, aveva dichiarato guerra alla Serbia e moltissimi giovani, tra cui Ernst Jünger, Franz Rosenzweig e i tre figli maschi di Freud, Jean Martin, Oliver ed Ernst, provarono l’ebbrezza della guerra e si arruolarono volontari per andare a combattere al fronte. Il bagno di sangue veniva percepito come l’occasione per una rinascita collettiva, ma l’entusiasmo della guerra durò solo pochi mesi.

E così fu, anche, per Freud.

Diversamente dai suoi figli, dal genero e da qualche fedele seguace come Karl Abraham o Sándor Ferenczi, Freud non fu arruolato. È dunque dalle “retrovie”, testimone impotente e inquieto, che pensa la guerra. Sebbene questo posto di ’osservazione gli risparmi l’orrore dei combattimenti, nondimeno al cuore della sua riflessione si trova lo scatenamento della violenza. Lo attestano le Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in cui si trovano enunciati i punti di forza di quella che può costituire una teoria freudiana, se non della guerra, quantomeno della passione distruttrice che caratterizza il furore guerriero. Aveva immaginato una rapida conclusione del conflitto, ma, alla fine del 1914, gli fu chiaro che alla guerra di invasione succedeva la guerra, lunga e cruenta, di posizione e di trincea. La guerra non aveva fatto che mettere in evidenza quello che la psicoanalisi aveva, già, teorizzato sull’aggressività umana.

Freud introduce la sua riflessione sottolineando il carattere di godimento senza limite all’opera in quella guerra. A questo proposito scrive:

“La guerra cui non volevamo credere è scoppiata e ci ha portato… la delusione. Non soltanto è più sanguinosa e rovinosa di ogni guerra del passato, e ciò a causa dei tremendi perfezionamenti portati alle armi di offesa e di difesa, ma è anche perlomeno tanto crudele, accanita e spietata quanto tutte le guerre che l’hanno preceduta. Essa infrange tutte le barriere riconosciute in tempo di Pace e costituenti quello che è stato chiamato il diritto delle genti, disconosce le prerogative dei feriti e del medico, non fa distinzione fra popolazione combattente e popolazione pacifica, viola il diritto di proprietà. Abbatte quanto trova sulla sua strada con una rabbia cieca, come se dopo di essa non dovesse più esservi avvenire e Pace tra gli uomini. Spezza tutti i legami di solidarietà che possono ancora sussistere tra i popoli in lotta e minaccia di lasciare dietro di sé un rancore tale da rendere impossibile per molti anni una loro ricostituzione.

[…]

Due fatti hanno suscitato in questa guerra la nostra delusione: la scarsa moralità verso l’esterno di quegli Stati che all’interno si erigono a custodi delle norme morali, e la brutalità del comportamento di quei singoli individui che, in quanto membri della più progredita civiltà umana, non ci saremmo aspettati capaci di tanto.”[18] 

Si coglie in pieno la percezione dell’immane gravità della guerra appena iniziata, che, per questo, fu definita la Grande Guerra, e non soltanto perché, dopo l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, in soli quindici giorni, coinvolse tutte le maggiori Potenze europee, ma anche perché, come scrisse Freud, si prospettava più “sanguinosa e rovinosa” delle precedenti. Di fatto, produsse su entrambi i fronti circa 10 milioni di morti e 20 milioni di feriti. In quegli stessi anni, un virus contagioso, conosciuto come influenza spagnola, reso più aggressivo dalla mobilitazione posta in essere a causa del conflitto, produsse altri 20 milioni di morti. Una carneficina di questa entità non si era, mai, vista in Europa e nel mondo; purtroppo tale macabra contabilità fu, presto, superata dalla Seconda Guerra Mondiale che, per precise motivazioni di ordine storico, fu il naturale prolungamento della prima.

Uno degli aspetti che Freud sottolineava nel brano citato era il carattere totale della guerra. Ciò la differenziava dai conflitti precedenti [come la Guerra Franco-Prussiana del 1870], generalmente molto localizzati e circoscritti all’ambito militare. Nella Grande Guerra, invece, saltarono le regole del gioco, secondo le quali si erano svolte le guerre dell’Ancien Régime: non cera più differenza tra Militari e Civili, tra Verità e Propaganda, tra Scienza, Tecnica e Politica. Il conflitto, tuttavia, nacque e si sviluppò secondo logiche politiche e diplomatiche che erano proprie di quel mondo ormai superato; fu, infatti, deciso nei diversi Paesi da ristrette élites di governanti e di militari, senza consultare altri attori della vita politica e sociale, destinati a portare il peso della guerra.

I cinque anni di guerra avevano causato quei circa 10 milioni di vittime, anche grazie alla “scienza” e alla tecnologia, che avevano prodotto automobili, gas tossici, lanciafiamme, sommergibili, bombardamenti sui civili.

L’Armistizio di Compiègne[19] dell’11 novembre 1918 portò un sollievo, ma anche l’illusione che la guerra fosse finita. Tutto non era più quello di prima: erano crollati i miti della razionalità umana, propri dell’Illuminismo e del Positivismo, i miti dei valori dell’Occidente e del progresso scientifico, tecnico, economico, morale e politico.

La risposta a Einstein di Freud, instancabile distruttore delle illusioni, da quelle religiose a quelle marxiste, testimonia dell’avanzamento teorico rispetto a Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte. Sottolinea in particolare la messa in funzione della pulsione di morte nella sua articolazione antagonista e, tuttavia, inestricabile, con la pulsione di vita. Come spiega in sintesi, non è per piacere né per sadismo che gli uomini sono spinti a uccidersi vicendevolmente, ma per questo godimento oscuro. Per il resto, la teoria del conflitto, che proponeva, nel 1915, viene mantenuta, con la differenza che nella lotta interiore che oppone le pulsioni distruttrici al Super-io, quest’ultimo lascia il posto alle pulsioni di vita. È questo che gli permette di evitare il paradosso in cui si era trovato nel 1915, per concludere dieci anni più tardi:

“Tutto ciò che favorisce l’incivilimento lavora anche contro la guerra.”

La consueta limpidezza di scrittura nasconde, a malapena, la difficoltà dei temi e delle argomentazioni e, soprattutto, riunisce quanto c’è di più inquietante, ambivalente, disunito, nell’agire umano.

Freud ha vissuto la prima catastrofe del Novecento. Ha conosciuto la Prima Guerra Mondiale e, in seguito, l’ascesa del nazismo. Ha assistito all’inesorabile marcia di Hitler verso la Seconda Guerra Mondiale e presagito quello che sarebbe accaduto di là a poco. Lucidamente aveva compreso che il seme della distruzione è infitto nel cuore dell’Umanità, come scriveva, il 4 marzo 1923, a Romain Rolland:

“Io appartengo, invero, a una razza che nel Medioevo fu resa responsabile di tutte le epidemie e che oggi dovrebbe sopportare la colpa della distruzione dell’Impero in Austria e della sconfitta in Germania. Esperienze del genere lasciano disincantati e rendono poco inclini a credere nelle illusioni. Del resto, ho effettivamente impiegato una gran parte del lavoro della mia vita [ho dieci anni più di lei] a distruggere le illusioni mie e dell’Umanità. Ma se quest’unica non si realizzerà almeno approssimativamente, se nel corso dell’evoluzione non impareremo a deviare dai nostri simili i nostri istinti di distruzione, se continueremo a odiarci reciprocamente per piccole diversità e ad ammazzarci per guadagni meschini, se continueremo a utilizzare i grandi progressi nel dominio delle forze della natura per la nostra distruzione reciproca, qual futuro ci attende?” 

Testimone della sua epoca e analista avvertito del disagio della civiltà, ha tratto insegnamento dalla guerra. È senza ottimismo rispetto all’esito della lotta tra Eros e Thanatos che arriva, dunque, a queste conclusioni. 

 

 

 

Caputh [Potsdam], 30 luglio 1932

Caro signor Freud, 

la proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto per la Cooperazione Intellettuale” di Parigi, di invitare una persona a mio gradimento a un franco scambio di opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la benvenuta occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare a me, nella presente condizione del Mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? È ormai sufficientemente risaputo che, col progredire della tecnica moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante la massima buona volontà, tutti i tentativi di soluzione sono purtroppo miseramente falliti. Penso anche che coloro ai quali spetta di affrontare il problema da un punto di vista professionale e pratico diventino di giorno in giorno più consapevoli della propria impotenza e abbiano oggi un vivo desiderio di conoscere le opinioni di persone impegnate nella ricerca scientifica, le quali per ciò stesso vedano i problemi del Mondo con sufficiente distacco. Quanto a me, l’obiettivo cui si rivolge abitualmente il mio pensiero non mi è d’aiuto nel discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano. Pertanto, riguardo a tale inchiesta, dovrò limitarmi a cercare di porre il problema nei suoi giusti termini, consentendoLe così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di valersi della Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce la scienza psicologica non può esplorare le correlazioni e i confini, pur avendone un vago sentore; sono convinto che Lei potrà suggerire percorsi educativi, più o meno estranei all’ambito politico, che elimineranno questi ostacoli.

Essendo immune da sentimenti nazionalistici, vedo una maniera semplice di affrontare l’aspetto esterno, cioè organizzativo, del problema: gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro. Ogni Stato si assuma l’obbligo di rispettare i decreti di questa autorità, di invocarne la decisione in ogni disputa, di accettarne senza riserve il giudizio e di attuare tutti i provvedimenti che essa ritenga necessari per far applicare le proprie ingiunzioni. Qui s’incontra la prima difficoltà: un tribunale è un’istituzione umana che tanto più è soggetto alle pressioni extragiudiziali quanto meno potere ha di far rispettare le proprie decisioni. Vi è qui una realtà da cui non possiamo prescindere: diritto e potere sono inscindibili, e le decisioni del diritto tanto più s’avvicinano all’ideale di giustizia, cui la comunità aspira e nel cui nome e interesse vengono pronunciate le sentenze, quanto più cui tale comunità ha il potere effettivo di imporre il rispetto del proprio ideale di giustizia. Oggi siamo però lontanissimi dal possedere una organizzazione sovranazionale che sia in grado di emettere verdetti di autorità incontestata e imporre con la forza di sottomettersi all’esecuzione delle sue sentenze. Giungo così al mio primo assioma: la ricerca della sicurezza internazionale implica che ogni Stato rinunci, entro certi limiti, alla propria libertà d’azione, vale a dire alla propria sovranità, ed è incontestabilmente vero che non v’è altra strada per arrivare a siffatta sicurezza. 

L’insuccesso degli sforzi pur generosissimi che nell’ultimo decennio sono stati profusi per raggiungere questa meta ci fa concludere senz’ombra di dubbio che agiscono in questi casi forti fattori psicologici che paralizzano gli sforzi. Alcuni di questi fattori sono evidenti. La sete di potere della classe dominante si oppone in ogni Stato a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere politico viene sovente alimentato dalla brama di potere di un altro ceto sociale, che mira a conquistare vantaggi materiali, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di persone che, attive in ogni popolo e inaccessibili a qualsivoglia considerazione o scrupolo sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e commercio delle armi, soltanto un’occasione per ottenere vantaggi personali e ampliare l’ambito del proprio potere. 

Tuttavia l’aver riconosciuto questo dato inoppugnabile ci ha soltanto fatto fare il primo passo per capire come stiano oggi le cose. Ci troviamo subito di fronte a un’altra domanda: com’è possibile che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha soltanto da soffrire e da perdere? [Parlando della maggioranza non escludo i soldati, di ogni grado, che hanno fatto della guerra il loro mestiere, convinti di giovare alla difesa dei più alti interessi della loro stirpe e persuasi che qualche volta il miglior metodo di difesa è l’attacco]. Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che questa minoranza di individui al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di dominare e orientare i sentimenti delle masse, rendendoli docili strumenti della propria politica. 

Pure, questa risposta non dà neanch’essa una soluzione completa e fa sorgere un ulteriore interrogativo: com’è possibile che la massa si lasci infiammare con i suddetti mezzi fino al furore e all’olocausto di sé? Una sola risposta è possibile. Perché l’uomo alberga in sé il bisogno di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua inclinazione rimane latente, solo in circostanze eccezionali essa viene alla luce; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del fatale complesso di fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani. 

Arriviamo cosi all’ultima domanda. Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino più capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione? E non penso affatto solo alle cosiddette masse incolte. La mia esperienza dimostra anzi che è proprio la cosiddetta “intellighenzia” a cedere per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata. 

Concludendo: ho parlato sinora soltanto di guerre tra Stati, ossia di conflitti internazionali. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che l’aggressività umana opera anche in altre forme e in altre circostanze [penso alle guerre civili, per esempio, dovute un tempo al fanatismo religioso, oggi a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di minoranze razziali]. Ma ho insistito a bella posta sulla forma più rappresentativa, rovinosa e sfrenata di conflitto tra comunità umane, in quanto mi è sembrato che ciò mi offrisse il destro di dimostrare quali siano le strade per rendere impossibili tutti i conflitti armati.

So che nei Suoi scritti possiamo trovare risposte esplicite o implicite a tutti gli interrogativi connessi con questo problema urgentissimo al quale ci stiamo interessando.  Sarebbe tuttavia della massima utilità per noi tutti se Lei illustrasse direttamente il problema della Pace mondiale alla luce delle Sue recenti scoperte; tale esposizione potrebbe infatti indicare la strada a nuovi e validissimi modi d’azione.

Molto cordialmente Suo

Albert Einstein

 

 

Vienna, settembre 1932 

Caro signor Einstein, 

quando ho saputo che Lei aveva intenzione di invitarmi a uno scambio di idee su di un tema che Le interessa e che inoltre Le sembra degno dell’interesse di altre persone, mi sono subito dichiarato disponibile. Mi aspettavo che Lei avrebbe scelto un problema al limite del conoscibile al giorno d’oggi, cui ciascuno di noi, il fisico come lo psicologo, avrebbe potuto aprirsi la sua particolare via d’accesso, in modo che da diversi lati ci si potesse incontrare sul medesimo terreno. Ma poi Lei mi ha sorpreso ponendomi la domanda di che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la fatalità della uerra. Sono stato spaventato per prima cosa dall’impressione della mia – starei quasi per dire: della nostra – incompetenza, sembrandomi infatti questo un compito pratico la cui soluzione spetta agli uomini di Stato. Ma ho compreso poi che Lei ha sollevato la questione non come scienziato e come fisico, bensì come amico dell’Umanità, che aveva risposto alla sollecitazione della Società delle Nazioni, così come fece l’esploratore polare Fridtjof Nansen allorché si assunse l’incarico di soccorrere gli affamati e le vittime senza patria della guerra mondiale. Ho anche riflettuto che non si pretende da me che io faccia proposte pratiche, ma che devo soltanto indicare come il problema della prevenzione della guerra si presenta alla considerazione di uno psicologo. Ma anche a questo riguardo quel che c’era da dire è già stato detto in gran parte nel Suo scritto. In certo qual modo Lei mi ha tolto vento alle mie vele, ma io viaggio volentieri nella Sua scia, preparandomi perciò a confermare tutto ciò che Lei mette innanzi e svolgendolo più ampiamente seguendo le mie migliori conoscenze [o congetture].

Lei comincia con il rapporto tra diritto e potere. È certamente il punto di partenza giusto per la nostra indagine. Posso sostituire la parola “potere” con la parola più incisiva e più dura “violenza”? 

Diritto e violenza sono per noi oggi termini opposti. È facile mostrare che l’uno si è sviluppato dall’altro e, se risaliamo ai primordi della vita umana per verificare come ciò sia da principio accaduto, la soluzione del problema ci appare senza difficoltà. Mi scusi se nelle pagine che seguono parlo di cose universalmente note come se fossero novità; il presente contesto mi obbliga a farlo. 

I conflitti d’interesse tra gli uomini sono dunque in linea di principio decisi mediante l’uso della violenza. Ciò avviene in tutto il regno animale, di cui la creatura umana fa inequivocabilmente parte; per gli uomini si aggiungono, a dire il vero, anche i conflitti di opinione, che giungono fino ai più alti vertici dell’astrazione e che, per essere decisi, esigono, a quanto pare, una tecnica diversa. Ma questa è una complicazione più tarda. Inizialmente, in una piccola orda umana, la maggiore forza muscolare decise a chi dovesse appartenere qualcosa o la volontà di chi dovesse essere realizzata. Presto la forza muscolare è accresciuta o sostituita dall’uso di certi strumenti; vince chi possiede le armi migliori o chi le adopera con maggior destrezza. Con l’introduzione delle armi la superiorità intellettuale comincia già a prendere il posto della forza muscolare bruta, benché lo scopo finale della lotta rimanga il medesimo: una delle due parti, a cagione del danno che subisce e dell’infiacchimento delle proprie forze, è costretta a desistere dalle proprie rivendicazioni od opposizioni. Ciò è ottenuto nel modo più radicale quando la violenza toglie di mezzo l’avversario definitivamente, cioè lo uccide. Questo sistema ha due vantaggi: che l’avversario non può riprendere le ostilità in altra occasione e che il suo destino distoglie gli altri dal seguire il suo esempio. Inoltre l’uccisione del nemico soddisfa un’inclinazione pulsionale di cui parlerò più avanti. All’intenzione di uccidere subentra talora la riflessione che il nemico può essere impiegato in mansioni servili utili se lo si lascia in vita in condizioni di soggezione.  In questo caso la violenza si accontenta di sottometterlo, anziché di ucciderlo. Si comincia così a risparmiare il nemico, ma il vincitore d’ora in poi ha da fare i conti con la smania di vendetta del vinto, sempre in agguato, e deve rinunciare in parte alla propria sicurezza. 

Questo è dunque lo stato originario, il predominio del più forte, della violenza bruta o sostenuta dall’intelligenza. Sappiamo che questo regime è stato mutato nel corso dell’evoluzione, che una strada condusse dalla violenza al diritto, ma quale? Una sola a mio parere: quella che passava per l’accertamento che allo strapotere di uno solo poteva contrapporsi l’unione di più deboli. L’union fait la force. La violenza viene spezzata dall’unione di molti, la potenza di coloro che si sono uniti rappresenta ora il diritto in opposizione alla violenza del singolo. 

Vediamo così che il diritto è la forza di una comunità. È ancora sempre violenza, pronta a volgersi contro chiunque le si opponga, operante con gli stessi mezzi, intenta a perseguire gli stessi fini; la differenza risiede in realtà solo nel fatto che non è più la violenza di un singolo a trionfare, bensì quella di una comunità. Ma perché si compia questo passaggio dalla violenza al nuovo diritto deve adempiersi una condizione psicologica. L’unione dei più deve essere stabile, durevole. Se essa si costituisse solo allo scopo di combattere il singolo prepotente e si dissolvesse dopo che costui è stato sopraffatto, non si otterrebbe nulla. Il prossimo personaggio che si ritenesse più forte ambirebbe di nuovo a dominare con la violenza, e il giuoco si ripeterebbe all’infinito. La comunità deve essere mantenuta permanentemente, deve organizzarsi, prescrivere le norme che prevengano le temute ribellioni, istituire gli organi che veglino sull’osservanza delle prescrizioni - le leggi - provvedendo all’esecuzione degli atti di violenza conformi al diritto. Nel riconoscimento di una tale comunione di interessi s’instaurano tra i membri di un gruppo umano coeso quei legami emotivi, quei sentimenti condivisi sui quali sì fonda la vera forza del gruppo. 

Con ciò, a mio avviso, è stato detto tutto l’essenziale: il trionfo sulla violenza mediante la trasmissione del potere a una comunità più vasta che viene tenuta insieme dai legami emotivi che si stabiliscono tra i suoi membri. Tutto il resto sono precisazioni e ripetizioni. 

La cosa è semplice finché la comunità consiste solo di un certo numero di individui ugualmente forti. Le leggi di questo sodalizio determinano allora fino a che punto debba essere limitata la libertà individuale di usare la forza in modo violento, al fine di rendere possibile una vita collettiva sicura. Ma un tale stato di Pace è pensabile solo teoricamente, nella realtà le circostanze si complicano perché la comunità comprende fin dall’inizio elementi di forza disuguale, uomini e donne, genitori e figli, e ben presto, in conseguenza della guerra e dell’assoggettamento, vincitori e vinti, che si trasformano in padroni e schiavi. Il diritto della comunità diviene allora espressione dei rapporti di forza disuguali esistenti al suo interno, le leggi vengono fatte da e per quelli che comandano, concedendo ben pochi diritti a quelli che sono stati assoggettati. Da allora in poi vi sono nella comunità due fonti d’inquietudine – ma anche di perfezionamento – del diritto. In primo luogo il tentativo di questo o quel signore di ergersi al di sopra delle restrizioni valide per tutti, e tornare dunque dal regno del diritto a quello della violenza; in secondo luogo gli sforzi costanti dei sudditi per procurarsi più potere e per vedere riconosciuti dalla legge questi mutamenti; dunque, al contrario, uno sforzo per inoltrarsi nella via che dal diritto fondato sulle diseguaglianze porta al diritto uguale per tutti. Questo movimento in avanti diviene particolarmente notevole quando si danno effettivi spostamenti dei rapporti di forza all’interno della collettività, come può accadere per l’azione di molteplici fattori storici. Il diritto può allora conformarsi gradualmente ai nuovi rapporti di forza, oppure, come accade più sovente, la classe dominante non è pronta a tener conto di questi mutamenti, e si giunge allora all’insurrezione, alla guerra civile, dunque a una temporanea revoca del diritto e a nuove testimonianze di violenza, in seguito alle quali viene instaurato un nuovo ordinamento giuridico. C’è anche un’altra fonte di mutamento del diritto, che si manifesta solo in modi pacifici, ed è la trasformazione degli ideali civili dei membri di una collettività; essa appartiene però a un contesto che potrà essere preso in considerazione solo più avanti. 

Vediamo dunque che anche all’interno di una collettività non può venire evitata la risoluzione violenta dei conflitti. Ma le necessità e le coincidenze di interessi che derivano dalla vita in comune sulla medesima terra favoriscono una rapida conclusione di tali lotte, e le probabilità che in queste condizioni si giunga a soluzioni pacifiche sono in continuo aumento. 

Uno sguardo alla Storia dell’Umanità ci mostra tuttavia una serie ininterrotta di conflitti tra una collettività e una o più collettività diverse, tra unità più o meno vaste, città, paesi, tribù, popoli, Stati: conflitti che vengono decisi quasi sempre mediante la prova di forza della guerra. 

Tali guerre si risolvono o in saccheggio o in completa sottomissione, conquista dell’una parte ad opera dell’altra. Non si possono giudicare con un unico metro le guerre di conquista. Alcune, come quelle dei Mongoli e dei Turchi, hanno arrecato solo calamità, altre al contrario hanno contribuito al trapasso dal regno della violenza a quello del diritto, avendo prodotto unità più grandi, al cui interno la possibilità di ricorrere alla violenza è stata annullata e un nuovo ordinamento giuridico è riuscito a comporre i conflitti. Così le conquiste dei Romani hanno dato ai Paesi mediterranei la preziosa pax romana, e la cupidigia dei re francesi di ingrandire i loro possedimenti ha creato una Francia fiorente e pacificamente unita.

Per quanto ciò possa sembrare paradossale, si deve ammettere che la guerra non è di per sé un mezzo inadatto alla costruzione dell’agognata pace “eterna”, poiché potrebbe riuscire a creare quelle più vaste unità al cui interno un forte potere centrale rende impossibili guerre ulteriori. Tuttavia la guerra non ottiene questi risultati perché i successi della conquista di regola non sono durevoli; le unità appena create si disintegrano, perlopiù a causa della insufficiente coesione delle parti forzatamente unite. E inoltre la conquista ha potuto fino ad oggi creare soltanto unificazioni parziali, anche se di grande estensione, e sono proprio i conflitti sorti all’interno di queste unificazioni ad aver reso inevitabile il ricorso alla violenza. Così l’unica conseguenza di tutti questi sforzi bellici è che l’umanità ha sostituito alle continue guerricciole le grandi guerre, che sono assai più rare, ma proprio per questo tanto più devastanti.

Per quanto riguarda la nostra epoca, si impone la medesima conclusione a cui Lei è giunto per una via più breve. Una prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interessi. 

È evidente che sono qui compendiate due esigenze diverse: quella di creare una simile Corte Suprema, e quella di assicurarle il potere che le abbisogna. La realizzazione dell’una senza l’altra non servirebbe a niente. Ora la Società delle Nazioni è stata concepita come suprema potestà del genere, ma la seconda condizione non è stata adempiuta; la Società delle Nazioni non dispone di forza propria e può averne una solo se i membri della nuova associazione – i singoli Stati – gliela concedono. Tuttavia per il momento ci sono scarse probabilità che ciò accada. Ci sfuggirebbe il significato di un’istituzione come quella della Società delle Nazioni, se non tenessimo nel dovuto conto che si tratta di un tentativo coraggioso, raramente intrapreso nella Storia dell’Umanità e forse mai in questa misura. È il tentativo di acquisire mediante il richiamo a determinati principi ideali l’autorità [cioè l’influenza coercitiva] che di solito si basa sul possesso della forza. 

Abbiamo visto che gli elementi che tengono insieme una comunità sono due: la coercizione violenta e i legami emotivi tra i suoi membri [quelle che in termini tecnici si chiamano identificazioni]. Nel caso in cui venga a mancare uno di questi due fattori non è escluso che l’altro possa tenere unita la comunità. Le idee cui ci si appella hanno naturalmente un significato solo se mettono in luce importanti affinità tra i membri di una determinata collettività.

Sorge poi il problema: che forza si può attribuire a queste idee? La Storia insegna che una certa funzione l’hanno pur svolta. L’idea panellenica, per esempio, la coscienza di essere qualche cosa di meglio che i barbari confinanti, idea che trovò così potente espressione nelle anfizionie, negli oracoli e nei Giuochi, fu abbastanza forte per mitigare i costumi nella conduzione della guerra fra i Greci, ma ovviamente non fu in grado di impedire il ricorso alle armi fra le diverse componenti del popolo ellenico, e neppure fu mai in grado di trattenere una città o una federazione di città dallo stringere alleanza con il nemico persiano per abbattere un rivale. Parimenti il sentimento che accomunava i Cristiani, che pure fu abbastanza potente, non impedì durante il Rinascimento a Stati cristiani grandi e piccoli di sollecitare l’aiuto del Sultano nelle loro guerre intestine. Anche nella nostra epoca non vi è alcuna idea cui si possa attribuire un’autorità unificante del genere. È fin troppo chiaro che gli ideali nazionali da cui oggi i popoli sono dominati spingono in tutt’altra direzione. C’è chi predice che soltanto la penetrazione universale del modo di pensare bolscevico potrà mettere fine alle guerre, ma in ogni caso siamo oggi ben lontani da tale meta, che forse sarà raggiungibile solo a prezzo di spaventose guerre civili. Sembra dunque che il tentativo di sostituire la forza reale con la forza delle idee sia per il momento votato all’insuccesso. È un errore di calcolo non considerare il fatto che il diritto era in origine violenza bruta e che esso ancor oggi non può fare a meno di ricorrere alla violenza.

Posso ora procedere a commentare un’altra delle Sue proposizioni. Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in essi ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza di tale pulsione e negli ultimi anni abbiamo appunto tentato di studiare le sue manifestazioni. Mi consente, in proposito, di esporLe parte della teoria delle pulsioni cui siamo giunti nella psicoanalisi dopo molti passi falsi e molte esitazioni?

Noi presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare e a unire – da noi chiamate sia erotiche [esattamente nel senso in cui Platone usa il termine “Eros” nel Simposio] sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità, – e  quelle che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva.

Come Lei vede, si tratta propriamente soltanto della dilucidazione teorica della contrapposizione tra amore e odio, universalmente nota, e forse originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che interviene anche nel Suo campo di studi. Non ci chieda ora di passare troppo rapidamente ai valori di bene e di male. Entrambe le pulsioni sono parimenti indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto. Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire isolatamente, essa è sempre connessa – legata, come noi diciamo – con un certo ammontare della controparte, che ne modifica la meta o, talvolta, subordina il raggiungimento di quest’ultima a determinate condizioni. Così, per esempio, la pulsione di autoconservazione è certamente erotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo alla pulsione amorosa, rivolta agli oggetti, necessita un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole impadronirsi del proprio oggetto. La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni nelle loro manifestazioni ha fatto sì che per tanto tempo non riuscissimo a identificarle.

Se Lei è disposto a proseguire con me ancora un poco, vedrà che le azioni umane sono soggette anche a un’altra complicazione. È assai raro che l’azione sia opera di un singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una combinazione di Eros e distruzione. Di regola devono concorrere parecchi motivi similmente strutturati per rendere possibile l’azione. Uno dei Suoi colleghi l’aveva già avvertito, un certo professor G. C. Lichtenberg, che insegnava fisica a Gottinga al tempo dei nostri classici; ma forse egli era anche più notevole come psicologo che come fisico. Egli scoprì la rosa dei moventi, nell’atto in cui dichiarò: “I motivi per i quali si agisce potrebbero essere disposti come i trentadue venti e i nomi formati in maniera analoga, per esempio “Pane-Pane-Fama” o “Fama-Fama-Pane”.” Pertanto, quando gli uomini vengono incitati alla guerra, è possibile che si desti in loro un’intera serie di motivi consenzienti, nobili e volgari, alcuni di cui si parla apertamente e altri che vengono taciuti. Non è il caso di enumerarli tutti. Il piacere di aggredire e distruggere ne fa certamente parte; innumerevoli crudeltà della Storia e della vita quotidiana confermano la loro esistenza e la loro forza. Il fatto che questi impulsi distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici e ideali, facilita naturalmente il loro soddisfacimento. Talvolta, quando sentiamo parlare delle atrocità della Storia, abbiamo l’impressione che i motivi ideali siano serviti da mero paravento alle brame di distruzione; altre volte, ad esempio per le crudeltà della Santa Inquisizione, che i motivi ideali fossero preminenti nella coscienza, mentre i motivi distruttivi recassero loro un rafforzamento inconscio. Entrambi i casi sono possibili.

Ho qualche scrupolo ad abusare del Suo interesse, che si rivolge alla prevenzione della guerra e non alle nostre teorie. Tuttavia vorrei indugiare ancora un attimo sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua importanza. Con un po’ di speculazione ci siamo in effetti persuasi che essa opera in ogni essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l’aiuto di certi organi, si rivolge all’esterno, contro gli oggetti. L’essere vivente protegge, per così dire, la propria vita distruggendone una estranea. Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane attiva all’interno dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è spinto troppo oltre; in tal caso sortisce un effetto immediatamente malsano. Invece il volgersi di queste forze pulsionali distruttive nel Mondo esterno scarica l’essere vivente e non può non sortire un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica a tutti gli impulsi esecrabili e perniciosi contro i quali noi ci battiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quanto lo sia la resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una spiegazione. Forse Lei ha l’impressione che le nostre teorie siano una specie di mitologia, neppure lieta in verità. Ma non approda forse ogni scienza naturale a una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei, nel campo della fisica?

Per gli scopi immediati che ci siamo proposti da quanto precede ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini. Si dice che in contrade felici della terra, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, ci siano popoli la cui vita scorre nella mitezza. presso i quali la coercizione e l’aggressione sono sconosciute. Ci credo poco; mi piacerebbe saperne di più, su queste felici creature. Anche i bolscevichi sperano di riuscire a sopprimere l’aggressività umana, garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza sotto tutti gli altri aspetti tra i membri della loro comunità. Io ritengo questa un’illusione. Intanto, si sono armati con il massimo scrupolo, e per tenere uniti i loro adepti ricorrono non da ultimo all’odio contro tutti gli stranieri. D’altronde non si tratta, come Lei stesso osserva, di abolire completamente l’aggressività umana; si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione nella guerra.

Partendo dalla nostra mitologica dottrina delle pulsioni, giungiamo facilmente a una formula per definire le vie indirette di lotta alla guerra. Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due tipi. In primo luogo relazioni che, pur essendo prive di meta sessuale, assomiglino a quelle che si hanno con un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.
Ora, questa è un’esigenza facile da porre, ma difficile da realizzare. L’altro tipo di legame emotivo è quello che si stabilisce mediante identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l’assetto della società umana.
L’abuso di autorità da Lei lamentato mi suggerisce un secondo metodo per combattere indirettamente l’inclinazione alla guerra. Fa parte dell’innata e ineliminabile diseguaglianza tra gli uomini la loro distinzione in capi e seguaci. Questi ultimi sono la stragrande maggioranza, hanno bisogno di un’autorità che prenda decisioni per loro, alla quale perlopiù si sottomettono incondizionatamente. Richiamandosi a questa realtà, si dovrebbero dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto finora, all’educazione di una categoria di persone elevate, dotate di indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse incapaci di autonomia. Non c’è bisogno di dimostrare che le intrusioni del potere statale e le proibizioni intellettuali sancite dalla Chiesa non creano le condizioni più propizie affinché prosperino cittadini simili. L’ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini altrettanto perfetta e tenace, capace di resistere perfino alla rinunzia di reciproci legami emotivi. Ma con ogni probabilità questa è una speranza utopistica. Le altre vie per impedire indirettamente la guerra sono certo più praticabili, ma non danno garanzie di un rapido successo. È triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina.

Come vede non si riesce a cavare granché da un teorico, che nulla sa del Mondo, quando lo si chiama a pronunciarsi su problemi pratici urgenti. Meglio sarebbe che in ciascun caso particolare si cercasse di affrontare il pericolo con i mezzi che si hanno a disposizione. 

Vorrei tuttavia trattare ancora un problema, che nel Suo scritto Lei non solleva e che m’interessa particolarmente. Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle molte penose calamità della vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai poco evitabile. Non inorridisca perché pongo la domanda. Al fine di compiere un’indagine come questa è forse lecito assumere la maschera di un finto distacco. La risposta sarà: perché ogni uomo ha diritto alla propria esistenza, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli individui in condizioni avvilenti, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori materiali, frutto del lavoro umano, e altre cose ancora. Perdipiù, nella sua forma attuale, la guerra non dà più alcuna opportunità di attuare l’antico ideale eroico e, nella forma che è destinata ad assumere in futuro, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato universalmente dagli uomini mediante un accordo che li impegni tutti. Qualcuno dei punti qui enumerati può evidentemente essere discusso: ci si può chiedere se la comunità non debba anch’essa avere un diritto sulla vita del singolo; non si possono condannare nella stessa misura tutti i tipi di guerra; finché esistono Stati e Nazioni pronti ad annientare senza pietà altri Stati e altre Nazioni, questi ultimi sono necessitati a prepararsi alla guerra. Ma noi vogliamo sorvolare rapidamente su tutto ciò, giacché non è questa la discussione a cui Lei mi ha impegnato. Ho in mente qualcos’altro, credo che la ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che non possiamo fare diversamente. Siamo pacifisti perché a ciò siamo necessitati da ragioni organiche: ci è poi facile giustificare il nostro atteggiamento con argomentazioni.
So che non sarò capito se non mi spiego meglio. Ecco quello che voglio dire: da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento [altri, lo so, chiamano più volentieri questo processo: civilizzazione]. Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e buona parte dei nostri mali.

Le sue cause e origini sono oscure, il suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente penetrabili. Forse esso porta all’estinzione del genere umano, giacché in più di una guisa pregiudica la funzione sessuale, e già oggi le razze incolte e gli strati arretrati della popolazione si moltiplicano più rapidamente dei ceti sociali di elevata cultura. Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di certe specie animali; senza dubbio comporta modificazioni fisiche; tuttavia non ci si è ancora familiarizzati con l’idea che l’incivilimento sia un processo organico di tale natura. Le modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento sono invece vistose e per nulla equivoche. Esse consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsionali. Sensazioni che per i nostri progenitori erano dense di piacere, sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili; esistono ragioni organiche del fatto che le nostre esigenze ideali, etiche ed estetiche, sono mutate. Dei caratteri psicologici della civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo di incivilimento, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, di una idiosincrasia portata, per così dire, al massimo livello. E mi sembra in effetti che le degradazioni estetiche della guerra concorrano a determinare il nostro rifiuto in misura quasi pari alle sue atrocità.

 

Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è utopistico sperare che l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dire una cosa: tutto ciò che favorisce l’incivilimento lavora anche contro la guerra. 

La saluto cordialmente e Le chiedo scusa se le mie osservazioni L’hanno delusa.
Suo 

Sigm. Freud


 Io non conosco nemici

Né nell’Aldilà né nell’Aldiquà ci saranno le linee di confine

Io conosco soltanto l’Essere Umano.

Ernst Friedrich [1894-1967]

 

 

Nel 1924, Ernst Friedrich – ebreo, anarchico, antimilitarista e obiettore di coscienza, che per non arruolarsi e partecipare alla carneficina della Prima Guerra Mondiale, aveva affrontato il carcere, il manicomio – lancia il manifesto Nie wieder Krieg [Mai più la guerra], coinvolgendo intellettuali di primo piano come lo scrittore Kurt Tucholsky, il pittore George Grosz e la scultrice Käthe Kollwitz, che disegnerà l’urlo del ripudio, divenuto ben presto il simbolo del pacifismo mondiale.  

Nel 1925, Friedrich fonda l’Anti Kriegs Museum, dove gli oggetti della guerra, gli strumenti di morte e terrore, le scene dell’orrore vengono accompagnati dalle denunce e dalle istanze di una non-violenza attiva secondo gli ideali di un pacifismo ancorato nella storia.

Con l’avvento del nazismo, l’Anti Kriegs Museum viene preso d’assalto e trasformato in un centro di tortura del regime nazista.

Friedrich riesce a fuggire e a ripararsi dapprima in Svizzera e poi in Belgio. Aiutato da alcuni amici riesce addirittura a rimettere in piedi il museo e a tenerlo aperto per alcuni anni, dal 1936 al 1940.

Dopo la fine della guerra Friedrich si stabilisce a Parigi, dove muore nel 1967.

Nel ricevere il Premio Nobel per la Pace, nel 1971, il presidente della Repubblica Federale tedesca Willy Brandt avrebber ricordato la tenacia e la grandezza morale di “un uomo che per tutto l’arco della sua vita politica ha tenuto accesa la stella della Pace”.
Nel quartiere di Wedding a Berlino, in Brüsseler Strasse, l’Anti Kriegs Museum di Ernst Fridrich è rimasto pressoché identico all’originario.

Lo ha riaperto, nel 1982, il nipote, Tommy Spree.

 

 

Il simbolo del “fucile spezzato” fu ideato da Ernst Friedrich.

Ernst Friedrich faceva parte di quel cenacolo di artisti, scrittori, attori, musicisti, poeti che, nella Berlino del Primo Dopoguerra, affermavano il ripudio totale della guerra. Mettevano in mostra i volti tumefatti dei soldati feriti e mutilati, trasformavano gli elmi in vasi di fiori e diffondevano, tra i giovani, le idee di Lev Tolstoj e del Mahatma Gandhi.

Già, nel 1919, Friedrich incise nel metallo il simbolo del fucile spezzato per farne delle spille da diffondere tra i giovani dei gruppi anti-autoritari da lui fondati nel nome della Deutsche Freie Jugend [Libera Gioventù Tedesca]. Ne fece anche una copia di un metro e la affisse all’entrata del suo museo contro la guerra.

 

 

“Lo Stato in guerra si permette tutte le ingiustizie, tutte le violenze, la più piccola delle quali basterebbe a disonorare l’individuo. Esso ha fatto ricorso, nei confronti del nemico, non solo a quel tanto di astuzia permessa, ma anche alla menzogna cosciente e voluta, e questo in una misura che va al di là di tutto ciò che si era visto nelle guerre precedenti. Lo Stato impone ai cittadini il massimo di obbedienza e di sacrificio, ma li tratta da sottomessi, nascondendo loro la verità e sottomettendo tutte le comunicazioni e tutti i modi di espressione delle opinioni a una censura che rende la gente, già intellettualmente depressa, incapace di resistere a una situazione sfavorevole o a una cattiva notizia. Si distacca da tutti i trattati e da tutte le convenzioni che lo legano agli altri Stati, ammette senza timore la propria rapacità e la propria sete di potenza, che l’individuo è costretto ad approvare e a sanzionare per patriottismo.”

Sigmund Freud

 

Qual è lo scopo della vita di un Essere Umano?

“Il vero valore di un Essere Umano è determinato principalmente dalla misura e dal senso in cui egli ha raggiunto la liberazione dal sé.”

Questo era, per Albert Einstein, il vero significato ultimo dell’esistere. Era stato l’insegnamento del Mahatma Gandhi ad averlo colpito: trascendere il sé individuale significava sperimentare il sé universale, ovvero la pura coscienza.

Einstein era intransigente sia come scienziato, sia come uomo.

Nel 1914, si era rifiutato di firmare il Manifesto dei Novantatré[20], chiaramente a favore della Prima Guerra Mondiale, rispondendo con la pubblicazione di un contromanifesto: Appello agli Europei. Il proposito era quello di rifiutare le logiche belliche per arrivare a unire le forze dell’Europa al di là dei nazionalismi.

Nel testo di Georg Friedrich Nicolai, un cardiologo pacifista di Berlino, ed Einstein si legge:

“Non è questo il luogo per discutere su come questo nuovo ordine in Europa possa essere realizzato. Vogliamo solo mettere in evidenza in linea di principio la nostra ferma convinzione che sia giunto il tempo in cui l’Europa debba agire come un’unica entità per preservare il suo territorio, la sua popolazione e la sua cultura. Crediamo che la volontà di agire unitariamente sia presente, anche se in forma latente, in molti. Esprimere collettivamente questa volontà speriamo possa darle forza.”[21]

Sull’attività di Einstein, dal dicembre del 1932 fino alla sua morte nel 1955, l’FBI, che aveva raccomandato di impedirgli di emigrare negli Stati Uniti, aveva raccolto un fascicolo di 1.427 pagine, in quanto credeva, consigliava, difendeva e insegnava una dottrina che, in senso legale, era stata ritenuta dai tribunali, in altri casi, “capace di permettere all’anarchia di progredire indisturbata” e che portava a “un Governo solo di nome”. Il suo peccato era scritto chiaro nel faldone in cui compariva una definizione per quegli anni gravissima “membro, sostenitore o affiliato a 34 movimenti comunisti”.

Nel 1929, Einstein aveva scritto:

“Rendo omaggio a Lenin come a colui che ha dedicato tutte le sue forze alla realizzazione della giustizia sociale, sacrificando a questo fine la propria individualità. Non credo però che il suo metodo sia giusto.”

Il 2 agosto 1939, nonostante il fallimento di Werner Karl Heisenberg[22] – la notizia dei suoi esperimenti era arrivata in Svizzera e di là negli Stati Uniti – Einstein scriveva con Leó Szilárd una lettera al presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, per allertarlo sulla possibilità che la Germania nazista potesse arrivare a sviluppare la bomba atomica, e la concludeva suggerendo l’opportunità che si stabilisse “un contatto continuo tra il Governo e i fisici che lavorano alla reazione a catena in America”, allo scopo di passare su un vero e proprio terreno operativo nel caso in cui la situazione fosse degenerata.

 

Lettera di Albert Einstein e Leó Szilárd a Franklin Delano Roosevelt.

 

Signore,

alcuni recenti lavori di E. Fermi e L. Szilárd, che mi sono stati comunicati in manoscritto, mi fanno pensare che l’elemento Uranio possa essere trasformato in una nuova e importante fonte di energia nell’immediato futuro. Alcuni aspetti della situazione che è emersa sembrano richiedere vigilanza e, se necessario, tempestività da parte dell’Amministrazione. Ritengo, pertanto, che sia mio dovere portare alla vostra attenzione i seguenti fatti e raccomandazioni.

Negli ultimi quattro mesi i lavori di Joliot in Francia e di Fermi e Szilárd in America hanno dimostrato la possibilità di stabilire una reazione nucleare a catena in una grande massa di Uranio, generando enormi quantità di energia e nuovi elementi radioattivi. Adesso sembra alquanto certo che ciò possa avvenire nell’immediato futuro.

Il nuovo fenomeno potrebbe anche portare alla costruzione di bombe, e si può ritenere, anche se con minore certezza, che le bombe così costruite sarebbero di enorme potenza. Una sola di queste bombe, trasportata su nave e fatta esplodere in un porto, potrebbe distruggere tutto il porto e parte del territorio circostante. Ma, forse, una bomba di tale fatta sarebbe troppo pesante per consentirne il trasporto aereo.

Gli Stati Uniti posseggono modeste quantità di Uranio. Miniere più ricche si trovano in Canada e nell’ex-Cecoslovacchia, mentre la fonte più importante è il Congo Belga. La situazione che si è creata sembra richiedere attenzione e, se necessario, una rapida azione da parte del Governo.

Sarebbe, forse, auspicabile che lei istituisse un contatto continuo tra il Governo e i fisici che lavorano alla reazione a catena in America tramite una persona di sua piena fiducia che agisse in forma ufficiosa. I suoi compiti potrebbero essere:

a] tenere informati i vari Ministeri degli sviluppi scientifici e formulare raccomandazioni per il Governo, con particolare attenzione al problema di assicurare agli Stati Uniti il ​​rifornimento di materiale uranifero.

b] accelerare le ricerche sperimentali incrementando gli stanziamenti.

So che la Germania ha, già, interrotto la vendita dell’Uranio ricavato dalle miniere cecoslovacche occupate. Questo provvedimento così improvviso potrebbe, forse, spiegarsi con l’assegnazione del figlio [Carl Friedrich Freiherr von Weizsäcker, n.d.r.] del sottosegretario di Stato tedesco, [Ernst n.d.r.] von Weizsäcker al Kaiser Wilhelm Institut a Berlino, dove sono, attualmente, in corso esperimenti con l’Uranio analoghi a quelli svolti in America.”[23]

Sinceramente suo,

Albert Einstein

 

 

Lettera di Franklin Delano Roosevelt ad Albert Einstein.

 

La lettera arrivò nelle mani di Roosevelt l’11 ottobre, un mese dopo l’invasione nazista della Polonia [https://www.youtube.com/watch?v=2GLsM169izM]. La risposta di Roosevelt fu il Progetto Manhattan, che portò alla creazione delle prime bombe atomiche, le quali non sarebbero state sganciate contro i tedeschi, che avevano, già, perso la guerra in Europa, ma sui giapponesi nell’atto finale della guerra nel Pacifico.

 

Mio  caro Professore,

desidero ringraziarla per la sua recente lettera e per l’allegato molto interessante e importante.

Ho trovato questi dati di una tale importanza che ho convocato un tavolo composto dal capo del Bureau of Standards e un rappresentante scelto dell’Esercito e della Marina per indagare a fondo sulle possibilità del suo suggerimento per quanto riguarda l’elemento Uranio.

Sono lieto di dire che il dottor [Alexander, n.d.r.] Sachs coopererà e lavorerà con questo comitato e ritengo che questo sia il metodo più pratico ed efficace per affrontare l’argomento.

Accetti i miei sinceri ringraziamenti.

Franklin D. Roosevelt[24]

 

Il 7 marzo 1940, Einstein scriveva una seconda lettera a Roosevelt, in cui confermava i suoi timori che in Germania le ricerche stessero proseguendo e si interrogava circa l’opportunità di pubblicare i risultati di Szilárd sulle reazioni a catena:

“[…]

Dallo scoppio della guerra, è aumentato in Germania l’interesse per l’Uranio. Ho, appena, saputo che la ricerca viene svolta in gran segreto ed è stato interessato uno dei Kaiser Wilhelm Institutes, l’Istituto di Fisica.

[…]

Il dottor Szilárd mi ha mostrato il manoscritto che sta per mandare alla Physics Review in cui descrive nei particolari il metodo per innescare una reazione a catena nell’Uranio. Il documento andrà in stampa se non si farà nulla per impedirlo e sorge la domanda se si debba fare qualcosa per impedirne la pubblicazione. Il dottor Szilárd le invierà un promemoria per informarla dei progressi compiuti da ottobre dello scorso anno, in modo che, qualora lo ritenga opportuno, lei possa intervenire per bloccarne la pubblicazione.

[…]

Sinceramente Suo,

Albert Einstein[25]

Roosevelt propose a Einstein di entrare a fare parte dell’Advisory Committee on Uranium [Comitato Consultivo sull’Uranio][26], al pari di Enrico Fermi e Leó Szilárd, ma il fisico rifiutò con un’altra lettera, datata 25 aprile 1940. La lettera segna la fine di ogni suo rapporto con le attività che portarono alla bomba americana, attività delle quali rimarrà sempre all’oscuro.

 

Signore,

sono convinto che sia saggio e urgente creare le condizioni affinché questo lavoro e quelli correlati possano essere svolti con maggiore rapidità e su scala più ampia rispetto a prima. 
[…]

Sinceramente Suo,

Albert Einstein[27]

 

Il 25 marzo 1945, Einstein scrisse una quarta lettera a Roosevelt, ma questa lettera non giunse mai nella mani di Roosevelt, che sarebbe morto diciotto giorni dopo, il 12 aprile 1945:

 

Signore,

le scrivo per raccomandarle il dottor Leó Szilárd che vorrebbe esporle alcune considerazioni e raccomandazioni. Non conosco la natura delle sue proposte, ma sono indotto a compiere questo passo dalle circostanze che le descriverò più avanti. Nell’estate del 1939 il dottor Szilárd mi ha esposto le sue idee sull’importanza che poteva avere l’Uranio per la difesa della Nazione. Era molto preoccupato e ci teneva a informarne quanto prima il Governo degli Stati Uniti. Il dottor Szilárd ha contribuito a scoprire l’emissione di neutroni da parte dell’Uranio, su cui si basano tutte le ricerche su questo elemento, e mi ha descritto un metodo specifico che lui ritiene capace di innescare una reazione a catena nell’Uranio in un futuro molto prossimo. Poiché lo conosco da oltre venti anni sotto un profilo scientifico e personale, ho molta fiducia in lui ed è questa fiducia che mi ha spinto a scriverle a questo proposito. Lei rispose alla mia lettera del 2 agosto 1939 istituendo una Commissione presieduta dal dottor Briggs e ciò ha avviato l’azione del Governo in questa direzione. Poiché attualmente sta lavorando sotto il vincolo della segretezza, il dottor Szilárd non può fornirmi informazioni sulle sue ricerche, ma a quanto posso intuire è molto preoccupato per la mancanza di un adeguato contatto tra gli scienziati che stanno conducendo queste ricerche e i membri del suo Gabinetto incaricati di indicare le linee politiche. Ciò considerato, ritengo mio dovere fornire al dottor Szilárd questa lettera di presentazione per lei, sperando che lei possa dedicargli la sua attenzione.

Sinceramente Suo,

Albert Einstein[28]

A quanto è dato sapere, Leó Szilárd, nel colloquio che sollecitava, avrebbe cercato di persuadere il presidente a non impiegare la bomba atomica contro il Giappone. Quattro mesi dopo, la mattina del 6 agosto 1945, l’aeronautica militare degli Stati Uniti lanciava sulla città di Hiroshima la prima bomba atomica, Little Boy, seguita, tre giorni dopo, da un’altra, Fat Man, sganciata su Nagasaki.

Einstein non fu ascoltato quando, nel 1945, si oppose al lancio delle bombe atomiche sul Giappone e, dopo la guerra, fece pressioni per il disarmo nucleare e per l’istituzione di un Governo Mondiale. Intervistato pochi giorni dopo i due tragici eventi, aveva affermato:

“Non so come sarà combattuta la Terza Guerra Mondiale, ma so come sarà combattuta la Quarta: a colpi di clave e di pietre.”[29]

La paura per la minaccia nazista aveva, dunque, mutato la visione politica di Einstein, come lui stesso ammetteva in uno scritto all’editore di Kaizo, Katusu Hara, apparso in un’edizione speciale della rivista giapponese, nel settembre del 1952:

“La mia parte nella realizzazione della bomba atomica è consistita in un unico atto: firmai una lettera per il presidente Roosevelt, in cui facevo presente la necessità di esperimenti su vasta scala per verificare la possibilità di produrre una bomba atomica. Ero pienamente consapevole dei danni terribili che sarebbero stati arrecati all’Umanità in caso di successo. Ma la possibilità che i tedeschi stessero lavorando al medesimo problema con qualche probabilità di successo mi obbligò a compiere questo passo. Non potevo fare altro sebbene fossi un convinto pacifista. Dal mio punto di vista, uccidere in guerra non è affatto meglio che commettere
un banale assassinio.” [https://www.amnh.org/content/download/1768/24781/file/einstein_guide_insert.pdf]] [30]

 

Scritto di Albert Einstein a Katusu Hara, editore di Kaizo.

 

 
The Plutonium Files - Radiation Experiments on US Citizens.
 

 
The Plutonium Files: America’s Secret Medical Experiments in the Cold War.

 

  

Pres. Clinton's Remarks on Human Radiation Experiments [1995).

[https://www.youtube.com/watch?v=StId27Dmx78]

  

 
That Time US Scientists Injected Plutonium Into People Without Their Knowledge.[https://www.youtube.com/watch?v=tt3JVcPxy68]

 

“Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile. Ed un altro uomo, fatto anche lui come tutti gli altri, ma di tutti gli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto dove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra, ritornata alla forma di nebulosa, errerà nei cieli privati ​​di parassiti e di malattie.”,

sono le parole profetiche che chiudono il romanzo di Italo Svevo, pubblicato nel 1923, La coscienza di Zeno. Svevo non sentì, mai, parlare di bomba atomica, eppure la sua sensibilità gli fece presagire l’immane catastrofe che doveva avvenire di là a una ventina di anni.

L’uso della Scienza non è più Scienza.

L’uso della Scienza è Tecnologia.

E come ammonisce Simon Wiesenthal, l’ebreo polacco, che passerà alla Storia come il “Cacciatore di nazisti”:

“Il connubio di odio e tecnologia è il massimo pericolo che sovrasti l’Umanità. E non mi riferisco alla sola grande tecnologia della bomba atomica, mi riferisco, anche, alla piccola tecnologia della vita di ogni giorno: conosco persone che stanno per ore davanti alla televisione perché hanno disimparato a comunicare tra loro.”

 

Simon Wiesenthal

“Nel 1942, a Leopoli, un soldato delle SS rimasto gravemente ferito in combattimento chiese di poter parlare con un ebreo, uno qualsiasi. Sapeva che stava morendo, e aveva il rimorso di un crimine orrendo contro degli ebrei a cui aveva partecipato, nella città ucraina di Dnepropetrovsk, dove 400 tra uomini, donne e Bambini erano stati rinchiusi in una casa poi data alle fiamme. Lui ed altri avevano avuto il compito di sparare a chi cercava di saltare dalle finestre. Aveva visto scene terribili, che lo tormentavano; in particolare il volo nel vuoto di un padre, con il fuoco già addosso e un Bambino in braccio. Il tedesco morente voleva un ebreo cui chiedere perdono. Per caso venne scelto il prigioniero Simon Wiesenthal, che fu lasciato solo nella stanza con il ferito. Wiesenthal lo ascoltò a lungo, ma non lo perdonò: poteva perdonare una sofferenza inflitta a lui stesso, ma non il male, la tortura e la morte, inflitti ad altri. Non sarebbe stato giusto, non aveva il diritto di farlo. Né per quei 400, né per gli 89 famigliari uccisi negli anni del terrore nazista, né per i milioni di vittime dell’Olocausto.

Simon Wiesenthal è conosciuto come il più grande cacciatore di nazisti del dopoguerra, ma in realtà si tratta di una definizione riduttiva, e in parte sbagliata: non era la caccia il fulcro della sua attività, contrastò sempre e da subito chi avrebbe voluto una ricerca finalizzata all’eliminazione dei criminali. Si sarebbe trattato di una mera vendetta, senza efficacia per la conoscenza e per la memoria, e non di giustizia. La ricerca dei nazisti era la premessa necessaria per portarli in tribunale e sottoporli a un processo pubblico. Rendere giustizia all’infinito numero di vittime innocenti del nazismo, questo era il suo obiettivo: l’accertamento pubblico dei fatti, l’ascolto dei testimoni, l’eventuale confessione, il verdetto.

La definizione non appare corretta anche perché la caccia non riguardava i nazisti bensì i criminali nazisti. Un’intera Nazione si era fatta irretire da un dittatore senza qualità, ignorante, greve e megalomane: il numero di nazionalsocialisti convinti era enorme. Wiesenthal si prefisse il compito di perseguire chi, tra loro, aveva commesso atrocità e delitti, comunque tanti. Nel corso di decenni, riuscì a individuare e a far processare almeno 1.100 criminali nazisti, dedicando a questo scopo gran parte della sua vita, sino alla fine.

Simon Wiesenthal nasce il 31 dicembre del 1908 a Bucac, una cittadina ai confini orientali dell’Impero austroungarico, oggi territorio ucraino. Il padre muore pochi anni dopo nella Grande Guerra, e quella piccola città subisce sconvolgimenti e occupazioni sanguinose; a lui, Bambino, tocca una sciabolata sulla coscia da parte di un soldato ucraino: ne porterà il segno per sempre. È un ragazzo sveglio e ama leggere, studia con profitto ingegneria edile e architettura prima a Praga e poi a Leopoli. Durante gli anni del ginnasio conosce Cyla Müller, l’amore della sua vita, non si lasceranno più; si sposano nel 1936 e vanno a vivere nella cittadina polacca di Leopoli, dove Simon inizia a lavorare in uno studio di architettura. Immaginano un avvenire di affetti, di lavoro, di vita insieme.

Il 1° settembre del 1939 Germania e Unione Sovietica invadono e si spartiscono la Polonia; è l’inizio della fine. Quell’anno cominciano le prime pesanti angherie in entrambi i territori occupati, feroci soprattutto nei confronti di militari, professionisti e intellettuali. Nel giugno del 1941 la Germania invade l’Unione Sovietica, e le persecuzioni divengono sistematiche, è stata pianifica la “soluzione finale”, lo sterminio degli ebrei d’Europa. In un crescendo di orrore, nei Paesi dell’Est iniziano i pogrom nazisti, linciaggi di massa della popolazione ebraica da parte di milizie e civili ucraini, incoraggiati dai sodati tedeschi. Wiesenthal assiste a quello di Leopoli, riesce a salvarsi solo grazie a un miliziano con cui in precedenza aveva lavorato e che lo stimava. Sia lui sia la moglie finiscono nel campo di concentramento di Janowska, a Leopoli, e obbligati ai lavori forzati presso la ferrovia. Lei riuscirà presto a fuggire e a nascondersi grazie a documenti falsi, che le sono forniti dalla Resistenza polacca, in cambio dei disegni degli scambi ferroviari realizzati da Wiesenthal; la sua abilità professionale gli era tornata utile. Un giorno vede fermo sotto il sole un treno merci carico di donne ebree destinate al lager di sterminio di Belzec, cento per ogni vagone: il convoglio resterà fermo per tre giorni, niente acqua e cibo per le recluse, le sente urlare disperate. Sua madre è tra loro; moriranno tutte, chi già nel treno, chi nelle camere a gas del lager.

Nel 1943 Wiesenthal riesce a fuggire dal lager grazie ai partigiani polacchi.

Vaga per sette mesi di nascondiglio in nascondiglio finché non viene catturato. Sa che sarà torturato per estorcergli informazioni su luoghi e nomi della Resistenza e tenta di uccidersi tagliandosi le vene dei polsi, ma i tedeschi glielo impediscono. Un bombardamento gli consente di scampare all’aguzzino che si era ripromesso di seviziarlo, ma non di fuggire: viene spostato da un campo all’altro, sino all’ultima destinazione, Mauthausen. Quando è ormai allo stremo, viene liberato dall’esercito americano il 5 maggio del 1945: pesa 45 chilogrammi. Appena torna in forze, grazie a una memoria formidabile, compila un lungo elenco di nazisti che si sono resi colpevoli di omicidi e violenze di ogni tipo; una lista completa di gradi militari, luoghi dei misfatti e numero approssimativo delle vittime. Nei lager liberati, gli ufficiali americani hanno visto con i loro occhi morti di ogni età, uomini e donne sopravvissuti ma ridotti a scheletri, e sentono forte il desiderio di catturare e punire i colpevoli. La collaborazione funziona, sono molti i criminali arrestati. Nel frattempo Wiesenthal rintraccia sua moglie Cyla, che credeva morta; nel 1946 nasce una figlia, Pauline Rosa, che porterà i nomi delle due nonne uccise. 

Con il passare dei mesi, purtroppo, i soldati americani testimoni dell’orrore tornano in patria, e vengono sostituiti da commilitoni che hanno solo una vaga conoscenza di quanto avvenuto, che non provano lo stesso desiderio di giustizia dei loro predecessori. Così, Wiesenthal decide di chiudere quell’esperienza e di avviarne una nuova, in prima persona. Nel 1947 lui ed altri trenta volontari fondano il “Centro di documentazione ebraica” a Linz, in Austria, per recuperare informazioni utili alla cattura e al processo dei criminali nazisti. Nel 1954 chiude il centro e invia tutti i documenti raccolti al museo della Shoah di Gerusalemme, lo Yad Vashem. Una delle sue ricerche, quella su Adolf Eichmann, sarà decisiva nel consentire di individuare il criminale nazista responsabile della macchina di morte che aveva inviato migliaia e migliaia di ebrei verso le camere a gas. Nel 1961, anno in cui si tiene il processo ad Eichmann, Wiesenthal decide di riaprire il centro per la ricerca dei criminali nazisti a Vienna. Il processo gli ha fatto capire che c’è ancora molto lavoro da svolgere, tanti sono i colpevoli ancora liberi, tanta la giustizia mai resa.

La notorietà acquisita nella vicenda Eichmann consentirà a Wiesenthal di aumentare la quantità di informazioni e la disponibilità di mezzi per avviare una ricerca diffusa ed efficace in tutto il mondo, soprattutto in Sudamerica. Questa era una meta privilegiata dei criminali nazisti in fuga dall’Europa sin dagli Anni Quaranta, quando il vescovo Alois Hudal aveva organizzato una ratline dall’Italia, procurando denaro e documenti falsi.

Tra i criminali che negli anni successivi riuscirà a individuare e a far perseguire dalla giustizia, vale la pena ricordare Franz Stangl, Hermine Braunsteiner, Franz Wagner e Walter Rauff. Stangl, il comandante dei lager di Sobibor e di Treblinka, responsabile della morte di circa 900.000 persone, tra uomini, donne e Bambini, venne rintracciato in Brasile e perseguito anche grazie all’intervento di Robert Kennedy. La Braunsteiner, che aveva commesso omicidi e feroci atti di sadismo ai danni di centinaia di donne e Bambini, soprattutto nel lager di Majdanek in Polonia, venne individuata negli USA e condannata all’ergastolo in Germania dopo un lungo iter per l’estradizione e il processo. Wagner, vice comandante di Sobibor e uno dei più crudeli criminali del Terzo Reich, fu scoperto in Brasile; riuscì a evitare la procedura di estradizione, ma non resse alla tensione e si suicidò. Rauff, oltre a perseguitare gli ebrei in Francia e nell’Africa Settentrionale, aveva ideato i furgoni finalizzati a uccidere con il gas di scarico, mentre il camion viaggiava verso un luogo di sepoltura, uccidendo almeno 250.000 esseri umani: venne rintracciato in Cile ma la richiesta di estradizione fu respinta; morì per un attacco cardiaco nel 1984. Quattro storie emblematiche, le prime due concluse con un processo e una condanna detentiva, le altre due con un procedimento giudiziario che renderà quantomeno notorietà ai delitti e vita difficile ai criminali.

Subisce anche delle sconfitte. Ad esempio, non riuscirà a far catturare e processare Josef Mengele, nonostante una caccia durata anni: il capo dell’équipe medica di Auschwitz, responsabile di esperimenti atroci su Bambini e della morte di migliaia di esseri umani. Mengele morirà annegato in Brasile nel 1979. 

Molti Governi vorrebbero seppellire orrori e colpe, specialmente in Austria: capi partito di vario orientamento prendono voti da elettori che hanno problemi con il loro passato. Inoltre, la magistratura tedesca e austriaca nel Dopoguerra è ancora composta da giudici compromessi con il Governo nazista. Tutto ciò ostacola gravemente le ricerche di Wiesenthal e le sue denunce; lui reagisce segnalando omissioni e ritardi alla stampa e all’opinione pubblica. Sarà per questo attaccato dal cancelliere socialista austriaco Bruno Kreisky e da uno dei capi dell’opposizione di centrodestra Friedrich Peter, con un passato nella Prima Squadra Fanteria delle SS, una delle più famigerate unità di sterminio. 

Tra i tanti casi seguiti, alcuni appaiono davvero singolari. Ad esempio, la ricerca e l’individuazione di Karl Silberbauer, il sottufficiale delle SS che arrestò Anna Frank e la sua famiglia: questi non era un criminale di alto livello, ma la sua individuazione era ritenuta importante da Wiesenthal, perché avrebbe smentito il greve negazionismo di gruppi neonazisti riguardo il diario e la stessa esistenza di Anna Frank. Eduard Roschmann, “il macellaio di Riga”, fu scovato grazie al successo del libro di Frederick Forsyth, The Odessa File, e del film che ne fu tratto: Forsyth su suggerimento di Wiesenthal, aveva dato al criminale protagonista del libro le fattezze e la storia personale di quell’ufficiale, fuggito grazie a una rete organizzata che lo aveva fatto riparare in Sudamerica. Il successo del film alzò l’attenzione sul criminale che fu rintracciato e perseguito. Nel periodo in cui fu vice comandante del Ghetto di Riga, Roschmann aveva determinato la morte di almeno 35.000 persone, tra uomini, donne e Bambini, spesso con modalità di estrema crudeltà.

Wiesenthal non si limitò a cercare colpevoli, provò anche a individuare e far liberare un uomo di grande valore e qualità, civili e umane, il diplomatico svedese Raoul Wallenberg[31]. Nel periodo dell’occupazione tedesca in Ungheria, e correndo grandi rischi, era riuscito a salvare migliaia di ebrei dalla deportazione fornendo documenti falsi e vie di fuga. Nei primi mesi del 1945 era stato arrestato dai russi, e di lui si era persa ogni traccia: la madre, nel 1971, chiese aiuto a Wiesenthal e lui scoprì che l’eroico diplomatico non era morto nel 1947 come asserivano i sovietici, in realtà era ancora vivo negli anni Sessanta, e tenuto prigioniero. Una vicenda ancora controversa, che non ha mai trovato conclusione.

Wiesenthal ha descritto il suo lavoro in due libri di ampio successo, Gli assassini sono tra noi e Giustizia, non vendetta, raccontando le storie di vittime e di carnefici, e accompagnandole con una serie di riflessioni, sul passato ma anche sul futuro. Ha evidenziato la sorpresa di tanti ebrei e oppositori politici nel veder precipitare la Germania di Schiller e Goethe in una dittatura irrazionale e disumana, votata alla guerra e allo sterminio. Le storie di cui porta testimonianza svelano anche la mediocrità del male, l’inconsistenza morale, caratteriale e culturale di tanti criminali, assurti a posizioni di comando e autori di massacri di ogni genere: “Conosco abbastanza bene la vita di molti assassini nazisti: nessuno di loro era nato assassino. Prima erano contadini, artigiani, impiegati o funzionari, come se ne incontrano ogni giorno per strada. Erano stati allevati nella religione: nessuno usciva da un ambiente di criminali. E tuttavia sono divenuti assassini, assassini per convinzione. Quando avevano indossato l’uniforme delle SS, si erano spogliati, insieme agli abiti civili, anche della loro coscienza”. 

Il cacciatore di nazisti, resterà tale sino alla fine. Nonostante le minacce, gli attentati, come l’esplosione della sua casa nel 1982, nonostante la richiesta della moglie di dedicare i loro ultimi anni ai nipoti, non volle mai dire basta: finché restavano verità da accertare e giustizia da rendere alle vittime, avrebbe lavorato e cercato, con l’ostinazione di sempre. Durante un’intervista spiegò che, incontrando nell’al di là i milioni di morti dei lager, avrebbe detto loro queste parole: “Non vi ho mai dimenticato”. Wiesenthal muore il 20 settembre 2005, a Vienna, a 96 anni.

Al complesso tema del perdono, Simon Wiesenthal ha dedicato un libro, Il girasole, del 1970, ripubblicato negli anni successivi, arricchito da interventi di molti intellettuali di alto rilievo, tra questi Primo Levi. Alla domanda del primo sulla possibilità di perdonare, in casi come quello del nazista di Leopoli, Levi rispose: “Quando una violenza, un’offesa è stata commessa, è irreparabile per sempre; può accadere che l’opinione pubblica richieda una sanzione, una punizione, un “prezzo” del dolore; può anche darsi che questo prezzo sia utile, in quanto indennizza, o scoraggia una nuova offesa, ma l’offesa prima resta, e il prezzo [anche se è “giusto”] è pur sempre un’offesa a sua volta, e una nuova sorgente di dolore. Premesso questo, credo di poter affermare che, in quella situazione, lei ha avuto ragione nel rifiutare al morente il suo perdono. Ha avuto ragione perché era il male minore: lei non avrebbe potuto perdonargli se non mentendo, o infliggendo a lei stesso una terribile violenza morale. È chiaro, tuttavia, che il suo rifiuto non risolve tutto, e si capisce abbastanza bene che lei abbia conservato dei dubbi: in casi come questo, il sì e il no non si possono separare con un taglio netto, e qualcosa resta sempre dall’altra parte.

Nel caso specifico, poiché lei era uno Häftling, cioè una vittima predestinata, e poiché lei sentiva allora di rappresentare la totalità del popolo ebreo, lei avrebbe sbagliato assolvendo il suo uomo, e proverebbe oggi un rimorso più grande di quello che prova forse oggi per averlo condannato”.

Lo scrittore torinese ribadirà queste riflessioni anche in I sommersi e i salvati. Sopravvivere è un privilegio che comporta dei doveri, nessun sopravvissuto può arrogarsi il diritto di perdonare per conto di chi non ha più voce, perché scomparso nei forni crematori, ha invece il dovere di non dimenticarli e di rendergli giustizia. 

Wiesenthal e Levi non credono alla colpa collettiva, approfondire “il contesto” è utile per capire, non per giustificare le colpe e le responsabilità individuali. La loro è una visione illuministica e civile quanto mai necessaria per ricordare e capire ciò che è stato, e per affrontare i ricorrenti pericoli dell’irrazionalità, della disumanità e dell’intolleranza.”

Giuseppe Mendicino, La giustizia necessaria – Wiesenthal, i limiti del perdono, Doppiozero, 27 Gennaio 2021 [https://www.doppiozero.com/wiesenthal-i-limiti-del-perdono].

 

Sfilata a Stanislaviv nel 1943.

 

Luglio-agosto 1941: Castello Zhovkva nell’Ucraina occidentale.

Heil Hitler!

Gloria a Hitler!

Gloria a Bandera!

Lunga vita allo Stato Indipendente ucraino!

Lunga vita al nostro leader S. Bandera!

L’atto di proclamazione dello Stato ucraino del 30 giugno 1941 fu annunciato dall’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini [OUN)], sotto la guida di Stepan Bandera. Il primo ministro fu Yaroslav Stetsko e il capo del Consiglio degli Anziani fu Kost Levitsky.

 

 

Mappa dell’Olocausto nel Reichkommissariat Ukraine.

 

Ufficiali tedeschi in visita all’unità Schutzmannschaft a Zarig, vicino a Kiev.

 

 



Zoriy Fine says he was dismissed after 2 weeks at Vinnytsia State Pedagogical University after contesting a memorial to a military leader whose troops massacred 35,000-50,000 Jews

JTA — A Jewish journalism professor claims he was fired from a Ukrainian university for his opposition to a statue honoring a militia leader whose troops killed Jews in pogroms.

The case is a rare example of real-life implications stemming from the heated debate in Ukraine on nationalist memory that has stayed for the most part in the realm of theoretical exchanges.

Zoriy Fine, a photographer from the city of Vinnytsia, says he was fired from the Vinnytsia State Pedagogical University just two weeks after he was appointed to work there as a lecturer on journalism in 2017, according to an 11,000-word account he published last week.

Fine says his former employers told him he was dismissed for speaking out against a statue of Simon Petlyura, a politician and militia leader who fought for Ukrainian independence in the wake of the 1917 Russian Revolution.

Some of Petylura’s loyalists killed 35,000 to 50,000 Jews in a series of pogroms between 1918 and 1921.

Petlyura issued an order in 1919 ordering an end to pogroms, but he also said the “Jews and Muscovites” had brought the murders on themselves. He did not intervene during a visit to Zhytomyr when a pogrom was unfolding in that city, according to some historians.

The university denies Fine’s claims. He resigned “of his own will” and the university had no intention of firing him, a spokesperson told the Jewish Telegraphic Agency.

Fine says the experience made him leave Ukraine for Poland, where he lives as a “21st century dissident,” he wrote.

According to Fine, he was dismissed shortly after publishing on his website a letter to his late father telling him that “it’s good that you didn’t live to see” the veneration of Petlyura, whose militiamen killed Fine’s paternal great-grandfather in 1919.

Fine says he has remained silent on the affair until now for fear that speaking out might harm the chances of his daughter graduating from medical school, he wrote. He published his story upon her graduation.

Shortly before his alleged dismissal, Fine also published two poems protesting Petlyura’s honoring.

“Vinnitsa was stolen from me yesterday, planting Petlyura on a bench from which my grandfather was carved out,” he wrote in one.

Local media picked up Fine’s posts in 2017, presenting them as traitorous and anti-patriotic, prompting far-right activists to pressure the university into firing him, he wrote.

“One day I may feel like applying my resources and creativity for Ukraine’s benefit again,” he wrote in his account. But for now, “I no longer feel like inspiring the society that voluntarily commits a suicide in its collective consciousness… This is not my choice, not my war, not my responsibility.”

“Advocates argue that people like Petlyura and Nazi collaborators such as Stepan Bandera should be celebrated for standing up to Soviet domination

The decade-long debate whether to honor 20th-century nationalists in Ukraine has left Jews there uneasy. Advocates argue that people like Petlyura and Nazi collaborators such as Stepan Bandera should be celebrated for standing up to Soviet domination. Critics, including many Jews, say doing so is incompatible with Ukraine’s ambitions to join the European Union.

The statue honoring Petlyura was erected as part of a nationalist resurgence on the heels of an armed conflict that broke out in 2014 between Ukraine and Russia. The conflict followed the bloody overthrow of the president, Viktor Yanukovych, who was accused of corruption and bowing to Russia.

Since then, the country has seen unprecedented sights, including a 2018 march in Lviv during a city-sponsored event in which participants wore Nazi symbols that commemorated a Waffen SS unit with many local volunteers.

President Volodymyr Zelensky, a Jewish actor who was elected president last year, has voiced mild reservations about the trend. But he has avoided conflicts with the nationalist base over this issue, focusing instead on his attempts to modernize and rebrand Ukraine, whose economy was stagnant even before it was paralyzed by the coronavirus crisis.

“Let’s find those people whose names do not cause controversy in our present and in our future,” he said in an interview with The Times of Israel.

 

Cnaan Liphshiz, Ukraine Jewish prof. claims he was fired for protesting controversial statue, The Times of Israel,  8 December 2020 [https://www.timesofisrael.com/ukraine-jewish-prof-claims-he-was-fired-for-protesting-controversial-statue/].

 

 

 

 
Trudeau and Zelensky give Ukrainian Nazi war veteran standing ovation in Canadian Parliament.

 

By REUTERS, Russia: Canadian recognition of veteran from Nazi unit is “outrageous”

Yaroslav Hunka, 98, received two standing ovations from Canadian lawmakers. Hunka served in World War Two as a member of the 14th Waffen Grenadier Division of the SS, The Jerusalem Post, September 25, 2023 [https://www.jpost.com/international/article-760425].

 

Jaroslav Hun’ka

 

 

Nel settembre del 2023, Anthony Rota, presidente della Camera dei Comuni nonché concittadino di Jaroslav Hun’ka, ex-consigliere comunale di North Bay ed ex-docente della locale Nipissing University, aveva invitato Hun’ka a visitare la Camera dei Comuni e ad accompagnare il presidente ucraino Volodymir Zelensky.

Il 22 settembre, dopo gli elogi di Rota, la Camera dei Comuni aveva riservato una standing ovation a Hun’ka, alla quale si erano uniti Justin Trudeau, Volodymyr Zelensky e la sua consorte.

Rota aveva descritto Hun’ka come “un veterano ucraino-canadese della Seconda Guerra Mondiale che ha combattuto per l’indipendenza ucraina contro i russi e continua a sostenere le truppe ucraine anche oggi, all’età di 98 anni”.

E aveva elogiato Hun’ka, affermando che “è un eroe ucraino, un eroe canadese, e lo ringraziamo per tutto il suo servizio”.

Successivamente, l’ambasciatore della Federazione Russa in Canada, Oleg Stepanov, rivelava l’appartenenza di Jaroslav Hun’ka alle Waffen SS e il Centro per gli studi sull’Olocausto degli Amici di Simon Wiesenthal esprimeva un duro giudizio di condanna della SS Galizien come “responsabile dell’omicidio di massa di civili innocenti con un livello di brutalità e malvagità inimmaginabile” , facendo riferimento al Massacro di Civili polacchi di Huta Pieniacka del 1944.

 

 
Canadian commons speaker apologises for recognising former Nazi fighter Yaroslav Hunka.

 

 

David Pugliese, Jewish group challenges decision to keep alleged Nazis’ names private, The list of names was created by a 1986 federal government war-crimes commission led by Justice Jules Deschenes, Ottawa Citizen,  Dec 20, 2024 [https://ottawacitizen.com/news/national/defence-watch/jewish-group-appeals-release-names-nazis-living-in-canada].

 


 

Roma, 20 luglio 1933: firma del Reichskonkordat.

Da sinistra a destra: monsignor Ludwig Kaas, il vice-cancelliere tedesco Franz von Papen, il sottosegretario ecclesiastico Giuseppe Pizzardo, il cardinale segretario di Stato Eugenio Pacelli, il segretario della cifra Alfredo Ottaviani e il segretario del Ministero degli Interni tedesco Rudolf Buttmann.

 

 
Vatican documents show secret back channel between Pope Pius XII and Adolf Hitler. 

L’appoggio della Chiesa ai nazisti in fuga è provato da documenti sino dal 1946. In particolare, i documenti negli archivi della Croce Rossa hanno elencato tra i principali organizzatori della fuga dei criminali di guerra cardinali come Antonio Caggiano, Eugène Tisserant e Giovanni Battista Montini, che diventerà poi papa Paolo VI. Si può, altresì, affermare che le ratlines furono gestite principalmente da due personaggi: il vescovo Alois Hudal e il prete Krunoslav Stjepan Draganovic.

Nato in Austria nel 1885, Hudal, inizialmente contrario al nazismo, si convinse che si sarebbe potuta trovare una mediazione tra il nazismo e la Chiesa. Questa convinzione lo portò alla pubblicazione dei Fondamenti del nazionalsocialismo, un’apologia del nazismo. Convinto antisemita e anticomunista, sostenne il fascismo di Benito Mussolini e iniziò a considerare il nazismo di Hitler come l’unico vero baluardo contro il comunismo. Mentre in Germania il libro di Hudal non fu fatto circolare, per impedire la cristianizzazione dei più giovani, in Italia il testo fu malvisto da papa Pio XI, il quale si era impegnato, invece, qualche anno prima, a diffondere l’Enciclica Mit Brennender Sorge. Così Hudal fu allontanato dalla Curia Romana, visse in isolamento nel Collegio dell’Anima a Roma, dove entrò in contatto con alcuni esponenti del partito nazista, tra cui Walter Rauff. Dopo la fine della guerra Hudal fu uno dei principali pianificatori delle ratlines. Mentre mediava per l’ottenimento di documenti d’identità falsi e validi per l’espatrio, organizzava e gestiva la logistica, dall’alloggio alla protezione. Nelle sue memorie, Diari Romani, Hudal si vanta di avere aiutato i criminali nazisti a fuggire in America Latina, soprattutto in Argentina, fino alla sua morte nel 1962. Tra i nazisti più famosi che Hudal fece fuggire ricordiamo Eduard Roschmann, ex-SS conosciuto anche come il “macellaio di Riga”; Josef Mengele, l’“Angelo della morte di Auschwitz”; Alois Brunner, criminale di guerra austriaco; Adolf Eichmann, uno dei pianificatori dell’Olocausto, ed Erich Priebke, tra i responsabili del Massacro delle Fosse Ardeatine.

Ma perché il Vaticano scelse Hudal per gestire la Pontificia Commissione di Assistenza?

In realtà, è semplice comprendere perché i vertici della Chiesa decisero di affidare a lui questo compito. Come detto in precedenza, Hudal era un personaggio scomodo per la Chiesa, ed è proprio per questo che rappresentava l’uomo giusto per condurre un’operazione del genere. Semmai questo sistema di ratlines fosse stato scoperto, il Vaticano avrebbe potuto dire semplicemente che non ne sapeva nulla e che Hudal aveva agito per suo conto, e sarebbe stato facile sacrificarlo. Nel Rapporto La Vista, declassificato negli Anni Ottanta, si evince come gli Stati Uniti fossero a conoscenza di questo traffico di documenti falsi e di criminali nazisti. Ma furono proprio gli americani, come, poi, i sovietici, ad accaparrarsi i nazisti più preparati. Nel 1999, inoltre, emerse dagli archivi in Argentina una lettera di Hudal al presidente argentino Juan Domingo Perón, nella quale il vescovo chiedeva al presidente 5.000 visti, 3.000 per tedeschi e 2.000 per austriaci, definiti “combattenti contro il comunismo”. La richiesta fu accolta dal Governo argentino, a testimonianza del fatto che Hudal disponesse di contatti importanti, importanti a tal punto da raggiungere i vertici di un altro Paese. Contatti che Hudal non avrebbe potuto crearsi senza la mediazione e la complicità dei più alti vertici del Vaticano. Fu lo stesso Hudal poi, nelle sue memorie, a lamentarsi del poco aiuto ricevuto dal Vaticano nelle sue attività e a dichiarare il suo coinvolgimento nell’operazione:

“Ringrazio Dio per avermi permesso di visitare e confortare molte vittime nelle loro prigioni e campi di concentramento e di aiutarli a fuggire con documenti d’identità falsi.”

Un personaggio fondamentale sul fronte croato fu invece il prete Krunoslav Stjepan Draganovic, nato in Bosnia Erzegovina nel 1903, sostenitore del regime ustascia. Nel 1943, fece del Monastero di San Girolamo degli Illirici, a Roma, un punto di ritrovo per i cattolici e per i criminali di guerra croati, tra i quali Ante Pavelic e Klaus Barbie. Draganovic non solo aiutò a pianificare la fuga di questi criminali, ma lavorò anche per la CIA, monitorando le attività nella Jugoslavia di Tito fino agli inizi degli Anni Sssanta. Alcuni documenti declassificati della stessa CIA mostrano come Draganovic fosse stato nominato anche vicepresidente dell’Ufficio per la Colonizzazione che decideva chi mandare nei campi di concentramento, tra serbi ed ebrei. La figura di Draganovic ha messo in luce un altro rapporto, tra la CIA, la Banca vaticana [IOR] e il nazismo. Il prete, infatti, riuscì a nascondere i tesori sottrati da Pavelic a circa 700.000 serbi. Allo stesso tempo, strinse rapporti solidi con Pio XII, frequentò diplomatici tedeschi e fu amico intimo del futuro papa Paolo VI, monsignor Montini. Grazie a questa fitta rete di contatti il prete croato entrò a fare parte della già citata Pontificia Commissione diAssistenza ai profughi, che concedeva documenti cartacei per la realizzazione dei passaporti del Vaticano e della Croce Rossa. La fuga iniziava in Austria, dove frate Vilim Cecelja aveva a disposizione un gran numero di moduli di domanda della Croce Rossa e li consegnava a coloro che fuggivano. Una volta a settimana Cecelja contattava Draganovic per chiedere di quanti posti liberi disponeva a Roma, e, così, ne inviava un certo numero al monastero romano. Draganovic, poi, era responsabile per la documentazione necessaria per l’espatrio e l’arrivo a Genova, dove i criminali passavano sotto la responsabilità del cardinale Giuseppe Siri. La Pontificia Commissione d’Assistenza era un tassello fondamentale, era questa che preparava e stampava i documenti per l’espatrio. Altro tassello importante, citato prima, è lo IOR, la Banca Vaticana. Lo IOR è stato uno dei maggiori partner nella divisione del tesoro della Croazia Indipendente, uno stato fantoccio tedesco. Gli Ustascia, i nazisti croati, depositarono nella banca gli atti del genocidio per finanziare il loro Governo in esilio in Argentina e per il trasferimento dei propri membri in Sud America. Nel 1998, il Dipartimento di Stato americano, ha pubblicato un documento intitolato Il Destino del Tesoro degli Ustascia[32], indicando il Vaticano e i suoi archivi come possibili luoghi in cui cercare risposte.

John Loftus, scrittore ed ex-pubblico accusatore del Dipartimento di Stato, durante il Processo Alperin[33], concluse che parti del tesoro degli Ustascia erano finite presso la Banca Vaticana. Loftus non nominò solo Draganovic e il tesoriere francescano Bogdan Ivan Dominik Mandic come i principali mandanti del trasferimento del tesoro nazista, ma anche il vescovo sloveno Gregorij Rozman, collaborazionista nazista presso il Vaticano. In seguito alla pubblicazione dei documenti negli Stati Uniti il segretario di Stato del Vaticano inviò una nota diplomatica al Governo statunitense, chiedendogli di fare pressione sulla corte per archiviare la causa, ma il Dipartimento si rifiutò.

Altra figura importante nella fuga dei criminali di guerra dall’Europa, fu Giuseppe Siri, sacerdote nel 1929 e vescovo dal 1944. Si distinse dagli altri uomini di chiesa per le sue convizioni ultraconservatrici: accolse nel seminario di Genova molti seminaristi tradizionalisti; ordinò che i preti della sua diocesi indossassero sempre l’abito sacerdotale; ostacolò costantemente il Concilio Vaticano II e lottò affinché prevalesse una linea fedele alla tradizione; fu uno dei cardinali più ostili alla partecipazione del Partito Comunista Italiano al Governo. Siri, come Hudal, fu sempre considerato un personaggio scomodo e forte nemico del comunismo. Siri fu a un passo dal diventare papa per ben quattro volte, nel 1958, nel 1963 e due volte nel 1978.

Anche il futuro papa Paolo VI, Giovanni Battista Montini, avrebbe diretto le ratlines di Draganovic, mentre era sottosegretario di Pio XII. Proprio grazie a lui la Pontificia Commissione di Assistenza avrebbe usufruito di larghi finanziamenti provenienti da associazioni statunitensi come la National Catholic Welfare Conference. Montini, inoltre, fu ingaggiato come informatore dal controspionaggio americano e, in diretto rapporto con il Papa, consentì a Hudal di accedere ai passaporti vaticani e ad altri documenti di viaggio, alla Caritas Internazionale. Nel 1946, Montini comunicò l’intenzione di Pio XII di organizzare l’espatrio di cattolici, non solo italiani, verso l’Argentina.

Ma tra gli uomini di chiesa coinvolti nella fuga di migliaia di crimanali non ci sono solo Hudal, Draganovic, Siri, Montini. Gli ultimi due personaggi da menzionare nell’assistenza ai criminali nazisti per la loro fuga sono l’argentino Antonio Caggiano e il francese Eugène Tisserant.

Caggiano era vescovo della città di Rosario e il capo dell’Azione Cattolica in Argentina, un’organizzazione sostentuta dal Vaticano che riuniva i più ferventi anticomunisti e nazionalisti del Paese. Caggiano fu convocato da papa Pio XII a Roma per essere nominato cardinale e, nel suo viaggio verso Città del Vaticano fu accompagnato da un altro vescovo, anch’egli anticomunista e difensore dell’alleanza tra stato e chiesa in

Argentina, Agustin Barrere. Caggiano e Barrere arrivarono, nel 1946, a Genova, dove ad aspettarli c’era Aquilino Lopez, membro dei servizi segreti di Heinrich Himmler. A marzo del 1946, il vescovo si trovava nella sede della Pontificia Commissione di Assistenza, presso Villa San Francesco. In questa occasione fu presentata la possibilità, da parte del governo argentino, di aiutare e mettere in salvo i criminali di guerra francesi, al cardinale francese e anticomunista Eugene Tisserant. Caggiano e Barrere informarono Tisserant che il Governo di Buenos Aires era disposto ad accogliere francesi che avevano collaborato con i nazisti e, per questo, esposti a possibili misure punitive o vendette in territorio europeo, soprattutto francese. Fu proprio durante il 1946 che l’Ambasciata argentina a Roma iniziò a ricevere un gran numero di raccomandazioni per concedere visti a gruppi di francesi, tra cui criminali di guerra. Queste richieste venivano incanalate dal Vaticano a Caggiano, il quale le trasmetteva all’Ambasciata argentina. L’appoggio della Chiesa permise l’apposizione del timbro della Croce Rossa, di Emilio Bertolotto in persona, console argentino a Roma, sui passaporti. Bertolotto permise, così, la fuga di criminali di guerra francesi quali: Marcel Boucher, Fernand de Menou e Robert George Pincemin, condannati a morte in contumacia. Il numero di richieste decrebbe a metà del 1946 e Caggiano decide di spostarsi in Spagna, a Madrid. Qui il vescovo fu accolto in modo trionfale, accompagnato da Raul Labougle, diplomatico filonazista argentino. Sempre in merito alla protezione dei criminali nazisti, nel 1960, espresse pubblicamente il suo rammarico per la cattura di Eichmann, uno degli organizzatori della Soluzione Finale, da parte degli israeliani affermando: 

“Bisogna perdonarlo!”

Ad aprile, Caggiano incontrò Francisco Franco e celebrò la messa nella Cattedrale di Toledo. Si imbarcò sulla Cabo de Buena Esperanza e tornò in Argentina. Con lui c’era un passeggero che durante la guerra collaborò con i nazisti, Emile Dewoitine. La Cabo de Buena Esperanza tornò in America Latina e, questa volta, tra i suoi passeggeri figuravano tre criminali di guerra francesi: Menou e Pincemin, e il loro camerata Charles Lescat.

 

 
Eichmann e la strada verso l’Argentina.

 

Otto Adolf Eichmann, come altri fuoriusciti nazisti, nel giugno del 1948, venne munito dal vicario di Bressanone, Alois Pompanin, di documenti di identità falsi a nome Riccardo Klement e salpò alla volta del Sud America con la speranza di lasciarsi il passato alle spalle e il sogno di poter fare, un giorno, ritorno in Germania.

Nel 2007, è stato rinvenuto, tra i documenti coperti dal segreto di Stato in Argentina, il passaporto falso con il quale Eichmann[34] lasciò l’Italia, nel 1950: era intestato, per l’appunto, a  Riccardo Klement, altoatesino del Comune di Termeno e rilasciato dalla Croce Rossa di Ginevra, in base alla testimonianza del padre francescano Edoardo Domoter.

Nel 1960, dopo un lungo periodo di preparazione, il Mossad aveva organizzato un’operazione che aveva portato al rapimento e al segreto trasferimento di Eichmann in Israele – nel sistema giuridico argentino l’estradizione non era prevista! –, affinché venisse sottoposto a processo per i crimini di cui si era reso responsabile durante la guerra. Il processo, tenuto nel 1961, a quindici anni di distanza da quello di Norimberga, fu il primo processo a un criminale nazista tenuto in Israele. Furono presentate diverse richieste di grazia, tutte respinte dall’allora presidente d’Israele, Yitzhak Ben-Zvi. Adolf Eichmann fu condannato a morte per avere spietatamente perseguito lo sterminio degli ebrei” e fu impiccato nel carcere di Ramla, pochi minuti prima della mezzanotte di giovedì 31 maggio 1962. Questa è rimasta l’unica esecuzione capitale di un civile eseguita in Israele. Eichmann non volle un prete perché “non aveva tempo da perdere”, non si pentì perché ”il pentimento è per i Bambini”, rifiutò anche la cena chiedendo, invece, un pacchetto di sigarette e una bottiglia di Carmel rosso. Ne consumò mezza bottiglia e andò, così, incontro al suo destino, completamente padrone di se stesso. Percorse i cinquanta metri che dalla sua cella portavano alla stanza dell’esecuzione, a testa alta, con le mani legate dietro la schiena. Quando le guardie gli legarono le caviglie, chiese che non stringessero troppo, in modo da poter rimanere in piedi. Come da prassi furono due le persone che tirarono contemporaneamente le leve della corda, affinchè nessuno sapesse con certezza per quale mano il condannato fosse morto. 

“Non ce nè bisogno.”,

obiettò quando gli offrirono il cappuccio nero.

“Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Lunga vita alla Germania. Lunga vita all’Austria. Lunga vita all’Argentina. Questi sono i Paesi con i quali sono stato associato e io non li dimenticherò mai. Io dovevo rispettare le regole della guerra e la mia bandiera. Sono pronto.”

Furono le sue ultime parole.

Scriveva Simon Wiesenthal, nel 1967:

“Non mi interessavano tanto i nomi dei principali capi delle SS e dei membri della Gestapo, quanto gli itinerari seguiti da costoro. Era essenziale scoprire dove fossero andati, come ci fossero arrivati, chi li avesse aiutati e chi avesse pagato per rendere possibili queste fughe.”[35]

A distanza di molti anni queste lacune denunciate da Wiesenthal, nel frattempo scomparso, sono ancora molto lontane dall’essere totalmente colmate.

 


On February 4, 1936 a young man named David Frankfurter assassinated the head of the Nazi movement in Switzerland. The Nazi was named Wilhelm Gustloff. The German Nazis mourned him as a martyr.  Frankfurter turned himself in to the Swiss police and said he acted on his own to avenge Nazi humiliations of Jews.  The German Nazis didn’t believe this and thought he was an agent of some group.  They were frantic to find the supposed group to destroy it before it could kill other Nazis leaders, perhaps even Hitler.

As part of their investigations that year they talked with an agent of the Haganah, the Jewish paramilitary formation in British Palestine. He was named Feivel Polkes. He promised to aid them to find out about the group behind the killing of Gustloff and offered to assist Nazi Germany in other ways. Discussions continued and eventually Polkes brought to British Palestine none other than SS-Untersturmfürer Adolf Eichmann to continue cooperation.

If someone put this in a novel it would be ridiculed, but it’s all true.  Why would any Jew want to give help to the SS, after Nazi brutality and humiliation of German Jews, after the Nuremberg laws, etc. etc. ? We know about the affair mainly from two documents, one was captured by the Allies from Nazi files after World War II, the other a report by Eichmann and his boss on their Palestine trip. Both are included in historian Lenni Brenner’s “51 Documents” pp.111-120. Polkes involvement is examined in some detail by Francis Nicosia,  the Raul Hilberg Distinguished Professor of Holocaust Studies at the University of Vermont in books he wrote, “The Third Reich and the Palestine Question” [1985] and “Zionism and Anti-Semitism in Nazi Germany” [2008].

According to the captured “Secret Commando Affair Report” of June 1937 written by Franz-Albert Six, Polkes had been recommended to the SD by Dr. Franz Reichart of the DNB [German News Bureau] in Palestine as someone “who was well acquainted with all important matters occurring in the Jewish world.” The secret report assumed that Polkes was “a central figure in the Jewish intelligence service, Haganah.” It describes a meeting that took place at the very end of February or early March 1937 in Berlin.

The SD interview with Polkes was done by Adolf Eichmann and recorded by Six, who was his boss. [Sources; Brenner and Nicosia, “The Third Reich”, Chapter Abteilung II/112and Palestine] Polkes told Eichmann that he and the Haganah wanted to create a Jewish majority in Palestine and he was ready to “serve” Germany as long as it didn’t conflict with his overriding political goal. “He let it be know [sic] that he knew the men and the background of the Gustloff murder.” He also offered to try to get Germany sources of Middle East oil.

Stop here for a second. If you’re astounded that a Haganah man or any Jewish official would be meeting with German Nazis realize that had been Zionist policy since 1933. When Hitler took over Germany in January of that year most Jewish organizations tried to raise the alarm and thought of ways to fight back, like launching a boycott of German goods. The Zionists [then led by leaders of what later became the Labour Party] thought differently. They assumed opposition to Hitler was useless and the best thing to do was to try to get some German Jews and their wealth into British Palestine. They made the so-called “Transfer Agreement” in 1933 with Nazi Germany to sell German goods, financed by frozen bank deposits of wealthy German Jews. That way those Jews could get into Palestine with more of their money than if they had just fled. The agreement continued until December 1939. So the Polkes-Eichmann meetings were part of the pattern of Nazi-Zionist contacts.

The Nazi SD Jewish Department was desperate to find out about what they believed where “many murder threats and attendant plans of the Alliance Israélite Universelle, Paris, against the Führer” and thought it was “absolutely urgent to find contacts to discover the men behind it.” The Alliance Israélite Universelle was a group set up in Paris in 1860 to defend the rights of Jews and to provide education. It still exists today. I cannot find any account of its activities in Germany or against Nazis [for which today it would be rightly proud]. But, of course, the Nazis imagined Jewish conspiracies everywhere. Six’s report proposed that Polkes be enlisted as a “steady informant”, that 1,000 Reichmarks be allotted to give Polkes regular payments, and that Adolf Eichmann be his contact. Polkes had asked to meet with Eichmann in Palestine and Six said that should happen.

The Nazi report about the meeting in Berlin lists four objectives for further contact with Polkes. The first was to find out more about the Gustloff murder, the second was to know more about the plans of “international Jewry”, specifically American boycott organizations and groups the Nazis believed to be planning assassinations, third was to learn about attempts “against the Fuhrer”. What they called “Jewish colonization work” in Palestine was listed as the fourth interest. The Nazis worried that if a Jewish state was proclaimed “a new political opponent of Germany will arise”.

As historian Nicosia wrote in 1985 [“The Third Reich”, II-112], the Nazi intelligence unit, “was more interested in obtaining information on assassinations and alleged conspiracies in Germany and Europe … than in securing an accurate picture of the state of affairs in Palestine.” The Nazis evidently had high hopes for information from Polkes. After all Eichmann would have to travel for seven days and 4,000 miles to get to Haifa.

The next time we hear about Polkes is after Eichmann and Herbert Hagen [another future mass murderer] debark from a ship in Haifa to meet with him on October 2, 1937. Their “cover” was as German journalists. Polkes shows them around Haifa, but evidently the British found out who these “journalists” really were and expelled them to Cairo. Polkes follows. The Eichmann-Hagen report about their meeting [printed in John Mendelsohn’s 5-volume “Holocaust” and in Brenner’s “51 Documents”] says they met with “the informer Polkes” on the 10th and 11th. There Polkes talks about what he says is Zionist strategy of accepting part of Palestine and pushing out the borders later. He said that “in Jewish nationalist circles people were very pleased with the radical German policy, since the strength of the Jewish population in Palestine would be so far increased…”. He told the Germans the group behind the assassination of Gustloff “should be sought in anarchist circles” and named Paris streets where they might be found. He promised to get material about the Alliance Israélite Universelle and the killing of Gustloff “in 14 days”. When told about Jews arrested in Hamburg smuggling arms to Palestine, he started at the name “Schalomi” and asked what they wanted for his release. They told him they wanted a complete explanation of the Gustloff murder to which he agreed.

Polkes proposed a plan to have 50,000 Jews emigrate to Palestine with the equivalent of 50,000 British pound sterling and discussed possible means of financing by selling goods. The Eichmann-Hagen report says Polkes gave them this political information about possible opponents: “The Pan-Islamic World Congress convening in Berlin, according to Polkes, is in direct contact with two pro-Soviet Arab leaders, Emir Shekib Arslan and Emir Adil Arslan” and “The illegal Communist broadcast station whose transmission to Germany is particularly strong, is, according to Polkes’ statement, assembled on a truck that drives along the German-Luxembourg border when transmission is on the air.”

Lenni Brenner tried to find out more about Feivel Polkes. In “51 Documents” [p.111] he writes “In 1982, I met Yoav Gelber, a scholar at Jerusalem’s Yad Vashem Holocaust center. I asked what he knew of Polkes: ‘The Haganah archives refuses to let me see his file.’ On October 3, I went there and asked custodian Chaim Zamir to see the file: ‘There is no file.’ ‘But Yoav Gelber says that you would not let him see the file.’ ‘There is no file because it would be too embarrassing.’”

Adolf Eichmann was captured by Israelis in Argentina in 1960 and made to stand trial and was executed in 1962. In the press it was revealed that Eichmann had been in Middle East in 1937. In his 2008 book Nicosia writes that in 1963 Feivel Polkes was interviewed by someone working for the Haganah Archives. Polkes said his work with Reichert was authorized by the Haganah. However, in another interview that month, Haganah agent Shaul Avigur said that the Berlin trip was Polkes’ own idea and that the Haganah was angry with what he had done and dismissed him. [source: p.126, Francis Nicosia, “Zionism and Anti-Semitism in Nazi Germany”].

So there are [at least] three ways of looking at all this. We can say it was nothing, spy vs. spy, both sides lying their heads off. Move along. Nothing to see here. Or perhaps Avigur is right, that Polkes went overboard in implementing Zionist cooperation with the Nazis and spying for the SD was his own idea. Or maybe Chaim Zamir of Yad Vashem knew the truth. Something very embarrassing happened, so embarrassing that the Polkes file had to disappear.

What would be so embarrassing? Well, it could be that Polkes offer to spy was a genuine Haganah proposal. Some things Polkes said to Franz Reichart the German agent in Palestine, must have checked out. Otherwise Reichart wouldn’t have recommended him to the SD. Maybe what Polkes told Eichmann were worthwhile pieces of intelligence, like the location of the anarchist circles in Paris, the names of the two “pro-Soviet Arab leaders” at the conference in Berlin or the means of how Communists sent radio broadcasts into Germany from the Luxembourg border. Maybe he gave them much more.

It’s been 85 years since the Gustloff killing and the Nazi meetings with Polkes. Surely anyone connected with it is long dead and any “national security” concern has long faded away. It’s time that the Zionists and the Israeli state [whose military developed from the Haganah] explain in full this incident, something that to all appearances looks like collaboration with German Nazis.

The Polkes files and other relevant information about Zionist-Nazi contacts should be open for public inspection. Historians should look for the answers to these questions: What were the substance of the talks Polkes had with Reichert before he went to Berlin? Who was Feivel Polkes? How high up was he in the Haganah? What did Polkes report back about his Berlin talks in 1937? If he did report and the Haganah was unhappy with him why didn’t it cancel the Eichmann visit in October to Palestine? How valuable were the pieces of intelligence Polkes gave to the Nazis in October? What did Polkes report after meeting Eichmann and Hagen in Cairo? Was he dismissed from the Haganah and when? Did Polkes give out information about people or groups planning assassinations of Nazis? How long did contacts continue after the Cairo meeting? When did they break off and why? If the Polkes file was destroyed, who ordered its destruction?

It’s time for the truth.

Stanley Heller, Isn’t it Time for the Truth about Feivel Polkes and His Haganah Chiefs?, New Politics, February 25, 2021 [https://newpol.org/isnt-it-time-for-the-truth-about-feivel-polkes-and-his-haganah-chiefs/].

 

Ratlines [Pacovski Kanali], 1991.
 English subtitles – Vatican in Smuggling Nazi Ustashas

Ratlines were a system of escape routes for Nazis and other fascists fleeing Europe at the end of World War II. These escape routes mainly led toward havens in South America, particularly Argentina, Paraguay, Brazil, Uruguay, and Chile. Other destinations included the United States and perhaps Canada and the Middle East. There were two primary routes: the first went from Germany to Spain, then Argentina; the second from Germany to Rome to Genoa, then South America. The origins of the first ratlines are connected to various developments in Vatican-Argentine relations before and during World War II. The major Roman ratline was operated by a small, but influential network of Croatian priests, members of the Franciscan order, led by Father Krunoslav Draganovic. Draganovic organized a highly sophisticated chain with headquarters at the San Girolamo degli Illirici Seminary College in Rome, but with links from Austria to the final embarcation point in the port of Genoa. The ratline initially focused on aiding members of the Croatian Ustashe movement, most notably the Croat wartime dictator Ante Pavelic. Priests active in the chain included: Fr. Vilim Cecelja, former Deputy Military Vicar to the Ustashe, based in Austria where many Ustashe and Nazi refugees remained in hiding; Fr. Dragutin Kamber, based at San Girolamo; Fr. Dominik Mandic, an official Vatican representative at San Girolamo and also “General Economist” or treasurer of the Franciscan order - who used this position to put the Franciscan press at the ratline’s disposal; and Monsignor Karlo Petranovic, based in Genoa. Vilim would make contact with those hiding in Austria and help them across the border to Italy; Kamber, Mandic and Draganovic would find them lodgings, often in the monastery itself, while they arranged documentation; finally Draganovic would phone Petranovic in Genoa with the number of required berths on ships leaving for South America. The operation of the Draganovic ratline was an open secret among the intelligence and diplomatic communities in Rome. As early as August 1945, Allied commanders in Rome were asking questions about the use of San Girolamo as a “haven” for Ustashe. A year later, a US State Department report of 12 July 1946 lists nine war criminals, including Albanians and Montenegrins as well as Croats, plus others “not actually sheltered in the COLLEGIUM ILLIRICUM [i.e., San Girolamo degli Illirici] but who otherwise enjoy Church support and protection.” The British envoy to the Holy See, Francis Osborne, asked Domenico Tardini, a high ranking Vatican official, for a permission that would have allowed British military police to raid ex-territorial Vatican Institutions in Rome. Tardini declined and denied that the church sheltered war criminals. In February 1947 CIC Special Agent Robert Clayton Mudd reported ten members of Pavelic’s Ustasha cabinet living either in San Girolamo or in the Vatican itself. Mudd had infiltrated an agent into the monastery and confirmed that it was “honeycombed with cells of Ustashe operatives” guarded by “armed youths”. Mudd also reported: “It was further established that these Croats travel back and forth from the Vatican several times a week in a car with a chauffeur whose license plate bears the two initials CD, “Corpo Diplomatico”. It issues forth from the Vatican and discharges its passengers inside the Monastery of San Geronimo. Subject to diplomatic immunity it is impossible to stop the car and discover who are its passengers. “Mudd’s conclusion was the following: “DRAGANOVIC’s sponsorship of these Croat Ustashes definitely links him up with the plan of the Vatican to shield these ex-Ustasha nationalists until such time as they are able to procure for them the proper documents to enable them to go to South America. The Vatican, undoubtedly banking on the strong anti-Communist feelings of these men, is endeavoring to infiltrate them into South America in any way possible to counteract the spread of Red doctrine. It has been reliably reported, for example that Dr. VRANCIC has already gone to South America and that Ante PAVELIC and General KREN are scheduled for an early departure to South America through Spain. All these operations are said to have been negotiated by DRAGANOVIC because of his influence in the Vatican.” The existence of Draganovic’s ratline has been confirmed by a Vatican historian, Fr. Robert Graham: “I’ve no doubt that Draganovic was extremely active in syphoning off his Croatian Ustashe friends.” On four occasions the Vatican intervened on behalf of interned Ustasha prisoners. The Secretariat of State asked the U.K. and U.S. government to release Croatian POWs from British internment camps in Italy.

 

 
Ratlines | documentary on Vatican complicity with the Ustase.
 [https://www.youtube.com/watch?v=BfCRdCM9f4w]

   

Rafael Eitan [1926-2019], conosciuto come Rafi Eitan, l’uomo dell’Intelligence israeliana[Shin Bet e Mossad], che catturò Otto Adolf Eichmann, arruolò l’ex-colonnello nazista Otto Skorzeny e tenne le fila di Jonathan Pollard, la spia statunitense che passò a Israele molte informazioni segrete dall’estate del 1984 al novembre del 1985, era nato Rafael Kaminetzky, il 23 novembre 1926, a Tel Adashim, vicino a Nazaret, da Eliyahu Kaminetzky [1885-1958] e Miriam Orlov [1887-1963], immigrati ebrei ucraini ed è morto a 92 anni, nel 2019. Suo zio era Zvi Nishri [Orlov] un pioniere dell’educazione fisica moderna in Israele. Eitan è una figura leggendaria e, come riferisce il New York Times”nelle tantissime operazioni di spionaggio e negli innumerevoli intrighi internazionali c’era il suo zampino”, che si trattasse della sicurezza di Israele, di antiterrorismo, o di semplice ritorsione, come nell’uccisione dei palestinesi responsabili del Massacro di Monaco, nel 1972.

Era stato soprannominato “Rafi the stinker” [Rafi il puzzolente], perché, nel 1946, aveva dovuto attraversare alcuni canali di scarico maleodoranti per far saltare a Haifa il radar britannico sul Monte Carmelo che indicava l’arrivo delle navi clandestine ebraiche.

“I was born on 23 November 1926, on Kibbutz Ein Harod, but when I was two my parents left for Ir Shalom, a community that later became the town of Ramat Hasharon. My parents never told us in an orderly way about their families or childhood. We learned about their past during gatherings or chance conversations with relatives or friends, and even then only abbreviated episodes. Eventually, I decided to

make an effort to collect and trace our family history.

My father, Noah Hantman, was born on 28 December 1896, in the shtetl of Ritzitza, near Gomel, in the south-east of modern Belarus, to Bilha [née Kagnovitz] and Reuven, a tailor who specialised in sewing hats. The Hantmans were religious, but not strictly observant. I never knew my grandparents, who remained in Europe and died in the late 1920s, when my parents were already in Mandatory Palestine.

At least half of the 20,000 residents of Ritzitza were Jews. The shtetl had synagogues, yeshivas, cheders and other schools where Hebrew was taught. From childhood, my father, Noah, and his two brothers, Moshe and Benjamin, learned Hebrew, but daily life was conducted in Yiddish. My father recalled that his father made a good living and

they were relatively well off.

In the 1990s, my brother visited Ritzitza and wrote the following in his travel diary:

I am very moved. After all, this is where father’s family started, here is where his Zionist-Socialist world view was formed; from here he set forth with his friends and with mother to the Land of Israel. Here Jewish life thrived, and the love of 2 Capturing Eichmann the Land of Israel flourished... Today [December 1990], there are only about 3,000 Jews left. Most if not all have registered to immigrate to Israel and are due to do so soon . . . Father’s street remains as it was in his stories, as if nearly a hundred years have not gone by... Two old elderly sisters, who still live across the street from father’s house and are due to immigrate, remember well Uncle Moshe, father’s brother, who was the head of the Jewish community of Ritzitza and was chosen to lead it.

When the Nazis crossed the border from Poland in June 1941 and headed east, to the Ukraine and Belarus, the community waited to hear what Uncle Moshe would direct them to do. If Moshe decides to leave, we will all leave, was what they said.

Moshe decided to go east. The Jewish community packed what they needed and left.

They locked their houses and abandoned their property; their animals were given for safekeeping to their Christian neighbours. All those who stayed behind were killed, to the very last one. Moshe himself did not survive the trek and died somewhere in the east, burial place unknown.

I asked to see father’s house. We drove on unpaved roads.

The houses are one storey, with white shingle roofs. The yards are well-tended with flowers and fruit trees. Father’s house is marked with the number 21. I remember his descriptions and it is all there: the vaulted entryway, the gate and the wooden fence. The wood table and the bench in the yard. Everything is there, as if time stood still...

From here, he joined the revolutionary army, fought and returned, wounded. Here he
packed his bags and here is where he left to wander to the Land of Israel. Now everything is sad here.

[...]

Rafi Eitan, Capturing Eichmann [https://api.pageplace.de/preview/DT0400.9781784387600_A45622683/preview-9781784387600_A45622683.pdf].

 

Marina Gersony, È morto Rafi Eitan, la mitica spia israeliana che catturò Adolf Eichmann, Bet Magazine Mosaico, 24 marzo 2019 [https://www.mosaico-cem.it/attualita-e-news/personaggi-e-storie-attualita-e-news/e-morto-rafi-eitan-la-mitica-spia-israeliana-che-catturo-adolf-eichmann/].

 

 

[ANSAmed] - TEL AVIV, 23 MAR - A 92 anni è morto in Israele Rafi Eitan, ex ministro, ex leggendario ufficiale dello Shin Bet e del Mossad che guidò nel 1960 la missione per catturare in Argentina Adolf Eichmann.

Eitan, nato il 23 novembre del 1926, fu anche l’uomo dell’intelligence israeliana che tenne le fila di Jonathan Pollard, la spia Usa che passò ad Israele molte informazioni segrete dall’estate del 1984 al novembre del 1985.

La notizia della morte è stata annunciata dalla famiglia.

Morto Rafi Eitan, leggenda del Mossad, Guidò la missione per catturare Adolf Eichmann, aveva 92 anni, ANSA, 23 marzo 2019 [https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/mediooriente/2019/03/23/morto-rafi-eitan-leggenda-del-mossad_01c2380a-f164-4f9c-94b9-3f5a3dc0ef5d.html].

  

Jailed spy seeks to block Israel minister, Agence France Presse, May 1, 2006.

[https://jonathanpollard.org/2006/050106d.htm]

 

Pollard To Supreme Court: State has no right to forfeit my life to appoint Eitan

Justice4JP Release, May 1, 2006 [https://jonathanpollard.org/2006/050106a.htm].

 

JERUSALEM -- On the last day of the celebrated 1984 libel trial of Israeli minister Ariel Sharon against Time magazine, a short, rather nondescript, elderly man leaned against the wall of the federal courthouse in New York, unnoticed by the spectators and reporters.

His name was Rafi Eitan, and he was an Israeli superspy, used to moving quietly and unobtrusively in the shadowy world of espionage. He was there to lend quiet support to his old friend, Sharon.

Lally Weymouth, ISRAEL'S DEFIANT MASTER SPY, RAFI EITAN AFTER THE POLLARD AFFAIR VILLAIN, HERO OR SCAPEGOAT?, Washington Post, May 30, 1987 [https://www.washingtonpost.com/archive/opinions/1987/05/31/israels-defiant-master-spy/d84fefbd-9516-4396-9741-80f172882617/].

 

Eichmann’s captor, Israeli ex-spy Rafi Eitan dead at 92, Eitan took part in attack on Iraq’s Osirak nuclear reactor in 1981, and assassinations of Palestinian fighters, Al Jazeera, 24 march 2019 [https://www.aljazeera.com/news/2019/3/24/eichmanns-captor-israeli-ex-spy-rafi-eitan-dead-at-92].

 

 


Addio a Rafi Eitan, leggenda del Mossad che prese Adolf Eichmann, Shalom, 23 marzo 2019 [https://www.shalom.it/israele/addio-a-rafi-eitan-leggenda-del-mossad-che-prese-adolf-eichmann-b374641/].

 

 

Luciano Assin, PUBBLICATA L’AUTOBIOGRAFIA DI RAFI EITAN, UNA DELLE MAGGIORI SPIE ISRAELIANE, 5 settembre 2020 [https://www.olnews.it/2020/09/05/pubblicata-lautobiografia-di-rafi-eitan-una-delle-maggiori-spie-israeliane/].

 

 

Storia Palestina: Spartizione della Palestina, la creazione dello Stato di Israele - Novembre 1947 – maggio 1948, Associazione per la Pace [https://www.assopace.org/index.php/doc-multimedia/focus/focus-palestina/storia-palestina/174-storia-palestina-spartizione-della-palestina-la-creazione-dello-stato-di-israele-novembre-1947-maggio-1948].

 

Nasim Ahmed, Historians reveal Israel’s use of poison against Palestinians, Middle East Monitor, October 11, 2022 [https://www.middleeastmonitor.com/20221011-historians-reveal-israels-use-of-poison-against-palestinians/].

 

Nasim Ahmed, Remembering the Nakba, Middle East Monitor, May 15, 2017. [https://www.middleeastmonitor.com/20170515-remembering-the-nakba/]

 

Benny Morris, In ‘48, Israel Did What It Had to Do, Los Angeles Times, January 26, 2004 [https://www.latimes.com/archives/la-xpm-2004-jan-26-oe-morris26-story.html].

 

 

Colin Schindler, Israeli Mossad spymaster Rafi Eitan reveals his exploits – review – Mossad operative Rafi Eitan’s wild exploits and constantly changing views make pigeonholing him impossible, The Jerusalem Post, December 23, 2022 [https://www.jpost.com/israel-news/article-725578].

 

Davide Foa, L’incredibile storia di una spia nazista che lavorò per il Mossad, Bet Magazine Mosaico, 27 Settembre 2016 [https://www.mosaico-cem.it/attualita-e-news/personaggi-e-storie-attualita-e-news/lincredibile-storia-spia-nazista-lavoro-mossad/].

 

 Mossad: Secret Agreement with ex-nazi Otto Skorzeny.

 

 
Otto Skorzeny chef de commando nazi et agent du Mossad.

 


 
German Colonel Otto Skorzeny interrogated by a US Army captain in Germany; discus... HD Stock Footage.

 

 
Otto Skorzeny: the Nazi commando who killed for Israel.

 

Adnkronos, Argentina, trovata lista e conti bancari 12mila nazisti: “Quei soldi sottratti a ebrei”, 4 marzo 2020.

“Riteniamo che su questi conti a lungo inattivi ci sia denaro saccheggiato a vittime ebree”. Così il Centro Simon Wiesenthal, noto per la sua caccia ai nazisti sopravvissuti al regime di Adolf Hitler, si è rivolto al Credit Suisse dopo la clamorosa scoperta fatta dall’investigatore argentino Pedro Filipuzzi tra le carte di una banca in disuso in Argentina.

Rovistando tra i documenti ammassati in un magazzino del vecchio istituto, Filipuzzi si è imbattuto in una lunga lista di nomi con relativi conti correnti. Secondo il Centro Wiesenthal, a cui l’investigatore ha girato i documenti ora pubblicati sul sito dell’organizzazione, l’elenco contiene i nomi di circa 12mila presunti nazisti che si sono rifugiati in Argentina tra la fine degli Anni Trenta e i primi Anni Quaranta e i loro conti bancari presso la Schweizerische Kreditanstalt, la banca svizzera oggi diventata Credit Suisse, con i soldi che sarebbero stati sottratti alle vittime ebree del nazismo.

La lista era già stata trovata da una Commissione Speciale istituita in Argentina ma nel 1943 il Governo filo tedesco guidato da Pedro Pablo Ramirez sciolse la Commissione e ordinò di bruciare tutti i documenti. La lista con i 12mila nomi e i conti sembrava persa per sempre, fino al ritrovamento di una copia originale da parte di Filipuzzi. Il Centro Wiesenthal ha richiesto l’accesso agli archivi del Credit Suisse per risolvere la questione per conto dei sopravvissuti all’Olocausto ma, fa sapere la stessa organizzazione, finora non ha ottenuto risposta.” [https://www.adnkronos.com/argentina-trovata-lista-e-conti-bancari-12mila-nazisti-qui-soldi-sottratti-a-ebrei_2jRdJJV5imoBeu0gtwz6iH?refresh_ce]

 

Credit Suisse reinstates independent reviewer on Nazi account probe, Reuters, December 4, 2023 [https://www.reuters.com/sustainability/boards-policy-regulation/credit-suisse-reinstates-independent-reviewer-nazi-account-probe-2023-12-04/].

 

Eric Chaverou Magnard, Financement des nazis avant-guerre : l’incroyable liste argentine, Radio France, dimanche 8 mars 2020 [https://www.radiofrance.fr/franceculture/financement-des-nazis-avant-guerre-l-incroyable-liste-argentine-4316346].

 

What’s essential is, I must understand’: a rare candid interview with Hannah Arendt [https://aeon.co/videos/whats-essential-is-i-must-understand-a-rare-candid-interview-with-hannah-arendt].


 
Hannah Arendt Film Completo.

  

 

“Se le guerre posso essere avviate dalle bugie, allora possono essere fermate dalla Verità.”

Julian Assange

 

 

Fine della Prima Parte

 



[1] Carlo Emilio Gadda, Giornale di Guerra e di prigionia.

 

[2] “La Storia in verità è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell’Antichità.”

 

[3] “Armi che possono causare un alto grado di distruzione e/o essere usate in maniera tale da uccidere un grande numero di persone. Le armi di distruzione di massa possono essere altamente esplosive o nucleari, biologiche, chimiche e radiologiche, ma sono esclusi i mezzi di trasporto o di propulsione di parti separate quando tali armi possono essere suddivise e separate.”

 

[4] Il 12 aprile 2015, papa Francesco I suscitò grande emozione, ricordando il massacro degli armeni, “generalmente considerato il primo Genocidio del XX secolo”. Il presidente islamico turco Recep Tayyip Erdogan aveva “condannato” le parole di papa Francesco e lo aveva “avvertito” di non “ripetere questo errore”.

“Quando dirigenti politici, religiosi, assumono il compito degli storici, ne deriva delirio, non fatti.”

E, nella serata, era arrivato l’affondo di Washington.

“Il presidente [Barack Obama, n.d.r.] e altri alti esponenti dell’Amministrazione hanno più volte riconosciuto come un fatto storico che 1,5 milione di armeni fu massacrato negli ultimi giorni dell’Impero ottomano e che un pieno, franco e giusto riconoscimento dei fatti è nell’interesse di tutti.”,

aveva riferito la portavoce del Dipartimento di Stato americano Marie Harf.

 

[5] Nel 2025, si commemorano i 110 anni del Genocidio armeno, ma il Genocidio di un’altra comunità cristiana, nella stessa epoca, da parte dell’Impero Ottomano, è molto meno conosciuto. Tra i 250mila e i 350mila assiro-caldei, vale a dire più della metà della comunità, sono periti tra il 1915 e il 1918 [http://www.lemondedesreligions.fr/actualite/le-genocide-meconnu-des-assyro-chaldeens-sous-l-empire-ottoman-21-05-2015-4735_118.php].

 

[6] Il 17 aprile 1975, Phnom Penh cadeva nelle mani dei Khmer Rossi e fino alla loro capitolazione, il 6 gennaio 1979, i leaders di Kampuchea Democratica causarono la morte di circa il 20 % della popolazione.

 

[7] L’Indian Removal Act venne, fortemente, sostenuto dagli Stati Meridionali, dove la popolazione era ansiosa di entrare in possesso delle vaste estensioni di terreno incolte, occupate dalle Tribù Cherokee, Chickasaw, Choctaw, Creek e Seminole.

 

[8] Il 3 settembre 1939, la Gran Bretagna entrò in guerra con la Germania. Fu allora che Alan Turing venne assunto come crittografo dall’Esercito inglese a Bletchley Park, una base militare segretissima localizzata nel Buckinghamshire e nota come Stazione X.

Nel marzo del 1952, Turing fu accusato di “indecenza grave e perversione sessuale” e condannato a un anno di prigione per un’imputazione che, nella Gran Bretagna di quell’epoca, era, pesantemente, sanzionata: essere omosessuale. Per evitare il carcere Turing si sottopose a una “terapia” di castrazione chimica per ridurre la libido, basata su un composto attualmente noto come dietilestilbestrolo, un estrogeno sintetico.

In una lettera inviata a un amico, Turing scrive:

“La storia di come tutto questo si è venuto a sapere è lunga e affascinante e, un giorno, te la racconterò, ma ora non ne ho il tempo. Senza dubbio ne uscirò come un uomo diverso, ma non so ancora quale.”

Il 7 giugno 1954, il corpo senza vita di Alan Turing fu ritrovato accanto a una mela morsicata coperta di cianuro [c’è chi sostiene che il logo della Apple abbia qualcosa a che vedere con la mela che, presumibilmente, pose fine alla vita del matematico]. Il verdetto ufficiale di morte fu il suicidio, ma le indagini condotte non trovarono indizi certi che le cose fossero andate davvero così. Naturalmente sorsero teorie del complotto, secondo le quali sarebbero stati i Servizi Segreti britannici a uccidere Turing, dato che costituiva una minaccia per le sue conoscenze di criptoanalisi e che, secondo alcuni, era stato sul punto di essere reclutato dai sovietici.

Nel 2009, l’allora primo ministro britannico Gordon Brown chiese scusa a nome del Governo britannico per il trattamento “assolutamente ingiusto” riservato a Turing e, quattro anni più tardi, nel 2013, il geniale matematico ricevette l’indulto dalla regina Elisabetta II.

 

[9] Enigma era stata inventata dall’ingegnere tedesco Arthur Scherbius dopo la Prima Guerra Mondale. Questa macchina singolare generava codici basandosi sullo scambio di segnali. Il suo funzionamento consisteva nell’inviare messaggi criptati alterati nella forma ma non nel contenuto, per evitare che le crittografie potessero essere decifrate nel caso che il nemico le intercettasse.

Il “segreto” del Codice Enigma cominciò a essere svelato quando Hans Thilo Schmidt, un ex-agente tedesco, vendette ai francesi i manuali operativi di Enigma in uso alle forze armate tedesche.

Nel 1943, scoperto dalla polizia nazista, Schmidt si tolse la vita in carcere.

 

[10] “The real differences around the world today are not between Jews and Arabs; Protestants and Catholics; Muslims, Croats, and Serbs. The real differences are between those who embrace peace and those who would destroy it. Between those who look to the future and those who cling to the past. Between those who open their arms and those who are determined to clench their fists.”

 

[11] Istituita, il 30 novembre 1981, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, tramite la Risoluzione 36/67,  la Giornata Internazionale della Pace nasce dalla volontà di creare un giorno all’insegna della Pace mondiale e della non violenza.

 

[12] Il 17 gennaio 1961, tre giorni prima di lasciare la Casa Bianca, dopo due mandati, Dwight David Eisenhower, trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti, ammoniva la popolazione del suo Paese di fare attenzione al complesso industriale–militare, che non era affatto interessato alla pace e avrebbe tentato, per mantenersi in vita e potenziarsi, di portare il Paese nuovamente in guerra.

Nella penultima velina del discorso di Eisenhower, che era stato in precedenza presidente del Partito Repubblicano e generale dell’esercito americano, leggiamo che il termine coniato si riferiva al complesso militare-industriale-congressuale, ma si evidenzia che Eisenhower scelse di togliere la parola “congressuale” per evitare discordie con i membri del Congresso degli Stati Uniti, il ramo legislativo del Governo Federale, che decideva gli stanziamenti per la difesa. L’autore del termine era il saggista e scrittore dei discorsi per Eisenhower, Malcolm Moos, coadiuvato da Milton Eisenhower, fratello del presidente.

Nel 1934, il Senato costituì la Commissione Nye per indagare l’influenza che l’industria delle munizioni ebbe, nel 1917, sulla decisione di entrare in guerra a fianco della Triplice Intesa nella Prima Guerra Mondiale. La commissione dimostrò gli enormi profitti della lobby delle armi a seguito della guerra, quindi, dimostrò l’influenza che ebbero, per l’entrata in guerra degli USA, le pressioni delle banche statunitensi, le quali volevano tutelare i propri crediti nei confronti delle Potenze dell’Intesa. Nel 1936, l’attività della commissione venne interrotta, dopo che Gerald Nye aveva attaccato con forza Woodrow Wilson; lo accusò di aver nascosto al Congresso documenti rilevanti mentre considerava l’entrata in guerra.

 

[13] Mauro Del Corno, La guerra fa ancora più ricchi i big della finanza, Osservatorio Prevenzione, 27 marzo 2022 [https://www.osservatoriorepressione.info/la-guerra-ancora-piu-ricchi-big-della-finanza/].

  

[14] 5 giugno 2024

A Sua Eccellenza Monsignor Jacques Habert

Vescovo di Bayeux e Lisieux

Bayeux

Sono felice di unirmi, con il pensiero e la preghiera, a tutte le persone riunite in questa cattedrale di Bayeux per commemorare l’Ottantesimo anniversario dello sbarco delle forze alleate in Normandia. Saluto tutte le autorità civili, religiose e militari presenti.

Serbiamo nella memoria il ricordo di quel colossale e impressionante sforzo collettivo e militare compiuto per ottenere il ritorno alla libertà. E pensiamo anche al prezzo pagato per quello sforzo: quei cimiteri immensi dove sono allineate migliaia di tombe di soldati — per la maggior parte giovanissimi e molti venuti da lontano — che hanno eroicamente dato la propria vita, permettendo così la fine della Seconda guerra Mondiale e il ripristino della Pace, una Pace che — almeno per l’Europa — dura da circa 80 anni. Lo sbarco richiama inoltre alla mente, suscitando sgomento, l’immagine di quelle città della Normandia completamente devastate: Caen, Le Havre, Saint-Lô, Cherbourg, Flers, Rouen, Lisieux, Falaise, Argentan... e tante altre; e vogliamo anche ricordare le innumerevoli vittime civili innocenti e tutti coloro che hanno subito quei terribili bombardamenti.

Ma lo sbarco evoca, più in generale, il disastro rappresentato da quel terribile conflitto mondiale in cui tanti uomini, donne e Bambini hanno sofferto, tante famiglie sono state lacerate, tante rovine sono state provocate. Sarebbe inutile e ipocrita ricordarlo senza condannarlo e rifiutarlo definitivamente; senza rinnovare il grido di san Paolo vi alla tribuna dell’Onu, il 4 ottobre 1965: Mai più la guerra! Se, per diversi decenni, il ricordo degli errori del passato ha sostenuto la ferma volontà di fare tutto il possibile per evitare che scoppiasse un nuovo conflitto mondiale aperto, constato con tristezza che oggi non è più così e che gli uomini hanno la memoria corta. Possa questa commemorazione aiutarci a farcela ritrovare!

In effetti è preoccupante che l’ipotesi di un conflitto generalizzato sia talvolta presa di nuovo seriamente in considerazione, che i popoli si stiano pian piano abituando a questa inaccettabile eventualità. I popoli vogliono la Pace! Vogliono condizioni di stabilità, di sicurezza e di prosperità, in cui ognuno possa compiere serenamente il proprio dovere e il proprio destino. Rovinare questo nobile ordine delle cose per ambizioni ideologiche, nazionaliste, economiche è una colpa grave dinanzi agli uomini e dinanzi alla storia, un peccato dinanzi a Dio.

Perciò, Eccellenza, desidero unirmi alla sua preghiera e a quella di tutti coloro che si sono riuniti nella sua Cattedrale:

Preghiamo per gli uomini che vogliono le guerre, per quanti le scatenano, le alimentano in modo insensato, le mantengono e le prolungano inutilmente, o ne traggono cinicamente profitto. Che Dio illumini i loro cuori, che ponga dinanzi ai loro occhi il corteo di sventure che provocano!

Preghiamo per gli operatori di Pace. Volere la Pace non è viltà, al contrario richiede tantissimo coraggio, il coraggio di saper rinunciare a qualcosa. Anche se il giudizio degli uomini è talvolta severo e ingiusto nei loro confronti, «gli operatori di Pace... saranno chiamati figli di Dio» [Mt 5, 9]. Che, opponendosi alle logiche implacabili e ostinate dello scontro, sappiano aprire cammini pacifici di incontro e di dialogo. Che perseverino instancabilmente nei loro intenti e che i loro sforzi siano coronati da successo.

Preghiamo infine per le vittime delle guerre; le guerre del passato e quelle del presente. Che Dio accolga presso di Sé tutti coloro che sono morti in quei terribili conflitti, che vada in aiuto di tutti coloro che li subiscono oggi; i poveri e i deboli, le persone anziane, le donne e i Bambini sono sempre le prime vittime di queste tragedie.

Che Dio abbia pietà di noi! Invocando la protezione di San Michele, Patrono della Normandia, e l’intercessione della Santa Vergine Maria, Regina della Pace, imparto di cuore, a ognuno, la mia Benedizione.

Francesco

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2024-06/quo-127/e-ipocrita-ricordare-senza-condannare-mai-piu-la-guerra.html

 

[15] Soldato

Io sono stato quello che altri non volevano essere.

Io sono andato dove altri avevano paura di andare,

E ho fatto quello che altri non sono riusciti a fare.

Non ho preteso nulla da quelli che non danno nulla,

E, con riluttanza, ho accettato l’idea di eterna solitudine

Se avessi fallito.

Io ho visto il volto del terrore;

Sentito il freddo pungente della paura;

E assaporato il dolce piacere di un momento d’amore.

Ho pianto, sofferto e sperato

Ma più di tutto,

Ho vissuto tempi che altri dicono sarebbe meglio dimenticare.

Almeno  un giorno io potrò dire di essere orgoglioso di quello che sono stato.

Un soldato.

 

[16] Erba

Carl Sandburg

 

Ammucchiate tutti i corpi ad Austerlitz e a Waterloo

Seppelliteli qui e lasciatemi lavorare –

Io sono l’erba; io copro tutto.

 

E raccoglieteli tutti a Gettysburg

E accumulateli tutti a Ypres e a Verdun.

Seppelliteli qui e lasciatemi lavorare.

Due anni, dieci anni, e i passeggeri chiederanno al conducente:

Che posto è questo?

Dove siamo ora?

Io sono l’erba.

Lasciatemi lavorare.

 

[18] Ibidem.

 

[19] L’11 novembre 1918, nel vagone di un treno nel bosco francese di Compiègne, fu firmato l’Armistizio che metteva fine a più di quattro anni di battaglia e milioni di morti. Terminava la Prima Guerra Mondiale, ma le condizioni imposte alla Germania furono in parte premessa della Seconda Guerra Mondiale.

[20] L’Aufruf an die Kulturwelt [Appello al Mondo della Cultura] fu sottoscritto il 3 ottobre 1914 da novantatrè scienziati, intellettuali e artisti tedeschi.

Nell’ottobre del 1914, a seguito della reazione mondiale di condanna della Germania, che, in agosto, aveva invaso il Belgio, violandone la neutralità, il Governo tedesco tentò di correre ai ripari, forzando gli intellettuali a pronunciarsi a sostegno del Reich. Venne così redatto il manifesto al mondo civile, che giustificava il militarismo tedesco come necessario per la difesa della cultura tedesca, il “più prezioso bene dell’Umanità”.

Einstein criticò, duramente, coloro che avevano “tradito” la propria missione di intellettuali, mancando nella difesa collettiva di Pace e Democrazia.

Prese posizione anche qualche anno dopo, quando, nonostante fosse schierato con gli Alleati, criticò l’idea di usare la fissione nucleare come arma.

Nel 1955, poco prima di morire, firmò congiuntamente con il filosofo Bertrand Russel il Manifesto Russell-Einstein [https://lombardia.anpi.it/voghera/agenda/manifrusselleinstein.pdf], che aveva come scopo quello di far riflettere i leaders politici sulle sorti dell’Umanità in caso di utilizzo della bomba all’idrogeno.

 

[21] Albert Einstein, Georg Friedrich Nicolai, Aufruf an die Europäer [Appello agli europei], ottobre 1914.

 

[22] Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Werner Karl Heisenberg [1901- 1976], Premio Nobel per la Fisica, nel 1932,  fu arrestato dagli Alleati e trasferito a Farm Hall, in Inghilterra, insieme ad altri scienziati per accertare lo stato di avanzamento del progetto nucleare. Ritornò in Germania, nel 1946.

Quando Heisenberg accettò il Premio Romano Guardini, nel 1974, tenne un discorso, che in seguito sarebbe stato pubblicato con il titolo Verità scientifica e religiosa:

“Nella storia della scienza, persino fin dal celebre processo a Galileo, è stato ripetutamente affermato che la verità scientifica non può conciliarsi con l’interpretazione religiosa del mondo. Sebbene io sia ora convinto che la verità scientifica è inattaccabile nel suo proprio campo, non ho mai ritenuto possibile sminuire il contenuto del pensiero religioso come semplicemente parte di una fase fuori moda nella coscienza dell’Umanità, una fase alla quale dovremo rinunciare d’ora in poi. Così, nel corso della mia vita, sono stato ripetutamente costretto a meditare sul rapporto di queste due regioni di pensiero, poiché non sono mai stato in grado di mettere in dubbio la realtà di ciò che indicano.”

 

[23] Albert Einstein

Old Grove Road

Peconic, Long Island

August 2nd, 1939

F.D. Roosevelt

President of the United States

White House

Washington, D.C.

Sir:

Some recent work by E. Fermi and L. Szilárd, which has been communicated to me in manuscript, leads me to expect that the element uranium may be turned into a new and important source of energy in the immediate future. Certain aspects of the situation which has arisen seem to call for watchfulness and if necessary, quick action on the part of the Administration. I believe therefore that it is my duty to bring to your attention the following facts and recommendations.

In the course of the last four months it has been made probable through the work of Joliot in France as well as Fermi and Szilard in America--that it may be possible to set up a nuclear chain reaction in a large mass of uranium, by which vast amounts of power and large quantities of new radium-like elements would be generated. Now it appears almost certain that this could be achieved in the immediate future.

This new phenomenon would also lead to the construction of bombs, and it is conceivable--though much less certain--that extremely powerful bombs of this type may thus be constructed. A single bomb of this type, carried by boat and exploded in a port, might very well destroy the whole port together with some of the surrounding territory. However, such bombs might very well prove too heavy for transportation by air.

The United States has only very poor ores of uranium in moderate quantities. There is some good ore in Canada and former Czechoslovakia, while the most important source of uranium is in the Belgian Congo.

In view of this situation you may think it desirable to have some permanent contact maintained between the Administration and the group of physicists working on chain reactions in America. One possible way of achieving this might be for you to entrust the task with a person who has your confidence and who could perhaps serve in an unofficial capacity. His task might comprise the following:

a] to approach Government Departments, keep them informed of the further development, and put forward recommendations for Government action, giving particular attention to the problem of securing a supply of uranium ore for the United States.

b] to speed up the experimental work, which is at present being carried on within the limits of the budgets of University laboratories, by providing funds, if such funds be required, through his contacts with private persons who are willing to make contributions for this cause, and perhaps also by obtaining co-operation of industrial laboratories which have necessary equipment.

I understand that Germany has actually stopped the sale of uranium from the Czechoslovakian mines which she has taken over. That she should have taken such early action might perhaps be understood on the ground that the son of the German Under-Secretary of State, von Weizsacker, is attached to the Kaiser-Wilhelm Institute in Berlin, where some of the American work on uranium is now being repeated.

Yours very truly,

Albert Einstein

 

[24] The White House

Washington

October 19, 1939

My dear Professor:

I want to thank you for your recent letter and the most interesting and important enclosure.

I found this data of such import that I have convened a Board consisting of the head of the Bureau of Standards and a chosen representative of the Army and Navy to thoroughly investigate the possibilities of your suggestion regarding the element of uranium.

I am glad to say that Dr. Sachs will cooperate and work with this Committee and I feel that this is the most practical and effective method of dealing with the subject.

Please accept my sincere thanks.

Very sincerely yours,

Franklin D. Roosevelt

Dr. Albert Einstein,

Old Grove Road,

Nassau Point,

Peconic, Long Island,

New York.

 

[25] March 7, 1940

I wish to draw your attention to the development which has taken place since the conference that was arranged through your good offices in October last year between scientists engaged in this work and governmental representatives.

Last year, when I realized that results of national importance might arise out of research on uranium, I thought it my duty to inform the administration of this possibility. You will perhaps remember that in the letter which I addressed to the President I also mentioned the fact that C. F. von Weizsäcker, son of the German Undersecretary of State, was collaborating with a group of chemists working upon uranium at one of the Kaiser Wilhelm Institutes – namely, the Institute of Chemistry.

Since the outbreak of the war, interest in uranium has intensified in Germany. I have now learned that research there is carried out in great secrecy and that it has been extended to another of the Kaiser Wilhelm Institutes, the Institute of Physics. The latter has been taken over by the government and a group of physicists, under the leadership of C. F. von Weizsäcker, who is now working there on uranium in collaboration with the Institute of Chemistry. The former director was sent away on leave of absence, apparently for the duration of the war.

Should you think it advisable to relay this information to the President, please consider yourself free to do so. Will you be kind enough to let me know if you are taking action in this direction?

Dr. Szilard has shown me the manuscript which he is sending to the Physics Review in which he describes in detail a method of setting up a chain reaction in uranium. The papers will appear in print unless they are held up, and the question arises whether something ought to be done to withhold publication.

I have discussed with professor Wigner of Princeton University the situation in the light of the information available. Dr. Szilard will let you have a memorandum informing you of the progress made since October last year so that you will be able to take such action as you think in the circumstances advisable. You will see that the line he has pursued is different and apparently more promising than the line pursued by M. Joliot in France, about whose work you may have seen reports in the papers.

 

[26] Nell’ambito del progetto Manhattan, che ha portato allo sviluppo della prima bomba atomica, sono stati condotti studi su esseri umani inconsapevoli per valutare gli effetti di sostanze radioattive. Ne era al corrente anche Robert J. Oppenheimer, il fisico statunitense a capo dei laboratori di Los Alamos che ospitavano il progetto.

Il 6 e il 9 agosto del 1945 le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki furono attaccate dagli Stati Uniti, con le prime armi nucleari utilizzate nella Storia in un conflitto bellico. Pochi giorni dopo, il Giappone si arrendeva e la Seconda Guerra Mondiale terminava. Per molti l’uso di queste armi di distruzione di massa è stato un crimine di guerra, altri, invece, hanno ritenuto che Harry Truman, allora presidente degli Stati Uniti, non avesse altra scelta. Le considerazioni etiche non si fermano, tuttavia, alle responsabilità politiche e militari, ma coinvolgono anche le ricerche scientifiche.

Centinaia tra i più brillanti scienziati dell’epoca nel mondo hanno partecipato al Progetto Manhattan, che ha reso possibile lo sviluppo di quelle armi. Uno di loro, il fisico Joseph Rotblat, poi insignito del Premio Nobel per la Pace, abbandonò il progetto quando fu chiaro che i nazisti non sarebbero riusciti a sviluppare armi analoghe. Altri, invece, proseguirono anche dopo la fine della guerra, sviluppando armi sempre più potenti.

C’è però un aspetto forse meno noto del Progetto Manhattan che ha sottolineato l’importanza delle considerazioni etiche nella scienza. Dal 1945 al 1947, nell’ambito del progetto, sono state condotte alcune sperimentazioni su persone del tutto inconsapevoli del proprio coinvolgimento e dei rischi annessi, per studiare gli effetti delle sostanze radioattive sulla salute e sull’organismo.

New Mexico, 1987. La giornalista Eileen Welsome aveva da poco cominciato a lavorare per l’Albuquerque Tribune, un giornale locale, quando lesse che nella base dell’aeronautica militare a Kirtland, a pochi chilometri di distanza, alcuni rifiuti da smaltire contenevano carcasse radioattive di animali. Dopo qualche telefonata seppe che si trattava dei resti di esperimenti condotti dall’Air Force Special Weapons Laboratory di Kirtland. Se ne avesse voluto sapere di più, sarebbe potuta andare a consultare la documentazione al riguardo. Quando si trovò di fronte a una pila di documenti polverosi, la giornalista aveva oramai abbandonato l’idea di trovare una storia adatta al suo giornale, ma decise lo stesso di sfogliare le carte. Una nota a piè di pagina attirò la sua attenzione, come ha scritto in seguito nel libro dal titolo The Plutonium Files:

“Un minuto prima stavo leggendo di cani cui erano state iniettate grandi quantità di plutonio e che poi avevano sviluppato un avvelenamento da radiazioni e tumori. All’improvviso ho trovato un riferimento a un esperimento su esseri umani.

Scoprì così che, tra il 1945 e il 1947, 18 persone erano state usate come “cavie” umane per condurre esperimenti con il plutonio nell’ambito del Progetto Manhattan. Era tutto documentato dalla scia di studi e relazioni che questi esperimenti si erano lasciati dietro, compreso un rapporto del Congresso uscito nel 1986. Il grande pubblico era, però, ancora all’oscuro della vicenda avvenuta quarant’anni prima. Soprattutto, erano del tutto sconosciute le identità delle persone coinvolte, che nei documenti erano identificate solo da sigle come CAL-3, HP-12, CHI-1. Da quel momento la giornalista ebbe solo una missione: scoprire chi fossero quelle persone e raccontare tutta la vicenda.

Prima del progetto Manhattan non erano mai state concentrate nello stesso posto così tante sostanze radioattive e persone dedite al loro studio e uso nello sviluppo di armi inedite e molto potenti. All’epoca i rischi delle radiazioni erano noti solo in parte, e si sapeva ancora poco del loro effetto sul corpo umano. In particolare sul plutonio, l’elemento scoperto, nel 1941, e usato per la costruzione della bomba sganciata su Nagasaki, queste conoscenze erano totalmente assenti. In natura infatti il plutonio si trova solo in tracce e per gli usi militari deve essere prodotto artificialmente in un reattore a partire dall’Uranio. Del plutonio si conoscevano le caratteristiche fisiche eccellenti per gli scopi del progetto, ma i suoi effetti biologici erano ancora sconosciuti. Nel 1942 fu così creata una divisione medica affinché si studiassero in dettaglio i rischi che correvano i lavoratori coinvolti nel progetto e nella sua gestione.

Si iniziò sperimentando su animali di laboratorio l’effetto di queste sostanze e delle radiazioni, e monitorando i locali e il personale esposto a materiali radioattivi, attraverso prelievi di sangue e urine e altri esami medici. Questi esperimenti furono tuttavia considerati insufficienti per stabilire la tolleranza degli esseri umani a queste sostanze. Per esempio non permettevano di verificare le conseguenze dell’inalazione attraverso le polveri. Nel 1944 si decise così di condurre attivamente esperimenti su esseri umani. Robert Oppenheimer, che era d'accordo, aveva ordinato che gli esperimenti venissero condotti lontano dal suo laboratorio a Los Alamos, in New Mexico. Furono pertanto svolti negli ospedali affiliati al progetto Manhattan a Rochester, nello stato di New York, a Oak Ridge in Tennessee, a Chicago in Illinois e a San Francisco in California.

Nel caso del plutonio l’obiettivo era capire come fosse metabolizzato: quanto era assorbito ed escreto dall’organismo e in quanto tempo. Gli esperimenti dovevano essere segreti tanto che la parola “plutonio” non poteva essere neppure nominata. Si decise quindi di avviare gli studi su alcuni pazienti civili, malati terminali, del tutto ignari che il trattamento a cui erano sottoposti non avesse fini terapeutici. Il 10 aprile del 1945 una persona denominata HP-12 ricevette la prima iniezione contenente 4,7 microgrammi di plutonio. Corrispondevano a circa cinque volte la dose massima considerata tollerabile, in base ai risultati degli esperimenti più recenti condotti con gli animali, che però non era detto fossero del tutto trasponibili al corpo umano. Mancava poco all’attacco al Giappone e tutti sapevano che l’era nucleare era appena cominciata. In quel momento quei dati servivano più che mai.

Nel 1993, Eileen Welsome pubblicò una serie di articoli dal titolo The Plutonium Experiment. Solo l’anno prima era riuscita, con un lavoro da detective, ad associare alla sigla CAL-3 il nome del paziente Elmer Allen al quale era stato iniettato il plutonio nel 1947. Dopo avere trovato altri quattro nomi, decise che era, finalmente, arrivato il momento di denunciare le loro vicende. Così rese noto che, tra questi, non cerano solo malati terminali. Allen visse ancora a lungo e morì nel 1991, mentre HP-12, ossia Ebb Cade, che era stato ricoverato per un incidente d’auto quando aveva ricevuto l’iniezione, era deceduto nel 1953. Tutti erano, invece, persone vulnerabili e malate, tra cui diversi pazienti oncologici, uomini, donne e, perfino, Bambini, che non sapevano [e non seppero mai] di aver preso parte a un simile esperimento.

L’inchiesta, per la quale la giornalista meritò il Premio Pulitzer, nel 1994, scoperchiò il cosiddetto vaso di Pandora. Grazie a nuovi documenti desecretati è stato, poi, possibile risalire ai nomi di tutti i pazienti tranne uno. Tuttavia a quel punto, nessuno di loro era ancora in vita. Come si scoprì, in seguito, gli esperimenti con il plutonio erano solo la punta dell’iceberg di una serie di tests con Uranio, polonio e americio, all’interno sempre del Progetto Manhattan, che, spesso, non tenevano minimamente conto dello stato di salute dei pazienti. A esempio, gli esperimenti con l’Uranio servivano per definire la dose massima tollerata da reni in salute, quindi, prevedevano di somministrare l’elemento fino a quando gli organi non avessero cominciato a danneggiarsi. Il progetto fu chiuso, nel 1947, ma il Governo statunitense condusse studi simili fino al 1974. In tutto furono circa 4000 le persone coinvolte, di tutte le età, tra cui donne incinte, disabili, carcerati e minoranze. Molti di loro erano poveri: potevano essere intimoriti con facilità, senza che fossero in grado di fare domande o di opporre resistenza.

In seguito alla pubblicazione dell’inchiesta, nel 1994, il presidente Clinton istituì l’Advisory Committee on Human Radiation Experiments, composto da esperti di bioetica, che, l’anno successivo, produsse un rapporto di un migliaio di pagine su questi esperimenti. La Commissione aveva riconosciuto che alcuni di questi esperimenti, come quelli con il plutonio, erano eticamente inaccettabili anche per l’epoca. Il Governo era quindi tenuto a scusarsi e a risarcire le vittime. Tuttavia, secondo la commissione, la maggior parte degli altri tests non era particolarmente rischiosa ed era in linea con le prassi del tempo. Fino a metà degli Anni Sessanta, infatti, la professione medica non aveva, ancora, preso in considerazione il diritto all’autodeterminazione dei pazienti, e i dottori, di frequente, eseguivano esperimenti senza chiedere il consenso degli interessati se giudicavano il rischio accettabile. Secondo il rapporto, questa prassi era una prassi errata, in uso da parte di tutta la classe medica, che non poteva, quindi, essere condannata solo in merito agli esperimenti su cui la commissione era stata chiamata a esprimersi.

Questa posizione è stata molto criticata da Eileen Welsome e altri. Il medico David Egilman accusò la commissione di fuggire dalle proprie responsabilità e di avere trovato degli stratagemmi per assolvere la maggior parte dei medici. A esempio, l’importanza del consenso informato in medicina era riconosciuta anche prima che esso venisse codificato in una legge. Inoltre, nel 1947, era stato, già, scritto il Codice di Norimberga, una serie di principi sulle sperimentazioni su soggetti umani, nata nell’ambito dei processi ai criminali nazisti, che avevano svolto esperimenti sui prigionieri dei campi di concentramento. In questo documento il consenso dei pazienti è al primo posto nell’elenco.

 

[27] April 25, 1940

I am convinced as to the wisdom and the urgency of creating the conditions under which that and related work can be carried out with greater speed and on a larger scale than hitherto. I mwas interested in a suggestion made by Dr. Sachs that the Special Advisory Committee supply names of persons to serve as a board of trustees for a nonprofit organization which, with the approval of the government committee, could secure from governmental or mprivate sources or both, the necessary funds for carrying out the work. Given such a framework and the necessary funds, it [the large-scale experiments and exploration of practical applications] could be carried out much faster than through a loose cooperation of university laboratories and government departments.

 

[28] 112 Mercer Street

Princeton, New Jersey

March 25, 1945

The Honorable Franklin Delano Roosevelt

President of the United States

The White House

Washington, D.C.

Sir:

I am writing to introduce Dr. L. Szilárd who proposes to submit to you certain consideration and recommendation. Unusual circumstances which I shall describe further below introduce me to take this action in spite of the fact that I do not know the substance of the considerations and recommendations which Dr. Szilárd proposes to submit to you.

In the summer of 1939 Dr. Szilárd put before me his views concerning the potential importance of uranium for national defense. He was greatly disturbed by the potentialities involved and anxious that the United States Government be advised of them as soon as possible. Dr. Szilárd, who is one of the discoverers of the neutron emission of uranium on which all present work on uranium is based, described to me a specific system which he devised and which he thought would make it possible to set up a chain reaction in un-separated uranium in the immediate future. Having known him for over twenty years both from his scientific work and personally, I have much confidence in his judgment and it was on the basis of his judgment as well as my own that I took the liberty to approach you in connection with this subject. You responded to my letter dated August 2, 1939 by the appointment of a committee under the chairmanship of Dr. Briggs and thus started the Government’s activity in this field.

The terms of secrecy under which Dr. Szilárd is working at present do not permit him to give me information about his work; however, I understand that he now is greatly concerned about the lack of adequate contact between scientist who are doing this work and those members of your Cabinet who are responsible for formulating policy. In the circumstances I consider it my duty to give Dr. Szilárd this introduction and I wish to express the hope that you will be able to give his presentation of the case your personal attention.

Very truly yours,

A. Einstein

 

[29] “I know not with what weapons World War III will be fought, but World War IV will be fought with sticks and stones.” 

 

[30] On My Participation In The Atom Bomb Project

by A. Einstein

My participation in the production of the atom bomb consisted in a single act: I signed a letter to President Roosevelt. This letter stressed the necessity of large scale experimentation to ascertain the possibility of producing an atom bomb.

I was well aware of the dreadful danger for all mankind, if these experiments would succeed. But the probability that the Germans might work on that very problem with good chance of success prompted me to take that step. I did not see any other way out, although I always was a convinced pacifist. To kill in war time, it seems to me, is in no ways better than common murder.

As long however, as nations are ready to abolish war by common action and to solve their conflicts in a peaceful way on a legal basis. they feel compelled to prepare for war. They feel moreover compelled to prepare the most abominable means, in order not to be left behind in the general armaments race. Such procedure leads inevitable to war, which, in turn, under todays conditions, spells universal destruction.

Under such circumstances there is no hope in combating the production of specific weapons or means of destruction. Only radical abolition of war and of danger of war can help. Toward this goal one should strive; in fact nobody should allow himself to be forced into actions contrary to this goal. This is a harsh demand for anyone who is aware of his social inter-relatedness; but it can be followed.

Gandhi, the greatest political genius of our time has shown the way, and has demonstrated the sacrifices man is willing to bring if only he has found the right way. His work for the liberation of India is a living example that man’s will, sustained by an indomitable conviction is stronger than apparently invincible material power. [https://www.atomicarchive.com/resources/documents/hiroshima-nagasaki/einstein-response.html]

 

[31] Il nome del diplomatico svedese Raoul Wallenberg è inserito tra quelli dei Giusti tra le Nazioni per essere riuscito a strappare migliaia di ebrei dal genocidio nazista.

 

[32] Nel resoconto del Dipartimento di Stato, e secondo i rapporti dell’OSS, Ufficio dei Servizi Strategici, e i documenti del controspionaggio dell’U.S. Army, negli ultimi momenti della Seconda Guerra Mondiale il convoglio del tesoro croato entrò in

Austria, e fu intercettato dagli inglesi. La parte del tesoro rimasta arrivò a Roma, senza trovare ostacoli da parte delle autorità militari. A Roma, il tesoriere dell’ordine francescano, Dominic Mandic, mise i conti francescani a disposizione della Banca

Vaticana. Da questo momento il denaro sparì e si disperse.

 

[33] Processo Alperin contro la Vatican Bank, riguardo la corresponsabilità della Santa Sede negli orrori commessi dal Governo croato durante la Seconda Guerra Mondiale, che portarono alla morte di mezzo milione di servi ed ebrei. Durante un’udienza del

2006 l’avvocato difensore di papa Benedetto XVI ha ammesso il coinvolgimento del Vaticano in Croazia durante il conflitto. È assodato che la Santa sede collaborò con il Partito Nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi per perpetrare questo orrendo crimine, sicché Johnatan Levy, avvocato delle vittime, sta cercando di ottenere risarcimenti per i suoi assistiti, accusando la Banca del Vaticano di essersi appropiato del denaro frutto dei genocidi. Quello che risulta incredibile del processo, oltre al silenzio dei media, è la sfrontatezza del difensore del papa che ha giustificato il coinvolgimento allo sterminio come un “atto consentito dalle leggi internazionali”. Secondo il procuratore la Chiesa cattolica ha il diritto di uccidere gli eretici, ossia coloro che sono leali al papa e non seguono la dottrina di “Cristo”. Per il Vaticano questo giustifica l’assassinio di persone innocenti come serbi ed ebrei.

Eric Jon Phelps, autore di Vatican Assasins, ha ricordato che il diritto canonico in vigore legittima l’omicidio nel caso citato. È stato, inoltre, fatto circolare un documento che mostra la collaborazione tra Vaticano e il Drittes Reich nel campo di Jasenovac, dove gli ustascia massacrarono serbi ortodossi, ebrei e rom.

 

[34] Renzo Cianfanelli,  Il fascicolo spostato dagli archivi giudiziari al Museo dell’Olocausto – Così sfuggì Eichmann, la verità dall’Argentina – Scoperto da una studentessa il passaporto con generalità false con cui il criminale nazista s’imbarcò per l’America Latina, Corriere della Sera, 30 maggio 2007 [https://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2007/05_Maggio/30/nazista_passaporto_cianfanelli.html].

 

[35] Alessandro Tortato,  Il prete cortinese che fece
fuggire Eichmann e Priebke – Alois Pompanin aiutò i due nazisti in cambio della loro conversione, Corriere del Veneto, 11gugno 2010 [
https://corrieredelveneto.corriere.it/treviso/notizie/cultura_e_tempolibero/2010/11-giugno-2010/prete-cortinese-che-fece-fuggire-eichmann-priebke-1703180032474.shtm].