“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

lunedì 12 ottobre 2015

IO, D, VAGABONDA IN GIRO PER IL MONDO I. BOMARZO IL PARCO DEI MOSTRI di Daniela Zini





IO, D, VAGABONDA
in giro per il mondo
per tornare indietro con la Memoria
nei  luoghi della mia infanzia che mi videro 
in estatico rapimento per mano a mio Padre



Écrire est mon boulot... 
alors il faut que je bouge!


Moi, je vous dis à Dieu…
A moi, qui vis loin de chez moi,
Quelle que soit la raison,
Quelle que soit la saison,
Qui aimerais rentrer à la maison.
Je parle d’une enfance.
Je parle d’une chance.
Fugue sur fugue,
Coups sur coups,
Voilà mon parcours!
Daniela Zini



 
Si vous êtes capables de trouver dans les semences
du temps la graine qui va germer. Instruisez-moi.
William Shakespeare, Macbeth

à mon Père, le premier Homme de ma vie, qui a fait de moi un Homme.
Merci, Papa.

La vraie Mort, c’est le rien.
Il faut résister à cela, que la Mort soit quelque chose, qu’elle fasse partie de la Vie, qu’elle soit en état de complicité incessante.
Notre façon d’être avec la Mort, de rencontrer la Mort, est toujours une répétition. C’est à la fois la répétition d’une Mort, la répétition du Passé et du Futur.
Et chaque Mort qui nous arrive est alimentée par la source, le torrent des autres Morts.
Et ce que nous perdons, à chaque fois, c’est un Enfant.
Lorsque mon Père… – je crois que je ne parviendrai jamais à articuler ces quatre petits mots si lourds:
Mon père est mort.
– j’ai perdu l’enfant qu’il était pour moi, l’Enfant que j’étais pour Lui, l’Enfant que je suis pour moi.
Tout pour moi dans la Vie s’accompagne d’un indice de “encore”.
Ainsi, mon Père est encore là.
Je ne peux pas traverser un jardin avec Lui et regarder un fil d’herbe pousser, sans me dédoubler et me voir, à ce moment même, regarder ce fil d’herbe avec mon Père, bercée par les notes d’une Musique ouvrant un Passé-Futur.
Nous pouvons vivre notre Mort dans la fin brutale d’un Amour, dans la perte narcissique. Nous devenons mortels et faisons la connaissance de la mortalité dans ce rapport à l’Autre. De telle sorte que la moitié sera séparée de la moitié et devra la garder.
Quant à ceux qui emportent un morceau de nous-mêmes, il y a un tissage à faire, c’est un immense travail.
Renouer sans cesse, tendre l’oreille, tendre l’attention.
Ce n’est pas un se rappeler, mais appeler, évoquer.
Notre Sort, c’est de ne pas laisser derrière nous.

D
  

Le plus grand Voyageur est celui
qui a su faire une fois le tour de lui-même.
Confucius


Dit Léonard :
Toutes  nos connaissances découlent de ce qu’on ressent.
Eprouver par les sens – au premier rang desquels il place la Vue – et discerner, juger, réfléchir, tels sont pour lui les vecteurs fondamentaux de la Sapieta, de la Sapience, qui est à la fois Savoir et Sagesse.
Il faut, dit-il, apprendre d’abord à séparer les parties du tout:
La Vue est une des opérations les plus rapides qui soient; en un instant, elle accueille une infinité de formes, et pourtant elle ne saisit qu’un objet à la fois.
Pour lire un texte, on doit considérer les mots un à un, puis les phrases que composent ces mots, et non, globalement, l’ensemble des lettres inscrites sur la page. 
De même, dit Léonard:
“Si tu veux avoir connaissance des formes des choses, commence par leur détail, et ne passe d’un détail à un autre qu’après avoir bien fixé le premier dans ta mémoire, et l’avoir longuement pratiqué.
L’Artiste entraîne ses sens, il éduque ses facultés d’observation, comme un sportif développe ses muscles.
Il est sans cesse en avance sur son Temps et sans cesse dérangé par un Avenir qui ne veut pas Lui obéir.
Ses yeux seuls subsistent, détachés de Lui.
Tristes comme des lévriers sans maître, déconcertés comme des Archanges a qui nul Dieu ne donne plus d’ordres.
Entre eux et les choses, on ne sert pas d’intermédiaires.
Percevoir, mais aussi conserver, transmettre l’Aventure humaine, à la fois un peu plus âpre et un peu moins sombre.
Là précisément est le Mystère de l’Art.
J’ai décidé d’écrire pour me donner du courage et pour dire des choses que j’ai gardées longtemps en moi.
J’ai longtemps attendu parce que je n’étais pas encore prête à parler.
Il me manquait toujours quelque chose et ce quelque chose je l’ai enfin trouvé.
C’est l’Amour de la parole.
J’ai beaucoup souffert dans ma Vie.
Cette souffrance m’a apporté l’évolution et la Beauté intérieure.
Un jour, j’ai aimé, j’ai aimé un Homme et ce jour là, tout me paraissait très beau.
Et ce jour-là, je m’en souviendrais toute ma Vie.
Il me disait :
“D, tu dois aimer, ce sera ta passion continuelle, jusqu’à la fin de tes jours.”
Ce message, je le garde au fond de mon cœur comme un talisman et ce sera certainement ma seule religion.
Combien de temps?
Avais-je demandé aux médecins lorsqu’ils m’avaient fait entrer dans la petite pièce à coté du bloc opératoire.
Un à trois mois, au maximum.
Il souffrira?
Non, ce sera sans doute une mort par épuisement.
Je suis redescendue. C’était le même ascenseur, apparemment la même personne l’occupait, mais au-dedans de moi je vivais la fin du monde.
J’ai dit à quelqu’un :
C’est fini.
Je forçai mon regard au calme, je rejetais devant Lui, inconscient, la comédie que j’allais Lui jouer et qui était tout ce qui me restait de notre Vie commune.
Les Jours, les Mois, les Années passent les Saisons reviennent.
Voici un nouvel Automne.
Dans l’air immobile, il m’atteint par rafales.
Il me donne et me retire Force et Espoir.
Subtil ou pesant, il s’insinue jusque dans la moelle des os.
Il suffit d’une parcelle de printemps mêlée à l’air soudain plus tiède, d’un chant d’oiseau, d’un bourgeron éclate sur l’arbre de ma cour, du bruit de la pluie, d’un éclat de rire entendu par la fenêtre, pour que tout soit remis en question. Le calme que je croyais acquis, la sagesse dont j’étais fière, les résolutions prises, la réalité acceptée, la révolte apaisée, la peine ouatée, mes beaux châteaux forts ne sont plus que sable. L’ouragan est là, il sommeillait, prêt à m’assaillir au premier ciel tendre, aux premières pousses vertes qui dessinent un halo fragile autour des arbres.
Oui, l’animal est bien vivant, il flaire, il sait, il sent juste.
Ma raison note les relations de cause à effet, mais elle ne peut m’empêcher de frémir.
Le corps ne ment jamais, il sait, rappeler à l’ordre.
Je me sens molle, envahie par la fatigue.
Je sors de ma torpeur pour aller de la rage à la peine.
Il est scandaleux qu’Il ne soit plus là.
L’Automne fait mal.
Je voudrais lui demander grâce.
Chaque année j’espère que je serai prête à le vivre ou que j’aurai oublié son goût.
La douceur de l’air me fait rêver à ce qui fut et à ce qui serait s’Il était là.
Je sais que cette rêverie n’est qu’une inaptitude à vivre le Présent.
Je me laisse entraîner par ce courant sans regarder trop loin ou trop profondément.
J’attends le moment où je retrouverai la force.
Il viendra.
Je sais que la Vie me passionne encore.
Je veux me sauver, non me délivrer de Lui. 
Dans ma Vie intime, j’ai longtemps pensé, réfléchi.
J’ai cherché longtemps, très longtemps la Vérité.
Je me suis longtemps accroché à la lumière pour mettre à jour les secrets les plus profonds de l’Univers.
J’ai cherché à comprendre le pourquoi des choses.
C’est si fragile la Vie qu’on ne doit pas lui porter atteinte.
Il ne faut rien regretter, c’est le Destin qui joue et on ne peut rien y faire.
À chaque étape de ma Vie correspond un nouveau nom.
Je revendique cette Liberté de me nommer comme j’assume la Liberté de mes mouvements et de mon Destin.
“Ma brillante carrière” me permet de transcender l’espace circonscrit du domaine privé typique de la Vie d’une Femme de mon époque  pour entrer dans le domaine public.
Rien n’est tel qu’il semble...
Connaît-on vraiment ceux qui nous entourent?
Ne faire pas l’erreur de croire qu’on les connaisse au point de savoir ce qu’ils croient, ce qu’ils pensent et ce qu’ils aiment vraiment.
La communication, c’est essentiel pour tous.
Dire ce qu’on pense, ne jamais rien prendre pour acquis e faire attention; le Réel est souvent bien plus surprenant que l’idée que l’on s’en fait.
Si l’on évite de communiquer, on passera à côté de bien des choses, et de bien des réalités, et surtout de bien des gens.
Se connaît-on vraiment soi-même?
On ne trouvera ici ni un recueil de Fables, ni une collection de Légendes.
L’Auteur a entremêlé des pensées, qui furent pour lui des Théorèmes de la Passion, de récits qui les illustrent, les expliquent, les démontrent, et souvent les masquent.
Peut-être en est-il de ce site comme de certains édifices qui n’ont qu’une porte secrète et dont l’étranger ne connaît qu’un mur infranchissable. Derrière ce mur se donne le plus inquiétant des bals travestis: celui où quelqu’un se déguise en soi-même.
Si le lecteur est destiné à comprendre et à aimer l’ordre auquel obéit cette architecture humaine, ces colonnades pour lui s’ouvriront d’elles-mêmes comme des fleurs.
S’il ne possède pas la clef d’une expérience analogue, on peut tout au plus lui promettre de deviner, de la fête ou du massacre intérieur, quelques lueurs de torches à travers les fissures des pierres, quelques cris, quelques rires sans cause, quelques bouffées de Musique peut-être discordante, et de fracas de Cœurs brisés.
Pour moi, c’était bien choisi.
Au fond, ce bref détour en Arène n’est peut-être qu’une manière de différer une décision, qui marque 2003.
Quoi qu’en disent et pensent les Autres, je vais rejoindre le groupe vaguement louche des saltimbanques et bohêmes en tous genres, comme aurait sans doute marmonné ma Grand-Mère: je serai Ecrivain.
Ma Destinée littéraire est ancrée dans ce que j’ai désigné tout au long de ma Vie comme mes projets de la vingtième année.
A vingt ans, j’avais prévu à peu près trois ou quatre de mes Livres, et j’avais commencé à barbouiller beaucoup de papier. Alors bien entendu, je m’étais chargée d’un fardeau que je ne pouvais pas porter.
Est-ce par souci de retrouver, à posteriori, à la fois une unité et une origine dans une sorte d’implosion première d’où tout procéderait?
Sans doute.
On m’envie ma Liberté qu’on exagère du reste; la Vie fait bientôt de recréer des liens, prenant la place de ceux dont on se croyait débarrassé; quoi qu’on fasse et ou qu’on aille, des murs s’élèvent autour de nous et par nos soins, abris d’abord, et bientôt prison.
J’ai parfois l’impression de vagabonder autour du Monde dans le seul but d’accumuler le matériau de futures nostalgies.
On peut voyager non pour se fuir, chose impossible, mais pour se trouver.
Les grands Voyages ont ceci de merveilleux que leur enchantement commencent avant le départ même.
On ouvre les atlas, on rêve sur les cartes.
On répète les noms magnifiques des villes inconnues…
On ne voyage pas si on ne rêve pas le voyage qu’on fait.
Je ne parle pas du Rêve qui endort, mais de celui qui réveille, en nage, à la gorge, l’hirsute, le traviole, le pas racontable, le si beau qu’on arrête de vieillir.
Stevenson, Conrad, Segalen ou Bouvier partent au bout du Monde pour courir après les Rêves nés de leurs lectures d’enfance…
Voyageurs, ils devinrent Ecrivains…
Kipling, London, Kessel ou Chatwin prennent la Route pour nourrir les Livres qu’ils ambitionnent…
Ecrivains, ils se firent Voyageurs…
Ces curieux infatigables notent les épreuves qu’ils endurent, les rencontres et de belles histoires.
Le Voyage les transforme, ils décrivent leur métamorphose, cet Autre qui naît en eux. De retour, ils couchent sur le papier, souvent en les magnifiant, les Aventures qu’ils ont vécues.
Tous n’ont qu’un but: transmettre leur Passion pour la Littérature d’Aventure, et faire prendre la Route.
J’avais dix ans lorsque j’eus l’occasion d’avoir un avant-goût de l’Europe.
J’ai gardé en mémoire des fragments de Journées et de Nuits, des images de mes hôtels, l’animation des rues, différente de celle que je connaissais et une impression globale de choses anciennes et luxueuses.
Tout cela faisait un monde situé aux Antipodes de l’Italie.
Je vis Monaco, Genève, Heidelberg, Londres, qui est resté jusqu’à ce jour pour moi une ville étrangère, et, enfin, la Capitale de ma Destinée: Paris.
Je ne réussis à attraper au vol que des impressions rapides de ce qui deviendrait plus tard une partie intégrante de ma Vie. Certains moments de ce voyage, cependant, laissaient présager l’Avenir.
Profites-en bien!
Qui sait si tu reviendras encore une fois ici dans ta Vie.
Regarde!
Admire!
C’est Paris!,
me disais-je.
Mais je suis revenue et j’y ai passé plusieurs années, les meilleures de ma Vie.
Je profitai de la visite à l’Opéra Garnier pour relire Le Fantôme de l’Opéra de Gaston Leroux. Et, par Magie, je rentrai dans le Roman corps et âme. Tout en haut des escaliers, l’espace d’un instant, il me sembla que les personnages allaient apparaître. Que dire de plus mis à part que je tombai amoureuse de ce Roman.
Mais en était-il vraiment un?
Envoûtant!
Le rejet social, l’Amour et la solitude ce sont les thèmes évoqués.
Exilé, rejeté par le seul milieu qu’il connaît, le Fantôme est un personnage romantique à l’Ame sensible qui consacre sa Vie à la Musique. Un Amour sans Espoir le pousse à hanter les ombres d’un Monde qu’il s’est lui-même créé.
Malgré une présentation un peu indigeste au début de l’oeuvre, le lecteur est très vite aspiré par l’histoire.
La première description du Fantôme plante en quelque sorte le décor:
Il est d’une prodigieuse maigreur et son habit noir flotte sur une charpente squelettique. Ses yeux sont si profonds qu’on n’y distingue pas bien les prunelles immobiles. On ne voit, en somme, que deux grands trous noirs comme aux crânes des morts. Sa peau, qui est tendue sur l’ossature comme une peau de tambour, n’est point blanche, mais jaune; son nez est si peu de choses qu’il est invisible de profil, et c’est l’absence de ce nez qui est horrible à voir. Trois ou quatre longues mèches brunes sur le front et derrière les oreilles font office de chevelure. 
Je Vous le conseille!

  I. BOMARZO
IL PARCO DEI MOSTRI

Sensazioni contrastanti e, spesso, sconvolgenti afferrano i visitatori del Parco dei Mostri di Bomarzo. Si entra in casa… e si è presi dal capogiro…
Accade a chiunque metta piede in una casetta a due piani, edificata fuori centro, su un terreno inclinato. Ma questa non è che una delle impressioni che si possono trarre dalle sculture e dalle costruzioni che – secondo la Leggenda – sarebbero opera di schiavi turchi catturati a Lepanto da un principe Orsini.



https://www.youtube.com/watch?v=QICXqZD1uDg

“Come mai, mentre il mondo si votava alla grazia, il Principe di Palagonia si votava all’orrore? Era una premonizione? Una penitenza? Una perversione?”
Questo interrogativo che Leonardo Sciascia [1921-1989] pone nella introduzione al libro di documentazione fotografica, che Ferdinando Scianna [1943] ha dedicato a La Villa dei mostri [Torino, Einaudi, 1977] – vale a dire la Villa Palagonia, a Bagheria, presso Palermo [https://www.youtube.com/watch?v=0euMenLRjwo] potrebbe cadere, egualmente, a segno a proposito del Parco dei Mostri o Bosco Sacro di Bomarzo, non lontano da Viterbo, un complesso monumentale, tra i più suggestivi e singolari del Lazio, per secoli, ignorato dagli italiani e lontanissimo dagli schermi tradizionali dell’arte occidentale.
“Per la sua folla di bizzarre e mostruose creature disseminate tra sterpi e rovi senza ordine apparente, questo luogo”,
scrive, infatti, Mario Praz [1896-1982],
“fa pensare a certi angoli religiosi e sinistri dell’Italia e della Cina, agli elefanti del tempio di Subramanya, ai draghi, agli ippogrifi rampanti di Madura, al Cammino degli Spiriti presso Nankou, agli unicorni a guardia del fiume Fen.” 
 

Qualunque sia la interpretazione che si preferisca dargli, di sicuro resta che visitare questo complesso è una delle esperienze più interessanti e stupefacenti dal punto di vista turistico, che tutti gli italiani dovrebbero fare, almeno per non essere costretti a dare ragione ad André Paul Edouard Pieyre de Mandiargues [1909-1991], che in una sua pubblicazione sull’argomento rimprovera gli italiani di non amare e neppure saper vedere il bizzarro, tranne quando si tratti di nuove forme di maccheroni.
Bomarzo, piccolo centro di 2mila anime a poco più di un’ora da Roma, è l’antica Polimartium, uno dei tanti centri storici, di cui è punteggiato il Lazio e sul quale hanno lasciato la griffe le varie invasioni e civiltà che vi si sono avvicendate.
Ha avuto il suo Lucumone etrusco; ha udito risuonare sul suo selciato il passo pesante dei conquistatori romani; ha goduto di riflesso della luminosa civiltà greca; ha avuto, a suo tempo, una schiusa di Santi, Eutizio, Lanno, Valentino, Ilario, Secondo, Anselmo; ha subito le invasioni dei Goti, dei Bizantini, dei Longobardi, dei Franchi, finché è divenuto feudo degli Orsini, il cui palazzo domina, ancora oggi, l’antico borgo.
Poco o nulla distinguerebbe Bomarzo dai tanti e tanti paesini laziali, se a renderlo diverso da tutti gli altri non intervenisse il famoso Parco dei Mostri, il mastodontico insieme, ideato dall’architetto Pirro Ligorio [1513-1583], su commissione del principe Pierfrancesco Orsini [1523-1585], e formato da statue e raffigurazioni alte ciascuna dieci e più metri, la cui suggestione nasce non soltanto dalla cupa solitudine claustrale del giardino, ma anche dalla particolare qualità della pietra usata come materia prima, più volte essa stessa despota della forma esteriore di alcune statue, dalle sfumature di colore della roccia vulcanica affiorante dal terreno e dalla sua docilità allo scalpello.

 
Nessuna fotografia, tranne che non ritragga accanto a esse almeno un uomo, che ne chiarisca e ne delimiti le proporzioni, riesce a dare l’idea della grandiosità di queste figure colossali e stravaganti, disseminate, qui e là, senza alcuna norma né schema, in questo Bosco Sacro, che altro non è se non il giardino degli Orsini, così trasformato, nel 1552, da Pierfrancesco detto Vicino, il quale, dopo aver partecipato valorosamente alla guerra delle Fiandre e a quella di Paolo IV contro gli spagnoli, abbandonò misteriosamente la carriera militare e si ritirò nel suo feudo con la giovane moglie Giulia Farnese, che morì nel 1560. E, qui, diede sfogo al suo ingegno fantasioso e capriccioso, popolando il parco di così bizzarre sculture.  
Esempi di stravaganza non mancano, certamente, nell’arte del Cinquecento, ma, qui, si è certamente andati oltre, nella concretizzazione del desiderio ambizioso di suscitare meraviglia e orrore insieme. Inciso sul sasso, il singolare invito dell’Orsini ai visitatori:

Voi che pel mondo gite errando vaghi
Di veder meraviglie alte et stupende
Venite qua, dove son facce orrende
Elefanti leoni, orchi et draghi

Più avanti, il concetto è ribadito ancora:

Tu ch’entri qua con mente
Parte e parte
Et dimmi poi se tante meraviglie
Sien fatte per inganno o pur per arte.

Appena ci si inoltra, a pochi metri da un tempietto fatto costruire da Vicino Orsini, in memoria della moglie, l’occhio è subito attratto da alcuni vasi colossali, alti più di quattro metri che sembrano prendere spicco appunto dalla normalità – l’unica! – della costruzione votiva.
 

Poco più avanti, tre enormi gruppi plastici: una sirena con la coda biforcuta; una coppia di leoni; un ibrido insieme costituito da un torso di donna con le gambe di toro, la coda di drago, le ali di pipistrello.


Questi mostri ci preparano ad affrontare coraggiosamente la Porta dell’Inferno, una enorme testa di orco, i cui occhi hanno la grandezza di due finestre e la bocca è un vero e proprio portone che immette in una stanza nella quale possono trovare posto trenta persone.

 



E, poi, ancora sfingi accovacciate, urne funerarie, figurazioni di fiumi, enormi fontane fanno capolino, qui e là, barrando il passo al turista.
Ecco un enorme drago che schiaccia con una zampa un cane, mentre altri tre lo azzannano al petto e alle zampe; una favolosa dea marina attorniata da tritoni e demoni serpentini; un gigantesco elefante che sorregge sulla groppa una torre e trascina, avvolto nella proboscide, un soldato nemico; un’altra portentosa composizione riproduce un drago accovacciato, sulla cui schiena vi è un enorme globo, sormontato, a sua volta, da un castello, tutto ben rifinito con torri e merli.




Più in là la lotta di Ercole e Caco, riprodotti nelle gigantesche proporzioni che la tradizione ci ha raccontato e, infine, una tartaruga, posta accanto a un ruscello con gli occhi che sembrano fissare con diffidente paura qualcosa dinanzi, a breve distanza. È un’enorme balena che emerge dalla terra come dai flutti del mare. 
 


Né è tutto. Poco lontana, isolata su un masso, una casetta a due piani, ciascuno composto di un solo locale, dedicata al cardinale Cristoforo Madruzzo [1512-1578]. Se vi si entra senza essere a conoscenza della sua singolare costruzione, si è sorpresi dal capogiro e da una sgradevole sensazione di mancanza di equilibrio, che provoca fastidio e, al contempo, rafforza il carattere generale di irrealtà. È, infatti, costruita fuori centro, su un terreno inclinato – non si sa se scelto, così, a bella posta o reso tale dalla smania dell’inusitato al limite della follia – ed è essa stessa inclinata.


 


Impossibile descrivere il disorientamento del panorama tutto sbilenco che si scorge dalle finestre e la fatica di camminare strisciando lungo le pareti a occhi chiusi, come non vedenti.

 
Di fronte a tanto sbalordimento, un certo senso di serenità – sempre, si intende, nel… rispetto delle proporzioni fuori misura – subentra nell’addentrarsi nello Xisto – si chiamava, così, nell’Antica Grecia, lo spiazzo, dove si esercitavano gli atleti – a guardia del quale vi è un cerbero tricipite, perché è un luogo spianato, delimitato sui due lati più lunghi da due file di pigne decorative e, nel fondo, due enormi orsi di pietra, emblemi degli Orsini, reggenti dei rosoni lavorati. Poco più avanti si slarga in una piazzola, chiusa ai lati da due sirene le cui lunghe code fungono da sedili.


Come abbiamo detto all’inizio, ancora oggi, i nomi degli artefici di questo incredibile zoo di pietra sono ignoti, anche se non si esclude che possa trattarsi di manodopera locale – naturalmente qualificatissima, epigoni di quei meravigliosi artisti che furono gli Etruschi – chiamata dall’Orsini, nel cui fertile cervello l’idea di creare questo bizzarro ornamento al suo giardino era germogliata dalla sua naturale inclinazione verso forme d’arte stravaganti; ma era, senza dubbio alcuno, anche accresciuta dall’influenza che esercitavano su di lui personaggi, che era solito frequentare, quali Annibal Caro [1507-1566], Francesco Maria Molza [1489-1544], Angelo Claudio Tolomei [1492 ca.-1556], il cardinale Cristoforo Madruzzo, principe-vescovo di Trento e altri, che, dalla loro stessa cultura, traevano interesse verso ogni forma d’arte.



Una delle tante leggende sorte intorno a questa villa vuole, invece, che le statue siano state opera degli schiavi turchi, che uno degli Orsini trascinò con sé, in Italia, dopo la Battaglia di Lepanto [7 ottobre 1571], e che rinchiuse, poi, nel giardino, adibendoli al non lieve compito di sbozzare gli enormi massi di pietra.
Le date smentirebbero l’ipotesi, essendo la Battaglia di Lepanto posteriore all’inizio della sistemazione del Bosco Sacro; ma, di certo, la ferocia, la violenza e la minaccia, che emanano dalle mirabolanti sculture, si direbbero senza dubbio alcuno, nate dalla rabbia e dall’esasperazione dei prigionieri e rimaste là, testimoni e specchi deformanti di un profondo tormento interiore.       


Daniela Zini
   Copyright © 12 ottobre 2015 ADZ


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