“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 6 dicembre 2015

FONDAMENTALISMO, INTEGRALISMO, FANATISMO I. ALTERITA', UMANITA', FRATERNITA' di Daniela Zini



FONDAMENTALISMO
INTEGRALISMO
FANATISMO
 “Voi non potete dubitare delle cose in cui credete, 
io debbo.”
Ipazia di Alessandria [… - 415 d.C.]

a Federico e ai nostri Giovani, nostro Avvenire

Noi diciamo, molto spesso, che l’Avvenire è nelle mani dei nostri Giovani. Ma, nell’attesa che divengano “grandi”, è nelle mani degli adulti che riposa la responsabilità di proteggerli, tutelarli e aiutarli a schiudersi perché possano, a loro volta, contribuire a fare evolvere la nostra Società.

Il fondamentalismo nasce dalla pretesa di ritenersi depositari della verità, e di avere, in ogni caso, una ragione da imporre ad Altri. In questo senso, non è solo religioso, o confinato ad alcune zone del Pianeta. Accanto al Fondamentalismo religioso compaiono, anche, nella nostra decadente società “evoluta”, diversi altri “Fondamentalismi”, che rappresentano, al pari dei Fondamentalismi religiosi, squilibrate esasperazioni di situazioni, ideologie e, perfino, rivendicazioni:
-          un Fondamentalismo scientifico [lo scientismo], per cui solo la scienza ha un valore teoretico;
-          un Fondamentalismo ateo, per cui tutti i credenti altro non sono che fessi;
-          un Fondamentalismo capitalista, per cui le leggi del libero mercato sono imprescindibili leggi di natura, cui non si può non assoggettarsi;
-          un Fondamentalismo proletario, per cui chiunque possieda qualcosa “deve” necessariamente averla rubata;
-     un Fondamentalismo eterosessuale, che ha in odio gli omosessuali;
-        un Fondamentalismo omosessuale, per cui omosessuale è meglio;
-          un Fondamentalismo femminista, il cui recondito ideale è il ritorno alla ginecocrazia;
e così via...
Ovunque vi sia una idea, o anche una giusta rivendicazione, esiste anche la sua esasperazione fondamentalista.
Il problema è, quindi, molto complesso ed è radicato nell’animo umano, di sua natura tendente – almeno, finora – alla sopraffazione, anziché all’Amore, alla Eguaglianza e alla Fratellanza.
Personalmente, sono un fondamentalista del dialogo e della buona educazione.
Credere non è sapere.
Alla domanda se Dio esista, io non posso non rispondere:
“Io non so!”
L’impostura inizia quando si dice:
“Io so!”
“Io so che Dio esiste e mi ha detto di fare ciò!”,
Quando la fede si confonde con il sapere, porta, inevitabilmente,  odio.

Daniela Zini



Liberté
Paul Eluard

Sur mes cahiers d’écolier
Sur mon pupitre et les arbres
Sur le sable, sur la neige,
J’écris ton nom

Sur toutes les pages lues
Sur toutes les pages blanches
Pierre, sang, papier ou cendre,
J’écris ton nom

Sur les images dorées
Sur les armes des guerriers
Sur la couronne des rois,
J’écris ton nom

Sur la jungle et le désert
Sur les nids, sur les genêts
Sur l’écho de mon enfance,
J’écris ton nom

Sur les merveilles des nuits
Sur le pain blanc des journées
Sur les saisons fiancées,
J’écris ton nom

Sur tous mes chiffons d’azur
Sur l’étang soleil moisi
Sur le lac lune vivante,
J’écris ton nom

Sur les champs, sur l’horizon
Sur les ailes des oiseaux
Et sur le moulin des ombres,
J’écris ton nom

Sur chaque bouffée d’aurore
Sur la mer, sur les bateaux
Sur la montagne démente,
J’écris ton nom

Sur la mousse des nuages
Sur les sueurs de l’orage
Sur la pluie épaisse et fade,
J’écris ton nom

Sur les formes scintillantes
Sur les cloches des couleurs
Sur la vérité physique,
J’écris ton nom

Sur les sentiers éveillés
Sur les routes déployées
Sur les places qui débordent,
J’écris ton nom

Sur la lampe qui s’allume
Sur la lampe qu s’éteint
Sur mes maisons réunies,
J’écris ton nom

Sur le fruit coupé en deux
Du miroir et de ma chambre,
Sur mon lit coquille vide
J’écris ton nom

Sur mon chien gourmand et tendre
Sur ses oreilles dressées
Sur sa patte maladroite,
J’écris ton nom

Sur le tremplin de ma porte
Sur les objets familiers
Sur le flot du feu béni,
J’écris ton nom

Sur toute chair accordée
Sur le front de mes amis
Sur chaque main qui se tend,
J’écris ton nom

Sur la vitre des surprises
Sur les lèvres attentives
Bien au-dessus du silence,
J’écris ton nom

Sur mes refuges détruits
Sur mes phares écroulés
Sur les murs de mon ennui,
J’écris ton nom

Sur l’absence sans désir
Sur la solitude nue
Sur les marches de la mort,
J’écris ton nom

Et par le pouvoir d’un mot
Je recommence ma vie
Je suis né pour te connaître,
Pour te nommer

Liberté.





Je défendrai mes opinions jusqu’à ma mort, mais je donnerai ma vie pour que vous puissiez défendre les vôtres.
Francois-Marie Arouet, nom de plume Voltaire

Dans l’Antiquité, un philosophe n’est pas nécessairement, comme on a trop tendance à le penser, un théoricien de la philosophie. Un philosophe, dans l’Antiquité, c’est quelqu’un qui vit en philosophie, qui mène une vie philosophique.
Caton le Jeune, homme d’Etat du I siècle av. J. C., est un philosophe stoïcien et pourtant il n’a rédigé aucun écrit philosophique.
Rogatius, homme d’Etat du III siècle ap. J. C., est un philosophe platonicien, disciple de Plotin, et pourtant il n’a rédigé aucun écrit philosophique.
Mais tous deux se considéraient eux-mêmes comme des philosophes, parce qu’ils avaient adopté le mode de vie philosophique.
Et que l’on ne dise pas que c’étaient des philosophes amateurs. Aux yeux des Maîtres de la philosophie antique, le philosophe authentique n’est pas celui qui disserte sur les théories et commente les auteurs.
Comme le dit Epitècte:
Mange comme un homme, bois comme un homme, habille-toi, marie-toi, aie des enfants, mène une vie de citoyen… Montre-nous cela, pour que nous sachions si tu as appris véritablement quelque chose des philosophes. 
Le philosophe antique n’a donc pas besoin d’écrire. Et, s’il écrit, il n’est pas nécessaire non plus qu’il invente une théorie nouvelle, ou qu’il développe telle ou telle partie d’un système. Le philosophe antique n’a rien à voir avec nos philosophes contemporains, qui s’imaginent que la philosophie consiste, pour chaque philosophe, à inventer un nouveau discours, un nouveau langage, d’autant plus original qu’il sera plus incompréhensible et peu artificiel. Le philosophe antique, d’une manière générale, se situe dans une tradition et se rattache à une école. Epictète est stoïcien. Cela veut dire que son enseignement va consister à expliquer les textes des fondateurs de l’école, Zénon et Chrysippe, et surtout à pratiquer lui-même et à faire pratiquer par ses disciples le mode de vie propre à l’école stoïcienne. Cela ne veut pas dire pourtant qu’il n’y aura pas des caractéristiques propres à l’enseignement d’Epictète. Mais elles ne modifieront pas les dogmes fondamentaux du stoïcisme ou le choix de vie essentiel; elles se situeront plutôt dans la forme de l’enseignement, dans le mode de présentation  de la doctrine, dans la définition de certains points particuliers ou encore dans la tonalité, la coloration particulière qui imprégnera le mode de vie stoïcienne proposé par le philosophe.
Le stoïcisme est une philosophie de la cohérence avec soi-même. Cette philosophie se fonde sur une remarquable intuition de l’essence de la vie. D’emblée, dès le premier instant de son existence, le vivant est instinctivement accordé a lui-même: il tend à se conserver lui-même et à aimer sa propre existence et tout ce qui peut la conserver. Cet accord instinctif devient accord moral avec soi, lorsque l’homme découvre par sa raison que c’est le choix réfléchi de l’accord avec soi, que c’est l’activité même du choix qui est la valeur suprême et non les objets sur lesquels porte l’instinct de conservation. C’est que l’accord volontaire avec soi coïncide avec la tendance de la Raison Universelle, qui non seulement fait de tout être vivant un être accordé à lui-même, mais du monde entier lui-même un vivant accordé à lui-même.
Comme le dira Marc Aurèle:
Tout ce qui est accordé avec toi est accordé avec moi, ô Monde.
Et la société humaine, la société de ceux qui participent à un même logos, à une même Raison, forme en principe, elle aussi une Cité Idéale, dont la Raison, la Loi, assure l’accord avec elle-même. Il est bien évident enfin que la Raison de chaque individu, dans l’enchaînement des pensées ou des paroles, exige la cohérence logique et dialectique avec elle-même. Cette cohérence avec soi est donc le principe fondamental du stoïcisme.
Pour Sénèque, toute la sagesse se résume dans la formule:
Toujours vouloir la même chose, toujours refuser la même chose.
Il n’est pas besoin d’ajouter, continue Sénèque, la toute petite restriction:
A condition que ce que l’on veut soit bon moralement.,
car, dit-il,
La même chose ne peut universellement et constamment plaire que si elle est moralement droite.
Le sage stoïcien est lui aussi l’égal de Dieu, Dieu qui n’est autre que la Raison Universelle, produisant en cohérence avec elle-même tous les événements cosmiques. La Raison Humaine est une émanation, une partie de cette Raison Universelle. Mais elle peut s’obscurcir, se déformer par suite de la vie dans le corps, par l’attrait du plaisir. Seul le sage est capable de faire coïncider sa raison avec la Raison Universelle. Mais cette coïncidence parfaite ne peut être qu’un idéal. Le sage est nécessairement un être d’exception; il y en a très peu, peut-être un, ou même pas du tout.
La philosophie n’est pas la sagesse, elle est seulement l’exercice de la sagesse et le philosophe n’est pas un sage, il est donc un non-usage.
La philosophie stoïcienne a donc pour but, comme projet, comme objet, de permettre au philosophe de s’orienter dans l’incertitude et la vie quotidienne en proposant des choix vraisemblables, que notre raison peut approuver, sans qu’elle ait toujours la certitude de bien faire. Ce qui compte, ce n’est pas le résultat ou l’efficacité, c’est l’intention de bien faire. Ce qui compte, c’est de n’agir qu’avec un seul motif: celui du bien moral, sans autre considération d’intérêt ou de plaisir.
C’est là la seule valeur, l’unique nécessaire.
Ma petite D, la philosophie te fournira le fond, la rhétorique, la forme de ton discours [Fronton].
me répétait mon Père.
Mon père n’a jamais été pour moi la personnification du pouvoir, de la force et de l’autorité. C’est pour cela que je l’aimais. Le calcul différentiel et intégral n’a jamais semblé convenir à sa personnalité. Mais peut-être étais-je victime du vieux préjugé selon lequel les mathématiques sont une science aride et le mathématicien un homme d’une autre espèce. Je n’arrivais absolument pas à comprendre comment cet homme ardent et timide pouvait avoir le moindre point commun avec les théorèmes de Pythagore ou avec le binôme de Newton. Tout cela ne m’intéressait pas à cette époque. Il aimait trouver en moi les qualités féminines et n’essayait jamais de les rabaisser ni de les ignorer.
Il était pour moi la grande personne autour de laquelle tournait la mécanique de la vie.
J’aimais sa perplexité devant mon indépendance précoce.
Puisque son fils était irrémédiablement d’un autre monde, avec une autre philosophie de la vie, une autre morale, alors pourquoi cette petite fille si avide d’apprendre et de comprendre ne serait-elle pas son héritière véritable, l’héritière de ses ruptures et de sa liberté, de son esprit indépendant, de sa culture, de son cosmopolitisme et de son non-conformisme?
Elle avait eu la chance d’échapper à l’Amour des mères, qui tendait à ramener les filles du côté de la tradition et de la passivité.
En serait-elle moins femme?
La question ne préoccupait pas mon Père. Il n’aurait su dire ce que devait être une femme.
Une fille sage ou une rebelle à l’humeur imprévisible?
Antigone, Phèdre, Marguerite de Navarre ou la Princesse de Clèves?
Mon Père, si plein de préjugés à l’égard des femmes, ne pensait pas en ces termes quand il songeait à l’avenir de sa fille. Aux yeux de cet homme qui répétait sans cesse que rien d’humain ne devrait nous être étranger, l’âge et le sexe n’étaient que des contingences secondaires.
Si elle le souhaitait, il l’aiderait à devenir, elle, un individu libre.
Elle serait son prolongement.
Elle le suivrait et continuerait, accomplissant ce qu’il n’avait pu mener à bien.
Elle ne se soucierait pas d’entretenir et de faire prospérer le patrimoine, de perpétuer le nom.
Elle serait quelqu’un, c’est-à-dire quelqu’un d’autre, radicalement.  
Il n’aurait osé rêver que je suivisse sa pente à lui, au moins pour ce qui était du nomadisme – on n’est bien qu’ailleurs – et de la liberté solitaire. Et pourtant je l’ai fait, y ajoutant, certes, une forme de conjugalité et une obstination au travail qu’il eût prise, peut-être, pour un acharnement excessif.
Sa mort a été une disparition, non un abandon.
Je n’ai pas eu à me libérer des suites d’une éducation bourgeoise comme Louis Aragon ou Jean-Paul Sartre. J’ai grandi en France à une époque où l’on savait que le vieux monde allait, de toute façon, à sa perte. Personne ne défendait sérieusement les anciens principes, du moins pas dans mon milieu. La contestation était l’air que nous respirions, elle a nourri mes premières vraies émotions. Beaucoup plus tard seulement, à l’âge de vingt ans, j’ai su que j’appartenais de par ma naissance à la bourgeoisie. Je ne me sens absolument pas liée à elle. En tant que classe social, elle a toujours éveillé en moi cependant plus de curiosité et d’intérêt que les débris de l’aristocratie et au moins autant que la classe ouvrière. Mais c’est de l’Intelligentsia, déclassée ou non, que je me sens la plus proche. Me sont étrangers, par contre, ceux qui détiennent le pouvoir, les dictateurs, les triumvirs, les hommes à qui on rend un culte, ceux qui y aspirent, les rois de tout poil. A ces dinosaures, je préfère encore les requins, au sens propre et figuré.  
Ce qui m’intéresse, ce n’est pas la dimension horizontale de notre existence, les préoccupations de la vie quotidienne auxquelles nous sommes tous confrontés, mais sa dimension verticale, intellectuelle. Peu de gens y accédaient autrefois et de ce fait en avaient mauvaise conscience. A présent, ce n’est plus le cas: il suffit de vouloir lire, réfléchir et savoir. Comme l’a dit Karl Jaspers, point n’est besoin d’apprendre à éternuer ou à tousser, mais la raison, elle, se cultive, car ce n’est pas une simple fonction organique.   
Etre philosophe, ce n’est pas avoir reçu une formation philosophique théorique, ou être professeur de philosophie, c’est, après une conversion qui opère un changement radical de vie, professer un mode de vie différent de celui des autres hommes. On considère souvent les conversions comme des événements qui se produisent instantanément dans des circonstances inattendues. Et l’histoire abonde en anecdotes de ce genre: Polémon entrant par hasard, après une nuit de débauche, au cours du philosophie platonicien Xénocrate, Augustin entendant la voix d’un enfant disant Prends et lis, Saül terrassé à Damas.
Entre parenthèses, il ne serait pas du tout intéressant de connaître, dans tous ses détails, la manière dont s’est déroulée ma conversion à la philosophie.
Bien de points restent encore inconnus pour moi-même.
Pourtant, douée d’une extraordinaire faculté d’imagination qui me faisait embrasser et comprendre ce que mes yeux ne pouvaient me montrer, dès mon enfance j’ai entrevu ce que pouvait être l’idéal d’une vie philosophique.
L’imagination, cette Magie Sympathique aide à comprendre les arguments d’un interlocuteur, à ressentir la souffrance de l’Autre, quelque soit cet Autre.
Cette faculté à se transporter en pensée à l’intérieur de quelqu’un amène bien sûr à s’ouvrir à d’autres idées, à vivre d’autres expériences. Je ne renonce jamais à un Etre que j’ai connu, et assurément pas à mes personnages.
Je les vois, je les entends, avec une netteté que je dirais hallucinatoire si l’hallucination n’était autre chose, une prise de possession involontaire.
C’est ce que les sages hindous appellent l’attention.
Nul doute que cette attention, cette propension à se mettre à la place de l’Autre en faisant abstraction de soi, a joué un rôle de première importance dans ma grande ouverture d’esprit face aux Athéismes comme aux Religions, aux Politiques comme aux Philosophies.
Les personnes qui ont accompagné ou croisé ma vie n’ont été vraiment aimées par moi que quand j’en ai fait des personnages, des figures à mi-chemin entre le réel et la fiction  - avant même de leur assigner une place dans mon univers littéraire –, puis quand j’ai commencé à les décrire, à les écrire.
Profondément, de ma vie ne m’intéresse que ce qui peut être prétexte à reconstruction littéraire.

La vie d’un homme est son image… On peut dire alors ceci que j’entrevois comme une sincérité renversée [de l’artiste]: il doit, non pas raconter sa vie telle qu’il a vécue, mais la vivre telle qu’il la racontera. Autrement dit: que le portrait de lui que sera sa vie, s’identifie au portrait idéal qu’il souhaite; et, plus simplement, qu’il soit qu’il se veut.
André Gide, Journal, 3 janvier 1892

Restituer, réinterpréter mes lignes maternelles et paternelles, mon enfance et mon adolescence m’a passionnée.  
Très peu d’adultes se laissent habiter par des Etres en leur donnant autant d’importance qu’ils s’en donnent à eux-mêmes. Cette magnifique façon d’appréhender le monde de l’intérieur, à l’instinct, est le propre des enfants.
Si les adultes s’en souvenaient, ils éviteraient de proférer certaines stupidités: éviteraient bien de stupidités!

D



“From the beginning men used God to justify the unjustifiable.”
Salman Rushdie

Fondamentalimo e Integralismo sono sinonimi?
Fondamentalismo e Integralismo sono, purtroppo, usati come sinonimi, ma non sono sinonimi e cercherò di spiegarne il perché.
Il Fondamentalismo è una lettura dogmatica e immutabile nel tempo di un testo sacro, con la conseguente obbedienza letterale ai suoi precetti.
L’Integralismo è la volontà di estendere a tutta la collettività l’obbedienza ai precetti religiosi.
Nel momento in cui l’Islam è sospettato di essere votato a tutti gli eccessi, è bene ricordare che questi due termini, tra i più abusati nella retorica della demonizzazione, hanno visto il giorno all’interno della sfera cristiana.
Una prova – se ve ne fosse bisogno – che nessuna religione è al riparo dal Fanatismo.
Il Fondamentalismo è nato negli Stati Uniti, nel contesto del Protestantesimo. Animato, all’inizio, da una quarantina di teologi e uomini di Chiesa, che avevano redatto A Testimony to the Truth, si strutturò, rapidamente, sotto forma di diverse organizzazioni, quali la World Christian Fundamentals Association [WCFA], fondata, nell’estate del 1919, da un pastore battista del Minesota, William Bell Riley [1861-1947]. Questo movimento, prendendo alla lettera il racconto della creazione del mondo, in sei giorni, nella Genesi, rigettava le teorie di Charles Darwin sulle origini dell’uomo e sulla evoluzione.
Il termine Integralismo ha, invece, fatto la sua apparizione, in Francia, nel mondo cattolico. L’8 settembre 1907, papa Pio X condannava, con l’Enciclica Pascendi Dominici gregis [http://w2.vatican.va/content/pius-x/it/encyclicals/documents/hf_p-x_enc_19070908_pascendi-dominici-gregis.html], il Modernismo, una scuola di pensiero che cercava di conciliare la Cristianità storica con le scoperte del pensiero e della scienza moderna, in altre parole, cercava di aprire la Chiesa alle novità del mondo moderno. Gli avversari più accesi dei modernisti si definivano cattolici integralisti, perché difendevano l’integrità della fede. Nel contesto del Cattolicesimo, l’integralista è, dunque, chi si richiama alla tradizione, vale a dire a un vasto corpus, che include, al tempo stesso, le Sacre Scritture e la loro interpretazione, fissata con autorità dai padri e dai dottori della Chiesa, i concili e i papi. Si potrebbe dire che l’Integralimo fissi, in un dato momento, l’interpretazione della rivelazione.
Al contrario, vi è nel Fondamentalismo una volontà al ritorno alle fonti, a una purezza originale della fede, che si troverebbe nelle Sacre Scritture, “ripulite” dai “ritocchi” della tradizione. In un certo modo, il Fondamentalismo nega la mediazione di una autorità religiosa – clero, Chiesa, dottori della legge –, che interpone, abilmente e abitualmente, una chiave di interpretazione tra il credente e il testo rivelato. 
Il concetto di Fanatismo è più antico, risale al XVII secolo. Ma è nel secolo successivo, l’Età dei Lumi, che conosce la sua ora di gloria. Il termine deriva da fanum, che significa tempio, in latino. Designa, dunque, un atteggiamento religioso.
Voltaire [1694-1778] denuncia questo “enfant dénaturé de la religion”.
“Je n’ai que deux jours à vivre, mais je les emploierai à rendre les ennemis de la raison ridicules.”
All’età di settanta anni, il vecchio Voltaire sembra aver votato la sua vita a lottare contro la Chiesa.
In verità, la Chiesa fu piuttosto la sua migliore nemica.
Lungi dall’essere l’ateo intransigente così sovente celebrato, François-Marie Arouet era un deista piuttosto conciliante; contemporaneo di un’epoca in cui molti prelati non credevano più in Dio - Etienne Charles de Loménie de Brienne, arcivescovo di Tolosa [1727-1794] – condivideva, con molti filosofi la convinzione che il cielo non fosse vuoto.
I rivoluzionari se ne sarebbero ricordati, il 7 maggio 1794, quando sarebbe stato istituito il culto dell’Essere Supremo. 
Non si critica bene che ciò che si conosce bene…
E, in materia, Voltaire era, indubbiamente, il più adatto a opporsi all’istituzione ecclesiastica. Il giovane Voltaire aveva fatto i suoi studi al collegio Louis-le-Grand, diretto dai Gesuiti e, per tutta la sua vita, conservò una grande ammirazione per i prelati che lo avevano educato, così come per le grandi imprese missionarie della Compagnia di Gesù. Certo, questo “passaggio” ebbe ragione del suo spirito religioso, ma l’ateismo sfrenato gli fu totalmente estraneo. È l’interrogazione metafisica che lo divora, come lo sottolineano questi suoi celebri versi:

L’univers m’embarrasse, et je ne puis songer
Que cette horloge existe et n’ait point d’horloger

Voltaire riconosce un Dio all’origine della creazione del mondo e gli attribuisce una influenza nel suo funzionamento. Rigetta, al contrario, ogni intermediario tra lui e gli uomini… ed è là che risiede l’acutezza della sua posizione, da cui procede la sua lotta contro le religioni positive e le loro deleterie tradizioni.
L’opera di Voltaire abbonda di riferimenti al “géomètre éternel”, all’“architecte”, al “pragmatique”.
Decisamente, il nostro uomo non lotta contro Dio, ma contro il Fanatismo religioso.
“Dieu ne doit point pâtir des bêtises du prêtre.”,
si può leggere in una delle sue lettere. 
Concentra tutta la sua ironia e il suo senso della formula al servizio di questa causa:
“On entend aujourd’hui par Fanatisme une folie religieuse, sombre et cruelle. C’est une maladie qui se gagne comme la petite vérole.”,
scrive nel Dictionnaire Philosophique, alla voce“Fanatisme”… Fanatismo che qualifica di infame, dal 1759. Da questa data, firmerà le sue lettere con il famoso motto “écrasons l’infâme”, abbreviando il termine con “inf.”, come per familiarità disillusa.
Ecco l’infame che si deve schiacciare!
Nel 1763, scrive, nel suo Essai sur la tolérance, che si debbano rispettare le convinzioni religiose, ma sotto l’arbitrato di uno Stato forte e illuminato, che favorisca le libertà di pensiero e di azione. 
Non cesserà, mai, di esigere la sottomissione della Chiesa al Re.
E al bisogno con la forza!
Afferma, anche, che si debba rinunciare a certe pratiche come la ruota o il rogo. Ma sopra ogni altra cosa, crede ai poteri dell’educazione:
“Tout n’est pas perdu quand on met le peuple en état de s’apercevoir qu’il a de l’esprit. Tout est perdu au contraire quand on le traite comme une troupe de taureaux car, tôt ou tard, ils vous frappent de leurs cornes.”
Tutto il pensiero di Voltaire è ossessionato dal pericolo permanente del Fanatismo. Pamphlets, pièces teatrali, poesie, tutto è buono per condannare e stendere la lista delle sventure e dei crimini del fanatismo e dell’intolleranza, che ostacolano il progresso della civiltà.
L’Islam, l’Ebraismo, il Cristianesimo, nessuna fede è riparmiata.
Temiamo, sempre, gli eccessi che conduce il Fanatismo.
Che si lasci questo mostro in libertà; che si cessi di tagliare le sue unghie e di rompere i suoi denti; che la ragione, così sovente perseguitata, si taccia; si vedranno gli stessi orrori che nei secoli passati: il germe sussiste, se non si soffoca, coprirà la terra!
Nel febbraio del 1778, quattro mesi prima della sua morte, Voltaire scrive al suo segretario Jean-Louis Vagnière:
“Je meurs en adorant Dieu, en aimant mes amis, en ne haïssant pas mes ennemis, en détestant la superstition.”
Vi è nel fanatismo una nozione di eccesso, secondo Emile Littré [1801-1881]: il Fanatismo è “animé d’un zèle outré pour la religion”.
Fondamentalisno, Integralismo e Fanatismo hanno, dunque, una storia.
La loro trasposizione in un’altra epoca e, a fortiori, nella sfera di un’altra religione pone, immediatamente, un problema metodologico.
Alla fine degli anni 1970, gli orientalisti – arabisti, in larga parte, che affrontano la questione da una angolazione religiosa – fanno ricorso al concetto di Integralismo, per descrivere le evoluzioni del mondo musulmano.
Maxime Rodinson ne dà la definizione seguente:
“Aspiration à résoudre au moyen de la religion tous les problèmes sociaux et politiques et simultanément à restaurer l’intégralité des dogmes.”
Già, la dimensione politica si mescola al religioso in questa definizione dell’Integralismo.
Agli inizi degli anni 1980, una svolta maggiore si produce negli studi sull’Islam, quando gli esperti della scienza politica si avvalgono degli strumenti della sociologia.
Coniano, allora, il termine Islamismo.
Nel suo libro, apparso, nel 1987, L’Islamisme radical, Bruno Etienne divulga il concetto di Islam radicale, che, così, giustifica:
“Je le prends au sens premier du terme, la doctrine de l’Islam à la racine, et au sens américain, l’Islam politiquement radical, presque révolutionnaire.”
L’Islamismo o l’Islam radicale è, dunque, concepito come una ideologia, un progetto di società, che mescola, intimamente, le dimensioni religiosa, sociale e politica. Sfortunatamente, il termine ingenera una confusione, nel grande pubblico, con l’aggettivo islamico, che significa riferito all’Islam. Questo spostamento di significato è sentito dai musulmani come un segno di stigmatizzazione: una libreria islamica non è necessariamente islamista.
Eppure, Olivier Roy, fa notare che i due aggettivi musulmano e islamico non sono, sempre, sinonimi: 
“J’utilise le terme “musulman” pour désigner ce qui relève du fait [“Pays musulman”: Pays où la majorité de la population est musulmane] et le terme “islamique” pour ce qui relève de l’intention [Etat islamique”: Etat qui fait de l’Islam le fondement de sa légitimité].”
Oggi, gli specialisti che constatano il declino [Gilles Kepel] o il fallimento [Olivier Roy] dell’Islam politico fanno ricorso a nuovi concetti per rendere conto della evoluzione delle società musulmane: parlano di Post-islamismo o di Neo-fondamentalismo. Così, per Olivier Roy, il movimento dei talebani può essere qualificato neo-fondamentalista, nel senso senso che si dà per parola d’ordine, la Shari’a, il ritorno alla lettura formale de Il Corano e la Sunna, ma che non porta in sé un progetto politico coerente.
Queste analisi sono contestate da diversi islamisti, quali François Burgat e Alain Roussillon, che rimproverano ai politologi di avere adattato al mondo musulmano concetti presi in prestito dalla sociologia politica occidentale. Questi ultimi avrebbero, in qualche modo, “inventato” o “costruito” la categoria dell’Islamismo, prima di profetizzarne il declino.
A ciò Olivier Roy replica che gli attori dell’Islamismo, quali l’imam Ruhollah Khomeiny [1902-1989], hanno, loro stessi, fatto ricorso a categorie politiche di origine occidentale.
Resta che termini, quali Fondamentalissmo, Integralismo e Fanatismo sono, ancora, segnati dal contesto polemico che li ha visti nascere. Sono peggiorativi e ricusati come tali da coloro ai quali si rivolgono.
Si è, sempre, gli integralisti di Altri…
Le parole si debbono usare con prudenza, possono, talvolta, essere pericolose come e più delle armi! 
La forza ascendente delle radicalizzazioni religiose, da una quarantina di anni e nella maggior parte delle società, ha provocato vive reazioni. Il Fanatismo di leaders religiosi, capaci di mobilitare masse, grazie alla loro posizione di rappresentanti terreni delle leggi divine, urta tanto le concezioni democratiche, quanto le teorie classiche del legame tra religione e mondo moderno.
Perché individui aderiscono a idee assolute e intransigenti in società che fondano la loro legittimità sulla loro disposizione ad armonizzare il pluralismo e ad assicurare la tolleranza?
Questi comportamenti radicali ci chiariscono qualcosa della società e della cultura in cui si producono?
Qual è il significato sociale della radicalizzazione religiosa nella modernità?
Certo, religioso non significa automaticamente integralista. Tuttavia, i più offensivi in materia di religione si contano, ormai, tra i più reazionari degli adepti.
Oggi, se si parla di Integralismo, il neofita pensa, immediatamente, agli integralisti musulmani.
Ha, al tempo stesso, ragione e torto.
L’ascesa in potenza, anche in Europa, dei fondamentalisti dell’Islam più ortodossi – totalmente all’opposto dei principi di base della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – è una evidenza che nessuno angelismo può nascondersi.
Tuttavia, l’Integralismo non è un prodotto di fabbricazione di esclusività islamica.
Può, egualmente, essere ebraico, buddista, induista, cattolico, protestante, ortodosso e, perfino, laico!
In linea generale, tutti i Fondamentalismi religiosi, come le sette, del resto, raccomandano gli stessi precetti: ritorno alla origine primaria dei testi dogmatici, ripiego comunitario, taglio netto o limitazione estrema delle relazioni con l’esterno, costruzione di una visione mitizzata per spiegare la creazione del mondo, messa all’indice delle teorie scientifiche sulla origine dell’uomo, proclamazione della opposizione radicale alla separazione dei poteri politico e religioso…
Dei processi molto prossimi a quelli dell’estrema destra.
Fin dall’approvazione della Carta di Nizza, nel 2000, il mancato riconoscimento delle presunte radici cristiane dell’Europa portò i vescovi cattolici a criticare il provvedimento e a iniziare una strenua azione di “persuasione” nei confronti dei politici europei. Il loro obbiettivo era che la Convenzione, chiamata a redigere la Carta Costituzionale Europea, elaborasse un testo finale in linea con le proprie aspettative.
I sostenitori del NO all’entrata della Turchia nell’Unione Europea sollevano, sistematicamente, come obiezione, la componente maggioritariamente musulmana della popolazione turca. E la pressione dei religiosi, attraverso diverse lobbies interposte, interviene in molti dibattiti della società, sull’eutanasia, l’adozione, l’interruzione volontaria di gravidanza, il matrimonio omosessuale…
Rigettando la modernizzazione della Chiesa, innestata dal Vaticano II, gli integralisti cristiani sono numerosi nei ranghi del nazionalismo di ultradestra. Questi folli di Dio sono stati, anche sovente, i perni centrali di partiti neofascisti.
Alla guida del Front National francese, come in quella del Vlaams Blok/Belang o quella del Front National belga, siedono integralisti patentati. Eletti frontistes come blokkers difendono, nei parlamenti democratici, i valori dell’ordine morale, volti a salvare l’Occidente cristiano da un annientamento programmato dalla lobby cosmopolita”, vale a dire gli Ebrei, i loro peggiori nemici.
Una delle tendenze politiche più attive al cuore del militantismo del Front National francese è quella dei cattolici integralisti. In Belgio, alcuni leaders di Fraternité Saint-Pie X [che somigliano ai fedeli del defunto monsignor Marcel Lefebvre, scomunicato da Roma] hanno lanciato una vera Offerta Pubblica di Acquisto [OPA] sul Front National di Daniel Féret. Uno dei suoi primi consiglieri politici e uno dei suoi primi deputati federali provenivano da questo movimento integralista, già proprietario del gruppo di pressione Pro Vita, esperto nelle principali campagne che mirano a combattere la depenalizzazione dell’aborto. Fraternité Saint-Pie X rivendica gli insegnamenti dei regimi dittatoriali nazional-cristiani di un tempo: quelli del dittatore del Portogallo, António de Oliveira Salazar [1889-1970]; del caudillo de España por la gracia de Dios, Francisco Paulino Hermenegildo Teódulo Franco y Bahamonde [1892-1975]; del maréchal de France Henri-Philippe-Omer Pétain [1856-1951] e del presidente cileno Augusto José Ramón Pinochet Ugarte [1915-2006].
L’estrema destra e gli integralisti cristiani incensano, così sovente, gli stessi ideologi, in particolare, gli antisemiti Charles Maurras et Henry Coston.
Oltre a Fraternité Saint-Pie X, altre strutture integraliste cattoliche “flirtano”, regolarmente, con l’estrema destra e condividono una maggioranza dei suoi ideali. È il caso dell’associazione Belgique et Chrétienté, dell’Opus Dei, dei Legionari di Cristo, della Milice de Jésus-Christ, dei Chevaliers de Saint-Michel e de Saint-Georges e di diversi altri ordini cavallereschi semi-clandestini, sempre votati alla difesa dell’Occidente cristiano, di cui alcuni hanno legami diretti con i circoli dei partiti di potere e i cenacoli politici nazionali ed europei.
I folli di Dio sognano una nuova Inquisizione e preparano, secondo il loro fantasma, le prossime guerre di religione…
La mobilitazione deve essere generale per impedire questo ritorno nel sinistro passato della nostra Umanità.



I.             Alterità, Umanità, Fraternità
 “Il n’y a pas de vérité qui vaille qu’on lui sacrifie un seul homme, parce que la vérité en ce monde, c’est l’homme lui-même, sa liberté, sa dignité et surtout sa vie.”
Jean Van Crombrugge

“Ritengo che l’essenza del fanatismo stia nel desiderio di costringere gli Altri a cambiare. Quella inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare tuo fratello, piuttosto che lasciarli vivere.”
Amos Oz


Il buonismo non è solo pericoloso per la società, ma immorale e non va, assolutamente, confuso con la bontà.
Lo spiega Baruch Spinoza [1632-1677], uno dei massimi filosofi della Storia.
Nato ad Amsterdam, nel 1632, in una famiglia ebraica di origini portoghesi, emigrata, in Olanda, per sfuggire alle persecuzioni e agli orrori dell’Inquisizione, Spinoza era, per usare un termine attuale, figlio di immigrati. Spinoza ha scritto un trattato filosofico di assoluta grandezza e originalità, destinato a diventare sempre più attuale con il passare del tempo, il Tractatus theologico-politicus, nel quale rifiuta una lettura letterale delle Sacre Scritture ed enuncia il primato della razionalità sulla superstizione e sul misticismo. Per le sue tesi rivoluzionarie – Spinoza condannò ogni forma di teocrazia, arrivando a sostenere che la religione dovesse essere subordinata alle leggi dello Stato – venne espulso dalla comunità ebraica olandese, maledetto ufficialmente e minacciato di morte.

“L’amor di patria è certamente l’espressione più alta di devozione che si possa dare. Nessun bene, infatti, può sussistere, se si distrugge lo Stato; ogni valore sarà esposto al pericolo e, nel terrore generale, ogni azione sarà determinata dall’ira e dall’empietà. Perciò la pietà verso il prossimo, qualora ne derivi il danno del complesso della comunità politica, si trasforma in empietà e, viceversa, qualunque azione intesa alla conservazione della comunità politica non può non essere considerata conforme alla pietà anche se è stata empiamente commessa ai danni del prossimo. Per esempio, è conforme a pietà che io dia anche il mio mantello a chi mi assale per rubarmi la tunica; ma, se ciò è giudicato dannoso ai fini della salvezza della comunità, sarà conforme a pietà portare il ladro davanti al tribunale anche se per questo egli incorrerà nella pena capitale.”

Nell’Ethica, la sua opera maggiore, che si pone in continuità con i temi del Tractatus theologico-politicus, il rigore della speculazione filosofica appare volto a dischiudere il bene supremo al quale l’Uomo possa aspirare: l’autentica serenità dell’anima. Nello “sconfinato disinteresse di ogni sua massima”, Johann Wolfgang von Goethe [1749-1832] dichiarava di aver trovato un “acquietamento delle passioni”, sembrandogli che si aprisse “un´ampia e libera veduta sul mondo morale e sensibile”. Spinoza identifica Dio con la Natura, il cui studio, su basi matematiche e razionali, è il modo migliore per onorarlo, unitamente a una condotta ispirata alla tolleranza e alla giustizia.

“Che cosa io qui intenda per Regno di Dio, penso risulti abbastanza chiaramente dal Capitolo XIV, nel quale ho mostrato che l’adempimento della legge di Dio consiste nella pratica della giustizia e della carità secondo il comando di Dio. Ne segue che il Regno di Dio è quello in cui giustizia e carità hanno forza di diritto e di comando. A tal proposito, che Dio insegni e prescriva il vero culto della giustizia e della carità attraverso il lume naturale o attraverso la rivelazione, non fa, a mio avviso, differenza, perché, una volta che quel culto abbia ottenuto autorità di supremo diritto e rappresenti per gli uomini la legge suprema, non riveste più alcuna importanza il modo in cui esso sia stato rivelato.”

Si deve vedere nell’Altro un simile a se stesso o un estraneo radicalmente Altro?
O ancora:
Per accettare l’Altro, possiamo contentarci di fermarci a ciò che ha in comune con noi o dobbiamo considerarlo, essenzialmente, in ciò che ha di diverso?
E, in questo ultimo caso:
In cosa un tale concetto dell’Alterità, vale a dire di un rapporto con l’Altro, fondato sulla considerazione della diversità e non sul riconoscimento della similitudine, può condurre a un dibattito sull’Umanità e la Fraternità?
Di fatto, il problema può essere ricondotto a due domande:
-          Come si stabilisce il rapporto con l’Altro?
-          Come si deve risolvere il conflitto della diversità?
Domandandoci come si forma in noi la nostra idea dell’Altro.
Il “Je pense, donc je suis.” di Descartes [1596-1650] è il punto di partenza della riflessione moderna su questo problema. Esprime la coscienza di sé del soggetto pensante: io sono la cosa che pensa. Ma il pensiero non può essere concepito nel nulla.
Io non posso pensare che ciò che l’io che pensa percepisce fuori di sé. Il mio corpo stesso, io posso pensarlo solo perché lo percepisco. L’obiezione è che l’esperienza deve, sempre, fondarsi su una realtà, osservabile da ogni Altro quanto da me stesso. In questa ottica, il trascendente non può essere che pura speculazione. Si possono immaginare spiegazioni metafisiche. Si può credere a ciò che si è immaginato. Ma non è possibile giustificare, sperimentalmente, una credenza metafisica.    
L’Altro e me stesso siamo proprio elementi di uno stesso Universo e io comprendo che noi siamo fratelli nell’Umanità.


di
Daniela Zini



“Si tu diffères de moi, mon frère, loin de me léser, tu m’enrichis.
Se la saggezza contenuta in questa citazione di Antoine de Saint-Exupery fosse stata perseguita dagli Uomini, la Storia dell’Umanità avrebbe avuto un altro corso.
Ma non è così!
La differenza, anziché arricchire gli Uomini, li ha divisi e li ha istigati gli Uni contro gli Altri.
Se si risale indietro nella Storia, la constatazione che più colpisce è quanto la violenza abbia segnato i rapporti umani.
E, inspiegabilmente, sono, proprio, coloro che hanno più sofferto della violenza, i più inclini a ricorrere a quella stessa violenza contro coloro che hanno idee diverse.
I perseguitati di ieri divengono i carnefici di oggi.
È opportuno ricordare che la Storia della Umanità vanta un numero inaudito di pagine insozzate di sangue.
Milioni di Uomini sono morti in condizioni, sovente, atroci a causa di questa pericolosa fusione della religione e della politica, perché il sacro mostrava evidenti difficoltà ad allontanarsi dalla sfera riservata alle cose profane.
I francesi del Medio Evo ne sanno qualcosa.
Non meno di nove guerre di religione hanno colpito a lutto il loro Paese, rendendolo ingovernabile per decenni.
Per circa due secoli, dal 1095, data della Prima Crociata, le guerre, nel nome di Dio, hanno scatenato una fiumana di violenza orribile tra cristiani e musulmani, le cui conseguenze, più di nove secoli dopo, non sono, ancora, scomparse.
Lo scontro politico-religioso nel mondo musulmano ha una storia egualmente sanguinosa e le violenze, inflitte dai musulmani ai loro correligionari, non hanno nulla da invidiare, in termini di crudeltà, alle violenze che si infliggevano i cristiani tra loro.
Dei quattro successori del profeta Maometto, tre sono morti violentemente. Anche i discendenti diretti del profeta non sono sfuggiti alla violenza politico-religiosa. Suo nipote Abu ‘Abd Allah al-Husayn ibn ‘Ali [626-680] fu, selvaggiamente, assassinato, la testa tagliata e il corpo mutilato. Il suo assassino Yazid ibn Mu’awiya [645-683] era, forse, convinto di servire Dio e gli interessi dell’Islam, commettendo il suo misfatto.
Ed è, forse, sempre, nel nome di Dio, che al-Hajjaj ibn Yusuf [661-714] aveva massacrato un buon numero di abitanti della Mecca, decapitato il più celebre tra loro, ‘Abd Allah ibn al-Zubayr [624-692], e offerto la sua testa in dono al califfo omayyade, ‘Abd al-Malik ibn Marwan [646-705].
Tutto ciò per dire che la violenza, nel nome di Dio, è una delle tare più dure e più insopportabili della Storia.
Ma, visibilmente, si è, sempre, incapaci di trarre la lezione che si impone!
Una prova?
Ancora, nel XXI secolo, si aggrediscono e si minacciano di morte Uomini, che non condividono una pratica religiosa o una idea della creazione artistica. 
E ciò spiega il rifiuto dell’idea stessa di dialogo da parte dei salafiti e degli integralisti, che si considerano depositari della verità sacra, la cui discussione è un sacrilegio, un crimine verso Dio.
Non ragionano in termini di idee politiche discutibili, ma di dogma indiscutibile, che impone loro di eliminare l’Altro, quale nemico di Dio, con ogni mezzo.
L’espressione di una relazione di Fraternità implica la reciprocità in termini di fede o di ideologia, come tra credenti e atei o agnostici: a me riconoscere e rispettare la tua differenza; a te riconoscere e rispettare la mia.
Nell’esperienza dell’incontro con l’Altro, si debbono considerare, al tempo stesso, la sua diversità e la sua similitudine.
Nessun Uomo mi è totalmente simile né completamente estraneo. La presenza dell’Altro testimonia di qualcosa che ci supera.
Se avremo fede, vi vedremo, forse, l’unità di Dio: ma, in ogni caso, la comunanza di destino dell’Umanità!
È necessario, dunque, in un mondo che si mondializza, portare più attenzione al rispetto delle differenze.
E, tuttavia, la domanda resta.
Dove trovare la chiave pacifica della relazione con l’Altro?
Di certo, più nel voler vivere insieme, che nello sconfinamento comunitario.
Più in una laicità ben compresa, che nel ricorso alla trascendenza religiosa.
Infine, certamente e soprattutto, nell’accesso di tutti ai lumi della ragione attraverso l’educazione dei Giovani.
  

Daniela Zini
Copyright © 6 dicembre 2015 ADZ

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