“He who controls the past controls
the future.
He who controls the present controls
the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In politics, nothing happens by
accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt
Al Signor
Luigino D’Angelo
e a tutte le
Vittime del decreto salva-banche
Certamente, il crack delle grandi case bancarie fiorentine dei Bardi e dei Peruzzi,
reputato il più grande disastro finanziario storico ai
nostri giorni, presenta analogie con la crisi di questi ultimi anni. Oggi come allora, queste bancarotte sono la
conseguenza di bolle finanziarie speculative che crescono paralizzando
produzione e commercio: l’ECONOMIA REALE.
Tra il
1343 e il 1346, i Bardi e i Peruzzi,
schiacciati, rispettivamente, da un debito di 900mila e
600mila fiorini d’oro, furono travolti
da un’ambigua storia di mutui subprimes
[https://www.youtube.com/watch?v=hUAs-SAwAno],
come diremmo oggi. Sette secoli fa,
questo termine non esisteva, ma esisteva ed era ben attivo un certo capitalismo
di assalto, che aveva concesso ingenti prestiti ad altissimo rischio senza
troppo preoccuparsi delle conseguenze: si trattava di speculazioni simili a
quelle sui subprimes dell’attuale
crisi.
Al suo paragone, la Grande
Depressione degli anni 1930 fu un episodio transitorio e di scarse conseguenze.
Firenze
era considerata, allora, la vera e propria Banca Centrale Europea.
Oggi, il rischio è di una
riedizione dello stesso fenomeno in cui, come si legge nelle cronache
dell’epoca, “tutto il credito scomparve nello stesso momento”.
Le conseguenze, che ricalcano, fedelmente,
quelle odierne, furono deflagranti e il “contagio” irrefrenabile.
Il fallimento delle due banche maggiori causò,
infatti, l’insolvenza dei debitori e numerosi fallimenti nel sistema
finanziario.
Crollò in parallelo, anche, il mercato
immobiliare.
I documenti dell’epoca offrono una lista di
350 fiorentini finiti sul lastrico, ma il numero reale fu certamente
maggiore.
Il cronista Giovanni Villani [1276-1348], socio
dei Peruzzi, coinvolto suo malgrado nel crack
ante litteram, scrive a tale proposito nella Nuova Cronica:
“Nel detto
anno, del mese di gennaio, fallirono
quelli della compagnia de’ Bardi, i quali erano stati i maggiori mercatanti
d’Italia. E·lla
cagione fu ch’ellino avieno messo, come feciono i Peruzzi, il loro e l’altrui
nel re Aduardo d’Inghilterra e in quello di Cicilia; che·ssi trovarono i Bardi dal re d’Inghilterra
dovere avere, tra di capitale e di riguardi e doni impromessi per lui, DCCCCm
di fiorini d’oro, e per la sua guerra col re di Francia no·lli potea pagare; e da quello di Cicilia da Cm di
fiorini d’oro. È Peruzzi da quello d’Inghilterra da DCm di fiorini d’oro e da
quello di Cicilia da Cm fiorini d’oro, e debito da CCCm di fiorini d’oro; onde
convenne che fallissono a’ cittadini e forestieri, a cui dovieno dare più di
DLm di fiorini d’oro, solo i Bardi. Onde molte altre compagnie minori, e
singulari, ch’avieno il loro ne’ Bardi e·nne’ Peruzzi e negli altri falliti, ne rimasono
diserti, e tali per questa cagione ne fallirono. Per lo quale fallimento di
Bardi, e Peruzzi, Acciaiuoli, Bonaccorsi, di Cocchi, d’Antellesi, Corsini, que’
da Uzzano, Perondoli, e più altre piccole compagnie e singulari artefici che
falliro in questi tempi e prima, per gl’incarichi del Comune e per le
disordinate prestanze fatte a’ signori, onde adietro è fatta menzione, ma però
non di tutti, che troppo sono a contare, fu alla nostra città di Firenze maggiore
rovina e sconfitta, che nulla che mai avesse il nostro Comune, se considerrai,
lettore, il dannaggio di tanta perdita di tesoro e pecunia perduta per li
nostri cittadini, e messa per avarizia ne’ signori. O maladetta e bramosa lupa,
piena del vizio dell’avarizia regnante ne’ nostri ciechi e matti cittadini
fiorentini, che per cuvidigia di guadagnare da’ signori mettere il loro e·ll’altrui pecunia i·lloro potenza e signoria, a perdere, e disolare
di potenza la nostra republica! che non rimase quasi sustanzia di pecunia ne’
nostri cittadini, se non inn alquanti artefici o prestatori, i quali colla loro
usura consumano e raunano a·lloro
la sparta povertà di nostri cittadini e distrettuali. Ma non sanza cagioni
vengono a’ Comuni e a’ cittadini gli occulti giudici di Dio per pulire i
peccati commessi, siccome Cristo di sua bocca vangelizzando disse: “In peccata
vestra moriemini etc.”. I Bardi renderono per patto i·lloro possessioni a’ loro creditori soldi VIIII
danari III per libra, che non tornarono a giusto mercato soldi VI per libra. È Peruzzi
patteggiarono a soldi IIII per libra in posessioni, e soldi XVI per libra nelle
dette di sopradetti signori; e se riavessono quello deono avere dal re
d’Inghilterra e da quello di Cicilia, o parte, rimarrebbono signori di gran
potenzia di ricchezza; e’ miseri creditori diserti e poveri, perché fallì
credenze e·lle
malvagie aguaglianze delli ordini e riformagioni del nostro corrotto reggimento
del Comune, che chi ha podere più ha a suo senno i dicreti del Comune.
E questo basti, e forse ch’è troppo avere detto
sopra questa vergognosa matera; ma non si dee tacere il vero per chi ha a·ffare memoria delle cose notabili ch’ocorrono,
per dare asempro a quelli che sono a venire di migliore guardia. Con tutto noi
ci scusiamo, che in parte per lo detto caso tocchi a·nnoi autore, onde ci grava e pesa; ma tutto
aviene per la fallabile fortuna delle cose temporali di questo misero mondo.”
Come dire, posteri avvisati, mezzo salvati!
Ma, come si vede, la Storia si ripete
sempre...
Gli storici sono soliti attribuire questo
immane disastro, causato dalle banche e dal loro sistema finanziario, a un
capro espiatorio, re Edoardo III d’Inghilterra, straziato dalla sua brama di
guerra e dalla sua bramosia di conquista.
Fare la guerra era un affare costosissimo.
Allora come ora!
E i banchieri erano ben lieti di prestare danaro
ai Sovrani, in genere, solvibili, dai quali si facevano assegnare, in cambio,
rendite ricchissime: le dogane, lo sfruttamento del sale e quant’altro.
Allora come ora!
Ma Edoardo III si ribellò al sistema
finanziario, con il quale i banchieri fiorentini stavano acquisendo il
controllo sul suo Paese, e, a partire dal 1342, sospese i pagamenti ai Bardi e
ai Peruzzi.
Fu questo fatto a far precipitare nel
fallimento le due famiglie, anche perché gran parte delle somme date in prestito al re erano risparmi affidati in
amministrazione fiduciaria dai correntisti, i quali pretendevano la
restituzione dei capitali, con interessi altissimi.
Il re di Napoli, Roberto d’Angiò il Saggio,
allarmato da questa mossa inaspettata, ritirò i suoi depositi presso le banche
fiorentine, innescando una vera e propria corsa al prelievo. Come se non
bastasse, venne dichiarata la trasferibilità dei titoli di debito pubblico, che
ne fece crollare il valore.
I primi a cadere furono i Peruzzi nel 1343.
Dichiararono l’insolvenza e patteggiarono con i creditori.
I Bardi si ritrovarono nella stessa
situazione, nel giro di poco tempo.
Questa vicenda, che può essere considerata
la prima crisi dei mutui della Storia, vide la morte sul rogo di due funzionari
della Zecca e l’inizio di una depressione economica senza precedenti: i traffici commerciali di qualsiasi tipo
furono distrutti e il mercato entrò in confusione.
Nella
mostra Denaro e Bellezza, che, il 17
settembre 2011, si è aperta a Palazzo
Strozzi, i capolavori di Botticelli, del Beato Angelico, di Piero del
Pollaiolo, di Lorenzo di Credi hanno illustrato come il fiorire del moderno
sistema bancario sia stato parallelo alla maggiore stagione artistica del mondo
occidentale, collegando quell’intrecciarsi di vicende economiche e artistiche agli
sconvolgenti mutamenti religiosi e politici dell’epoca.
Un viaggio alla radice del potere
fiorentino in Europa, ma anche una analisi di quei meccanismi economici che –
mezzo millennio prima degli attuali mezzi di comunicazione – hanno permesso ai
fiorentini di dominare il mondo degli scambi commerciali e, di conseguenza, di
finanziare il Rinascimento.
Lorenzo il
Magnifico fu uno scadente gestore dei beni di famiglia, ma ci legò lo splendore
del Rinascimento italiano!
Che ci
legheranno, oggi, i banchieri che ci hanno inflitto la terribile crisi
economica che subiamo attualmente?
Il
processo di modernizzazione politica deve procedere di pari passo con il
processo di modernizzazione economica. La corruzione venuta alla luce nelle
imprese pubbliche rappresenta solo uno degli aspetti più estremi di una
struttura organizzativa aziendale confusa. Chi dirige le imprese pubbliche
deve, spesso, servire gli interessi politici, che ne hanno deciso la nomina e
non gli interessi delle società di cui si è assunto la responsabilità, questo
all’unico scopo di mantenere la propria poltrona.
Con questo
sistema è inevitabile che a una distorsione ne segua un’altra.
Su un
piano nazionale ciò si somma al fatto che, in Italia, esistono due grandi
correnti ideologiche che non hanno mai realmente accettato il principio del
libero mercato, fattore di successo essenziale per le società occidentali. Da
una parte vi sono i numerosi politici dell’area cattolica che credono più nella
solidarietà che nel liberismo moderno. Dall’altra gli ex-comunisti che credono
più nella pianificazione che nelle forze di mercato. Assieme queste due forze
rappresentano più della metà dell’intero vecchio sistema politico italiano.
Avrebbero fatto meglio a leggere e a seguire Adam Smith:
“Per Smith, il complemento necessario alla libertà
politica risiede nelle istituzioni sociali, istituzioni che furono strutturate
in modo da indurre gli uomini, dominati dai loro appetiti e dalle loro passioni,
a porre dei limiti a quelle stesse passioni e a quegli stessi appetiti.”
Il
vincitore del Premio Nobel per l’Economia Franco Modigliani, nel 1985, [1918-
2003] scrisse nella primavera del 1993:
“Il 1993 è per l’Italia “l’anno delle grandi opportunità”. Si sta verificando una rara coincidenza di circostanze
che offre all’Italia la possibilità di sanare i quattro mali che affliggono la
sua economia : una inflazione elevata, la disoccupazione, uno spaventoso
deficit pubblico e lo squilibrio della bilancia commerciale con l’estero.”
Nel 1992,
nonostante la recessione mondiale, l’esplosione di tutti gli scandali italiani
e le stragi di Capaci e di via D’Amelio, il PIL aveva continuato a crescere.
E il 1993
è stato, sicuramente, un punto di svolta… ma questa previsione si è rivelata
eccessivamente ottimistica.
Se un
Paese così mal governato, riusciva a stare al passo con l’Unione Europea,
poteva solo sperare in risultati ancora migliori dopo che il Governo e la
classe dirigente sarebbero stati rinnovati!
Gli
sviluppi politici ed economici sono, in effetti, intrecciati. Quando vi è un
controllo economico sul sistema politico, ciò produce situazioni pericolose.
Il settore
economico deve, tuttavia, farsi sentire in modo più fermo e razionale,
intervenendo responsabilmente, affinché i politici legiferino per promuovere
una maggiore efficienza.
Spazzare
via il vecchio crea inevitabilmente un vuoto.
Questo non
necessariamente verrà colmato da prodotti nuovi e perfetti, come sembra delinearsi
in politica.
Tutti
coloro che si sono presentati sulla scena per sostituirsi alla vecchia classe
politica e ai vecchi partiti non hanno, mai, avanzato un piano concreto per
risanare i mali del Paese.
Quando un
imprenditore lancia un nuovo progetto, conduce uno studio comprensivo di tutti
i suoi aspetti.
Nella
campagna elettorale per le politiche del 1994, il vuoto venne, parzialmente,
colmato dalle tecniche di comunicazione e di immagine, che costituiscono solo
un aspetto del progetto globale.
I contenuti
del programma – ce si presume siano la parte più importante – furono per lo più
assenti.
Il cammino
verso lo sviluppo dell’Italia è destinato a essere molto lungo, ma NON senza
speranza.
Roma, 25
gennaio 2016
Daniela
Zini
L’autore
tiene a ringraziare le persone che lo hanno incoraggiato a intraprendere la sua
inchiesta.
In
particolare, Lazzaro DIA, per gli ammaestramenti, che non ha, mai, mancato di
prodigarmi graziosamente, e per gli ammonimenti, che non ha, mai, mancato di
prodigarmi meno graziosamente.
Il mio
uomo, come lo definirebbe John Le Carré, ha preso non poche precauzioni allo
scopo di non dover confidare, unicamente, sulla mia discrezione per proteggersi
da indebite ricerche sulla sua persona e non mi ha permesso di sapere su di lui
più di quanto mi servisse per convincermi a portare a termine la stesura del
mio reportage.
Per le
stesse ragioni, non posso rendere nota l’identità di altre 6 persone, che, mi
limiterò a indicare con le lettere J, K, W, X, Y e Z, che non sono,
naturalmente, le iniziali dei loro nomi.
Sono
loro debitrice.
Dal
momento che questo reportage solleverà,
senza commenti, questioni in merito alle quali le opinioni non sempre
coincidono, ritengo sia giusto rendere nota al lettore la mia posizione
personale.
Come la
maggior parte degli individui, disapprovo il terrorismo a scopi politici.
Inoltre non credo nella cinica concezione, secondo cui chi per qualcuno è un
terrorista, par altri è un combattente per la Libertà.
I
terroristi non si definiscono in base ai loro obiettivi politici, ma ai mezzi
che utilizzano.
In pari
tempo, non mi sento di sottoscrivere il diffuso errore secondo cui il
terrorismo è privo di qualsiasi efficacia.
A mio
parere, una ipotesi del genere è solo un pio desiderio.
Se il
terrorismo, spesso, non riesce a conseguire gli obiettivi desiderati, lo stesso
vale per la guerra convenzionale, la diplomazia o qualsiasi altro evento
politico.
Alla
stessa stregua, si potrebbe ipotizzare che anche la guerra e la diplomazia
siano prive di efficacia!
È mia
opinione che il terrorismo sia un male, che raggiunga o meno gli scopi
prefissati.
Anche l’antiterrorismo,
tuttavia, comporta spargimento di sangue.
Non
tenterò neppure di affrontare e risolvere tale questione in questa sede.
Senza
dubbio alcuno, questa inchiesta sarà attaccata da alcuni e respinta da altri.
Non si pretende esaustiva, si vuole, semplicemente, onesta e obiettiva per quel
che si può fare in un brevissimo lasso di tempo.
E se ne
infischia delle cautele.
Ve ne
accorgerete subito!
Io
avrei potuto citare delle voci, dei “si dice”, delle maldicenze e anche dei
documenti, che circolano sia in Vaticano sia nelle sale di redazione italiane.
Me ne
sono astenuta nella misura in cui mi sembravano poco credibili.
Io ho
attinto, esclusivamente, a fonti “degne di fede”.
Questione
di buon gusto e di disposizione psichica.
La mia
deontologia è alla portata di tutti coloro che cerchino di penetrare, il più
naturalmente possibile, il luogo, per eccellenza, della delegazione del potere
divino.
In
questo tempo di onnipotenza dei media, il più arduo dei miei compiti è stato di
separare il grano dal loglio e di tenere conto del vero a fronte della
proliferazione dei bisbigli.
Io non
ignoro che una disinformazione più o meno machiavellica alimenti una nebbia di
leggende e di dicerie intorno allo Stato di Dio, al solo fine di perpetuarne l’ermetismo.
È qui che si inverte il buon senso euristico nella misura in cui l’eccesso di
contro-verità finisce per accreditare la tesi che non vi è fumo senza fuoco né
fuoco senza fumo.
Io non
ho neppure trascurato le testimonianze dirette.
La
Chiesa produce anche dei transfuga, che scelgono la libertà di credere e la
salvezza fuori della sua cinta millenaria.
Verso,
dunque, queste pagine nel dossier
della Storia della Chiesa che non ha finito, nella gloria e nella polvere, di
stupirci. Saranno considerate un attacco alle fede cattolica romana, in
particolare, e al cristianesimo, in generale.
Non
sono niente di tutto ciò e possono dare fastidio solo a chi si crede detentore
esclusivo di una Verità assoluta ed è privo, allo stesso tempo, di ogni
cognizione storica.
Sono
una inchiesta su una Chiesa che, dal Concilio Vaticano II, è alla ricerca di se
stessa.
Sono
una accusa contro uomini chiaramente identificati, che sono, dichiaratamente,
nati cattolici romani, ma, contrariamente, non sono, mai, divenuti cristiani.
Uomini
che hanno dimenticato che il Cristo ha cacciato i mercanti dal tempio,
senza preoccuparsi della loro potenza, e non ha temuto di fustigare i dignitari
della gerarchia religiosa, a rischio della propria vita.
Oggi,
sarebbe al fianco dei magistrati integri e dei cristiani convinti, che hanno
dichiarato guerra alla corruzione e alla incuria di una certa curia.
Che i
cristiani sinceri abbiano, dunque, la intelligenza di non prendere questo
lavoro per una impresa malefica.
Il
diavolo non è tra i miei Amici.
Non
sono la sola a pensare che si debba sloggiarlo dagli stessi scantinati del
Vaticano.
Chi di
loro riuscirà a passare per l’evangelica cruna dell’ago?
Voci di
rinnovazione della Chiesa si levano ovunque.
Lo
Spirito soffia dove vuole.
Si deve
lasciare soffiare questo vento.
Perché
non disperderebbe, alla luce del sole, tutti quei dossiers, pazientemente accumulati dalle commissioni di inchiesta,
nel corso degli scandali Michele Sindona, Roberto Calvi e consociati.
Uno dei più grandi processi del
dopoguerra su scala planetaria!
“1 Per ogni cosa c’è il suo momento, il
suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
2 C’è un tempo per nascere e un tempo
per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
3 Un tempo per uccidere e un tempo per
guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire.
4 Un tempo per piangere e un tempo per
ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare.
5 Un tempo per gettare sassi e un tempo
per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli
abbracci.
6 Un tempo per cercare e un tempo per
perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
7 Un tempo per stracciare e un tempo
per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare.
8 Un tempo per amare e un tempo per
odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
9 Che vantaggio ha chi si dà da fare
con fatica?”,
recita
l’Ecclesiaste.
Vi è un
tempo per le transazioni illecite e un tempo perché la legge degli uomini
sanzioni la loro illegalità, per non dire la loro incidenza criminale.
Un
tempo per chiudere gli occhi e gli orecchi e un tempo per aprire alla Verità.
Un
tempo per la credulità e la pseudo-innocenza e un tempo per una fede lucida,
senza accecamento né fanatismo.
“Molti
sono andati in rovina a causa dell’oro, il loro disastro era davanti a loro.”,
ammonisce
l’Ecclesiastico.
Io ho
voluto fare luce su uno dei più oscuri enigmi della Storia delle istituzioni
umane.
E,
forse, contribuirò a spianare le rovine!
Il
dedalo del Vaticano non è quello del Minotauro, ma quello del rappresentante di
Dio sulla Terra, guardiano pacifico della tradizione ecclesiale.
Sollecito,
dunque, indulgenza perché in quel
circolo vizioso di eventi contraddittori dalle molteplici interazioni come
osare definire ciò che è causa e ciò che è effetto!
E,
poiché nessuno di noi ha la Verità assoluta, ma tante piccole Verità unite
portano alla conoscenza, ben venga chi offrirà una analisi storica, anche
crudele, diversa.
Gliene
sarò grata, purché lo faccia con rispetto.
La
ricerca della Verità non è così semplice come potrebbe apparire!
Esistono
precise barriere nel mondo, forze oscure, ma potenti, che impediscono con tutti
i mezzi, che ci si avventuri alla ricerca di una qualsiasi Verità.
Esistono
personaggi molto influenti in grado di bloccare qualsiasi iniziativa legittima
nell’interesse della Giustizia degli uomini.
Questi
personaggi molto potenti vivono secondo leggi e codici che non sono le leggi e
i codici degli altri uomini.
Le
comuni leggi e i codici in vigore non hanno valore per loro e non si applicano
nei loro confronti.
Alla
base dell’associazionismo segreto vi è la volontà di una élite di distinguersi,
di agire alle spalle per produrre qualcosa che non si può condividere con la
massa.
Il
sociologo statunitense Edward Hopper sostiene:
“Gli
aderenti alle associazioni segrete hanno fondamentalmente tre punti in comune:
il desiderio di appartenere a una élite, il sentirsi adepti per diversificarsi
da tutti gli altri, avvolgendosi in un alone enigmatico, la certezza di essere
nella cerchia nobile di chi determina e costruisce qualcosa che produce cioè
qualcosa di inaccessibile alle masse.”
Tutte
le Società Segrete per loro natura sono estremamente selettive: mirano a
raccogliere individui “particolari” già in sintonia con la natura della società
in questione.
Come
scrive Heinrich Cornelius Agrippa von
Nettesheim nel
suo De Occulta Philosophia:
“Abbiamo trasmesso quest’arte in modo
che essa non rimanga occulta agli uomini prudenti e intelligenti, ma anche in
modo che non ammetta ai suoi arcani i malvagi e gli increduli, così che essi
restino a mani vuote sotto la meschina ombra della ignoranza e della
disperazione. Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo
scritto questa opera.”
Se uno
di noi, uno qualsiasi di noi, decidesse di essere iniziato a una Società
Segreta, che cosa avverrebbe?
Secondo
Mircea Eliade, verrebbe
modificata tutta la sua vita. Nel suo saggio Il sacro e il profano si legge:
“Generalmente l’iniziazione comporta una
triplice rivelazione: quella della morte, quella del sacro e quella della
sessualità. Il fanciullo ignora tutte codeste esperienze; l’iniziato le
conosce, le assume e le integra nella sua nuova personalità. Si aggiunga che il
neofita muore alla propria vita infantile, profana, non rigenerata, per
rinascere a una nuova esistenza santificata: rinasce anche a un modo di essere
che gli rende possibile la conoscenza, la scienza. L’iniziato non è soltanto un
nuovo nato, un resuscitato: è anche un uomo che sa, che conosce i misteri, che
ha ricevuto delle rivelazioni di ordine metafisico. Durante l’apprendistato
nella boscaglia egli impara i segreti sacri: i miti riguardanti gli dei e l’origine
del mondo, i veri nomi degli dei, l’uso e l’origine degli strumenti rituali
impiegati nelle cerimonie di iniziazione. L’iniziazione equivale alla maturità
spirituale e in tutta la Storia religiosa dell’Umanità troviamo, sempre, questo
tema: l’iniziato, colui che ha conosciuto i misteri, è diventato colui che sa.”
Quale
ragione spinge un gruppo di individui a costituire una Società Segreta?
La
ragione muove, principalmente, da scopi di tipo utilitaristico e materiale, che
portano a costituire una società di mutuo soccorso, nella quale trovare aiuto
da parte dei confratelli.
Daniela
Zini
“Chi tace e chi piega la testa muore ogni
volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone
ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine,
che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai
nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non
facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo
una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non
riuscire a provare!”
Daniela
Zini
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò
che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo
piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da Società Segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi
esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in
questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi
stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di
gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di Società Segrete,
veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro
esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad
agire alla luce del sole.
Circa due anni e
mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy
tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di
New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra
Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più
pericoloso.
“[…] La
stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e
storicamente contrari alle Società
Segrete, ai giuramenti segreti e
alle procedure segrete. Abbiamo deciso,
molto tempo fa, che i pericoli di
un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti
superino, di gran lunga, i pericoli che
vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno
alle Società Segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche,
sociali, politiche o di clubs privati
riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono state, in
un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni
dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto
a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le Società Segrete si
ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo
mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle Società
Segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si
pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una
appassionante incursione nel cuore delle Società Segrete più celebri della
storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle Società
Segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di
iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le Società Segrete,
rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra
infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico,
che degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle Società Segrete
in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare,
ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini,
noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti”
[capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è
sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei
predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo
un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente
scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle Società
Segrete è che
le suddette Società Segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le Società
Segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”,
al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle Società Segrete si perde,
necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più
lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In
principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla
fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu
la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui
veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali
della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero
divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i
due poli della sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto
al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un
inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo
iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben
presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione
dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni
abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O
che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la
materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si
svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre
di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le Società Segrete
assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e,
soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra
svolta: la proliferazione delle Società Segrete, che hanno, come corollario,
legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la
razionalità scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una
moltiplicazione di Società Segrete, in particolare nell’era di Internet, con
possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle Società Segrete ha una
importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia,
versione detta esoterica, che tiene conto delle Società Segrete, perché sono,
sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le
ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia
esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste Società Segrete sono, profondamente,
legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne
ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su
Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema,
esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali,
basati sul controllo, il potere e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in
cui viviamo!
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
3. SI UCCIDE UN MINISTRO CAMORRA SOTTO ACCUSA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
4. I RIFIUTI TOSSICI IN CAMPANIA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO
VA E FA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
5. TURIDDU 65 ANNI DOPO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO
DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
3. CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI
CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI
CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini
Mausoleo Ossario
In
nessuno degli Stati italiani presistenti all’Unità sorsero tante Società Segrete
quante nel Regno delle Due Sicilie.
A
Palermo nacque, ai tempi di Francesco I [1777-1830], la setta dei Seguaci di Muzio Scevola,
cui aderirono anche molti ufficiali e sottufficiali dell’esercito borbonico e
preti. Mentre preparava un moto rivoluzionario, fu scoperta e mortalmente
colpita. Dieci adepti vennero giustiziati, tra i quali due preti e lo stesso
fondatore della setta, Salvatore Meccio.
In
Sicilia sorsero, anche, le sette dei Seguaci
di Bruto, dei Sette Dormienti,
dei Pellegrini
Bianchi, dei Veri Patrioti,
della Repubblica,
la quale, fondata dal prete Giovanni Krymi [1794-1754], varcò lo stretto e mise
radici a Reggio Calabria.
Di
non trascurabile importanza fu la setta palermitana Nuova Riforma,
che fece un serio tentativo di organizzazione, bruscamente troncato dalla
polizia: due dei suoi adepti finirono sulla forca e molti altri in carcere.
Ben
più pericolosa si mostrò un’altra setta, nata nelle carceri palermitane a opera
di un infaticabile agitatore politico, Giuseppe Abela. Aveva diramazioni al di
fuori delle prigioni e si proponeva di far saltare con una mina l’edificio
carcerario; liberare tutti i carcerati; assalire di sorpresa gli austriaci, che,
allora, presidiavano Palermo; impadronirsi dei forti e delle armi ivi custodite
e proclamare la libertà dell’isola. Ma la mina si rivelò troppo fiacca: lo
stabile resisté allo scoppio e i soldati, subito accorsi, resero impossibile la
rivolta. Abela venne condannato a morte e fucilato.
Nel
bagno penale di Favignana, una delle Isole Egadi, si costituì tra i detenuti
una società. Contavano di potere evadere dal bagno, sbarcare nella vicina
Marsala, marciare su Trapani, attirare a sé molta gente e, con il suo aiuto,
scacciare le guarnigioni austriache dalla Sicilia. Ma l’organizzazione fu
scoperta prima che passasse all’esecuzione del piano. Vi furono arresti,
inquisizioni, condanne: cinque congiurati vennero giustiziati.
Tra
le sette fondate sul territorio continentale del Regno va ricordata quella
leccese degli Edennisti,
di cui fece parte un famoso uomo politico, Liborio Romano [1793-1867],
destinato a rappresentare una parte di primo piano negli ultimi anni della
monarchia. Nel 1826, venne arrestato come edennista e passò un anno in carcere.
A
Barletta, nacque la società segreta Tomba
Centrale, il cui nome alludeva alla tomba,
in cui sarebbe stato sepolto il dispotismo borbonico.
A
Napoli, ebbe vita la setta dei Filadelfi,
la più attiva e pericolosa di tutte le sette minori. Di origine transalpina e
di ispirazione liberal-repubblicana, preparò la rivolta del Cilento del 1828,
durante la quale venne inalberata la bandiera tricolore e proclamata una
costituzione di tipo francese.
Altre
due sette nacquero nel Cilento, sotto Ferdinando II: la Propaganda
e la Fratellanza.
La prima ordì una vasta congiura, che venne scoperta nel 1837, e dette origine
a un colossale processo che popolò le carceri. La seconda, che aveva carattere
comunista, fu scoperta nel 1843: delle duecentosessantaquattro persone
processate un centinaio andò in prigione senza giudizio, undici furono relegate,
per sei anni, nelle isole e trenta mandate in esilio.
Ma
queste non erano che le Società Segrete di minore rilievo. Le più importanti
furono tre: la Carboneria,
la Giovane
Italia e l’Unità Italiana.
La
Carboneria
fu creata sul modello dell’analoga società francese. Giunse a diventare un vero
Stato nello Stato, che reclutava adepti in tutte le classi sociali, impartiva
loro una certa istruzione militare e giudicava le loro colpe in un tribunale
segreto, senza ricorrere alla giustizia ordinaria. Verso il 1820, il centro
principale della Carboneria
italiana fu creato proprio a Napoli, ove rimase per alcuni anni. Anche a Napoli,
la Carboneria
si presentò con le sue caratteristiche tradizionali: il mistero dei suoi riti,
il simbolismo dei suoi nomi, la sua complicata costituzione gerarchica. Vi si
iscrissero molte donne chiamate in gergo carbonaro “giardiniere”, le quali
riuscivano utilissime come messaggere, poiché la polizia sospettava di loro
molto meno che degli uomini.
Si
può dire che, per molto tempo dopo i moti del 1820, la maggior parte delle
rivolte scoppiate nelle Due Sicilie siano state fomentate dalla Carboneria
o comunque da essa favorite tramite sette minori dello stesso tipo. Ma il
fallimento di tutte quelle imprese provocò la sua decadenza.
Ne
approfittò Giuseppe Mazzini per soppiantarla con la Giovane Italia,
da lui stesso fondata, nel 1831, dopo aver accusato la Carboneria di essere
troppo individualista e, pertanto, incapace di inquadrare, organicamente, le
forze rivoluzionarie della Penisola. Grandi speranze sorsero nel Regno Borbonico
per l’azione mazziniana; ma appena le speranze entrarono in contatto con la
realtà sfumarono. Nessuna delle insurrezioni, fomentate, nelle Due Sicilie, dalla
Giovane
Italia, ebbe successo; furono tutte
soffocate nel sangue, compresa la maggiore, scoppiata a Cosenza, nel 1844.
Né
maggiore successo ebbe la terza delle tre grandi società: l’Unità Italiana,
costituita, nel 1848, da Silvio Spaventa [1822-1893], futuro deputato e
ministro del Regno d’Italia. Lo statuto e il programma dell’associazione furono
scritti da Luigi Settembrini [1813-1876]. Ma fino dagli inizi fu travagliata da
lotte intestine tra monarchici e repubblicani. Inutilmente Spaventa scongiurava
i compagni:
“Prima abbattiamo il Borbone e poi pensiamo
alla forma di governo.”
Non
fu ascoltato!
Così,
l’azione della società rimase completamente paralizzata. Nonostante ciò,
scoperta dalla polizia, subì un clamoroso processo, che durò otto mesi [giugno
1850 – gennaio 1851] e appassionò per la notevole personalità degli imputati
tutta l’Italia e l’Europa. Sul banco degli accusati, insieme a Spaventa e a Settembrini,
vi era anche Carlo Poerio [1803-1867], che era stato ministro di Ferdinando II [1810-1859]. Ironia della
sorte: era completamente estraneo all’associazione, cui non aveva voluto
iscriversi perché non credeva affatto nella sua utilità. Il processo fu,
attentamente, seguito da un giovane amico del rappresentante diplomatico
inglese a Napoli: William
Ewart Gladstone [1809-1898]. Figlio di
un libero Paese rimase indignato dalla mostruosità del processo, chiusosi con
tre condanne a morte – di cui una sola, tuttavia, fu eseguita –, molte condanne
all’ergastolo e ad alquanti anni di reclusione. Gladstone provò a visitare i
condannati in carcere per assicurarsi della veridicità di certi voci che
riferivano che i prigionieri fossero trattati come bestie, legati due a due con
pesanti catene, costretti a vivere in tetre e fetide celle, insieme a una decina
di autentici criminali, e subissero, talvolta, sevizie e torture, quali l’introduzione
sotto le unghie di ferri appuntiti o l’uso del borzacchino, uno stivaletto di
ferro, in cui veniva versata pece bollente. Riuscì nel tentativo e, nel bagno
penale di Nisida, poté parlare, soprattutto, con Poerio. Quello che vide e
apprese superò le sue stesse previsioni. Fu proprio l’orrore sucitato in lui da
quelle carceri che lo spinse a scrivere a un suo amico, lo statista inglese
lord George
Hamilton Gordon Aberdeen [1784-1860], le famose lettere di denuncia,
in cui bollava di ignominia il regime borbonico, chiamandolo “negazione di Dio”.
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano-Massoneria
- Parte
Terza –
“Et favere et pati fortia romanum est.”
ROMA CAPUT IMMONDUM
“Possis
nihil Urbe Roma visere maius.”
Quintus Horatius Flaccus
Roma
capomunni
Nun fuss’antro pe ttante antichità
bisognerebbe nassce tutti cquì,
perché a la robba che cciavemo cquà
c’è, sor friccica mio, poco da dí.
Te ggiri, e vvedi bbuggere de llí:
te svorti, e vvedi bbuggere de llà:
e a vive l’anni che ccampò un zocchí
nun ze n’arriva a vvede la mità.
Sto paese, da sí cche sse creò,
poteva fà ccor Monno a ttu pper tu,
sin che nun venne er general Cacò.
Ecchevel’er motivo, sor monzú,
che Rroma ha perzo l’erre, e cche pperò
de st’anticajje nun ne pô ffà ppiú.
Giuseppe
Gioacchino Belli [1791-1863]
A. Lo
scandalo della Banca Romana
125 anni fa,
la scoperta che Bernardo Tanlongo, governatore della Banca
Romana, la più importante banca del Regno d’Italia, avesse messo in
circolazione, a corso illegale, 60 milioni “abusivi”, portò l’economia italiana
sull’orlo del collasso, costringendo il Governo Giolitti alle dimissioni.
La cassa
de sconto
Dar Popolo pe annà a li Du’ Mascelli
su la Piazza de Spaggna a mmano manca
in fonno a la piazzetta Miggnanelli,
ve viè de petto una facciata bbianca.
Llí, a llettere ppiú ggranne de ggirelli
tutti indorati, sce sta scritto: Bbanca
Romana. Ebbè,
ccurrete, poverelli,
ché de príffete llí nnun ce n’amanca.
Sta bbanca inzomma è una scuperta nova
pe ddispenzà cquadrini a cchi li chiede
in qualunque bbisoggno s’aritrova.
Sortanto sc’è cche sta Bbanca Romana,
com’ha ddetto quarcuno che cciaggnéde,
capissce poco la lingua itajjana.
Giuseppe
Gioacchino Belli [1791-1863]
Una vignetta satirica tratta dal periodico
romano L’Asino. Il “giudice” ritratto
pronuncia la battuta: “Vedete? La cassa
dei documenti è chiusa a chiave. State certi che nessuno né è scappato, né può
scappare.”
Su ministri, segretari,
su tornate in fitta banda
che nessuno vi domanda
la fedina criminal!
Fin dai tempi di Tanlongo
ci stringemmo in mutuo patto,
che possiamo col riscatto
ferroviario rinnovar.
Il riscatto ferroviario
il governo non farà
e vivrem dell’onorario
delle sacre Società.
L’adorato capitale
venga ognor tra queste braccia:
No, d’inchieste la minaccia
più nessun deve temer!
Se divisi siam canaglia
figurarsi in compagnia:
Si prepara l’allegria
di un eterno carneval!
Ogni cosa è in mano nostra:
noi disfar, rubar possiamo:
La consegna sia: mangiamo!
Troppo triste è il digiunar!
Il riscatto del succhione
oggi alfin s’inizierà,
ed il popolo zuccone,
sempre buono, pagherà.
Fondata nel 1840 con il nome di Società
Commerciale, fino dagli inizi questa banca si segnala per l’allegra finanza. I
suoi dirigenti hanno, infatti, la smodata tendenza a stampare valuta papalina
in cifra superiore alle reali possibilità dell’istituto. Inutilmente due
pontefici, Gregorio XVI [1765-1846] e Pio IX [1792-1881], intervengono sul loro
istituto di emissione per frenare tanta prodigalità. Non solo le irregolarità
amministative continuano, ma vengono anche ereditate dallo Stato italiano, che
se non fosse per un riguardo alla Santa Sede, si sbarazzerebbe, di buon grado,
della banca. Purtroppo, lo escludono ragioni di opportunità politica e, così, a
Roma divenuta la capitale del Regno, la Commerciale, ora Banca Romana, sviluppa
il proprio pericoloso giro di affari e diviene, molto presto, un centro di
corruzione politica.
Dal 1881, a questa attività dà particolare slancio
Bernardo Tanlongo, un ex-fattore, un affarista divenuto governatore dell’istituto
grazie a potenti amicizie. Accreditato per la sua “onestà laboriosa”, questo
intrallazzatore di primo ordine, privo di scrupoli e di qualsiasi nozione di
economia finanziaria, è deciso a difendere una posizione così avventurosamente
conquistata.
Nel 1881, è, pertanto, generoso di milioni
a giornalisti, deputati, economisti, perché ritardino l’approvazione di una
legge che, abolendo il regime di concessione valutaria, condannerebbe a morte
la sua banca, che si regge solo in virtù delle poprie emissioni.
E, anche quando la legge del 1883 viene
approvata, Tanlongo non demorde.
Per tenere in piedi una impresa così
redditizia è pronto a mettersi fuori legge e a stampare biglietti bancari in
grande segreto. Per maggiore sicurezza, li ordina in Inghilterra e in serie
doppia, per meglio confondere eventuali investigatori. Poi, con tenacia tutta
artigianale, li firma a casa, a uno a uno, con un torchietto, prima di
rimpinguarne le casse della banca.
L’ingegnosa intraprendenza di Tanlongo non
è, tuttavia, la sola ad animare, in quegli anni, la vita economica dell’Italietta.
Speculazioni edilizie e audaci iniziative industriali trovano facile sostegno
nel sistema bancario, in particolare nelle banche di emissione. Alla lunga,
tuttavia, la “puzza di bruciato”, che filtra da queste cucine, in cui si
rimescolano affari al limite e al di là del lecito, dà, finalmente, luogo a una
inchiesta amministrativa, che investe anche la Banca Romana. Rivalità politiche
all’interno della maggioranza ministeriale la generano, Francesco Crispi
[1818-1901], allora presidente del consiglio, l’approva, il ministro Luigi Miceli
[1824-1906] la sovraintende, l’ignaro senatore Giuseppe Giacomo Alvisi
[1825-1892] la dirige, e l’incorruttibile funzionario Gustavo Biagini la
esegue. Ma, quando i risultati della indagine giungono sul tavolo del ministro
dell’industria, sono tali da spaventarlo e indurlo a rappezzare la situazione.
Biagini è trattato da pazzo visionario ed è ordinata una nuova ispezione, che
verifica come il deficit di 10 milioni
di biglietti falsi, precedentemente rilevato, sia, miracolosamente, svanito. Ve
ne è abbastanza per lodare l’eccesso di zelo del funzionario inquirente,
promuoverlo al altro incarico e seppellire la relazione che Biagini inoltra a
chi di dovere.
A cercare di denunciare lo scandalo rimane
solo il senatore Alvisi.
Inutilmente!
Appena un anno dopo la sua morte, il
repubblicano Napoleone Colajanni [1847-1921] può dare lettura della relazione
Biagini, che il senatore ha legato in punto di morte ad alcuni amici.
Lo fa il giorno in cui la Camera è chiamata
a discutere la proposta avanzata da Giovanni Giolitti [1842-1928] di prorogare
di altri sei anni il regime delle concessioni monetarie alle banche “chiacchierate”.
La requisitoria dell’ex-garibaldino siciliano
è anche diretta contro il neoeletto presidente del consiglio ed è tanto più
vibrante di indignazione in quanto, poco più di un mese prima, l’uomo di
Dronero, anche lui legato da vincoli di riconoscenza al disinvolto
trasteverino, lo ha fatto nominare senatore.
Il rapporto suscita le violente ire della
maggioranza, Colajanni è coperto di ingiurie e contro di lui volano anche
alcuni sgabelli.
Miceli lo accusa di falso e giura sull’onorabilità
di Tanlongo.
A sentire questi signori, non è vero che il
banchiere distribuisse “omaggi” in lire; che a diversi notabili del Regno
rinnovasse cambiali senza fine; che prestasse, generosamente e a tassi
agevolati, a molti, tra i quali anche Crispi; che fosse, perfino, il canale
attraverso cui Umberto I [1844-1900], da pioniere della fuga di capitali all’estero,
mandava i propri risparmi alla Banca di Inghilterra.
Infine, l’accusato sembra essere Colajanni.
Pochi giorni dopo, tuttavia, Giolitti non
può esimersi dal nominare una commissione di inchiesta amministrativa, anche se,
lo stesso giorno, fa nominare Tanlongo, cittadino al di sopra di ogni sospetto,
membro della commissione di vigilanza del debito pubblico.
Questo è troppo anche per i più pavidi,
mentre per i più increduli giunge la denuncia della commissione di inchiesta,
che, nella Banca Romana, ha rilevato 70 milioni clandestini, 40 a serie doppia, 20 di deficit, come risultato di una serie di
falsi che durano da oltre venti anni.
Tanlongo è arrestato, e benché non finisca
in una accogliente infermeria, si ritrova, comunque, in una cella a pagamento,
riscaldata e arredata con i mobili fatti venire da casa.
Fuori, intanto, continua la battaglia
politica e parlamentare; mentre, foglio a foglio, i documenti più
compromettenti nell’istruttoria si perdono per strada.
Quelli che rimangono a disposizione della
seconda commissione di inchiesta, quella parlamentare “dei sette”, sono
sufficienti per determinare la caduta del Governo Giolitti, ma non hanno la
forza di mandare in prigione qualche onorevole o ministro.
Troppi sono i politici coinvolti e molti di
loro i potenti.
In ultimo, lo stesso Tanlongo “se la cava”.
E non può essere altrimenti!
È depositario di troppi segreti perché
possa marcire in galera.
Al processo viene assolto.
Evidentemente, ai giudici togati è
difficile condannare un banchiere di regime e un falsario di Stato!
RISCHIO
POVERTA’ PER 9,5 MILIONI DI ITALIANI
Il tasso di
disoccupazione nella zona euro è sceso al 10,5% a novembre, ed è il più basso
dall’ottobre 2011. Questi dati positivi diffusi da Eurostat mostrano come il
numero di disoccupati, nei 19 Paesi del blocco della moneta unica, è sceso a
16,92 milioni a novembre, un numero ancora elevato, ma che significa 130.000
persone in meno rispetto al mese precedente.
Una pesante
nota negativa riguarda però la disoccupazione giovanile, ancora molto alta, al
22,5%. Agli estremi troviamo naturalmente la Germania e la Grecia,
rispettivamente la migliore e la peggiore nella classifica.
Nel caso
specifico dell’Italia, il calo di settembre [- 0,2%] e ottobre [- 0,2%] a
novembre 2015 ha
garantito a 36.000 nuovi lavoratori una occupazione. Ma, nonostante il calo di
disoccupazione, crescono le famiglie in difficoltà. Il disagio sociale è
aumentato del 3% in dodici mesi [+ 283mila unità]. È quanto risulta dai dati
pubblicati, il 12 gennaio scorso, da Unimpresa [http://www.unimpresa.it/crisi-unimpresa-a-rischio-poverta-95-milioni-di-italiani/11658].
Oltre 9,5 milioni di italiani sono a rischio.
“Quanto al merito delle imputazioni dico
innanzi tutto che io non mi sono approfittato di un centesimo durante la mia
gestione della Banca Romana; anzi, posso dire di averci rimesso del mio; può
ciò facilmente desumersi dalle condizioni del mio stato patrimoniale che non è
migliorato da che io andai a dirigere la banca, anzi mi ha peggiorato.”
Bernardo Tanlongo
Palazzo
Maffei Marescotti, sede della Banca Romana.
Nel
novembre del 1892, venne consegnato al direttore della Banca Romana, un plico
con tanto di fregio reale.
Il
commendatore Bernardo Tanlongo l’aspettava da tempo.
In un
certo qual modo, la lettera, firmata da Umberto I, rappresentava il punto di
arrivo di una attività iniziata, cinquanta anni prima, nell’agro malarico che
circondava Roma. Allora, comandavano i papalini, abituati a giudicare i
collaboratori per il buon carattere più che per le capacità professionali.
Tanlongo,
uomo fortunato, possedeva l’uno e, in parte, le altre.
La sua
carriera, anche per questo, era stata ottima.
Aveva
iniziato, dopo avere studiato un po’ di economia, acquistando e vendendo
terreni. Di tanto in tanto, a differenza dei principi dell’aristocrazia nera,
si recava all’estero e, con gli occhi bene aperti, guardava quello che accadeva.
Così, apprendeva, sempre, qualcosa di utile da mettere, poi, a profitto. Grazie
ai suoi consigli, a esempio, fu piegata una grave malattia del bestiame, che
stava distruggendo il patrimonio bovino, non troppo ricco, dei possedimenti
pontifici. Per tali benemerenze, Tanlongo aveva ottenuto i primi incarichi
pubblici.
Di
politica, in senso stretto, Tanlongo non si interessava. Comprendeva, tuttavia,
da disincantato trasteverino qual era, che il mondo andava cambiando.
Presto
o tardi, i Savoia si sarebbero impadroniti dell’Italia intera.
In
fondo, lo meritavano perché, in nessuna regione come nelle settentrionali, la
terra era così ben coltivata e il commercio così fiorente.
A poco
a poco, anche se non lo diede a vedere, Tanlongo prese a sperare che Vittorio
Emanuele II [1820-1878] o chi per lui, occupasse Roma. Sulla piazza, le persone
esperte scarseggiavano. Senza dubbio alcuno, i piemontesi avrebbero finito con
il chiedere il suo aiuto.
E lo
chiesero.
Dopo la
presa di Roma, Vittorio Emanuele II acquistò dei poderi nel Lazio e, a sbrigare
gli affari, chiamò proprio Tanlongo.
Le faccende
andavano nel modo migliore, quando il padrone si stancò dell’amministratore
che, sembra, pretendesse, per alcuni acquisti di bestiame, un compenso
considerato eccessivo. Comunque stessero le cose, è certo che Tanlongo venne
dispensato dall’occuparsi delle tenute reali.
Ma chi si
è procurato delle benemerenze non perisce mai.
E,
passo dopo passo – fu, prima, vicedirettore – Tanlongo si trovò a capo della
Banca Romana, una delle sei che, nella nuova Italia, battevano moneta. Era un
vecchio banco pontificio che, riordinato con decreto reale del 2 dicembre 1870,
aveva ottenuto il privilegio di stampare biglietti a corso legale, la cui stampa
avveniva, su ordinazione del direttore, a Londra. Il fondo iniziale era di
dieci milioni, in diecimila azioni di mille lire ciascuna.
Ricorrevano
alla banca di Tanlongo, i personaggi più importanti del momento: industriali
venuti a Roma a costruirvi case da affittare, a prezzi salati, agli impiegati
dei ministeri; commercianti che ammodernavano le loro botteghe; speculatori
dediti alla compravendita dei terreni; e, soprattutto, politici, giornalisti
governativi e funzionari statali. Tutti, specie gli ultimi, sembravano contenti
di servirsi dal “sor Bernardo”.
Tanlongo,
che parlava in romanesco, seguiva nel nuovo incarico i vecchi metodi. Gestiva
il banco nel modo, un poco confusionario – “paternalistico”, lo definirà il
ministro Luigi Miceli –, caro ai papalini. Qualche elemosina ai bisognosi.
Prestiti
ai clienti “coperti”.
Aiuti
consistenti ai notabili in difficoltà che, prima o poi, avrebbero ripagato il
favore.
Per
molto tempo, nessuno si lamentò di tale genere di amministrazione.
Per comprendere
l’affare della Banca Romana, bisogna tenere presente che, agli occhi di alcuni
dei suoi protagonisti, non venne, a lungo, considerato un “pasticciaccio brutto”.
Di
tanto in tanto, è vero, si alzava qualche voce di protesta, ma, come,
consigliava l’autorevole Nuova Antologia,
non era il caso di badare alle “vane ciarle dei pettegoli e dei maligni”.
Meno
tranquillo del cronista si sentiva, probabilmente, Tanlongo se, per mettersi al
sicuro dalle “chiacchiere”, pensò bene di sollecitare la nomina a senatore.
Avrebbe, così, evitato una eventuale inchiesta giudiziaria.
Il suo
migliore alleato sembra fosse Urbano Rattazzi [1808-1873] “prefetto di palazzo”
del re. La proposta di assegnare al direttore di banca il laticlavio, accolta
dal presidente del consiglio Giovanni Giolitti, fu approvata da Umberto I nel
novembre del 1892.
In un
primo momento, a dire il vero, il re l’aveva respinta per questioni di censo:
“Non
voglio questo bifolco tra i miei senatori!”
Ma si
vedrà, aveva anche lui dei debiti di riconoscenza con il “sor Bernardo”.
Nel
leggere la lettera, che lo informava dell’alto onore conferitogli, Tanlongo
dovette pensare di essere, ormai, immunizzato dai guai. Stavano, invece, per
arrivare!
Tanlongo
non teneva conto di uno dei pochi uomini che, in tanti anni di carriera, aveva
saputo resistergli: Gustavo Biagini, un modesto funzionario. In compagnia di
Giacomo Alvisi, un anziano senatore bellunese, Biagini si era recato, nel 1889,
da Tanlongo, chiedendogli di controllare i libri di cassa. Dovevano portare
avanti, spiegarono i due, una ricerca per conto del Ministero dell’Agricoltura,
da cui, allora, dipendevano le banche.
Nel
giugno di quell’anno, per chiudere la bocca ai “pettegoli”, il ministro Miceli
aveva dato il via, anche se di malavoglia, a una indagine “privat”
sull’amministrazione bancaria, affidandola, appunto, ad Alvisi. All’inizio,
aveva proposto al senatore la collaborazione di un diverso funzionario, il
commendatore Monzilli. Ma Alvisi, che l’aveva rifiutata, si era messo al fianco
Biagini.
Tanlongo
giudicò il senatore Giuseppe Alvisi e il funzionario dei perditempo. Ma, quando
i due chiesero ragione di certi ammanchi di cassa – subito coperti con un
prelievo presso un’altra banca, come si venne a sapere in seguito – iniziò a
impensierirsi.
Si
sarebbe “lavorato” Biagini!
Lo
chiamò nel suo ufficio. E, pare accertato, gli propose di “ lasciare perdere”
in cambio, si intende, di una “concreta” riconoscenza. Il modesto funzionario
si comportò meglio di altri che, in famiglia, avevano, probabilmente, meno
problemi da risolvere di lui. Fece finta di non comprendere. Ma parlò, subito,
del tentativo di corruzione ad Alvisi. I due si convinsero, più di quanto già
non lo fossero, che avevano messo le mani su un brutto affare.
Non si
persero d’animo. Senza dire parola, continuarono a lavorare sodo. E, quando
nella casa veneta del senatore, riordinarono i loro appunti, si trovarono a
stendere una relazione che, senza esagerazione alcuna, era “esplosiva”.
Il
ministro Luigi Miceli non la pensò al loro modo. Dopo averla letta, mal
consigliato dal commendatore Antonio Monzilli, diede del “visionario” ad
Alvisi, che, per il dolore, si ammalò. Si limitò a riassumere, scegliendo
parole piuttosto caute, la relazione in poche paginette. E, con quelle, si recò
a una seduta dei ministri. Il governo era, allora, presieduto da Francesco
Crispi che, fedele al titolo di “redentore d’Italia”, datogli dai giornali, si
dedicava, soprattutto, alla tutela della grandeur
italica. Era, infatti, deciso a dare “qualche disturbo” alla Francia pronta, a
suo dire, ad attaccare di sorpresa il porto di La Spezia. Non tutti i suoi
collaboratori e, in particolare, il ministro delle finanze Giovanni Giolitti [al
suo primo incarico ministeriale], erano dello stesso parere.
Nella
seduta dei ministri si discusse, al solito, molto di affari esteri e poco di
quelli interni. Miceli lesse, in fretta, il riassunto della relazione
Alvisi-Biagini che, bisogna rilevarlo, non impressionò nessuno.
Scriverà,
nelle Memorie, Giolitti:
“La cosa
non era affatto di pertinenza mia… Ai ministri colleghi del Miceli non
competeva né il diritto né il dovere di entrare per conto proprio nella
questione; e noi tutti accogliemmo le conclusioni del ministro competente e
della cosa non si parlò più… Del resto, non conobbi la relazione particolare
del Biagini, assorbita per me, quale membro del gabinetto, dalla relazione
generale fatta dal ministro Miceli.”
Sembra,
tuttavia, che, in quello o in altro incontro ministeriale, Giolitti non si
limitasse ad ascoltare. Secondo una intervista, concessa da Francesco Crispi
nel bel mezzo dell’“affare”, avrebbe sostenuto, nel 1890, che “esistevano
fatti passibili di codice penale nella faccenda della Banca Romana”.
Per
ignoranza, per quieto vivere o per inganno, la discussione fu, comunque,
rinviata. Prima o dopo, certo, bisognava affrontare in modo organico la
questione delle banche. Ma, per adesso, era meglio soprassedere. Si doveva
pensare ad altro; alle crisi ministeriali, a esempio, che si susseguivano l’una
all’altra e alle elezioni.
Nel
1892, Giolitti diveniva presidente del consiglio, nonostante Crispi, richiesto
di un parere dal re, avesse detto di lui:
“Non ha
studi, non ha esperienza, non ha arte di governo, conosce appena l’amministrazione.”
Lo
stesso anno, nasceva il Partito Socialista Italiano; cosa che, unita agli
scioperi del Meridione, mise in agitazione i gruppi che avevano a cuore la “concordia
nazionale”.
Quando
il senatore Alvisi seppe della sua relazione, si guardò intorno e si chiese se
fosse quella l’Italia che, lui e altri patrioti risorgimentali avevano
immaginato mentre la mettevano insieme tanto faticosamente. Le stesse domande,
più o meno, si rivolgeva Biagini, trasferito d’ufficio con la moglie e le figlie
in diverse città della penisola.
Il
senatore Alvisi morì di crepacuore. Prima di andarsene, per mettersi del tutto
la coscienza in pace, inviò copia della propria inchiesta a Maffeo Pantaleoni
[1857-1924], un noto professore di economia.
Furono
alcuni intellettuali, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto [1848-1923], a
rilanciare l’“affare”.
Studiarono
la relazione Alvisi-Biagini. Si convinsero che, sottraendola all’opinione
pubblica, si sarebbero resi complici di una situazione che condannavano.
Consegnarono, pertanto, il materiale in loro possesso all’onorevole Napoleone
Colajanni, deputato siciliano di origine garibaldina e di tendenza socialista.
Colajanni
annunciò ai giornali che, nell’assemblea del 20 dicembre 1892, avrebbe
interrogato il presidente del consiglio sulla gestione delle banche, che,
stando a documenti “segreti” in suo possesso, doveva considerarsi assai
difettosa.
Qualcosa
di quanto stava per accadere era, intanto, giunta all’orecchio dei
parlamentari.
Lo
rivelano alcuni fatti.
Al
Senato, si criticarono le troppe nomine recenti.
“A
molte persone si è concesso un seggio,
solo perché non disturbassero altri nella lotta elettorale.”,
disse
il senatore Andrea Guarneri [1826-1914].
E, stranamente,
la nomina di Tanlongo, che si presentò, egualmente, in aula, non venne
ratificata.
Alla
Camera, i bene informati dissero che il privilegio di battere moneta,
riconosciuto a sei banche, sarebbe stato prorogato solo di tre mesi e non, come
si era detto, di sei anni.
Il
governo avrebbe, intanto, messo allo studio una riforma del sistema bancario e
aperto una inchiesta amministrativa sulla conduzione delle banche.
Il 19
dicembre, infatti, diede notizia della prossima nomina di una commissione
presieduta dal senatore Gaspare Finali [1829-1914], e il 20, ad apertura di seduta,
i deputati furono informati della proroga decisa dal presidente del consiglio.
Si era davanti, è chiaro, al tentativo di ostacolare un dibattito che,
ovviamente, avrebbe dato fastidio a molta gente.
Ma
Colajanni parlò egualmente.
Fece la
storia della relazione Alvisi- Biagini, nascosta nelle “segrete” del Ministero
dell’Agricoltura. Rivelò che documentava il modo disinvolto con cui Tanlongo
amministrava il danaro affidatogli: riserve mancanti; milioni “abusivi”, ossia
stampati e diffusi senza le garanzie d’obbligo; cambiali rinnovate da anni [“in
sofferenza”]; prestiti generosi concessi a privilegiati. Tra essi, lasciò
capire Colajanni, vi era Crispi.
“Sono
voci raccolte nelle strade e nei trivi.”,
gli
rispose il ministro Miceli, che definì “paternalistica” la gestione del “sor
Bernardo”.
“Perché,
se non avete nulla da temere, non pubblicate la relazione Alvisi-Biagini?”,
ribatté
Colajanni.
Il
motivo gli sembrava facile da intendersi: avrebbe rivelato “molte
compromissioni politiche”.
“Bisogna
nominare una inchiesta parlamentare composta da uomini insospettabili e
insospettati.”,
propose
Giovanni Bovio [1837-1903], popolare deputato napoletano.
“No,
non è il tempo per un comitato di salute pubblica.”,
lo
interruppe Crispi.
Giolitti
aderì alla tesi del suo predecessore. Il presidente del consiglio negò di avere
letto la relazione Alvisi-Biagini. Sostenne che, se esistevano scompensi nella
gestione delle banche, sarebbero venuti alla luce durante i lavori della
commissione amministrativa da affidarsi al senatore Finali. Intanto, come
chiesto dal governo, si doveva prorogare di tre mesi il privilegio di emettere
moneta riconosciuto alle sei banche “chiacchierate”.
La
proposta fu approvata da oltre 300 deputati. Voti contrari: meno di 30.
Le “ciarle
dei pettegoli e dei maligni”, invece di sgonfiarsi, accrebbero, dopo la
seduta del 20 dicembre.
Si
diceva che giornalisti governativi e deputati avessero ottenuto consistenti “omaggi”
da Tanlongo.
Ed era
vero!
Si
diceva che diversi notabili del regno dovessero rispondere di cambiali “in
sofferenza”.
Ed era
vero!
Si
diceva che il re, per favorire la propria amante, avesse spinto il “sor
Bernardo”, servendosi del “prefetto di palazzo” Rattazzi, a salvare dal
dissesto la Banca Tiberina, dove Eugenia
Attendolo Bolognini, duchessa Litta Visconti Arese [1837-1914] teneva il
suo danaro.
Ed era
vero!
Si
diceva che, lo stesso giorno della denuncia di Colajanni, Crispi avesse
ottenuto un altro prestito dalla Banca Romana.
Ed era
vero.
Si
aggiungeva che Umberto I avesse depositato, ricorrendo a Tanlongo come
intermediario, i propri risparmi alla Banca d’Inghilterra [la fuga di capitali
all’estero, si vede, non è scoperta recente!].
Ed era
probabile!
E, a
confermare i sospetti più gravi, accadevano in quelle settimane curiosi accadimenti
al personale direttivo delle banche.
Il 31
dicembre, Bernardo Tanlongo, cittadino non più al di sopra di ogni sospetto,
veniva nominato, con decreto regio, membro del comitato che doveva vigilare sul
debito pubblico.
Nel
gennaio del 1893, il commendatore Vincenzo Cuciniello, responsabile della sede
romana del Banco di Napoli, scompariva, trafugando 2 milioni e mezzo. Il
direttore napoletano veniva arrestato vestito da prete in una strada di Roma e,
in giugno, condannato a 10 anni di reclusione.
Poche
settimane dopo, a Palermo, il marchese Emanuele Notarbartolo, direttore del
Banco di Sicilia, veniva ucciso a colpi di pugnale. Pare fosse deciso a
rilasciare, alla commissione di inchiesta, importanti dichiarazioni.
Il 3
febbraio, il deputato Rocco De Zerbi – [giornalista, ufficiale distintosi nella
repressione della banda Crocco, sostenitore della opportunità di rinvigorire la
Nazione con “un tiepido fumante bagno di sangue”] –, fortemente sospettato di
avere ricevuto dei favori da Tanlongo, veniva “liberato” dalle garanzie
parlamentari e consegnato alla magistratura. Anziché deporre davanti al
giudice, avrebbe preferito il suicidio.
Antonio
Monzilli, proprio l’alto funzionario a suo tempo “protestato” dal senatore
Alvisi, veniva accusato di corruzione continuata, peculato e “concorso morale”
per avere taciuto quanto di sua conoscenza. Costretto al domicilio coatto,
fuggiva a Londra recando con sé 55mila lire avute in prestito da Tanlongo.
E dal
19 gennaio, il “neosenatore” era nelle mani della giustizia. Il “sor Bernardo”
veniva prelevato in ufficio e accompagnato dagli agenti, a casa sua. Qui, erano
sequestrati diversi documenti. Ma, si dice, non i più compromettenti. La moglie
di Tanlongo li avrebbe affidati al cardinale Vincenzo Vannutelli [1836-1930] che,
proprio al momento di ritirarli, si era affrettato a chiudere il conto corrente
del Vaticano presso la Banca Romana.
Per
impedire altre fughe di materiali – alcune lettere, pare, riguardassero il re –
Giolitti ordinò che gli fosse consegnata copia di ogni documento sequestrato. Veniva,
così, in possesso di “carte” che si riferivano a importanti uomini politici,
come Crispi, titolare di “cambiali in sofferenza”, fino dall’aprile del 1887.
“E,
adesso, da chi andranno a prendere i denari?”,
può
dire, e non a torto, Tanlongo mentre, in carrozza chiusa, lo portavano in
carcere. È la sua risposta alla folla che, durante il percorso, ha continuato a
urlargli del ladro.
Raccogliendo
una storiella, che correva nelle osterie, L’Asino,
il foglio satirico di ispirazione socialista, raccontava che Domenico Tiburzi,
famoso bandito del Viterbese, da qualche tempo non si faceva più vedere a Roma.
Temeva di essere derubato.
Margherita,
regina d’Italia, commentò:
“Quante
sconvenienti cose dicono quei radicali. Non capisco come tutti i benpensanti
non buttano le panche in testa a quei farabutti?”
Se non
con gli sgabelli, si oppongono, con il voto, all’offensiva dei deputati, che
pretendono siano chiariti i retroscena dello scandalo. Una nuova richiesta di nominare una
commissione parlamentare di inchiesta viene, così, respinta con 274 voti. Ma
gli oppositori sono, adesso, 154.
Fin
quando Giolitti, che il 26 gennaio viene invitato da Rattazzi a nome del re, a
negare il “comitato di salute pubblica”, potrà resistere?
Tra i
suoi avversari, si è schierato, perfino, Crispi che, si è detto, abbia molto da
nascondere. L’ex-presidente del consiglio attacca per primo, per scombinare i
piani dei presunti avversari. In una intervista alla Tribuna, rivela che, nel 1890, Giolitti sostenne che, nelle
faccende della Banca Romana, “esistevano fatti passibili di codice penale”.
E, in una successiva occasione, aggiunge che possiede, anche lui, dei dossiers ben forniti.
Giolitti
si difende abbastanza bene. Ricorda che la commissione Finali sta completando l’indagine
affidatale. Le sue segnalazioni hanno spinto l’autorità giudiziaria a
intervenire. Tanlongo e i suoi collaboratori – il figlio Pietro, Giovanni
Agazzi, Gaetano Bellucci-Sessa, Cesare Lazzaroni, Pietro Toccafondi, Lorenzo
Zammarano – sono in carcere. Si aspettino, quindi, le conclusioni di Finali e
del suo vice Martuscelli. Allora, se del caso, si aprirà una inchiesta
parlamentare che indaghi sulle eventuali responsabilità politiche nello
scandalo delle banche. L’atteggiamento indeciso di Giolitti fu molto discusso.
Palamidone, come era chiamato l’uomo politico da L’Asino, “tace per avere l’appoggio dei favoriti
delle banche”. Ma il presidente del consiglio era mosso, probabilmente,
da ragioni meno discutibili.
Scriverà
più tardi, nelle Memorie della mia vita:
“Due
timori gravissimi sorsero in me: il primo che un panico disastroso si spandesse
in Italia per tutti i biglietti di banca, unica nostra moneta, vigendo allora
il corso forzoso, col pericolo di un turbamento incalcolabile di tutta la vita
economica del nostro Paese; il secondo, che potesse esservi una circolazione
clandestina ancora maggiore di quella accertata… Al primo di questi pericoli
altro rimedio non v’era all’infuori di quello che pochi giorni dopo adottai,
facendolo poi approvare dal Parlamento, di dichiarare cioè che, trattandosi di
biglietti a corso legale, se ne rendeva garante lo Stato. Ma prima di fare tale
dichiarazione mi premeva di avere la certezza, per quanto era possibile averla,
che il male non fosse più grave di quello che dalle indagini compiute da
Martuscelli era risultato.”
I
risultati della commissione Finali sono conosciuti dal Parlamento il 20 marzo,
dopo poco più di due mesi dalla costituzione della stessa. Rivelano cose in parte
già note: la circolazione della Banca Romana, che doveva essere di 75 milioni,
è salita a 135. Esistono, cioè, 60
milioni “senza licenza”. Di essi, 40 portano numeri di serie di banconote già
in giro per l’Italia. Il vuoto di cassa è di 20 milioni. Questi espedienti
erano serviti a “inventare” denaro da distribuirsi, a titolo di regalo o di
prestito, a giornalisti governativi, a deputati amici, a ministri benevoli.
Accertano l’inganno, Giolitti stesso propone che si apra una inchiesta
parlamentare.
Il 22
marzo, viene nominata la commissione dei sette che, presieduta dall’onorevole Antonio
Mordini [1819-1902], lavorerà per diversi mesi e non scoprirà molto di più di
quanto avesse, già, rivelato la precedente.
L’“intervallo”
servì a creare alibi, convincere alleati riottosi, “costruire” documenti. Nel
tessere un’invischiante “tela di ragno”, abilissimo si rivelò, ancora una
volta, il “sor Bernardo”. Dal carcere, Tanlongo scriveva lettere, ora
insinuanti e ora commosse, ai vecchi beneficiati, ai conoscenti di buon cuore e
ai giudici inflessibili. In un biglietto al procuratore generale Domenico Bartoli,
confidava “di avere tenute segrete alcune “rivelazioni” per amore di patria”.
Sosteneva che “l’ammanco di cassa dovevasi
principalmente ad alcune operazioni ordinatemi da uomini di governo”.
Ben tre ministri lo avevano obbligato “ad acquistare titoli di rendita italiana
affinché essa non pericolasse perdendo, in tale disastrosa remissione
continuata, diversi milioni”.
L’unico
suo torto consisteva nel non avere rifiutato, fin dall’inizio, le sopraffazioni
dei governanti. Quando aveva accettato le redini della Banca Romana, già
esisteva un “vuoto di cassa che superava gli otto milioni”. Non si era
messo in tasca una lira, pur “somministrando ingenti somme a tutti i
presidenti del consiglio, dal compianto Depretis in poi”. E, a
ricompensa, “i veri colpevoli passeggiano impunemente per le città d’Italia e le
loro vittime sono nel reclusorio di Regina Coeli”. Ma, uomo religioso
com’era, sapeva portare la sua croce:
“Soffro,
pazientemente la sciagura che Iddio, servendosi di una camarilla, ha voluto
infliggermi, certo che egli permette le avversità convertendole poi in meriti
per le anime che sanno profittarne.”
Ma,
oltre alle spirituali, Tanlongo teneva molto anche alle benemerenze temporali.
In attesa del giudizio, faceva pubblicare le sue “carte segrete” – quelle,
sembra, trafugate in Vaticano: lettere di Vittorio Emanuele II, Crispi,
Giolitti e via dicendo.
Fu una
stagione dominata dalla corsa alle benemerenze. Il re dava, in aprile, feste
grandiose per i venticinque anni del suo matrimonio; alle celebrazioni
partecipò anche Guglielmo II [1859-1941], imperatore di Germania. Crispi
fondava, nella Sicilia turbata dalle rivendicazioni contadine, un sodalizio per
l’educazione militare del popolo, sostenendo che “solo se sa maneggiare le armi,
esso può dirsi forte”. E, in attesa di ciò, altri chiedevano a gran
voce di rafforzare l’esercito, dato che “togliendole il sangue e i nervi, l’Italia
potrebbe da un giorno all’altro essere invasa dall’una o dall’altra delle sue
frontiere, calpestata dallo straniero e condannata a pagare in un anno i
miliardi della sconfitta”.
Se
intoccabili erano i notabili, non altrettanto si poteva dire dei protestatari
umili. Dopo l’esplosione di una bomba davanti alla casa di Giolitti, in via
Cavour, furono arrestate decine di anarchici, gravemente sospetti, perché uno
di loro aveva gettato, nel marzo, un cartoccio di sterco contro la carrozza di
Umberto I. Un vetturino risultato estraneo al fattaccio, Pietro Ascenzi, fu
portato in questura e bastonato. Impazzito in seguito al digiuno e alle
percosse, venne chiuso in manicomio. La bomba, si disse nei circoli socialisti,
era stata fatta scoppiare da un confidente della polizia, Raul Santiangeli, che
“scritturato” dal delegato Raffaele Santoro, si era infiltrato nei circoli
anarchici.
Anche
Giolitti, che, intanto, aveva fatto approvare dal Parlamento un progetto di
legge per l’assorbimento nella Banca d’Italia dei sei istituti “chiacchierati”,
dovette adattarsi alla moda delle “pubbliche relazioni”. I suoi amici
organizzarono a Dronero un banchetto a pagamento in onore del presidente del
consiglio. I convitati si facevano pregare; sedersi alla tavola di Giolitti
voleva dire, in un certo qual modo, prendere le sue difese. Per settimane, i
giornali stamparono l’uno vicino all’altro, e non senza malizia, due elenchi.
Il primo riguardava gli aderenti al convivio che, spesso, negavano, poi, di
avere preso l’impegno. Il secondo riportava i nomi dei “beneficiati” di
Tanlongo: a Giolitti lire 60mila; allo stesso, lire 40mila; a Crispi…
A
Dronero, nel giorno stabilito, il banchetto si tenne lo stesso, e Giolitti
propose, in un importante discorso, un’imposta progressiva sul reddito.
Insomma,
i “compromessi”, che accrescevano la confusione e sfumavano le responsabilità
diffondendo “veline” e “libri bianchi”, memoriali e comunicati stampa,
lavorarono con maggiore alacrità dei componenti la commissione di inchiesta. Il
presidente Mordini era propenso a togliere, più che ad aggiungere, documenti al
suo, ormai voluminoso dossier. Rifiutò,
a esempio, certe carte portategli da Achille Fazzari, dicendogli che stavano
meglio “nelle mani di un patriota quale egli era”. A dirla in breve,
parve a molti che il comitato dei sette non si mostrasse “né abile né volenteroso nel
condurre a fondo la missione che gli era stata affidata”, come disse
Giolitti.
La
relazione finale, la cui lettura occupò cinque ore della seduta parlamentare
del 23 novembre 1893, deluse molti dei “moralizzatori”. Come scrisse più tardi
Colajanni, l’iniziatore dell’“affare”, “in alto si spaventarono e si cambiò
sistema. Iniziò la cernita dei documenti e l’opera di salvataggio”.
Comunque,
quel che rimase a galla era sufficiente a far giudicare, in modo severo, la
classe politica post-risorgimentale. Tre presidenti del consiglio “deplorati
per negligenza nell’esercizio delle loro funzioni”; alcuni ministri,
tra gli altri Bernardino Grimaldi [1839-1897], Pietro Lacava [1835-1912] e Luigi
Miceli, gravemente compromessi; impegolati in affari poco piliti decine di
deputati. Di alcuni, morti dopo le malefatte, si preferì tacere.
E
Giolitti?
La
relazione riferì che il presidente del consiglio aveva ricevuto in prestito da
Tanlongo 60mila lire. Gli erano servite, al tempo dei festeggiamenti genovesi
per la scoperta dell’America, a compensare i giornalisti che, sulla stampa
francese, si erano mostrati favorevoli all’Italia. La somma, tuttavia, era
stata restituita alla banca con i dovuti interessi. Secondo una dichiarazione,
in seguito sconfessata, del direttore della Banca Romana, avrebbe avuto altre
40mila lire durante la campagna elettorale. Non esisteva, tuttavia, alcuna
ricevuta o altro che confermasse tale versamento. La commissione, senza dare ascolto
a Giolitti, che negò sempre di avere ricevuto il secondo prestito, considerò “non
provata” l’accusa.
Se si
bada alle prove portate, risulta che il presidente del consiglio in carica,
certo responsabile di non essersi opposto alla candidatura al laticlavio di un
uomo “chiacchierato” come Tanlongo, era meno colpevole di altri suoi colleghi.
E, per favorire una discussione parlamentare sulle sue responsabilità, il
giorno 24, diede le dimissioni. Desiderava difendersi, spiegò, dal banco di
deputato. Ma il dibattito sulla “questione morale” non ebbe luogo. I politici
preferirono dedicarsi ad altre faccende. Il governo fu affidato, dopo un
tentativo di Zanardelli, proprio a Crispi che, capo di gabinetto al tempo della
relazione Alvisi-Biagini, doveva rispondere, più di altri suoi collaboratori,
di incuria e di omissione. Il vecchio politico, che aveva fama di vendicativo,
non perdonò mai al predecessore di non essersi addossato errori che gli
appartenevano soltanto in parte. Giolitti sarà incriminato durante una “sospensione”
della Camera voluta da Crispi.
Si
tentò, insomma, di fare pagare il conto a gente estranea o quasi all’“affare”.
Quattro funzionari di pubblica sicurezza, nel corso del processo a Tanlongo,
vennero accusati di avere trafugato delle lettere di un certo ministro, nelle
quali si ordinava al “sor Bernardo” di spendere milioni su milioni “per
la difesa della nostra Rendita sui mercati finanziari”. Era , ammise
più tardi un avvocato, “un espediente della difesa”.
Giolitti, che non fu, mai ascoltato, dai giudici, prese le parti dei quattro
accusati, negando, in un biglietto reso pubblico, di avere mai avuto i
documenti “perduti”. E, a scanso di dubbi, obbligò il presidente della camera,
assai restio ad accontentarlo, a prendere in custodia le “carte” rimaste in
mano sua. Alcune, e pare le più innocue, furono pubblicate. Ma, ormai, quasi
tutti desideravano seppellire lo scandalo, tanto che nessuno chiese, mai, come
fosse andata a finire la liquidazione della Banca Romana, che era stata
assorbita dalla Banca d’Italia.
Il “sor
Bernardo”, intanto, aveva incontrato sul suo cammino giudici comprensivi. Lo
mandarono assolto, come liberi erano, da mesi, gli altri funzionari della Banca
Romana. Gli accusatori, esclusi alcuni che si ostinarono a chiedere giustizia, fecero
quadrato. Abili nel punzecchiarsi, nelo scontrarsi, nel sorridersi, si
trovarono concordi nel bocciare la tassa progressiva sul reddito proposta da
Giolitti nel famoso banchetto di Dronero e, da lui, presentata all’approvazione
del Parlamento prima delle dimissioni.
Dell’intera
faccenda, con tutto quel parlare di cambiali “in sofferenza”, “corso forzoso” e
via dicendo, il popolino comprese poco. Ma, benché fosse privo di studi – metà
degli italiani era, allora, analfabeta –, impedito a votare, carente di lavoro,
dovette avere ben chiara una cosa:
“Qui,
sono tutti responsabili!”
Comprese
che, nel gran gioco di interessi e di favori, di accuse e di assoluzioni, non
pensavano, di sicuro, ai suoi bisogni.
Daniela
Zini
Copyright
© 25 gennaio 2016 ADZ
Lo storico francese Fernand-Paul-Achille Braudel spiega in Civilisation matérielle, économie
et capitalisme [XVe ‑ XVIIIe siècle] che Venezia, alla testa dei banchieri
fiorentini, genovesi e senesi, fu impegnata dall’inizio del XIII secolo a
distruggere le premesse su cui edificare uno Stato nazionale, le cui basi erano
state gettate da Federico II Hohenstaufen.
“Venezia
aveva deliberatamente imbrigliato tutte le economie circostanti, compresa
quella tedesca, al proprio tornaconto; ne traeva il suo reddito impedendo loro
di agire liberamente [...] Il XIV secolo registrò la creazione di un monopolio
così potente a vantaggio delle Città Stato italiane [...] che gli embrioni
degli Stati territoriali come Inghilterra, Francia e Spagna necessariamente ne
soffrirono le conseguenze.”
A questo si aggiunga l’intervento di
Venezia per impedire che Alfonso il Saggio succedesse a Federico II sul trono
imperiale.
Il trionfo del liberismo e il soffocamento
sul nascere degli Stati nazionali definisce il contesto della catastrofe del
XIV secolo. Solo un secolo più tardi, quando il Rinascimento dette vita agli
Stati nazionali, prima, quello di Luigi XI, in Francia, poi, in Inghilterra e
in Spagna, la popolazione europea sarebbe riuscita a sottrarsi alla barbarie e
alla involuzione demografica.
La differenza fondamentale tra allora e
ora è che allora non esistevano gli Stati nazionali. Non vi era un Governo
potenzialmente in grado di sottoporre il sistema bancario a una radicale
riorganizzazione, salvaguardando, al tempo stesso, la produzione reale con
nuove, esclusive emissioni di credito, mentre questo sarebbe, oggi, possibile,
qualora si riuscisse a esercitare pienamente la Sovranità nazionale. Allora
questa via di scampo non esisteva e, di conseguenza, la popolazione finì per
essere decimata. Si calcola che nel periodo, che va tra il 1300 e il 1450, la
popolazione europea si ridusse del 35-50%, mentre quella mondiale si ridusse
del 25%.
“15 Andarono intanto
a Gerusalemme. Ed entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano
e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei
venditori di colombe 16 e
non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio. 17 Ed insegnava loro
dicendo: “Non sta forse scritto: La
mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece
ne avete fatto una spelonca di ladri.”
18 L’udirono i sommi
sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti
paura di lui, perché tutto il popolo era ammirato del suo insegnamento. 19 Quando venne la
sera uscirono dalla città.”
Vangelo
secondo Marco 11,15-19
“12 Gesù entrò poi
nel tempio e scacciò tutti quelli che vi trovò a comprare e a vendere; rovesciò
i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe 13 e disse loro: “La
Scrittura dice: La mia casa sarà
chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri.”
14 Gli si avvicinarono
ciechi e storpi nel tempio ed egli li guarì. 15 Ma i sommi sacerdoti e gli scribi,
vedendo le meraviglie che faceva e i fanciulli che acclamavano nel tempio:
“Osanna al figlio di Davide”, si sdegnarono 16 e gli dissero: “Non senti quello che
dicono?” Gesù rispose loro: “Sì, non avete mai letto: Dalla bocca dei bambini e dei lattanti ti sei procurata una lode?”
17 E, lasciatili, uscì fuori
dalla città, verso Betània, e là trascorse la notte.”
Vangelo
secondo Matteo 21,12-17
“45 Entrato
poi nel tempio, cominciò a cacciare i venditori, 46 dicendo: “Sta
scritto: La mia casa sarà casa di
preghiera. Ma voi ne avete fatto una
spelonca di ladri!”
47 Ogni giorno insegnava nel
tempio. I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire e così anche i
notabili del popolo; 48 ma
non sapevano come fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue parole.”
Vangelo
secondo Luca, 19,45-48
“17Mentre
andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio
davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in
eredità la vita eterna?” 18Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono?
Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non
rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre.” 20Egli
allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia
giovinezza.” 21Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli
disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e
avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!” 22Ma a queste parole
egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti
beni.
23Gesù,
volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto è difficile, per
quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!” 24I
discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro:
“Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! 25È più facile
che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di
Dio.” 26Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: “E chi può
essere salvato?” 27Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse:
“Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio.”
28Pietro
allora prese a dirgli: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito.”
29Gesù gli rispose: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia
lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa
mia e per causa del Vangelo, 30che non riceva già ora, in questo
tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi,
insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà.”
Vangelo
secondo Marco, 10, 17-30
Ecclesiaste
o Qoelet, 3, 1-9
Libro
di Siracide o Ecclesiatico, 31, 6
Alchimista e mago, Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim [1486-1535] riuscì a
sfuggire all’Inquisizione. Nella sua opera più importante, De occulta
philosophia, scritta nell’arco di circa venti anni, dal 1510 al 1530: la
filosofia occulta è la magia, considerata “la
vera scienza, la filosofia più elevata e perfetta, in una parola la perfezione
e il compimento di tutte le scienze naturali”.
President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria
Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be
here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an
article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the
burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New
York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace
Greeley, employed as its London
correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone
broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing
editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per
instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest
petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx
looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating
his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the
cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism,
revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more
kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have
been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the
next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the
expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight
“The President and the Press.” Some may suggest that this would be more
naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my
sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat
from another country demanded recently that our State Department repudiate
certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply
that this Administration was not responsible for the press, for the press had
already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to
deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in
recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the
press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or
defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly
beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these
conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the
courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine
the proper degree of privacy which the press should allow to any President and
his family.
If in the last few months your White House reporters
and photographers have been attending church services with regularity, that has
surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire
service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green
privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do
to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did
he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to
publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in
the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to
illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have
loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the
future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping
either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our
security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere
of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two
requirements of direct concern both to the press and to the President - two
requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be
reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first,
to the need for a far greater public information; and, second, to the need for
far greater official secrecy.
I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and
open society; and we are as a people inherently and historically opposed to
secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long
ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent
facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today,
there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating
its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the
survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very
grave danger that an announced need for increased security will be seized upon
by those anxious to expand its meaning to the very limits of official
censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that
it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is
high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an
excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to
withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every
newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the
nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press
have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to
prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present
danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First
Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce
the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our
way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing
around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has
been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles
have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before
it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that
no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a
finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has
never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics,
a change in missions - by the government, by the people, by every businessman
or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by
a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for
expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on
subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on
guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has
conscripted vast human and material resources into the building of a tightly
knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic,
intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its
mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised.
No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It
conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would
ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary
restraints of national security - and the question remains whether those
restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of
attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s
foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they
would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage;
that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert
operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike;
that the size, the strength, the location and the nature of our forces and
weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in
the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign
power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning
a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at
the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal,
patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare,
they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of
open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of
national security. And my question tonight is whether additional tests should
not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public
official should answer it for you. No governmental plan should impose its
restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation,
in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the
means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem
to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your
newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every
citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every
citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common
good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper
business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of
War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms
of censorship or any new types of security classifications. I have no easy
answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I
had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the
industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider
the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of
self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every
story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the
interest of the national security?” And I hope that every group in America -
unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same
question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting
tests.
And should the press of America consider and recommend the
voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that
we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps
there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold
and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any
action that results, are both painful and without precedent. But this is a time
of peace and peril which knows no precedent in history.
II
It is the unprecedented nature of this challenge that
also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And
that is our obligation to inform and alert the American people - to make
certain that they possess all the facts that they need, and understand them as
well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices
that we face.
No President should fear public scrutiny of his
program. For from that scrutiny comes understanding; and from that
understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not
asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help
in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I
have complete confidence in the response and dedication of our citizens
whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your
readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its
errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until
you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our
errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration
and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the
Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from
controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment -
the only business in America specifically protected by the Constitution - not
primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the
sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to
arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our
crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public
opinion.
This means greater coverage and analysis of
international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand
and local. It means greater attention to improved understanding of the news as
well as improved transmission. And it means, finally, that government at all
levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible
information outside the narrowest limits of national security - and we intend
to do it.
III
It was early in the Seventeenth Century that Francis
Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the
compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations
first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes
and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one
world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate
limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder
of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we
look for strength and assistance, confident that with your help man will be
what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik
“Non
è stato donnaiolo, non ha mai giocato, è agli antipodi di ogni eleganza, la sua
frugalità rassomiglia da vicino all’ avarizia.”,
Nessun commento:
Posta un commento