“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 17 gennaio 2016

FONDAMENTALISMO, INTEGRALISMO, FANATISMO II. IL CULTO DEL SACRIFICIO DAI KAMIKAZE AI JIHADISTI di Daniela Zini



FONDAMENTALISMO
INTEGRALISMO
FANATISMO
 “Voi non potete dubitare delle cose in cui credete, 
io debbo.”
Ipazia di Alessandria [… - 415 d.C.]



A Te, Bambino di Madaya
di cui, ignoro il nome, ma non dimentico il volto…
Io continuerò a cercarTi…  fintanto che io non  Ti avrò trovato… 



Jihadisti,
grazie a voi, io comprendo, oggi, ciò che mi lega a questo mio vecchio Paese, l’Italia.
Ho vissuto qui e là e mi ero, ormai, rassegnata a considerarmi una Donna dalle suole di vento…
Una Donna malata di nomadismo… ma libera di scegliere il proprio Paese, come si decide un albergo.
La mia capitale, poteva essere Parigi, Mosca, perfino, Tehran.
Giudicavo Roma provinciale.
Debbo confessarvelo, jihadisti, l’Ilalia non era abbastanza per me.
La sua eccezionalità, annegata nella normalità europea, mi innervosiva.
Eppure, mi dicevano i miei Amici, tuo Padre ha indossato l’uniforme della Marina Militare?
Saresti tu pronta ad abbandonare a chicchessia una Terra per la quale tuo Padre ha sfiorato, più volte, la morte?
Come molte Donne e molti Uomini della mia generazione, queste querelles mi sembravano Preistoria.
Sangue perso!
Ridicolo, ieri, questo orgoglio patriottico è, oggi, sensato.
È che io ho compreso bene il vostro messaggio, jihadisti.
Nei vostri comunicati di guerra, voi vi vantate di avere massacrato, a colpi di kalashnikov, civili disarmati.
Quale gloriosa azione armata, in verità!
Voi credete di avere seminato il panico nell’Occidente, che vi fa orrore, perché è la Terra delle Libertà, che voi vi ostinate a propagandare come peccaminose licenziosità…
Libertà di pensare, Libertà di credere e, perfino, Libertà di non credere…
Da non credere!
Sì, da noi, Donne e Uomini, fino a nuovo ordine, camminano, fianco a fianco, nelle strade, e si siedono agli stessi tavoli dei bar e dei ristoranti.
I nostri sguardi si incrociano per una Libertà, che gli ipocriti della vostra specie condannano come sfrontatezza.
I nostri volti non sono coperti, perché l’esperienza altrui prende la forma del viso, come ci ha insegnato Leonardo da Vinci.
È nelle nostre Università, molto antiche, che si è sviluppato lo spirito critico, che vi fa così paura, perché temete che dissipi le tenebre del vostro oscurantismo.
Noi siamo una Nazione di individui, fieri della loro emancipazione, ma anche pronti a condividerla con tutti coloro che intendano unirsi a noi, senza distinzione di religione o di colore.
Noi siamo i Figli di Cecco d’Ascoli, di Galileo Galilei e di Giordano Bruno ed è per questo che noi sottoponiamo ogni credo alla prova della ragione, ogni potere alla prova della critica.
Ai nostri occhi, nessuna potenza terrena può vantare una origine divina.
Questa Libertà di critica, di schernimento, noi la abbiamo guadagnata, armi in pugno,  con le rivoluzioni.
Di quanto ottenuto, nulla da negoziare.
Prendere o lasciare!
Per tutte queste ragioni, per Cecco d’Ascoli, per Leonardo da Vinci, per Galileo Galilei, per Giordano Bruno, per Sandro Pertini, io mi sento, d’improvviso, fiera di essere Italiana. 
Voi credete di sottometterci con il terrore, vi sbagliate.
Voi correte gravi rischi, prendendo la nostra tolleranza per debolezza.
Noi respingiamo la violenza e stentiamo a rispondere alle provocazioni; ma sappiate che, nel Passato, abbiamo affrontato nemici ben più temibili delle vostre orde miserevoli.
E le abbiamo vinte.
Con le vostre provocazioni sanguinarie, voi ci avete riarmato moralmente.  
È una buona cosa!
È perché la paura cambierà di campo.
Siete avvertiti.  

Roma, 17 gennaio 2016

Daniela Zini

 

FONDAMENTALISMO, INTEGRALISMO, FANATISMO
I. ALTERITA’, UMANITA’, FRATERNITA’
di Daniela Zini






Il fondamentalismo nasce dalla pretesa di ritenersi depositari della verità, e di avere, in ogni caso, una ragione da imporre ad Altri. In questo senso, non è solo religioso, o confinato ad alcune zone del Pianeta. Accanto al Fondamentalismo religioso compaiono, anche, nella nostra decadente società “evoluta”, diversi altri “Fondamentalismi”, che rappresentano, al pari dei Fondamentalismi religiosi, squilibrate esasperazioni di situazioni, ideologie e, perfino, rivendicazioni:
-       un Fondamentalismo scientifico [lo scientismo], per cui solo la scienza ha un valore teoretico;
-     un Fondamentalismo ateo, per cui tutti i credenti altro non sono che fessi;
-    un Fondamentalismo capitalista, per cui le leggi del libero mercato sono imprescindibili leggi di natura, cui non si può non assoggettarsi;
-     un Fondamentalismo proletario, per cui chiunque possieda qualcosa “deve” necessariamente averla rubata;
-  un Fondamentalismo eterosessuale, che ha in odio gli omosessuali;
-  un Fondamentalismo omosessuale, per cui omosessuale è meglio;
-    un Fondamentalismo femminista, il cui recondito ideale è il ritorno alla ginecocrazia;
e così via...
Ovunque vi sia una idea, o anche una giusta rivendicazione, esiste anche la sua esasperazione fondamentalista.
Il problema è, quindi, molto complesso ed è radicato nell’animo umano, di sua natura tendente – almeno, finora – alla sopraffazione, anziché all’Amore, alla Eguaglianza e alla Fratellanza.
Personalmente, sono un fondamentalista del dialogo e della buona educazione.
Credere non è sapere.
Alla domanda se Dio esista, io non posso non rispondere:
“Io non so!”
L’impostura inizia quando si dice:
“Io so!”
“Io so che Dio esiste e mi ha detto di fare ciò!”,
Quando la fede si confonde con il sapere, porta, inevitabilmente,  odio.

Daniela Zini
 


Liberté
Paul Eluard

Sur mes cahiers d’écolier
Sur mon pupitre et les arbres
Sur le sable, sur la neige,
J’écris ton nom

Sur toutes les pages lues
Sur toutes les pages blanches
Pierre, sang, papier ou cendre,
J’écris ton nom

Sur les images dorées
Sur les armes des guerriers
Sur la couronne des rois,
J’écris ton nom

Sur la jungle et le désert
Sur les nids, sur les genêts
Sur l’écho de mon enfance,
J’écris ton nom

Sur les merveilles des nuits
Sur le pain blanc des journées
Sur les saisons fiancées,
J’écris ton nom

Sur tous mes chiffons d’azur
Sur l’étang soleil moisi
Sur le lac lune vivante,
J’écris ton nom

Sur les champs, sur l’horizon
Sur les ailes des oiseaux
Et sur le moulin des ombres,
J’écris ton nom

Sur chaque bouffée d’aurore
Sur la mer, sur les bateaux
Sur la montagne démente,
J’écris ton nom

Sur la mousse des nuages
Sur les sueurs de l’orage
Sur la pluie épaisse et fade,
J’écris ton nom

Sur les formes scintillantes
Sur les cloches des couleurs
Sur la vérité physique,
J’écris ton nom

Sur les sentiers éveillés
Sur les routes déployées
Sur les places qui débordent,
J’écris ton nom

Sur la lampe qui s’allume
Sur la lampe qu s’éteint
Sur mes maisons réunies,
J’écris ton nom

Sur le fruit coupé en deux
Du miroir et de ma chambre,
Sur mon lit coquille vide
J’écris ton nom

Sur mon chien gourmand et tendre
Sur ses oreilles dressées
Sur sa patte maladroite,
J’écris ton nom

Sur le tremplin de ma porte
Sur les objets familiers
Sur le flot du feu béni,
J’écris ton nom

Sur toute chair accordée
Sur le front de mes amis
Sur chaque main qui se tend,
J’écris ton nom

Sur la vitre des surprises
Sur les lèvres attentives
Bien au-dessus du silence,
J’écris ton nom

Sur mes refuges détruits
Sur mes phares écroulés
Sur les murs de mon ennui,
J’écris ton nom

Sur l’absence sans désir
Sur la solitude nue
Sur les marches de la mort,
J’écris ton nom

Et par le pouvoir d’un mot
Je recommence ma vie
Je suis né pour te connaître,
Pour te nommer

Liberté.




Je défendrai mes opinions jusqu’à ma mort, mais je donnerai ma vie pour que vous puissiez défendre les vôtres.
Francois-Marie Arouet, nom de plume Voltaire

Dans l’Antiquité, un philosophe n’est pas nécessairement, comme on a trop tendance à le penser, un théoricien de la philosophie. Un philosophe, dans l’Antiquité, c’est quelqu’un qui vit en philosophie, qui mène une vie philosophique.
Caton le Jeune, homme d’Etat du I siècle av. J. C., est un philosophe stoïcien et pourtant il n’a rédigé aucun écrit philosophique.
Rogatius, homme d’Etat du III siècle ap. J. C., est un philosophe platonicien, disciple de Plotin, et pourtant il n’a rédigé aucun écrit philosophique.
Mais tous deux se considéraient eux-mêmes comme des philosophes, parce qu’ils avaient adopté le mode de vie philosophique.
Et que l’on ne dise pas que c’étaient des philosophes amateurs. Aux yeux des Maîtres de la philosophie antique, le philosophe authentique n’est pas celui qui disserte sur les théories et commente les auteurs.
Comme le dit Epitècte:
Mange comme un homme, bois comme un homme, habille-toi, marie-toi, aie des enfants, mène une vie de citoyen… Montre-nous cela, pour que nous sachions si tu as appris véritablement quelque chose des philosophes. 
Le philosophe antique n’a donc pas besoin d’écrire. Et, s’il écrit, il n’est pas nécessaire non plus qu’il invente une théorie nouvelle, ou qu’il développe telle ou telle partie d’un système. Le philosophe antique n’a rien à voir avec nos philosophes contemporains, qui s’imaginent que la philosophie consiste, pour chaque philosophe, à inventer un nouveau discours, un nouveau langage, d’autant plus original qu’il sera plus incompréhensible et peu artificiel. Le philosophe antique, d’une manière générale, se situe dans une tradition et se rattache à une école. Epictète est stoïcien. Cela veut dire que son enseignement va consister à expliquer les textes des fondateurs de l’école, Zénon et Chrysippe, et surtout à pratiquer lui-même et à faire pratiquer par ses disciples le mode de vie propre à l’école stoïcienne. Cela ne veut pas dire pourtant qu’il n’y aura pas des caractéristiques propres à l’enseignement d’Epictète. Mais elles ne modifieront pas les dogmes fondamentaux du stoïcisme ou le choix de vie essentiel; elles se situeront plutôt dans la forme de l’enseignement, dans le mode de présentation  de la doctrine, dans la définition de certains points particuliers ou encore dans la tonalité, la coloration particulière qui imprégnera le mode de vie stoïcienne proposé par le philosophe.
Le stoïcisme est une philosophie de la cohérence avec soi-même. Cette philosophie se fonde sur une remarquable intuition de l’essence de la vie. D’emblée, dès le premier instant de son existence, le vivant est instinctivement accordé a lui-même: il tend à se conserver lui-même et à aimer sa propre existence et tout ce qui peut la conserver. Cet accord instinctif devient accord moral avec soi, lorsque l’homme découvre par sa raison que c’est le choix réfléchi de l’accord avec soi, que c’est l’activité même du choix qui est la valeur suprême et non les objets sur lesquels porte l’instinct de conservation. C’est que l’accord volontaire avec soi coïncide avec la tendance de la Raison Universelle, qui non seulement fait de tout être vivant un être accordé à lui-même, mais du monde entier lui-même un vivant accordé à lui-même.
Comme le dira Marc Aurèle:
Tout ce qui est accordé avec toi est accordé avec moi, ô Monde.
Et la société humaine, la société de ceux qui participent à un même logos, à une même Raison, forme en principe, elle aussi une Cité Idéale, dont la Raison, la Loi, assure l’accord avec elle-même. Il est bien évident enfin que la Raison de chaque individu, dans l’enchaînement des pensées ou des paroles, exige la cohérence logique et dialectique avec elle-même. Cette cohérence avec soi est donc le principe fondamental du stoïcisme.
Pour Sénèque, toute la sagesse se résume dans la formule:
Toujours vouloir la même chose, toujours refuser la même chose.
Il n’est pas besoin d’ajouter, continue Sénèque, la toute petite restriction:
A condition que ce que l’on veut soit bon moralement.,
car, dit-il,
La même chose ne peut universellement et constamment plaire que si elle est moralement droite.
Le sage stoïcien est lui aussi l’égal de Dieu, Dieu qui n’est autre que la Raison Universelle, produisant en cohérence avec elle-même tous les événements cosmiques. La Raison Humaine est une émanation, une partie de cette Raison Universelle. Mais elle peut s’obscurcir, se déformer par suite de la vie dans le corps, par l’attrait du plaisir. Seul le sage est capable de faire coïncider sa raison avec la Raison Universelle. Mais cette coïncidence parfaite ne peut être qu’un idéal. Le sage est nécessairement un être d’exception; il y en a très peu, peut-être un, ou même pas du tout.
La philosophie n’est pas la sagesse, elle est seulement l’exercice de la sagesse et le philosophe n’est pas un sage, il est donc un non-usage.
La philosophie stoïcienne a donc pour but, comme projet, comme objet, de permettre au philosophe de s’orienter dans l’incertitude et la vie quotidienne en proposant des choix vraisemblables, que notre raison peut approuver, sans qu’elle ait toujours la certitude de bien faire. Ce qui compte, ce n’est pas le résultat ou l’efficacité, c’est l’intention de bien faire. Ce qui compte, c’est de n’agir qu’avec un seul motif: celui du bien moral, sans autre considération d’intérêt ou de plaisir.
C’est là la seule valeur, l’unique nécessaire.
Ma petite D, la philosophie te fournira le fond, la rhétorique, la forme de ton discours [Fronton].
me répétait mon Père.
Mon père n’a jamais été pour moi la personnification du pouvoir, de la force et de l’autorité. C’est pour cela que je l’aimais. Le calcul différentiel et intégral n’a jamais semblé convenir à sa personnalité. Mais peut-être étais-je victime du vieux préjugé selon lequel les mathématiques sont une science aride et le mathématicien un homme d’une autre espèce. Je n’arrivais absolument pas à comprendre comment cet homme ardent et timide pouvait avoir le moindre point commun avec les théorèmes de Pythagore ou avec le binôme de Newton. Tout cela ne m’intéressait pas à cette époque. Il aimait trouver en moi les qualités féminines et n’essayait jamais de les rabaisser ni de les ignorer.
Il était pour moi la grande personne autour de laquelle tournait la mécanique de la vie.
J’aimais sa perplexité devant mon indépendance précoce.
Puisque son fils était irrémédiablement d’un autre monde, avec une autre philosophie de la vie, une autre morale, alors pourquoi cette petite fille si avide d’apprendre et de comprendre ne serait-elle pas son héritière véritable, l’héritière de ses ruptures et de sa liberté, de son esprit indépendant, de sa culture, de son cosmopolitisme et de son non-conformisme?
Elle avait eu la chance d’échapper à l’Amour des mères, qui tendait à ramener les filles du côté de la tradition et de la passivité.
En serait-elle moins femme?
La question ne préoccupait pas mon Père. Il n’aurait su dire ce que devait être une femme.
Une fille sage ou une rebelle à l’humeur imprévisible?
Antigone, Phèdre, Marguerite de Navarre ou la Princesse de Clèves?
Mon Père, si plein de préjugés à l’égard des femmes, ne pensait pas en ces termes quand il songeait à l’avenir de sa fille. Aux yeux de cet homme qui répétait sans cesse que rien d’humain ne devrait nous être étranger, l’âge et le sexe n’étaient que des contingences secondaires.
Si elle le souhaitait, il l’aiderait à devenir, elle, un individu libre.
Elle serait son prolongement.
Elle le suivrait et continuerait, accomplissant ce qu’il n’avait pu mener à bien.
Elle ne se soucierait pas d’entretenir et de faire prospérer le patrimoine, de perpétuer le nom.
Elle serait quelqu’un, c’est-à-dire quelqu’un d’autre, radicalement.  
Il n’aurait osé rêver que je suivisse sa pente à lui, au moins pour ce qui était du nomadisme – on n’est bien qu’ailleurs – et de la liberté solitaire. Et pourtant je l’ai fait, y ajoutant, certes, une forme de conjugalité et une obstination au travail qu’il eût prise, peut-être, pour un acharnement excessif.
Sa mort a été une disparition, non un abandon.
Je n’ai pas eu à me libérer des suites d’une éducation bourgeoise comme Louis Aragon ou Jean-Paul Sartre. J’ai grandi en France à une époque où l’on savait que le vieux monde allait, de toute façon, à sa perte. Personne ne défendait sérieusement les anciens principes, du moins pas dans mon milieu. La contestation était l’air que nous respirions, elle a nourri mes premières vraies émotions. Beaucoup plus tard seulement, à l’âge de vingt ans, j’ai su que j’appartenais de par ma naissance à la bourgeoisie. Je ne me sens absolument pas liée à elle. En tant que classe social, elle a toujours éveillé en moi cependant plus de curiosité et d’intérêt que les débris de l’aristocratie et au moins autant que la classe ouvrière. Mais c’est de l’Intelligentsia, déclassée ou non, que je me sens la plus proche. Me sont étrangers, par contre, ceux qui détiennent le pouvoir, les dictateurs, les triumvirs, les hommes à qui on rend un culte, ceux qui y aspirent, les rois de tout poil. A ces dinosaures, je préfère encore les requins, au sens propre et figuré.  
Ce qui m’intéresse, ce n’est pas la dimension horizontale de notre existence, les préoccupations de la vie quotidienne auxquelles nous sommes tous confrontés, mais sa dimension verticale, intellectuelle. Peu de gens y accédaient autrefois et de ce fait en avaient mauvaise conscience. A présent, ce n’est plus le cas: il suffit de vouloir lire, réfléchir et savoir. Comme l’a dit Karl Jaspers, point n’est besoin d’apprendre à éternuer ou à tousser, mais la raison, elle, se cultive, car ce n’est pas une simple fonction organique.   
Etre philosophe, ce n’est pas avoir reçu une formation philosophique théorique, ou être professeur de philosophie, c’est, après une conversion qui opère un changement radical de vie, professer un mode de vie différent de celui des autres hommes. On considère souvent les conversions comme des événements qui se produisent instantanément dans des circonstances inattendues. Et l’histoire abonde en anecdotes de ce genre: Polémon entrant par hasard, après une nuit de débauche, au cours du philosophie platonicien Xénocrate, Augustin entendant la voix d’un enfant disant Prends et lis, Saül terrassé à Damas.
Entre parenthèses, il ne serait pas du tout intéressant de connaître, dans tous ses détails, la manière dont s’est déroulée ma conversion à la philosophie.
Bien de points restent encore inconnus pour moi-même.
Pourtant, douée d’une extraordinaire faculté d’imagination qui me faisait embrasser et comprendre ce que mes yeux ne pouvaient me montrer, dès mon enfance j’ai entrevu ce que pouvait être l’idéal d’une vie philosophique.
L’imagination, cette Magie Sympathique aide à comprendre les arguments d’un interlocuteur, à ressentir la souffrance de l’Autre, quelque soit cet Autre.
Cette faculté à se transporter en pensée à l’intérieur de quelqu’un amène bien sûr à s’ouvrir à d’autres idées, à vivre d’autres expériences. Je ne renonce jamais à un Etre que j’ai connu, et assurément pas à mes personnages.
Je les vois, je les entends, avec une netteté que je dirais hallucinatoire si l’hallucination n’était autre chose, une prise de possession involontaire.
C’est ce que les sages hindous appellent l’attention.
Nul doute que cette attention, cette propension à se mettre à la place de l’Autre en faisant abstraction de soi, a joué un rôle de première importance dans ma grande ouverture d’esprit face aux Athéismes comme aux Religions, aux Politiques comme aux Philosophies.
Les personnes qui ont accompagné ou croisé ma vie n’ont été vraiment aimées par moi que quand j’en ai fait des personnages, des figures à mi-chemin entre le réel et la fiction  - avant même de leur assigner une place dans mon univers littéraire –, puis quand j’ai commencé à les décrire, à les écrire.
Profondément, de ma vie ne m’intéresse que ce qui peut être prétexte à reconstruction littéraire.

La vie d’un homme est son image… On peut dire alors ceci que j’entrevois comme une sincérité renversée [de l’artiste]: il doit, non pas raconter sa vie telle qu’il a vécue, mais la vivre telle qu’il la racontera. Autrement dit: que le portrait de lui que sera sa vie, s’identifie au portrait idéal qu’il souhaite; et, plus simplement, qu’il soit qu’il se veut.
André Gide, Journal, 3 janvier 1892

Restituer, réinterpréter mes lignes maternelles et paternelles, mon enfance et mon adolescence m’a passionnée.  
Très peu d’adultes se laissent habiter par des Etres en leur donnant autant d’importance qu’ils s’en donnent à eux-mêmes. Cette magnifique façon d’appréhender le monde de l’intérieur, à l’instinct, est le propre des enfants.
Si les adultes s’en souvenaient, ils éviteraient de proférer certaines stupidités: éviteraient bien de stupidités!

D


II. LA FOLLIA DI CREDERE
 il culto del sacrificio
dai kamikaze ai jihadisti




“Chi ha delle estasi, delle visioni, chi scambia i sogni per la realtà è un entusiasta. Chi sostiene
la propria follia con l’omicidio è un fanatico.”
Voltaire





Questo reportage non vuole coprire una attualità in modo “classico”; ma servire da pretesto per sollevare interrogativi attuali, invitando ognuno alla riflessione e alla discussione intorno a una realtà socio-politica o mediatico-culturale.
La glorificazione del sacrificio ultimo non è un fenomeno nuovo.
Dai legionari spagnoli, che si pavoneggiavano con i loro ¡Viva la muerte!, passando per i kamikaze giapponesi, che non ebbero scelta e si sacrificarono tristemente; proseguendo per i portatori di bomba, che da vivi sono terroristi e da morti martiri; per finire con i jihadisti, che si recano in un Paese che non conoscono, a combattere persone che non li minacciano, per idee che conoscono appena, ma strombazzano con forza; questi personaggi, prima di essere armi di distruzione sono, innanzitutto, armi di propaganda per poco che accettino di morire, urlando le proprie convinzioni.
In questi ultimi tempi, le società occidentali e le comunità musulmane sono state confrontate a un fenomeno finora poco sviluppato, quello di giovani, sovente adolescenti, talvolta convertitisi di recente all’islam, impazienti di partire per il jihad. 
Come è possibile che giovani, che hanno la vita dinanzi a sé, rivendichino di andare a combattere per un Paese che è loro sconosciuto e, perfino, di desiderare la morte per entrare nel pantheon dei martiri?
Quali possono essere le loro motivazioni?
È una particolarità dell’islam accendere queste vocazioni di purezza guerriera?
Perché questi adolescenti a disagio nella loro pelle, si scoprono all’improvviso una vocazione da martire[1]?
Il mio intento è di dimostrare che questi apprentis guerriers prima di essere armi di distruzione sono, innanzitutto, armi di propaganda.
Credono di morire per un ideale e non muoiono che per una mistificazione.
Le motivazioni che sembrano animarli, un mix di coraggio, di abnegazione, di desiderio di purezza e di sacrificio, di ideale religioso, di desiderio di morte, si possono ritrovare in numerosi regimi totalitari attraverso la Storia.  
L’esperto americano Robert Anthony Pape [https://www.youtube.com/watch?v=X4HnIyClHEM, https://www.youtube.com/watch?v=XwODYq63ku0, https://www.youtube.com/watch?v=jPhDVigmGQ4, https://www.youtube.com/watch?v=VD7hdRcapYM, http://www.danieldrezner.com/research/guest/Pape1.pdf] elenca 186 attentati suicidi, che hanno toccato, nel 2003, Libano, Israele,  Sri Lanka, India, Pakistan, Afghanistan, Yemen, Turchia, Algeria,  Russia e Stati Uniti e ne conta 31 negli anni 1980; 104 negli anni 1990 e 53 nei soli anni 2000 e 2001; indicando, così, una progressione costante di questo tipo di attentato. Dal 2000 al 2004, vi sono stati 472 attentati suicidi, in 22 Paesi, che hanno ucciso più di 7mila persone. I detentori del record erano, all’inizio degli anni 2000, le Tigri Tamil dello Sri Lanka con 75 attentati suicidi su 186, dal 1980 al 2001.
Vi propongo di affrontare questo fenomeno attraverso quattro esempi della nostra Storia recente:
-          la Legione Spagnola, che, nel 1936, si appropria del grido di raduno ¡Viva la muerte!;
-          i kamikaze, glorificati come eroi, che, negli anni 1944 e 1945, debbono accettare di morire per evitare il disonore al Giappone e all’imperatore; 
-          i portatori di bomba – Tigri Tamil, palestinesi, ceceni, turchi – che si fanno esplodere nei luoghi frequentati o su bersagli precisi;
-          i jihadisti, ultimi avatars, in questa promozione della morte, che sono mostrati come shahid, martiri.
 
1. La Legione Spagnola:
 ¡Viva la muerte! era il grido della Legione Spagnola [https://www.youtube.com/watch?v=S0JNzCJ8e_A], fondata dal generale José Millán-Astray y Terreros. Il 12 ottobre 1936, durante l’apertura dell’anno accademico, che coincideva con la celebrazione del Día de la Raza [Giorno della Razza], l’attuale Día de la Hispanidad, nel Paraninfo [Sala degli Atti] dell’Università, il generale José Millán-Astray y Terreros rilanciava quel grido:
¡Muerte a la inteligencia, viva la muerte!,
contro il filosofo basco Miguel de Unamuno y Jugo, rettore dell’Università, il quale, quello stesso giorno, in una critica durissima alla sollevazione militare, pronunciava un discorso profetico:

“Io ho, appena, sentito un grido necrofilo e insensato: Viva la Morte! E io che ho passato la mia vita a inventare paradossi, che suscitavano l’indignazione di coloro che non li comprendevano, debbo dire, in qualità di esperto, che questo paradosso barbaro è per me ripugnante.
Il generale Millán-Astray è un invalido, diciamolo senza reticenze. È invalido di guerra. Anche Cervantes lo era. Sfortunatamente, vi sono, oggi, in Spagna, troppi invalidi. E ve ne saranno, presto, anche di più, se Dio non verrà in aiuto.
Io soffro al pensiero che il generale Millán-Astray possa porre le basi di una psicologia di massa. Un invalido che non ha la grandezza spirituale di un Cervantes cerca sollievo, abitualmente, nelle mutilazioni che può far subire intorno a sé.
Questa università è il tempio dell’intelligenza. E io ne sono il grande sacerdote. Siete voi che profanate questa cinta sacra. Voi vincerete, perché possedete più forza brutale di quanta ne sia necessaria. Ma non convincerete. Perché, per convincere, dovreste persuadere. E, per persuadere, dovreste avere ciò che a voi manca: la Ragione e il Diritto con voi. Io considero inutile esortarvi a pensare alla Spagna.[2] 

Dopo questo discorso Miguel de Unamuno y Jugo fu rimosso dall’incarico. Gli ultimi giorni di vita, dall’ottobre al dicembre del 1936, Miguel de Unamuno y Jugo li passò agli arresti domiciliari, in uno stato di rassegnata disperazione e solitudine.
Morì lo stesso anno.
¡Viva la muerte! era, dunque, uno slogan, che doveva testimoniare un leonino coraggio di fronte alla vita e un sovrano disprezzo di fronte alla morte dei legionari spagnoli, ma il combattente franchista non era, obbligatoriamente, promesso alla morte.

2. I kamikaze[3]:
Nell’estate del 1944, in un contesto di disperazione – la guerra sembra irrimediabilmente perduta – e, al fine di frenare la spinta americana, il quartiere generale giapponese decide di costituire una unità speciale di attacco, composta di piloti, che debbono schiantare i loro apparecchi sulle navi nemiche.
I kamikaze avevano una funzione sia militare sia sociale: erano destinati, attraverso il loro esempio, a spingere tutto il Giappone a battersi fino alla morte. Ma se alcuni kamikaze si sacrificavano volontariamente per l’imperatore, altri erano costretti dallo stato maggiore militare e la pressione sociale. Non sorprende, dunque, alla lettura delle lettere lasciate da questi adolescenti, scoprire che non erano fanatici, felici di dare la propria vita.

L’avvenire del Giappone è molto cupo se è costretto a uccidere uno dei suoi migliori piloti… Io non compio questa missione per l’imperatore o l’Impero… Io la compio perché ne ho ricevuto l’ordine!  

Molti, dunque, sono partiti senza entusiasmo, spinti da un senso estremo del dovere. Ma il kamikaze è un contro-esempio del sacrificio ultimo nella misura in cui è stato pensato come un’arma di distruzione, capace di cambiare il corso della guerra. In tutti gli altri casi, il sacrificio è un’arma più psicologica che militare.
Il debole costo rispetto ai danni che poteva provocare, rinvia a un periodo di guerra, in cui la vita non aveva molto valore. Il kamikaze non è, tuttavia, stato possibile che per due caratteristiche proprie al Giappone e al periodo: l’importanza della pressione sociale e il sentimento di disfatta imminente.
 
3. I portatori di bomba:
Questi ultimi anni, i media occidentali hanno messo in evidenza due figure islamiche: il portatore di bomba, che si fa esplodere e il jihadista, che parte in guerra per un Paese che non è il suo, per battersi contro uomini che non lo minacciano. Ma, se il portatore di bomba sembra essere spinto più da motivazioni nazionaliste che religiose; le motivazioni del jihadista sono più complesse.
Il portatore di bomba è lontano dall’essere una esclusività musulmana. Questa tecnica dell’attentato suicida sembra essere stata utilizzata, in modo sistematico, per la prima volta, nell’epoca moderna, dalle Tigri Tamil, separatisti marxisti-leninisti dello Sri-Lanka.
Nel Medio Oriente, i più vecchi attentati risalgono agli anni 1980 e alla guerra del Libano contro Stati Uniti, Francia e, Israele.
Il portatore di bomba è un uomo isolato, disperato, che pensa, con il suo gesto, di migliorare la sorte di chi gli sopravviverà. La disperazione del suo gesto rinvia, ineluttabilmente, all’inumanità di chi lo abbia spinto a compierlo. Così, più il portatore di bomba è giovane, fragile  [una donna], più il suo gesto è sconvolgente e sottolinea l’inumanità di chi lo abbia portato alla diperazione e al sacrificio [il potere di turno e, secondo i Paesi, gli israeliani, gli srilankesi, gli ucraini]. Le vittime che può fare non sono nulla di fronte alla esemplarità di questo sacrificio ultimo.
Nell’ottobre del 2000, sul settimanale egiziano Al-Ahram Al-Arabi, il gran mufti di Gerusalemme, Sheikh Ikrima Sabri, esprimeva la sua ammirazione per il martirio dei bambini:
Più giovane è il martire, più io lo stimo e lo rispetto.[4]
In questa ottica, il portatore di bomba si conferma, dunque, più un’arma di propaganda che un’arma di distruzione e l’impatto del suo sacrificio sarà più forte sull’opinione se è giovane e innocente. La sua morte non è che un preliminare necessario alle manifestazioni, alle dimostrazioni e alle celebrazioni che la seguiranno. L’impatto sarà, necessariamente, sia all’interno sia all’esterno della comunità. All’interno della comunità permette di rafforzare il sostegno e la determinazione della comunità, di rinsaldarne i legami con uno spettacolo catartico, cui tutti sono chiamati. Da questo punto di vista, il sacrificio del portatore di bomba potrebbe essere accomunato al sacrificio di esseri umani, offerti all’appetito degli Dei sanguinari Aztechi, Incas o della mitologia. All’esterno della comunità, offre lo spettacolo di un insopportabile dolore e testimonia la barbarie di chi lo ha provocato.
Vivo, il portatore di bomba è un assassino; morto, è un martire.
La sua convinzione di fronte alla morte è la migliore propaganda. 

4. I jihadisti
Se il portatore di bomba è un uomo solo, il jihadista spera al contrario di essere il membro di un collettivo.
È, sovente, un giovane alla ricerca di autoaffermazione.
Il kamikaze non aveva motivazioni personali, aveva ricevuto un ordine e, se era volontario, era per tentare di salvare il suo Paese. Ma, in seguito, le società sono divenute più individualiste, più edoniste, più incentrate sulle nozioni di piacere e di agiatezza. La pressione sociale, che ha potuto convincere i kamikaze, non era più sufficiente.
Nelle società musulmane, la separazione tra uomini e donne, la proibizione dei rapporti sessuali fuori del matrimonio e il costo delle unioni, ha portato i giovani a un livello di frustrazione raramente raggiunto. Questa situazione ha generato diversi “arrangiamenti”, che vanno dai matrimoni temporanei alle pratiche sessuali e agli interventi medici destinati a proteggere o a ricostruire la verginità delle ragazze.
I candidati jihadisti sono giovani in cerca di riferimenti.
Un jihadista deve essere determinato.
Un jihadista esitante è una cotropropaganda.
La propaganda islamica si è, dunque, adattata a questi obiettivi.
L’islam è il solo di questi quattro esempi ad aggiungere promesse incredibili sul dopo-vita. Il caso delle 70 vergini sarebbe comico se non interrvenisse in un contesto così drammatico.
Curiosa concezione del mondo spirituale, in cui l’appetito sessuale perdura e contribuisce alla valorizzazione del candidato, capace di soddisfare 70 vergini e in cui la riuscita e l’abbondanza è segnata non dalla saggezza e dall’elevazione dell’anima, ma dal numero di donne possedute!
I diversi teologi non sono concordi sul numero di queste vergini. Per Abu ‘Isa Muhammad ibn ‘Isa Ibn Sawra ibn Musa ibn Al-Dahhak Al-Sulami Al-Tirmidhi, eminente commentatore de Il Corano del IX secolo, ne venivano aggiudicate 72; mentre Nur Ad-Din Abu Al-Hasan ‘Ali ibn Sultan Muhammad Al-HirawiAl-Qari, imam dell’XI secolo, non ne attribuiva che 70, alle quali si dovevano aggiungere due spose umane. L’imam Abu Bakr Ahmad ibn Husayn ibn ‘Ali ibn Musa Al-Khosrowjerd Al-Bayhaqi era più generoso, poiché accordava 500 spose, 4mila vergini e 8mila donne maritate a ogni uomo. Il significato del termine hur, abitualmente utilizzato per designare queste vergini è, egualmente, aperto all’interpretazione, poiché può significare uva passa bianca, se si sceglie di leggerlo in siriano anziché in arabo.
Ma chi vorrebbe morire per 70 o anche 500 grappoli di uva passa bianca?
La dimensione mediatica del jihadista è essenziale.
Il suo gesto è un discorso politico, un esempio per chi è destinato a seguirlo.
Come il portatore di bomba, l’intensità dell’affermazione delle sue convinzioni è tanto più forte quanto più è prossimo alla morte. Se è morto, è anche meglio, le sue parole sono al limite del profetico.

Ciascuno di questi quattro esempi ha sfruttato particolarità storiche e culturali. I franchisti hanno sfruttato il senso della messa in scena, il macismo latino e la valorizzazione del coraggio. Lo stato-maggiore giapponese ha utilizzato l’eccezionale senso del dovere e la pressione sociale della società nipponica. I kamikaze hanno accettato di sacrificarsi senza gioia e, talvolta, senza convinzione, ma erano persuasi che gli americani li avrebbero uccisi tutti. I propagandisti islamici hanno utilizzato e ingigantito la disperazione dei giovani, facendo leva sul malessere e la volontà di rivalsa della società musulmana di fronte all’Occidente.
Si ritrovano, tuttavia, in tutti questi esempi, dei meccanismi identici, che non rinviano in nulla a una specificità religiosa, culturale o politica. Questi meccanismi, infatti, sono la conseguenza NON di una disperazione o di un nazionalismo, ma della propaganda, della manipolazione e della psicologia di massa: una strategia, freddamente ponderata e applicata. Il kamikaze è il solo esempio di vera arma, attraverso la quale i giapponesi speravano di cambiare il corso del conflitto.
Questo modus operandi è rovesciato sui Paesi democratici, sensibili all’opinione, sui quali ha dato dei risultati, quando gli obiettivi erano limitati. Come abbiamo detto, il sacrificio ultimo non è un’arma di distruzione, è un’arma di propaganda, cui i Paesi totalitari sono poco sensibili.
Il principale denominatore di questi sacrifici è più laico che religioso, è nazionalista, legato a obiettivi di liberazione nazionale. Nel jihadista è legato alla restaurazione di un regime politico islamico, il Califfato.
Al di là delle spiegazioni sul loro sviluppo, quali sono i meccanismi psicologici, utilizzati per convincere o costringere gli esecutori?
Si ritrova, sempre, il principio della glorificazione sociale: non è per sé che si accetta di morire, ma per accreditarsi agli occhi degli altri. Paradossalmente si accetta di morire per “senso sociale”.
È una morte per gli altri a immagine di un’altra figura celebre.
E più i candidati sono giovani e deboli e più il loro sacrificio sottolinea l’inumanità di chi lo ha causato. Per fare loro accettare l’eventualità della propria morte, si deve non solo glorificare questa morte, ma si debbono anche abbassare le loro barriere e le loro resistenze. Gli esempi di candidati, che si sono tirati indietro, all’ultimo momento, sono molteplici. È per questa ragione e per sopprimere ogni possibilità di scelta che debbono essere, particolarmente, inquadrati e sorvegliati. Ed è, anche, la ragione per cui il fattore principale di selezione di questi candidati è il malessere e la suggestionabilità. 
Attenzione, dunque, a non farsi ingannare: a trasformare l’individuo in candidato al suicidio non è l’organizzazione, che si limita, esclusivamente a reclutare soggetti vulnerabili, pronti a morire, in difesa di una causa, e a rafforzare questa predisposizione al suicidio o al martirio!
Negli anni 2000, sorprendeva che gli attentatori palestinesi, non fossero giovani, particolarmente, svantaggiati, ma figli della classe media.
Le condizioni di vita dure non sono particolarmente adatte a sviluppare sentimenti di malessere. Il malessere è un lusso, che non nasce nelle bidonvilles, ma nelle case di città, anche, facoltose.

di
Daniela Zini

Prodotto di una ideologia totalitaria, l’ISIS intende creare un uomo nuovo. I suoi combattenti, fanatici, seguono un percorso, il cui fine ultimo è il sacrificio nella battaglia finale contro gli infedeli.
Questi giovani sono originari di più di 80 Paesi e si identificano, unicamente, con il loro pseudonimo.
Sciorinando, come tanti cloni, la loro lezioncina sempre eguale, attraverso video di propaganda, diffusi dall’ISIS su internet, esortano, nella loro lingua madre, altri musulmani a raggiungerli e minacciano l’Occidente di attentati e di massacri, fino alla vittoria finale.
I loro familiari stentano a riconoscerli, come se avessero subito un lavaggio del cervello.
E proprio di questo si tratta[5]!
L’ISIS non vuole solo estendere, con il terrore, il suo autoproclamato Califfato – a cavallo tra i territori siriano e iracheno –, il suo obiettivo, al pari di tutti i sistemi totalitari, è creare un uomo nuovo, una sorta di homo jihadus, che ha reciso le sue radici ed è, interamente, votato a diffondere l’interpretazione settaria, ultraviolenta che l’ISIS dà delle scritture e delle tradizioni islamiche. Questa organizzazione provvede alla “riformattazione degli individui e li mette in scena in una ricostruzione fantastica della comunità musulmana originaria, quella del tempo del profeta e dei suoi compagni. E, così, fa credere ai suoi adepti di appartenere ai puri, ai veri credenti.
Su internet, poi, nel mondo reale, gli aspiranti jihadisti seguono un percorso di radicalizzazione, costellato di tappe, sovente, senza ritorno. Innanzitutto, lasciano il proprio Paese e migrano verso una terra islamica idealizzata, pretendendo, così, di imitare l’esilio di Maometto e dei suoi primi compagni, dalla Mecca a Medina, nel 622, perché il dovere dei musulmani è compiere l’hijra, muovendosi dalla casa della guerra alla casa dell’islam. Compiono, in tale modo, un viaggio iniziatico, nel corso del quale si spogliano del loro vissuto, del loro passato, per rinascere nella nuova comunità. Condizionati dai predicatori dello Stato Islamico, i giovani sono chiamati a morire in combattimento, ma anche a prendere moglie e a fare figli. Gli uomini rinunciano al loro stato civile – alcuni bruciano il loro passaporto – e scelgono, per la nuova identità, un nome di battaglia[6], costituito da tre elementi giustapposti: Abu Usama [leone] Al-Tunisi; Abu Talha Al-Almani; Abu Mus’ab [invincibile] Al-Faransi e così via…
Il primo elemento, Abu – padre in arabo – conferisce al jihadista, anche se non ha figli, lo status di capofamiglia, un segno di rispettabilità.
Il secondo elemento si rifà al nome di un compagno del profeta[7] o a una virtù che gli è attribuita.
Infine, il terzo elemento del nome designa l’origine geografica del combattente: Al-Tunisi, il Tunisino; Al-Almani, il Tedesco; Al-Faransi, il Francese. Adottando uno pseudonimo, il jihadista crede di entrare nella lunga linea di musulmani del VII secolo d.C.
Gli ideologi dell’ISIS negano la Storia, distorcendola.
Per loro, non esiste che un solo tempo: quello delle origini.
Il presente non deve essere che una ripetizione perenne degli atti e dei rituali compiuti dal profeta e dai suoi primi quattro successori, i califfi “ben guidati[8].  




In questa rappresentazione immutabile del mondo, non esiste l’individualità e neppure la libertà di pensiero. I combattenti, fanatici, adottano lo stesso eloquio, la stessa gestualità. Chi non padroneggia l’arabo infarcisce le frasi più anodine con interminabili invocazioni divine:
“Allah è grande!”
È la volontà di Allah!”
“ Io vado a Londra con i compagni e torno.”,
aveva detto il diciottenne Hasib Hussain a sua madre. L’indomani mattina, il 7 luglio 2005[9], si era fatto saltare in aria su un double-decker bus, nel pieno centro della capitale britannica. Contrariamente a quanto aveva lasciato intendere, Habib era andato a Londra per una sola ragione: farsi esplodere e uccidere il maggiore numero di persone.
Morire per uccidere non data dall’11 settembre 2001, anche se quel giorno storico corrisponde all’ultimo stadio del terrorismo classico e si passa dall’autobomba all’uomo e all’aereo bomba. Tuttavia, gli attentati contro il World Trade Center di New York, sono stati possibili – come quelli  23 ottobre 1983, in Libano, nei quali furono uccisi 241 soldati americani e 58 paracadutisti francesi da due camions-bomba[10] –, perché i loro autori erano decisi a trasformarsi in bombe umane.

“Voi siete il tesoro della Nazione; con lo stesso spirito eroico dei kamikaze, battetevi per il benessere del Giappone e per la pace nel mondo.”
Takijiro Onishi

Prima, vi sono stati i piloti giapponesi; i soldati iraniani dell’esercito della rivoluzione; i miliziani libanesi; le donne cecene; le Tigri Tamil nello Sri Lanka; i giovani palestinesi nelle due Intifada e, più recentemente, i jihadisti iracheni. Sono tutti designati, faute de mieux, con il nome di kamikaze, bombe umane, candidati al martirio. Uomini e donne, seminano morte, nel nome di Allah, a Tel Aviv o a New York, in Cecenia o a Bali, a Gerba o a Riyad, a Casablanca o a Baghdad.
Quanti hanno la prima pagina sui media suscitano, sovente, lo sconcerto perché sono giovani o donne e alimentano, sempre, l’incomprensione, perché ciascuno può identificarsi in queste bombe umane, che hanno una storia e una vita dinanzi a sé.
Hassib ne fa parte.
E resterà scritto nero su bianco.
Per sempre.
Se abbia raggiunto le vergini, promesse in Paradiso, la storia non lo riferisce.
Ciò che si ricorda è che Hassib era britannico, nato in Gran Bretagna.
Come è stato possibile giungere a questo?
Come è stato possibile far brillare, in un secondo, polverizzata da un detonatore, la libertà, acquisita dai sudditi britannici, generazione dopo generazione?
In ogni epoca e in ogni punto del globo, dove esplodono questi pezzi di vite, le motivazioni e i fini ricercati sono diversi.
Motivi religiosi e politici si affiancano.
Se, prima del crollo dell’Unione Sovietica, il terrorismo era qualcosa di marginale; tra il 1989 e il 2001, diviene la preoccupazione centrale in materia di sicurezza per i governi occidentali e, successivamente, una forma di guerra.

 
Da martire a kamikaze, lo scivolamento semantico è avvenuto lentamente. Ma, se il termine martire trova, molto presto, la sua origine nella Storia – è, frequentemente, utilizzato nell’Impero Romano – il termine kamikaze non appare che molto recentemente, per designare i combattenti giapponesi della Seconda Guerra Mondiale.  
Dall’idea di testimonianza, contenuta nella nozione di martire, si scivola, a poco a poco, verso quella di morte sacra. Nata dalle macerie dei martiri del passato, la figura del kamikaze di oggi è a metà strada tra l’eroe e il santo.  Il senso del martirio passa da una morte non desiderata a un ideale religioso, perfino alla speranza di un soggiorno in paradiso, immagine che si ritrova nell’islam. 
Anche per Il Corano, il martirio designa, all’inizio, la testimonianza e non la morte sacra. Non è che dopo la conquista musulmana della Palestina, nel VII secolo d. C., che la nozione di testimone [shahid] significa, esplicitamente, la morte sacra. Lo shahid, nell’islam, ricopre, dunque, al tempo stesso, i significati di testimone, martire e sacrificato [sacrificio, qurban, è un valore importante dell’islam, permette di avvicinarsi a Dio].
Quando nell’XI secolo, la Setta degli Assassini[11] cercava di destabilizzare il potere sunnita di Baghdad, il sacrificio di sé diviene l’arma di una lotta nazionale che si sviluppa sulle rovine del nazionalismo arabo.
Il basiji iraniano si sacrifica per difendere una società islamica armoniosa; il kamikaze libanese, un Paese occupato dal nemico, Israele, e il martire palestinese una Nazione e un territorio.
Dopo il fallimento degli Accordi di Oslo[12], si opera uno scivolamento di significato nella seconda Intifada: il motivo religioso fa la sua comparsa per essere utilizzato a fini politici. Se il fine ricercato, in Libano, era di costruire uno Stato islamico; è costruire uno Stato per i palestinesi o ancora, per i ceceni, lottare contro la politica di Mosca. La religione diviene un motivo e lo è sempre più per i combattenti di Al-Qaida, come se si dovesse giustificare l’ingiustificabile  per l’islam.
Se il kamikaze di Al-Qaida si sente in rottura con la società occidentale, ne è, tuttavia, attore a parte intera, studente, impiegato, sovente, sposato a una donna occidentale. La sua lotta gli permette di combattere l’umiliazione, che sia personale o che riguardi il mondo musulmano nel suo insieme. Infatti, il futuro kamikaze di Al-Qaida spera, in qualche modo, di vendicare l’umiliazione, subita, nel quotidiano, dai musulmani di Bosnia, d’Iraq, di Palestina e l’occupazione della terra santa dell’islam da parte delle truppe americane, dalla Guerra del Golfo, nel 1991.
Umiliazione, dunque, e rigetto dell’Occidente sono i due temi principali cristallizzati dall’islam radicale di Al-Qaida.
La cultura della morte ha incancrenito l’islam al punto che stentiamo a vedere, oggi, un legame tra gli hashishin e i kamikaze di New York, di Londra e di Parigi. A mano a mano che gli atti terroristici si moltiplicano, appaiono sempre più come la conseguenza di una disperazione profonda. E, a mano a mano che si accentuano umiliazione e propaganda, i potenziali portatori di bomba sono sempre più numerosi a volgersi verso le madaris di Karachi o ad ascoltare i predicatori radicali delle periferie di Londra o di Parigi.
Il profilo del kamikaze non sembra essere molto cambiato dall’11 settembre 2001, anche se le cellule di Al-Qaida sono, incessantemente, sostituite da nuovi membri. Nel luglio del 2004, il sociologo americano Marc Sageman, ex-agente della CIA, in Afghanistan, dal 1987 al 1989 e, in India, dal 1989 al 1991, presentava davanti a esperti e giornalisti i risultati delle sue ricerche sull’identikit tipo del potenziale kamikaze. Dopo aver passato al setaccio la vita di 382 combattenti, Marc Sageman traccia un profilo preciso del militante jihadista di Al-Qaida: quello che chiama il nuovo terrorista, globale e nihilista, è ben lontano dall’immagine del fanatico ignorante, reclutato nei quartieri poveri e islamici. È, al contrario, mediamente, un giovane di 25,7 anni e degli strati medi o superiori della società, che ha fatto studi nel 60% dei casi – nettamente, più istruito della media mondiale – e che occupa un buon impiego, sposato – nel 73% dei casi – e padre di famiglia in più di 7 casi su 10. Di più, il 90% di questi giovani combattenti non ha, mai, seguito alcuna formazione religiosa. Qualche mese più tardi, Marc Sageman avrebbe ironizzato a questo riguardo:
“Se avessero avuto una educazione religiosa più sollecita, è possibile che non si sarebbe a questo punto!”
Infine, sono uomini cosmopoliti, dotati di una sanità mentale solida, che non hanno alcun passato criminale, a eccezione di alcuni di origine magrebina, cresciuti nelle periferie francesi. 
Tuttavia, se questi giovani si integrano, perfettamente, nel mondo moderno, è, sovente, nella loro migrazione in un Paese straniero, per ragioni universitarie o professionali, che si desta in loro la nostalgia del loro Paese di origine, accompagnata da un sentimento di solitudine, di emerginazione, perfino, a volte, di rigetto. Molti si rifugiano, allora, nei discorsi radicali diffusi dalle moschee del loro Paese di adozione, che stigmatizzano la decadenza dell’Occidente. Marc Sageman rileva che l’84% di questi militanti si sono ritrovati per raggiungere il jihad, fuori del loro Paese di nascita. Riassume così:
“Al-Qaida è un fenomeno di diaspora.
Ma ci si può, egualmente, domandare se questo sentimento di rigetto non sia colmato da un ripiegamento, non solo comunitario e religioso, ma anche familiare. Esperti hanno, a esempio, rilevato che due coppie di fratelli avevano partecipato agli attacchi dell’11 settembre 2001 e sei agli attentati di Madrid. Alcuni kamikaze hanno seguito nella morte un fratello o sono stati reclutati da un cugino [http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2015/11/15/Chi-sono-i-terroristi-di-Parigi-Passaporti-identikit-e-nazionalita-le-prime-indiscrezioni-ultime-notizie-oggi-15-novembre-2015-/655642/], come Khalid Muhammad Abdallah Al-Mihdhar, uno dei pirati dell’aria dell’11 settembre 2001, da Ramzi bin Al-Shibh, uno degli organizzatori della cosiddetta cellula di Amburgo.
E anche donne sono entrate nella lotta, seguendo un fratello o un marito. È il caso della belga Muriel Degauque, che ha seguito suo marito Issam Goris in un attentato suicida vicino a Baghdad, nel novembre del 2005, e, nello stesso periodo, il caso dell’irachena Sajida Mubarak Atrous Al-Rishawi, moglie di uno dei kamikaze degli attentati di Amman, ‘Ali Husayn ‘Ali Al-Shamri e sorella di Samer Mubarak Al-Rishawi, braccio destro di Abu Mus’ab Al-Zarqawi.
Tutti i jihadisti non divengono kamikaze, ma il profilo del kamikaze di Al-Qaida corrisponde, in ogni caso, a questo profilo di jihadista.
Porsi la domanda del perché è, dunque, essenziale.
E del perchè le donne sono sempre più numerose a candidarsi al martirio.
I servizi di informazione si volgono, egualmente, verso i convertiti. Particolarmente, in Europa, sono i primi a farsi kamikaze.
Infiltrare le cellule di Al-Qaida prima che passino all’azione è, dunque, necessario, ma un lavoro a monte è urgente.    
Farsi esplodere non costa caro, a livello logistico e, soprattutto, trasformarsi in kamikaze tende a divenire un gesto mediatico,  immediatamente copertodai media di tutto il mondo.
Appartenere alla casta dei puri in una società impura tenta sempre più giovani, perché questi sanno che, divenendo shahid [martire], passeranno dallo stadio di individuo lambda a quello di eroe di tutta una generazione.
Gli attentati di Parigi non sono, forse, che le premesse di una serie di azioni che mirano a minare le democrazie europee. Perché anche se la Francia non ha alcun soldato in Iraq, è presente in Afghanistan. I kamikaze del Bataclan sono di nazionalità francese, come quelli di Londra  erano di nazionalità britannica.
L’Italia non è al riparo!
Il suicidio esiste da quando l’uomo esiste.
Progressivamente, lentamente o violentemente, chi vuole finirla con la vita, programma la sua partenza secondo una strategia più o meno pianificata. L’overdose di farmaci; il salto nel vuoto; l’impiccagione; l’asfissia per inalazione di gas; il taglio delle vene sono i metodi di suicidio più conosciuti.
La morte diviene mezzo e fine: non essere più è l’ultimo obiettivo.
Tuttavia, l’autodistruzione e l’annientamento di sé possono prendere diverse forme.
Quali rapporti e quali legami possono esservi tra un Mohamed Bouazizi e un Seifeddine Rezgui  http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/06/28/sousse-cittadini-piazza-contro-lisis-tunisia-libera-no-al-terrorismo/1823466/,
Atto disperato?
Missione suicida?
Sacrificare volontariamente la propria vita, in nome di cosa?
L’idea del sacrificio, dominatrice, con un messaggio da far passare per Bouazizi e un biglietto per il paradiso e una partenza per un mondo migliore per Rezgui.
Kamikaze contemporaneo di una guerra informale, il suicida diviene tecnico militare.
Se Seifeddine Rezgui non si è fatto esplodere, sapeva benissimo che, attraverso il suo atto, sarebbe andato diritto alla morte, il suo fine ultimo era seminarla, anche se la sua era alla fine.
Rezgui sarà considerato martire dai “suoi”, quelli che lo hanno arruolato nella barbarie?
Il 17 dicembre 2010, il gesto disperato, ma egualmente distruttore di Bouazizi, giovane neo-diplomato tunisino, che si dà fuoco, dopo essersi inondato di benzina, per denunciare il suo dramma personale, assume, immediatamente, una dimensione di mobilitazione collettiva. Bouazizi, divenuto martire, perché la sua immolazione ha partorito una rivolta popolare, che ha trasformato il volto della Tunisia.
Come si può arrivare ad autoimmolarsi[13]?
Il suicidio per immolazione non è, mai, gratuito, esprime denuncia, reclamo, lamentela, di ordine politico, socio-culturale, socio-economico, e non può essere motivato con la religione.
Nella nostra Storia contemporanea, il suicidio per immolazione è, direttamente, collegato e connesso a forti tensioni politiche, forma di indignazione radicale. Anche se l’immolazione, che ha un rapporto con la nozione di sacrificio e di donazione di sé, con una sfumatura religiosa quasi mistica, è praticata, da secoli, nelle diverse credenze e culture, è a partire dall’era contemporanea, vale a dire dagli anni 1960, che gli uomini utilizzano l’immolazione come forma di espressione rivendicatrice.
Da allora, i media occidentali ne hanno riferito centinaia e centinaia di casi.
Ed è dalla fine del 2010 che un’ondata di immolazioni senza precedenti colpisce i Paesi del Medio Oriente e dell’Africa del Nord nel quadro delle proteste e delle indignazioni sopraggiunte nel mondo arabo tra il 2010 e il 2011 e riaccenderà il fuoco delle immolazioni, scomparse dalle terre asiatiche e occidentali. Diversi monaci, monache e laici tibetani si sono immolati, dal marzo del 2011, e tutta una serie di immolazioni ai quattro lati della Francia ha avuto luogo dall’ottobre del 2011.
Dalla caduta del regime di Zine Al-Abidine ben ‘Ali [14 gennaio 2011], chi decide di suicidarsi con il fuoco, incendiando il proprio corpo, spera sempre con il suo atto di aprire un dibattito, alimentare interrogativi di ordine socio-politico. Colpire l’opinione generale, sfidandola, trasmettere e veicolare un messaggio attraverso un atto che dà la morte, il tunisino Seiffeddine Rezgui lo ricercava, egualmente, attraverso la sua azione jihadista.
Se l’idea del jihad è evoluta, nel filo del tempo, molteplici interpretazioni la hanno accompagnata, anche con le loro contraddizioni e le loro incoerenze. Considerata un dovere nell’islam – la voce di Dio guida i fedeli verso la via della lotta – si fa fatica, oggi, a figurarsi il jihad senza pensare ai guasti individuali e collettivi che genera.
Se ci mettiamo nella posizione del jihad, dunque, del jihadista, possiamo essere nella posizione della lotta, spirituale, verbale o armata, l’ultima è, evidentemente, la più pericolosa per sé e per gli altri. Noi, allora, non siamo più in un atteggiamento di lotta spirituale, o in una ricerca di miglioramento personale e della società in cui viviamo, siamo nel concetto di azione, attraverso la guerra, con la dialettica di perdita e di vittoria con il sangue, con la retorica dell’Altro, l’infedele, il nemico, considerato come tale perché nell’opposizione e/o nella ribellione.
Siamo, allora, nel superamento della religione stessa, l’origine e la fonte del jihadismo non è più la fedeltà alla sola confessione musulmana. Il condurre la guerra santa per un ideale religioso è, interamente, recuperato a fini politici.
Le sfumature dei jihadisti, uomini e donne, non si contano più. Coloro che si fanno esplodere, che partono per il “fronte”, non sapendo a cosa serva la propria vita; tutti sono e si sanno kamikaze dentro di sé. È nello sforzo cieco di una lotta e di una resistenza, che sarà la causa e la conseguenza della propria morte.
Che cosa è, allora, se non la forma più ibrida di suicidio, farcita di tutto ciò che possono partorire l’emarginazione e il rifiuto della vita?
Contraddizione di questa forma di donazione alla morte, allorché il suicidio è, severamente, HARAM[14] o proibito nella religione musulmana e nell’insieme delle religione abramitiche.
Il verso 29 della Quarta Sura de Il Corano, detta An-Nisa, Le Donne, ammonisce:
“E non uccidete voi stessi, sicuramente Allah sarà più misericordioso con voi.”


Daniela Zini
Copyright © 17 gennaio 2016 ADZ

For most of History, Anonymous was a woman.
Virginia Woolf


[1] Il martire è definito dal dizionario come chi per testimoniare la fede cristiana soffre tormenti e sacrifica anche la vita, ma anche come chi sopporta sacrifici, pene, supplizi per un ideale. Il termine compare nel latino cristiano, ma l’etimologia è greca: il termine martus significa, infatti, testimone ed è utilizzato nei tribunali greci.
Osserva Federico Chabod a proposito dell’estensione del significato di martire:
“Gran mutare del senso delle parole! Per diciotto secoli, il termine di martire era stato riservato a coloro che versavano il proprio sangue per difendere la propria fede religiosa; martire era chi cadeva col nome di Cristo sulle labbra.
Ora, per la prima volta, il termine viene assunto ad indicare valori, affetti, sacrifici puramente umani, politici: i quali dunque acquistano l’importanza e la profondità dei valori, affetti, sacrifici religiosi, diventano religione anch’essi.”

[2] Hugh Thomas, The Spanish Civil War.

[3] Il termine kamikaze deriva dall’espressione giapponese kami [divinità] kaze [vento], che significa vento divino, attribuita a un leggendario tifone che, secondo la percezione dell’epoca, avrebbe salvato il Giappone da due flotte mongole, che tentarono di invadere il Giappone, sotto il regno di Kublai Khan,  nel 1274 e nel 1281.
La definizione che dà il dizionario del termine kamikaze è: aviatore giapponese che distruggeva un obiettivo nemico gettandovisi contro col proprio aereo carico di esplosivo. Per estensione, la definizione si è, poi, applicata a una persona di grande temerità.

[4] Il sito conservatore americano WorldNetDaily cita una trasmissione televisiva palestinese, Children Club, che glorifica la violenza e il terrorismo, insegnando ai bambini canzoni quali:
Quando entrerò a Gerusalemme, mi trasformerò in una bomba vivente.

[5] Le anfetamine come il Captagon – la droga che, secondo alcuni media francesi, avrebbero preso i terroristi prima degli attentati di Parigi – sono la droga dei kamikaze.
Il Captagon si trova, relativamente, in abbondanza in Medio Oriente. A confermare il dato anche l’Atlante dell’uso di sostanze nel Mediterraneo Orientale, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che vede, a esempio per l’Arabia Saudita una prevalenza di uso delle anfetamine dello 0,4%, superiore a quella delle droghe leggere ferme allo 0,3%.
La sostanza, che viene, spesso, mescolata alla caffeina, era nel sangue di Seifeddine Rezgui, uno degli autori dell’attentato sulla spiaggia in Tunisia dello scorso 26 giugno, nel quale morirono 39 persone.
Secondo alcuni reports, anche dopo gli scontri di Kobane, i curdi ne hanno trovato grandi quantità nelle postazioni dell’Isis.
Il Captagon, oltre al senso di invincibilità, aumenta la combattività, l’aggressività, la vigilanza e la resistenza alla fatica.  

[6] L’islam sottolinea che i musulmani debbano avere nomi buoni e debbano dare buoni nomi ai loro figli. È riportato in un hadith che il profeta disse:
Sarete chiamati il Giorno della Resurrezione con i vostri nomi e i nomi dei vostri padri, quindi abbiate buoni nomi.” 

[7] I dieci migliori compagni del profeta, conosciuti come gli Ashra-Mubbashshira, i dieci annunciatori di buone notizie, erano: Abu Bakr, Umar, Uthman, ‘Ali, Talha, Zubair, Abdur Rahman ibn Auf, Saad bin Abi Waqqas, Saad bin Zaid e Abu Ubaidah.

[8] I quattro califfi sono: Abu Bakr [dal 632 al 634]; Omar [dal 634 al 644]; Uthman [dal 644 al 656]; ‘Ali [dal 656 al 659].

[9] Il 7 luglio 2006, Londra è devastata da quattro attacchi suicidi contro tre treni della metropolitana e un autobus. Un incubo, che è costato la vita di 52 persone e il ferimento di 785. 

[10] Nelle prime ore del 23 ottobre 1983, un camion Mercedes, carico di tritolo, si avvicinò al quartier generale della missione americana in Libano e superò il perimetro di sicurezza prima di esplodere. Simultaneamente, un altro veicolo bomba distrusse una base francese in Libano, provocando la morte di 58 soldati.

[12] Gli Accordi di Oslo, ufficialmente chiamati Dichiarazione dei Principi riguardanti progetti di auto-governo ad interim o Dichiarazione di Principi [DOP], furono una serie di accordi politici conclusi a Oslo, in Norvegia, il 20 agosto 1993.

[13] Il termine latino immolare, composto da in sopra e mola macina, ma anche farina di farro, significa sacrificare qualcosa o qualcuno a una divinità.
È a partire dall’era gallica che l’immolazione diviene un rituale di suicidio dei guerrieri senza speranza, che appiccano il fuoco alla loro casa e corrono a gettarsi nelle fiamme. Non è, ancora, una autoimmolazione, un atto suicidario, in cui un individuo si dà fuoco. 

[14] Per contrastare l’ideologia del martirio jihadista, i musulmani saggi invocano, spesso, questo divieto di suicidio, condannano il ricorso alla violenza e all’assassinio di vittime innocenti.
“Nel Corano, solo Dio è responsabile della scadenza della esistenza e la vita di ogni uomo conta.”
spiega l’islamologo Rachid Benzine, che aggiunge:
“Nella società islamica, la sopravvivenza del gruppo è importantissima, più ancora dell’ideologia religiosa. Il Corano contiene passaggi in cui gli uomini si rifiutano di partire per la guerra.”
E prosegue:
“Legittimare il suicidio è una costruzione temporanea.”
Il ricorso agli attacchi suicidi hanno provocato importanti dibattiti nel movimento islamista. Sono divenuti prassi per i gruppi jihadisti dopo la guerra in Libano. Nel 1985, il leader Fadlallah, Hezbollah sciita, tolse il divieto di suicidio ai combattenti. Fu una svolta, anche se ‘Abd Al-’Aziz ibn ‘Abd Allah ibn Baz ibn Baz, gran mufti dell’Arabia Saudita, rifiutò una simile presa di posizione.
Negli anni 1990, Hamas moltiplicò gli attacchi suicidi.
Yusuf Al-Qaradawi, il teologo di riferimento dei Fratelli Musulmani, li legittimò contro Israele:
“Il martirio è l’arma che Dio dona ai poveri per combattere i forti. È la compensazione divina. La società israeliana è una società militare.”
Nella retorica jihadista il kamikaze è un martire che muore per la sua fede e in difesa dei musulmani. Con questo titolo, ha diritto di entrare in paradiso.
Anche se il leader di Al-Qaida, Ayman Al-Zawahiri, si mostrò reticente verso le donne kamikaze, non sono rare nella storia della guerra santa. Sononote come vedove nere le donne cecene che compirono attentati suicidi negli anni 2000.

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