“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

martedì 17 maggio 2016

ADZ RIAPRE VECCHI DOSSIERS E INDAGA SU CRIMINI ARCHIVIATI... I. IL PRIMO G-MAN AFFRONTO’ I BANDITI ARMATO DI VIOLINO di Daniela Zini



ADZ

riapre vecchi dossiers e indaga su crimini archiviati...

I. IL PRIMO G-MAN AFFRONTO’ 
I BANDITI ARMATO DI VIOLINO
“I regret to say that we of the FBI are powerless to act in cases of oral-genital intimacy, unless it has in some way obstructed interstate commerce.”
John Edgar Hoover [1895-1972]

Una vecchia Ford nera – poco più di un motore messo dentro una cassa sgraziata di ferro, trascinata da quattro cerchioni ricoperti di gomma piena – avanza sferragliando lungo lo stradone polveroso del Cumberland, una contea interna del Tennessee. I contadini, messi in allarme dall’insolito rumore, si affacciano sulle soglie delle loro capanne di legno e restano a guardare la macchina con un misto di emozioni, in cui la curiosità prevale di poco sulla paura.
Siamo nel marzo del 1913 e, per molti, questa è la prima automobile che vedono con i loro occhi.
La Ford va a fermarsi, sgroppando, vicino a una casupola.
“Ehi, tu!”,
grida l’uomo che la guida, rivolgendosi a un contadino:
“Sai dove abitino gli Howard?”
L’interrogato scuote lentamente la testa.
“Già, nessuno lo sa!”,
commenta l’automobilista, parlando a se stesso.
“Ma io so che gli Howard abitano qui intorno. Se, per caso, ti ricordassi di conoscerli, avvertili che li sto cercando. Vengo da amico…”
L’auto riprende la marcia, innalzando dal tappo del radiatore una scia sbuffante di vapore.
Il conducente è indicato nei rapporti con il nome convenzionale di Jim Trent; la tessera che ha in tasca lo qualifica come agente speciale n. 26 del Bureau of Investigation [BOI], Department of Justice.
Sei giorni prima, a Washington, l’agente Trent ha ricevuto dallo stesso Alexander Bruce Bielaski [1883-1964], che, dal primo dell’anno, è il nuovo capo del servizio investigativo, l’ordine di rintracciare e arrestare Bill Howard, un giovane accusato di avere rapito e violentato una ragazza di Jamestown, dopo averla costretta a seguirlo oltre i confini del Kentucky. Questo è un reato perseguito dal White Slavery Act; uno dei pochi reati che, nel 1913, autorizzino l’intervento della polizia federale, la cui ingerenza è, sempre, sgradita alle polizie statali, alle quali, di regola, competono le indagini. Ma, Bielaski, che desidera rendere, finalmente, operante un servizio, creato dal 1909 e rimasto, praticamente, sulla carta, non ha indugiato a inviare, nel Tennessee, l’agente speciale n. 26: il primo G-Man entrato in azione contro la malavita, nella storia avventurosa e affascinante dell’FBI.
Jim Trent prosegue, ostinatamente, le ricerche, nonostante il muro di omertà di cooperare nelle indagini. Il sole sta per calare dietro le colline e deve prepararsi a trascorrere un’altra notte nelle poco confortevoli locande del Cumberland, dopo un altro giorno infruttuoso.
Improvvisamente, malgrado lo sferragliare della macchina, l’orecchio attento di Jim avverte lo scalpiccio di un cavallo al galoppo dietro di lui. Un motivo per sentirsi sgomento: Bill Howard è conosciuto come uno dei migliori e più decisi tiratori dello Stato e, proprio per questo, i contadini lo proteggono con il loro silenzio; mentre lui è assolutamente disarmato.
Invece il cowboy, affiancandosi alla macchina, si limita a gridare per soverchiare il rombo del motore:
“Gli Howard… In quella casa sopra la collina, oltre il ponte.”
Jim guarda nella direzione indicata; quando si volge nuovamente verso l’inatteso e provvidenziale informatore, il cavaliere è, già, lontano, tra i campi.
L’agente ha un attimo di esitazione.
Non sa spiegarsi l’indicazione ricevuta, se non come un possibile tranello.
Ma il suo dovere è seguire ogni traccia.
Lascia l’auto sotto un albero e inizia a inerpicarsi per il ripido sentiero che porta alla capanna.
Quando bussa all’uscio di legno, gli viene, subito, aperto.
Jim si trova puntate contro cinque carabine a ripetizione, impugnate da quattro uomini e una donna.
Uno degli uomini è il cowboy.
“Siete il padre di Bill, penso.”,
asserisce Trent, rivolgendosi al più anziano.
E aggiunge, pacatamente, entrando:
“Vengo da amico…”
“Sì, questo l’ho, già, sentito raccontare in giro.”,
interrompe, beffardamente, il vecchio Howard,
“Ma Bill non ha amici, e nessuno di noi ha amici.”
“Sono un agente del Governo.”,
spiega Jim, ostentando la massima tranquillità,
“Se vostro figlio è qui, signor Howard devo farlo venire con me.”
“Non sono così certo che potrete farlo, giovanotto!”,
sogghigna l’altro, aggiungendo alcune frasi, che negli archivi dell’FBI sono riportate come “ciò che pensava sulla legge in generale, sulle guardie in particolare e su Trent stesso”. 
“Non discuto le vostre opinioni.”,
può replicare, infine, l’agente.
“Se voi, signor Howard, mi dite che vostro figlio non è qui, io non metterò in dubbio la vostra parola. Ma se si trova qui, devo prenderlo in custodia.”
“Non è qui e non lo troverete neppure in mille anni.”,
bofonchia il padre, con pungente derisione.
“Allora non mi resta che andarmene…”
“Voi non lascerete questa casa, giovanotto!”,
intima il vecchio, alzando, eloquentemente, la canna della carabina.
“Se devo restare, tanto vale che mi sieda.”,
sospira Jim, trascinando un seggiolone a dondolo vicino al camino acceso.
Riesce a mantenersi calmo, ma sa benissimo in quale situazione si trovi: gli Howard vogliono attendere la notte per farlo “scomparire”.
La donna esce dalla stanza; ma i quattro uomini rimangono immobili sui quattro sgabelli.
Uno dei giovani tira fuori da uno stipo una bottiglia di whisky di grano e, dopo una lunga sorsata, la passa ai fratelli e al padre.
Se non fosse per i fucili puntati contro l’agente, la scena sembrerebbe un quadretto familiare del vecchio Tennessee!
Jim avverte il lato grottesco di tutto ciò e tenta di temporeggiare.
Ha visto un violino sul ripiano del caminetto e allunga una mano per prenderlo.
Gli altri lo guardano sospettosi, ma nessuno si muove.
Jim accorda lo strumento e intona una ballata popolare, La ragazza andrà sulla montagna, è specificato nel suo dettagliato rapporto.
I quattro uomini ascoltano in silenzio.
Poi, l’agente suona Il rosario.
“Giovanotto conoscete quella canzone che fa: “Portami nella vecchia Virginia”?”,
domanda il vecchio Howard.  
Trent conosce il motivo e lo esegue con quanto più sentimento riesce a mettere nel violino.
I due più giovani iniziano a ballare.
“Peccato, davvero, signor Howard”,
mormora Jim, con tono casuale, quando il suo repertorio sta per esaurirsi.
“Forse, come dite voi, Bill non lo prenderanno in mille anni, ma comunque dovrà fare una gran brutta vita. Vi saranno sempre poliziotti intorno a lui…”
Il vecchio ascolta, con volto inespressivo.
“Ma potrebbe anche darsi che riescano a prenderlo.”,
prosegue l’agente.
“Vi è una taglia sulla sua testa e cento dollari possono fare gola a molta gente.
Allora cosa sarà di Bill?
I giudici non saranno clementi…
Sarebbe diverso se si consegnasse spontaneamente. Avrebbe un processo regolare e gli concederebbero tutte le attenuanti…”
Il vecchio rimane ancora muto, senza tradire i suoi pensieri.
“È tardi.”,
conclude Jim Trent,
“Se avete un letto in più, andrei a dormire…”
Nonostante il sorriso disarmante, non si illude: la luna sta per spuntare, sa benissimo quale sorte lo attenda. Invece, improvvisamente, il vecchio apre le braccia, come arrendendosi:
“Mandate le carte allo sceriffo di Louisville. Il ragazzo andrà là a consegnarsi.”
L’agente speciale n. 26 al quale, un secolo fa, toccò l’onore di scrivere il primo capitolo della storia della più celebre polizia del mondo, non era davvero uno di quei personaggi esaltati dai films hollywoodiani; ma anche i suoi poteri erano una gracile larva di quelli, pressochè illimitati, che i suoi successori avrebbero ottenuto soltanto due decenni dopo.
Nel 1913, gli agenti federali dovevano limitarsi a compiere semplici indagini, senza altra risorsa che la loro intraprendenza. Potevano intervenire in non più di tre o quattro casi di infrazione alla legge e, sempre, a condizione che il reo avesse varcato i confini di uno Stato per rifugiarsi in un altro.
Come abbiamo osservato nella storia di Jim Trent, non erano autorizzati a portare armi, neppure quando dovevano affrontare i banditi più pericolosi.

Theodore Roosevelt [1858-1919]

Ma vi è di più: non potevano effettuare arresti. Scoperto il loro uomo, dovevano segnalarlo alla polizia locale e, non sempre, questa interveniva con la prontezza necessaria, seppure accettava di intervenire. Ma anche per giungere a quei limitatissimi poteri che consentirono al Bureau of Investigation di intervenire contro Bill Howard, erano occorsi dodici anni di lotte continue da parte del presidente Theodore Roosevelt e dei suoi procuratori generali contro i governatori degli Stati e contro lo stesso Congresso.
Theodore Roosevelt, eletto nel 1900, aveva portato alla Casa Bianca la ferma intenzione di stroncare la corruzione che corrodeva, a ogni livello, la vita sociale e politica degli Stati Uniti.
Nei primi anni, la sua crociata rimase, tuttavia, puramente ideologica, perché – cosa che a noi, oggi, può sembrare abbastanza strana – il presidente, massimo potere esecutivo, non disponeva di alcun organo di polizia per assicurare il rispetto delle sue leggi.
Nella vita quotidiana, le leggi, emanate dal governatore di un qualsiasi Stato, e, perfino, quelle assolutamente arbitrarie degli sceriffi del West, avevano un valore maggiore rispetto a quelle firmate dal presidente e approvate dal Congresso. Uno degli aspetti più appariscenti del malgoverno erano allora i cosiddetti “furti di terre”. Dopo la colonizzazione dell’Ovest, erano state assegnate ai pionieri enormi estensioni di territorio; ma il demanio conservava la proprietà di circa 40 milioni di acri, per lo più foreste, amministrati da un apposito ente governativo, il General Land Office.
 
Ethan Allen Hitchcock [1798-1835]

Nel 1904, il segretario degli interni, Ethan Allen Hitchcock sospettò che qualcosa non funzionasse e sollecitò una inchiesta al Dipartimento di Giustizia.
Il procuratore generale, non avendo un proprio organo di polizia, affidò l’incarico agli agenti del servizio segreto del Dipartimento del Tesoro, un corpo speciale creato per perseguire i falsari.
Uno di quegli agenti era Lawrence Richey, il quale, più tardi, sarebbe divenuto segretario del presidente Herbert Hoover.

Lawrence Richey, Herbert Hoover e Harlan Stone

Nel West, Richey e i suoi colleghi scoprirono una situazione perfino incredibile.
Le terre demaniali erano state occupate, a volte, da organizzatissime bande in combutta con le autorità locali. In altri casi, esisteva perfino un regolare atto di vendita del General Land Office; ma centinaia di migliaia di acri erano stati ceduti a prezzi così bassi, da non raggiungere neppure il dieci per cento di quello che l’acquirente poteva ricavare soltanto dal primo taglio di alberi. In questa lucrosa speculazione si era inserito un giro intricato di interessi politici. L’indagine portò all’incriminazione di numerose persone per “cospirazione nel defraudare gli Stati Uniti di terre demaniali”. Tra gli accusati figuravano, anche, un senatore, John Hipple Mitchell [1835-1905], e un deputato, John Newton Williamson [1855-1943], ambedue repubblicani dell’Oregon. Processati dinanzi alla Corte Federale dello Stato – un feudo del partito democratico – i due uomini politici furono riconosciuti colpevoli e condannati. In seguito, una inchiesta ordinata da George Woodward Wickersham [1858-1936], procuratore generale del presidente William Howard Taft [1857-1930], rivelò che la “crociata contro la corruzione” si era, purtroppo, risolta in una prova sconcertante di quanto fossero viziati, perfino, gli organi incaricati di amministrare la Giustizia. Francis Joseph Heney [1859-1937], procuratore della Corte Federale dell’Oregon – negli Stati Uniti, tutti i procuratori, da quelli distrettuali a quello generale, venivano e vengono, tuttora, eletti, pertanto, la loro carica è prettamente politica – si era rivolto a un investigatore privato, William John Burns [1861-1932], per conoscere le opinioni politiche dei cittadini proposti come membri della giuria popolare e scegliere i candidati più avversi agli imputati.

William John Burns [1861-1932]


 Francis Joseph Heney [1859-1937]

Nel fascicolo ingiallito della inchiesta Wickersham si trova, ancora oggi, un appunto autografo di Burns, sul quale, accanto ai nomi proposti per la giuria, si leggono annotazioni come queste:
“Socialista, anti-Mitchell.”;
“Condannerebbe anche Cristo.”;
“Vedrebbe volentieri Mitchell impiccato.”.
Di fatto, la giuria popolare risultò, interamente, composta da democratici e socialisti e da repubblicani della corrente contraria a Mitchell. Sei anni dopo, la Corte Suprema riaprì il processo: Williamson fu assolto con formula piena; ma il senatore Mitchell, nel frattempo, era morto, in carcere. A Washington, sebbene non fossero, ancora, conosciuti né la reale gravità dei “furti di terre” né lo sconcertante retroscena del processo, l’incriminazione dei due parlamentari produsse sul Congresso una penosa impressione. I numerosi oppositori dell’Amministrazione Roosevelt stigmatizzarono come un grave abuso l’avere impiegato agenti del Dipartimento del Tesoro per compiti che esulavano dalle loro competenze; e gli uomini del Servizio Segreto furono definiti “spie”, di cui il governo si serviva contro gli avversari politici. Questa diffusa ostilità determinò il rigetto della richiesta, avanzata, nel 1907, dal nuovo procuratore generale, Charles Joseph Bonaparte [1851-1921], il quale aveva proposto al Congresso la costituzione di un “corpo esecutivo” alle dirette dipendenze del suo dipartimento, sottolineando che “un Dipartimento di Giustizia senza alcuna forza di polizia permanente, in qualche forma sotto il suo controllo, senza dubbio, non può dirsi pienamente attrezzato per svolgere il suo compito”.
 

William Howard Taft [1857-1930]



Charles Joseph Bonaparte [1851-1921]

Al contrario, il 27 maggio 1908, il Congresso approvò uno speciale emendamento per proibire a qualunque organo esecutivo, Dipartimento di Giustizia compreso, di servirsi degli agenti segreti del Dipartimento del Tesoro.
Ciò irritò, profondamente, il presidente Roosevelt, le cui buone intenzioni nel condurre a fondo la campagna moralizzatrice erano assolutamente fuori discussione.
“La proibizione di impiegare gli uomini del Servizio Segreto arrecherà un grave danno al Governo, nel suo sforzo di prevenire e punire i crimini.”,
dichiarò al presidente del Senato, quando ancora sperava in un rigetto della decisione, già presa dall’altro ramo del Parlamento. E aggiunse:
“Non vi è protesta più stupida di questa contro le “spie”. Soltanto i criminali hanno ragione di temere i nostri agenti!”    
Intanto il New York Times scriveva:
“I deputati sono divenuti, per quanto contro volere, gli strumenti dei “ladri di terre”. I senatori sono, debitamente, ammoniti…”
Ciò nonostante, anche il Senato passò l’emendamento. Poco dopo, come attesta negli archivi dell’FBI un rapporto dell’agente speciale James G. Findlay [https://www2.fbi.gov/libref/historic/history/historic_doc/findlay.htm], “il presidente Roosevelt diede a Bonaparte istruzioni di creare in seno al Dipartimento di Giustizia un servizio investigativo sottoposto a nessun altro Dipartimento o ufficio, che dovrà riferire a nessun altro che al procuratore generale”.
Charles Joseph Bonaparte sottopose il progetto organizzativo a Theodore Roosevelt, il 26 luglio 1908; ma, intanto, il mandato presidenziale stava per scadere e tutto lasciava prevedere che le prossime elezioni determinassero un completo capovolgimento politico, con l’avvento al potere dei repubblicani; di conseguenza, nessuno si preoccupò seriamente di realizzare l’iniziativa.
Dalle urne risultò vincitore William Howard Taft, che nominò, subito, un nuovo procuratore generale, nella persona di George Woodward Wickersham [1858-1936]. Questi, il 4 marzo 1909, appena dodici giorni dopo l’insediamento di Taft alla Casa Bianca, costituì il Bureau of Investigation, apportando solo lievi modifiche allo schema approntato dal suo predecessore.
Purtroppo i primi quattro anni del nuovo organismo furono dedicati, pressochè esclusivamente, all’inchiesta sul caso Mitchell-Williamson, cui ho, precedentemente, accennato. Conseguentemente, la polizia federale iniziò a funzionare, sia pure ancora molto stentatamente; ma già con i criteri organizzativi che avrebbero portato ai suoi successivi trionfi, soltanto il primo gennaio del 1913, quando Alexander Bruce Bielaski fu chiamato a sostituire Stanley Wellington Finch [1872-1951], il primo direttore del Bureau.

 
 
George Woodward Wickersham [1858-1936]

Nel 1914, gli Stati Uniti attraversano uno dei momenti più critici della loro storia.
Nel travaglio della nascente civiltà industriale, i delitti si moltiplicano e, indice molto più preoccupante, continua ad aumentare la percentuale di quelli rimasti impuniti.
Alexander Bruce Bielaski, ora, ha ai suoi ordini 219 agenti, con i quali si sforza di combattere i “pesci grossi” della criminalità; ma, in molte città, gli sceriffi e i procuratori distrettuali, eletti con l’appoggio di maneggioni senza scrupoli, non si preoccupano neppure di nascondere la loro lucrosa connivenza con i dittatori locali del dollaro.
In zone sempre più vaste l’unica legge rispettata è quella imposta dalla rivoltella e dal ricatto.
A Colorado Springs, l’agente federale Joe Ball – come sempre negli archivi e nei rapporti dell’FBI, il nome è convenzionale – si presenta al procuratore distrettuale, a conclusione di pazienti indagini, svolte tra ostacoli e omertà di ogni genere.
“Chiedo un mandato di arresto per John Bullwater.”,
dice.
“Perché mai?”,
replica il magistrato, fingendosi stupito.
“Johnny è una persona rispettabilissima. La nostra città gli deve molto.”
“È il mandante di una serie di omicidi, che sono serviti ad assicurargli la proprietà di molte miniere della zona.”,
replica il G-Man.
“Siete in errore: si è, sempre, trattato di disgrazie.”,
assicura il procuratore.
“Ho indagato io personalmente su tutti quegli incidenti.”
“Non vi sembra alquanto strana questa catena di disgrazie, che, in poco più di due anni, hanno colpito, esclusivamente, i più ricchi minatori?
E non vi sembra strano che ogni disgrazia abbia portato altro oro e altro argento proprio alle casse di Bullwater?”
“Ogni caso è stato accuratamente indagato da me e dal nostro sceriffo.”,
assicura, ancora, il procuratore distrettuale.
“E sempre è stato accertato che i decessi sono avvenuti per cause puramente accidentali. I minatori sono esposti più di ogni altro ai rischi di incidenti sul lavoro. Quanto a Bullwater, è stato molto generoso, offrendo alle vedove e agli orfani dei minatori morti di rilevare le miniere abbandonate…”
“Ha costretto le vedove a vendere per quattro soldi proprietà di immenso valore, per il timore di altri omicidi!”,
tuona Joe Ball.
“Moderate le vostre parole!”,
intima il magistrato.
“Non avete alcuna prova per sostenere le vostre infami accuse.”
“Invece io ho le prove!”,
replica, con veemenza, l’agente federale.
“Ho rinvenuto il corpo di Dan O’Bryant, il minatore che, tre settimane fa, è affogato “per disgrazia” nel Sawatch River. È crivellato di proiettili. E un testimone dichiara di avere visto gli uomini di Bullwater ammazzarlo, prima di buttarlo nel fiume.”
“Quando è così, devo consultarmi con lo sceriffo. Attendetemi qui.”,
conclude il procuratore distrettuale.
Torna, poco dopo, con il capo della polizia locale, al quale Joe Ball comunica la sua recente scoperta.
Improvvisamente, il procuratore ordina:
“Sceriffo, perquisite questo uomo!”
Due sgherri immobilizzano l’agente.
Lo sceriffo gli trova in tasca una pistola.
“Dunque andavate in giro armato!”,
grida il procuratore distrettuale.
“Voi che vi permettete di accusare gli innocenti, avete commesso una gravissima infrazione al regolamento, che vi impedisce di essere armato in servizio; e avete commesso un reato contro la legge di questo Stato, che punisce severamente il porto di armi abusivo.”
“Questa pistola non è mia. Non ne ho mai avuta una!”,
protesta Joe Ball.
“Mi è stata messa in tasca dai vostri uomini!”
“Vi dichiaro in arresto!”,
tronca il procuratore distrettuale. Prima che il G-Man venga rimesso in libertà, viene fatto sparire il cadavere di Dan O’Bryant, l’unica prova contro Bullwater e viene fatto egualmente “sparire” l’unico testimone.
Ma a Joe Ball è andata bene!
Nel Dakota, un altro G-Man muore in circostanze molto sospette; il referto del medico legale, tuttavia, parla di collasso cardiaco. Bielaski non riesce neppure a ottenere dal procuratore distrettuale il permesso di fare eseguire una autopsia. In seguito allo sconcertante episodio, il capo dell’FBI affronta, con molta decisione, James Clark McReynolds [1862-1946], il quale ha sostituito Wickersham come procuratore generale.
“Un organo di polizia speciale, alle dirette dipendenze del Governo,”,
protesta il direttore del Bureau,
“non può limitarsi a dare la caccia ai ladri di galline!
La nostra esistenza può essere, realmente, utile, solo se ci verranno dati poteri eccezionali, che ci consentano di colpire senza timori i grossi criminali, soprattutto quando siano protetti dai politicanti…”

James Clark McReynolds [1862-1946]


Thomas Watt Gregory [1861-1933]


È proprio questo che molti non vogliono.
Quando McReynolds, stanco di essere pungolato dal suo collaboratore, si decide controvoglia a presentare al Senato alcuni emendamenti allo statuto del Bureau of Investigation, viene, immediatamente, “silurato” e sostituito con Thomas Watt Gregory [1861-1933].
Alexander Bruce Bielaski riesce a conservare il posto solo grazie alla protezione del presidente Taft.
Sono ancora lontanissimi i tempi in cui dalle imprese dell’FBI i soggettisti di Hollywood ricaveranno una fonte inesauribile di ispirazione…  


   Daniela Zini
   Copyright © 17 maggio 2016 ADZ

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