“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

mercoledì 7 febbraio 2018

MERCANTI DI ARMI MERCANTI DI MORTE I. La vendita di armi al Terzo Mondo nel ventennio 1950-1970 di Daniela Zini


MERCANTI DI ARMI
MERCANTI DI MORTE


Io sono qui per provare qualcosa in cui credo: che la guerra è inutile e sciocca, la più bestiale prova di idiozia della razza terrestre. Io sono qui per spiegare quanto è ipocrita il mondo che si esalta per un chirurgo che sostituisce un cuore con un altro cuore, e poi accetta che migliaia di creature giovani, col cuore a posto, vengano mandati a morire, come vacche al macello, per la bandiera.” 
Oriana Fallaci 




































 





“I have no special talent.

I am only passionately curious.”

Albert Einstein
 


à mon Père, le premier Homme de ma vie, qui a fait de moi un Homme.
Merci, Papa!

On meurt peu à peu, jour après jour, renoncement après renoncement.
Les ruses sont inutiles.
On ne retrouve la pureté que dans le courage envers nous-mêmes.
Euripide a dit:
“Les mains pures et les coeurs souillés.”
On a le devoir de s’interroger sur les souillures cachées des coeurs.
On a perdu le respect de l’Homme, on a plus vu en lui l’image de Dieu.
Faust n’était possible qu’en Allemagne.
Faust est enchaîné aux puissances de l’ombre.
Il ne peut pas écarter la Magie de sa route.
Le drame de sa Vie est celui d’un possédé.
Il a trompé le Monde et l’a saccagé parce que son moi dévorant ne pouvait s’y assouvir.
Cette avidité de la Vie et en même temps cette insatisfaction inguérissable!
Il voit l’horreur de ce viol de la création par la main de l’Homme, mais il en vois en même temps la tristesse, la pauvreté finale.
“Ich bin nur durch die Welt gerannt.”
[Je n’ai fait que traverser le Monde en courant.]
Ce sont les mots mêmes que Johann Wolfgang von Goethe place dans la bouche de son Héros.
On pourrait les mettre au-dessus de mon effigie.
Les peuples ne sont envisagés qu’en fonction du tribut militaire qui peut en être extrait; les Pays, qu’en fonction des matières premières qu’ils peuvent fournir au potentiel de guerre...
Et après?
Quand tout cela arrive à son but et que la Guerre est là [comme il doit fatalement arriver] et que finit un beau jour la Guerre?
Alors?
Il ne reste plus qu’à préparer scientifiquement la prochaine Guerre!
Les armées, les divisions ont dévalé en torrent...
Le Grand Silence de la Nature demeure...
Enterrez-moi avec mon Epée: j’en aurai besoin.



Qui aimerait être sourd et aveugle pour ne pas voir et entendre les atrocités de ce millénaire?
Grâce à une longue enquête qu’il a menée au Moyen-Orient, aux Etats-Unis, en Amérique Latine et en Europe, l’écrivain ouvre les dossiers du terrorisme international. Au terme de son “voyage” à l’intérieur des mouvements subversifs, l’auteur, puisant aux sources les plus secrètes, tire de l’ombre les tueurs sans frontières. Il révèle les complicités dont ils bénéficient dans les Etats qui les protègent. Agents secrets, mercenaires idéalistes et responsables politiques se côtoient dans cette étude minutieuse.
L’idéologie rend sourds et aveugles.
Elle refuse d’écouter ce qui n’entre pas dans son Univers sectaire.
La grande majorité des gens sont sourds et aveugles aux problèmes du Monde!
Tant qu’ils ne sont pas directement concernés et que les fléaux ne leur tombent pas sur la tête, ils s’en moquent!
Ils ne voient même pas qu’une grande partie de ces problèmes ont une incidence directe sur leur Vie.
La Liberté n’est pas une exigence que nous devrions attendre de la Société ou de l’Etat; elle est d’abord une exigence intérieure.
Quand les prisons de nos regards et les tombeaux des mots s’ouvrent, quand les barbelés de nos représentations sont arrachés, quand les écrans et les voiles de nos esprits sont déchirés et que les regard en miroirs sont brisés, alors les regards simples, pauvres et nus se lèvent et, sans appui, marchent à travers les murs. Comme les vitraux d’une cathédrale de lumière, ils dansent les mille couleurs des choses. Sur la montagne vide, par delà la grâce des mots et la lourdeur des choses, les mots se font silence-sonore, ténèbres-lumineuses, absence-présence.
Folie humaine ou sagesse divine?
C’est la douce folie des Enfants, des Artistes et des Saints qui nous invitent à vivre en poésie, accordés avec cet au-delà, qui se voile et se dévoile dans le silence des choses comme dans les secrets de nos histoires.
Ce qu’il y a de plus important dans la Vie, c’est d’apprendre à vivre.
Il n’y a rien que les hommes se montrent plus désireux de conserver que la Vie, et il n’y a rien qu’ils s’efforcent moins de bien diriger.
Y réussir est chose moins facile qu’on ne pense.
La Vie
dit Hippocrate au commencement de ses Aphorismes médicaux,
est courte, l’Art est long, l’Occasion passagère, l’Expérience trompeuse et le Jugement difficile.
Le bonheur et le succès ne dépendent pas des circonstances, mais de nous-mêmes.
Plus d’hommes ont dû leur ruine à leurs propres fautes qu’à la malveillance des autres; plus de maisons et de villes ont été anéanties par l’homme que par des tempêtes et des tremblements de terre.
Parler aujourd’hui d’émerveillement peut sembler une folie, mais cette folie n’est-elle pas la plus grande sagesse devant la désespérance de ce Monde?
Toute l’Histoire de la Philosophie, depuis les Pré-socratiques jusqu’à Martin Heidegger tourne autour de ce mystère de l’étonnement devant le sublime de la Vie.
Avoir l’esprit philosophique,,
écrit  Arthur  Schopenhauer,
c’est être capable de s’étonner des événements habituels et des choses de tous les jours.
Et Albert Einstein nous assure:
Celui qui a perdu la faculté de s’émerveiller et qui juge, c’est comme s’il était mort, son regard s’est éteint.
Nous retrouvons chez tous les Grands Hommes cette illumination du regard. L’Homme devient génial quand son moi ne fait pas écran entre le Réel et la Vérité; par leur avoir, leur pouvoir, ou leur savoir, les Hommes se rendent aveugles.
L’Homme d’aujourd’hui tombe volontiers dans l’erreur de croire que tout peut être expliqué, qu’il n’y a plus de mystère. Et que l’émerveillement ne serait que l’effet de la nouveauté sur des esprits ignorants.
L’Humanité occidentale périt de cette perte du sens du merveilleux, qui est une confusion entre problème et mystère. Elle a perdu le sens du réel, en confondant réel, imaginaire et symbolique.
L’idolâtrie des choses ou des idées, et maintenant des images, est une vieille tentation de l’Humanité!
S’étonner, c’est se laisser surprendre par les choses les plus simples de la Vie.
Entre le choc de l’étonnement et la Terre Promise de l’émerveillement, il y a un long chemin d’exode, où notre esprit s’éveille et où notre regard se libère.
Il nous est dit au premier chapitre de la Genèse qu’à la fin du sixième jour:
Dieu vit tout ce qu’il avait fait et voici, tout était très bien.
Non seulement bien, mais très bien; et cependant combien peu d’entre nous savent apprécier l’admirable Monde où nous vivons?
Plusieurs d’entre nous marchent à travers la Vie comme des Fantômes: ils se trouvent dans le Monde sans en faire partie. Nous avons des yeux pour ne point voir et des oreilles pour ne point entendre.
Pour voir, il faut regarder.
Regarder, c’est garder, c’est monter la garde, non pour prendre l’Autre en flagrant délit mais pour se laisser surprendre.
Regarder, c’est devenir Gardien de l’Etre, c’est veiller dans l’attente d’une sensation vraie”, comme dit  Paul Cézanne.
Regarder est beaucoup moins facile que de ne pas regarder, et c’est un don précieux que d’être capable de voir ce qui passe devant nos yeux.
John Ruskin affirme :
Ce que l’esprit humain peut faire de plus grand en ce Monde est de regarder et de raconter tout simplement ce qu’il a vu.
Je ne pense pas que les yeux de John Ruskin soient meilleurs que les nôtres, mais comme il voit plus de choses avec les siens!
L’émerveillement naît d’abord du silence, et il conduit au silence. Ce silence de soi est la première condition de sa manifestation. Le silence est la trace en nous de l’émerveillement; et celui-ci est proportionnel au silence qu’il fait naître en nous. Quand l’œil écoute la musique du silence, l’esprit perçoit la mélodie secrète des choses. Le silence et l’émerveillement accomplissent ce miracle de nous introduire dans le dialogue avec un au-delà du visible et du lisible.
J’aime le silence.
Il permet d’entendre la mélodie de l’âme. Celle de l’Autre, lorsque je l’écoute se dire, ou la mienne lorsqu’elle murmure en paix.
Le silence me rapproche de l’état de nature, me rappelle que j’en suis un élément.

La nature qui fait toutes choses pour qu’elles répondent à une intention et une destination précises, comme ils le disent justement, n’a pas donné la sensation à l’animal simplement pour pâtir et sentir, mais parce que, entouré d’êtres dont les Uns lui sont appropriés et les autres inappropriés, il ne pourrait survivre un seul instant, s’il n’apprenait à se garder des Uns et à se mêler aux Autres. Or, si la sensation fournit à chacun semblablement la connaissance des Uns et des Autres, les conséquences de la sensation, la saisie et la poursuite des choses utiles, le rejet et la fuite des choses funestes et pénibles, nul moyen qu’elles se rencontrent chez qui n’a pas reçu par nature la faculté de raisonner, juger, se souvenir et être attentif. Les Etres qu’on dépouillera de toute attente, de tout souvenir, projet ou prépara­tion, de l’espoir, de la crainte, du désir et de l’affliction, il ne leur servira de rien d’avoir des yeux ou des oreilles; et il vaut mieux être débarrassé de toute sensation et de toute imagination qui ne s’accompagnent pas de la faculté qui en fait usage, que d’éprouver peine, douleur et souffrance sans avoir les moyens de repousser ces maux. Et justement le physicien Straton démontre que sans l’intellection absolument aucune sensation ne se produit. Souvent en effet un texte que nous parcourons des yeux, des paroles qui frappent notre ouïe nous échappent et nous fuient, parce que notre esprit est occupé à autre chose; puis il revient: alors il change sa course et poursuit un à un chacun des mots qu’il a laissé échapper. C’est en ce sens qu’il a été dit c’est l’intellect qui voit, l’intellect qui entend: le reste est sourd et aveugle; car l’affection qui a pour siège l’oeil ou l’oreille ne produit pas de sensation sans la présence de la pensée. D’où la réponse du roi Cléomène: il assistait à un banquet où se faisait applaudir un chanteur dont on voulut savoir s’il ne semblait pas habile: Voyez vous-mêmes, demanda‑t‑il, pour moi j’ai l’esprit dans le Péloponnèse. Donc tous les Etres qui possèdent la sensation, nécessairement possèdent aussi l’intellection.
Porphyre, De l’Abstinence, 3, 21.5

Bien que nous ayons une ferme Espérance dans les progrès de la race humaine, cependant individuellement, en avançant en âge, nous nous détachons de bien des choses qui, dans notre jeunesse, nous procuraient le plaisir le plus intense. Mais, d’un autre coté, si notre temps a été bien employé, si nous nous sommes prudemment chauffés les mains au foyer de la Vie, il se peut que l’âge nous donne plus que nous ne perdons. A mesure que nos forces diminuent, nous sentons moins aussi la nécessité de l’exercice; l’Espérance, peu à peu, fait place à la Mémoire.
Celle-ci ajoutera-t-elle à notre bonheur ou non?
Cela dépend de ce qu’aura été notre Vie ici-bas.
Il y a des Vies qui perdent de leur valeur à l’approche de la vieillesse; chaque jouissance se flétrit l’une après l’autre, et celles mêmes qui subsistent perdent peu à peu de leur saveur. D’autres, au contraire, gagnent en richesse et en paix au-delà de ce que le temps leur a dérobé.
Les plaisirs de la jeunesse peuvent l’emporter en intensité et en saveur, mais ils sont toujours mélangés d’anxiété et d’agitation, et ne peuvent égaler en plénitude et en profondeur les consolations que l’âge apporte comme la plus belle récompense d’une Vie exempte d’égoïsme.
Il en est de la fin de la Vie comme de la fin du jour: il se peut qu’il y ait des nuages, et cependant, si l’horizon reste clair, la soirée sera belle.
Emanuel Swedenborg suppose que dans le Ciel les Anges avancent continuellement vers le Printemps de leur Vie, si bien que plus ils ont vécu longtemps, plus ils sont jeunes en réalité.
N’avons-nous pas des Amis qui semblent réaliser cet idéal, qui ont gardé, du moins par l’esprit, toute la fraîcheur de l’enfance?
Voilà une histoire qui devrait faire prendre conscience de la difficulté à accepter la réalité telle qu’elle est.
Le Bouddha raconta cette histoire à ses moines:

Un jeune veuf se dévouait à son petit garçon. Mais pendant qu’il était en voyage pour son métier, des bandits incendièrent tout le village, le laissant en cendres, et enlevèrent le petit garçon. Quand le père rentra, il ne retrouva que des ruines et en eut le coeur brisé. Voyant les restes calcinés d’un enfant, il crut que c’étaient ceux de son propre fils, prépara une crémation, recueillit les cendres, et les mit dans un sac qu’il emportait partout avec lui.
Un jour, son vrai fils parvint à échapper aux bandits et à retrouver le chemin de la maison, que son père avait reconstruite. Il arriva, tard dans la nuit et frappa à la porte. Le père demanda:
Qui est là?
C’est moi, ton fils. S’il te plait fais-moi entrer!
Le père, qui portait toujours les cendres avec lui, désespérément triste, crut qu’il s’agissait d’un misérable qui se moquait de lui. Il cria:
Va-t-en!
Son enfant frappait et appelait sans cesse mais le père lui faisait toujours la même réponse. Finalement le fils partit pour ne plus jamais revenir.
Après avoir terminé ce récit le Bouddha ajouta:
Si vous vous accrochez à une idée comme à une Vérité inaltérable, quand la Vérité viendra en personne frapper à votre porte, vous ne serez pas capable d’ouvrir et de l’accepter.
[tiré de l’Udana Sutta]

C’est tellement plus simple de qualifier son contradicteur de fou, d’aliéné, de naïf ou d’imbécile!
Car, même si elle ne fait pas toujours plaisir, même si elle nous dérange dans notre confort et nos idées bien ancrées, même si elle chamboule le bon ordonnancement des choses, même si parfois elle fait peur, je crois qu’il faut pouvoir regarder et entendre la Vérité nue, sans fard et en faisant fi de nos croyances et de nos certitudes. Et c’est bien là le plus complexe...


“The Cold War in Africa is one of the darkest, most disgraceful pages in contemporary history, and everybody ought to be ashamed.”

Ryszard Kapuscinski

La Storia è un libro talmente aperto che è impossibile sapere se a profilarsi sarà la migliore o la peggiore delle ipotesi.
Fino a qualche anno fa, l’Occidente si era abituato a una certa stabilità nell’ordine mondiale.
Due grandi sistemi si contrapponevano l’un l’altro.
In Occidente, esistevano forme lievemente differenziate di democrazia liberale; nell’Est, si era affermata una forma di comunismo praticamente monolitica. I confini tra i due ordini erano stati definiti alla Conferenza di Jalta [4-11 febbraio 1945], cui erano seguiti piccoli aggiustamenti.
Oggi, sembra strano, ma, in realtà, l’Occidente gioiva che il mondo avesse una alternativa al capitalismo.
Chiunque, nell’Unione Europea, avesse osato suggerire di esportare il capitalismo oltre la Cortina di Ferro sarebbe stato considerato un folle; tutti sapevano che una cosa simile era impossibile e, inutilmente, provocatoria.
Avere un antagonista era rassicurante e lo fu ancora di più quando ci si rese conto che il comunismo non avrebbe vinto la sfida in nessun contesto produttivo. L’Occidente si sentiva, particolarmente, soddisfatto che il proprio sistema economico godesse, negli Anni Ottanta, di una crescita economica costante, mentre il comunismo si trovava in una fase di ristagno.
E, quando, nel 1989, le cose iniziarono a cambiare, pochi occidentali riuscirono a ingranare, prontamente, una nuova marcia.
A lungo, si era creduto che l’Occidente non dovesse intervenire negli affari dell’Est e la prima reazione dell’Occidente di fronte al crollo del comunismo, alla fine degli Anni Ottanta, fu di grande euforia, giacché il comunismo si era sgretolato al suo interno, risparmiando, così, all’Occidente ogni sacrificio nel corso del processo.
Agli occidentali non rimase che stare incollati alla televisione per assistere alla caduta dei dittatori, che, come tessere del domino, crollavano l’uno dopo l’altro. Ma dopo la decapitazione del quarto o quinto uomo, le notizie che giungevano dall’Europa Orientale erano cosa, ormai, risaputa e l’interesse dell’Occidente venne meno.
Ovviamente, non passò molto tempo prima che i cittadini delle Nazioni occidentali iniziassero a sperimentare un vago, sconosciuto timore per il proprio futuro, che si manifestò in due modi, tra loro correlati: un vivo interesse per quanto sarebbe accaduto nell’Europa dell’Est e una crescente preoccupazione per il futuro dell’Occidente.    
Quando, nell’agosto del 1994 [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/08/25/murmansk-cimitero-atomico-paradiso-per-ladri.html, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/08/14/il-mercato-radioattivo.html], si venne a sapere che era stata recuperata una partita di plutonio russo, precedentemente rubata, la domanda – per la quale non vi era risposta – fu:
“In quale misura le risorse nucleari della ex-Unione Sovietica erano, ancora, nelle mani di ignoti?”

“New York, 22 ago [Adnkronos] – Per sviluppare un ordigno nucleare è sufficiente una quantità di materiale fissile molto inferiore di quanto fino a ora reso noto ufficialmente. Con un solo chilogrammo di plutonio 239, non con gli otto chilogrammi considerati il limite minimo, può essere già possibile innescare una reazione a catena di una mini-bomba dal potere distruttivo equivalente di 1000 tonnellate di tritolo [equivalente a 15mila tonnellate di tritolo era l’ordigno sganciato su Hiroshima nel 1945].
L’allarme, enfatizzato dal recente sequestro di ben 330 grammi di plutonio 239 di presunta provenienza russa da parte della polizia tedesca, è stato lanciato dal Consiglio per la Difesa delle Risorse Naturali americano[1], una autorevole organizzazione di ricerca privata, i cui risultati, anticipati dal quotidiano ‘‘New York Times’’, saranno annunciati oggi a Washington.
La scorsa settimana il Consiglio per la Difesa delle Risorse Naturali aveva scritto alle Nazioni Unite e al governo di Washington per chiedere di considerare i nuovi dati, sottolineando che ‘‘i criteri utilizzati attualmente sono sorpassati, tecnicamente sbagliati, e chiaramente pericolosi alla luce dei sequestri recenti’’, come ha commentato Thomas Cochran, esperto in materia dell’organizzazione, autore della proposta di revisione basata oltre che sui suoi calcoli su una attenta rilettura dei documenti e su discussioni con esperti.”
[http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/1994/08/22/Esteri/NUCLEARE-ALLARME-SOLO-1-KG-DI-PLUTONIO-PER-LA-BOMBA_155300.php] [2]

Per ironia della sorte, il comunismo ha molto in comune con il fondamentalismo islamico: entrambi pretendono di avere risposte chiare a tutti i problemi del mondo.
Quando l’imam Ruhollah Khomeini destituì, nel 1979, lo shah Mohammad Reza Pahlavi, l’Occidente si rese conto di quanto poco cogliesse il mondo orientale e musulmano. Neppure il concerto di Woodstock, nel 1969, era riuscito a mobilitare le  folle oceaniche che l’imam Khomeini radunava a Tehran, dieci anni dopo. Fino a quel momento, i terroristi arabi avevano goduto dell’appoggio dei dittatori e dei movimenti di liberazione, quando inventavano nuove strategie. Per la prima volta, l’Occidente si dovette misurare con uno Stato fondamentalista che faceva dell’esportazione internazionale del terrorismo un obiettivo centrale della propria politica.
I principali problemi che derivano all’Occidente dal fondamentalismo islamico sono politici e non ideologici.
Il fondamentalismo islamico è come un prodotto che non avrà, mai, una diffusione universale, ma egualmente sarà conosciuto da tutti e si espanderà, perché può contare su numerosi “venditori” addetti al settore. E, come solo pochi hanno compreso, questi venditori stanno smerciando un numero notevole di prodotti competitivi. Il fondamentalismo è, infatti, in ascesa non solo tra i musulmani, ma anche tra coloro che, in questa fase di incertezza, sono alla ricerca di certezze.
Vi è, davvero, qualcuno che crede che potrebbero essere molti gli occidentali a convertirsi all’islam?
Sicuramente no!
L’islam conta molte centinaia di milioni di seguaci, che, tuttavia, non riusciranno a creare e a mantenere un fronte panislamico compatto su alcuna questione, per un tempo prolungato.
La Guerra del Golfo ha mostrato l’assenza di compattezza dell’islam.
Il mondo islamico era talmente diviso che l’Occidente riuscì ad avere dalla sua parte diverse Nazioni islamiche.
La mancanza di solidarietà nel mondo islamico è confermata dalle vicende della stessa guerra nella ex-Jugoslavia[3]. La piccola Nazione bosniaca – isola islamica in Europa – ha avuto ben pochi aiuti dai Paesi islamici nel mondo.
L’Occidente deve avere presente che, nonostante la diffusione del fondamentalismo islamico,  la maggioranza dei musulmani non è fondamentalista. Il problema politico più immediato è il riflesso che il fondamentalismo islamico possa avere sulla stabilità dei Paesi produttori di petrolio e delle regioni che confinano con l’Europa, quali il Nord Africa.
E con l’immigrazione nei Paesi occidentali di fondamentalisti musulmani, che non accettano i principi fondamentali della democrazia liberale, si pone un altro problema: l’integrazione.
L’atteggiamento di molti emigrati nella società occidentale renderà impossibile la loro integrazione e, alla lunga, si potranno verificare tensioni in diversi Paesi.
Ma questo problema va al di là del fondamentalismo!
Molti musulmani non fondamentalisti sono emigrati, nel corso dei decenni passati, in alcuni Paesi occidentali e molti di loro non sono riusciti a integrarsi. Di conseguenza, se l’Occidente non assumerà una posizione ferma nei riguardi del terrorismo, l’Occidente dovrà pagare un prezzo molto alto.
È necessario che l’Occidente formuli un piano comune a tutto l’Occidente, per affrontare il problema della emigrazione ed evitare la crescita del numero di immigrati che non potranno essere integrati.
Questione non meno importante è l’uso degli aiuti occidentali da parte dei Paesi in via di sviluppo.
L’Occidente distribuisce aiuti umanitari per una lunga serie di ragioni. Alcuni sono motivati, esclusivamente, da ragioni etiche, di solidarietà e di sincera generosità, mantengono l’anonimato e non sono che una piccola minoranza. Altri sono motivati da ragioni diverse dalla semplice generosità: l’immagine, a esempio, e, non ultimo, il valore di un disagio che nasce dal non fare nulla.
Le domande emergono con più immediatezza delle risposte.
I programmi di aiuto ai Paesi esteri dovrebbero ispirarsi al modello dello Stato sociale, che traccia una soglia minima, al di sotto della quale non è concesso a nessun individuo di cadere?
Questi criteri devono essere applicati anche a quei Paesi nei quali gli aiuti finiscono nelle mani di uomini corrotti?
Gli aiuti del mondo occidentale dovrebbero andare solo alle Nazioni che dimostrano una reale volontà di cambiamento?
Gli aiuti dovrebbero venire convogliati attraverso i governi o attraverso quelle organizzazioni che potrebbero divenire il nucleo di una società migliore, meglio strutturata per prendersi cura dei propri problemi?
Per anni, l’Occidente si è nascosto dietro una vuota retorica, che deve essere spazzata via, se si vuole sviluppare una politica sensata.
Parlare costa poco!
Un critico letterario tedesco ha riassunto, correttamente, il problema:
“Lo Stato nei Paesi del Terzo Mondo gode di una pessima reputazione. Negli Anni Sessanta l’intervento statale nell’economia era considerato l’unica via di uscita dal sottosviluppo. Oggi, molti lo considerano la causa. Oggi coloro che offrono gli aiuti umanitari si pongono una domanda comprensibile: il loro aiuto va davvero a beneficio dei bisognosi o sparisce nelle tasche di chi detiene il potere politico?”
I dubbi non riguardano, esclusivamente, la questione classica di quanta parte degli aiuti vada a ingrassare i leaders corrotti. L’efficacia dell’assistenza tecnica, offerta ai Paesi del Terzo Mondo, non sembra essere molto elevata; in istituti, quali la World Bank  [WB] e l’International Monetary Fund [IMF], si esprimono riserve sulla sua efficacia. Si ritiene che non siano stati conseguiti buoni risultati nello sviluppo delle conoscenze e delle capacità individuali e che non sia migliorata l’efficacia delle istituzioni nei Paesi che hanno ricevuto aiuti.
Nel 1938, Jomo Kenyatta[4], che, in seguito, sarebbe divenuto il primo presidente del Kenya, scriveva:
“Sarebbe stato meglio per gli africani continuare con le loro guerre tribali, combattute con orgoglio e con poche perdite, piuttosto che ricevere le cosiddette missioni civilizzatrici che significano la sottomissione delle razze africane a una perpetua condizione di servitù.”

Il principe Filippo di Edimburgo, il presidente del Kenia Jomo Kenyatta e la regina d’Inghilterra Elisabetta, 1972.

Oggi, dopo i genocidi in Africa e in relazione a ciò che un uomo politico ruandese chiamava  “la nostra cultura nazionale dell’assassinio”, le parole di Kenyatta – probabilmente vere nel momento in cui furono scritte – appaiono prive di significato.  Sfortunatamente, molti Stati africani sono incapaci di dirimere le loro dispute interne senza grandi spargimenti di sangue.
È chiaro, oggi, che, quando gli Stati Uniti decisero di intervenire in Somalia[5], non avessero compreso i reali problemi della Nazione. Il presidente del Consiglio di Sicurezza meglio avrebbe fatto a subordinare il voto alla lezione che viene dalla lettura di Karen Blixen[6].
In Ombre sull’erba, pubblicato nel 1960, mentre la decolonizzazione era, già, in corso, Karen Blixen aveva scritto:

I Kikuyu, i Kawirondo e i Wakambo, le genti che lavoravano con me alla fattoria, nella prima infanzia erano molto piú avanti dei bambini bianchi della stessa età, ma all’improvviso si fermavano a uno stadio corrispondente a quello di un bambino europeo di nove anni. I somali erano andati più in là e avevano la mentalità che ha la nostra razza tra i tredici e i diciassette anni.”

 Karen Blixen
La fattoria di Karen Blixen è stata da tempo trasformata in museo. Il governo danese ne fece omaggio, negli Anni Sessanta, al presidente keniano Jomo Kenyatta.

Sarebbe stato un ottimo investimento, per gli Stati Uniti, mandare copie omaggio del libro a tutti i soldati in Somalia, così, vi avrebbero potuto leggere che i somali si fanno del male da soli con le loro terribili lotte tribali e che, sotto questo aspetto, sentono e ragionano in modo diverso dagli altri.
I problemi che riguardano le relazioni Nord-Sud sono tanto vaghi quanto enormi e racchiudono tanti sub-problemi. L’Occidente preferirebbe ignorare del tutto la questione, ma, poiché non è possibile farlo, si profonde in tante parole di solidarietà, mettendo mano raramente al portafoglio.
È, probabilmente, a tale proposito, che il divario tra la retorica occidentale e i fatti è massimo. L’impatto dell’intervento occidentale è, spesso, così insignificante che la retorica sembra l’unica soluzione possibile per arginare il problema senza creare troppi imbarazzi.
Peggio ancora!
Talora, l’Occidente lascia incancrenire il problema. Quando, poi, il danno è fatto, interviene per prevenire ulteriori conseguenze.
I governi e i media concentrano una eccessiva attenzione sulle missioni umanitarie di soccorso.
Un esempio?
La Francia, principale sostenitrice, in Ruanda, del sanguinario regime Hutu[7], ha acquisito più meriti per la sua missione umanitaria in aiuto ai profughi Hutu che biasimi per il suo precedente supporto al loro governo genocida.
Oggi, che il mondo non è più diviso in due blocchi contrapposti, l’Occidente ha meno interesse che mai nel trattare con il Terzo Mondo. 
I conflitti non si limitano, esclusivamente, a quanto accade oltre il confine di un Paese, vi sono segnali che indicano che le democrazie liberali devono misurarsi, anche, con minacce interne e con tutte le possibili combinazioni che nascono dall’associazione di pericoli interni ed esterni.
Nel Dopoguerra, i partiti di governo dei Paesi occidentali erano divenuti estremamente sensibili ai nemici interni. I partiti comunisti nazionali erano considerati la quinta colonna. La classe dirigente si preoccupava del domani. Sosteneva che, da un punto di vista ideologico, i comunisti nazionali fossero fedeli al proletariato internazionale e alla rivoluzione e che, quindi, servissero, in realtà, gli interessi dell’Unione Sovietica.
Con il passare del tempo, l’influenza dei partiti comunisti nell’Europa Occidentale si ridusse, così come si ridusse la fedeltà di molti di loro verso l’Unione Sovietica.
Allo stesso modo, si intravedono, oggi, i sintomi di una maggiore vulnerabilità interna alla società occidentale.
Il terrorismo, l’immigrazione e l’emarginazione, presenti in vari settori della popolazione, rappresentano tre cause eterogenee di instabilità per il mondo occidentale. I segnali si stanno, già, manifestando, ma sono pochi coloro che si preoccupano di interpretarli in dettaglio.
Nel passato, il problema dell’emigrazione veniva sepolto sotto cumuli di retorica che, oggi, appaiono falsi e utopistici. Parlare di società multiculturali ha un che di umano e di etico; ma, in realtà, sono poche le società che riescono a sormontare le difficoltà.
La maggioranza degli europei riconosce che gli immigrati arricchiscono il proprio Paese per più di un aspetto; ma è assurdo pensare che l’Europa si stia trasformando, davvero, in una società multietnica e multiculturale. I Paesi che tentano di ignorare questa realtà lo fanno a proprio rischio e pericolo.  
È semplice!
È impossibile colmare certi divari culturali e altrettanto difficile è integrare una parte degli immigrati.
Non è possibile mantenere elevati livelli di immigrazione senza pagarne, poi, le conseguenze in termini di frizioni permanenti.
La disoccupazione crescente in Europa non è la causa di queste frizioni, le ha solo accentuate!
Ricordiamo tutti quanto accadde quando l’imam Khomeini lanciò una fatwa nei confronti di Salman Rushdie, l’autore indiano de I Versi Satanici. Tutto l’Occidente ne fu sconvolto, eppure non furono pochi i musulmani, in Europa, che condivisero, pienamente, la sentenza di morte.
Oggi, l’Europa deve pagare un tributo per l’indifferenza di ieri.
Avendo ignorato il problema, l’Europa ha offerto all’estrema destra, che, in passato, era solo una forza marginale, un cavallo di battaglia.
Gli immigrati tornano a essere discriminati per il colore, la religione, le origini etniche e nazionali.
Se, in passato, l’Occidente avesse attuato una politica più realistica, gli immigrati più bisognosi – coloro che vengono perseguitati per le loro idee politiche o per la loro fede religiosa – oggi, riceverebbero una accoglienza migliore. Invece, l’Occidente era troppo preso a tessere le lodi delle società mutietniche e multiculturali. E questo prova come i valori della retorica pseudoetica, sotto i quali si celano, spesso, i veri sentimenti della collettività, producano, con il tempo, un effetto boomerang.
Che l’immigrazione continui, spesso, attraverso metodi clandestini, dimostra che non tutti si dolgono della sua proibizione.
Alcuni professionisti traggono vantaggi diretti dal tentativo di chiudere le frontiere e, nel vedere sostenuto un simile divieto, difendono i propri interessi, poiché il divieto invita al raggiro. Vi è, a esempio, chi prende danaro per aiutare le persone a varcare il confine, chi stampa documenti falsi, vi sono funzionari corrotti, datori di lavoro che sfruttano i clandestini a causa del loro status di illegalità, avvocati che si assumono la loro difesa, trafficanti di droga che utilizzano i clandestini come spacciatori.
In realtà, quella che è stata presentata come una politica tollerante e umanitaria si è rivelata una politica autodistruttiva.
La società occidentale non è né particolarmente generosa né particolarmente incline alla solidarietà e le singole eccezioni non sono che una conferma alla regola.
In ogni società esistono elementi irrazionali ed estremisti che propagandano e propagano l’odio xenofobo.
È nell’interesse della società isolare questi elementi ed evitare di seguire quelle politiche utopistiche che li rafforzerebbero.
La retorica afferma che l’intero problema è riducibile a una semplice questione di educazione civile; in realtà, il processo è lungo e lento e non può che produrre successi parziali.
Se l’Europa potesse farlo, probabilmente, deciderebbe di chiudere, di fatto, le frontiere agli immigrati, fatta eccezione per i profughi politici e religiosi. Invece, i controlli ai confini sono inefficaci e diverranno ancora meno rigidi, nel prossimo futuro, quando si limiteranno ai confini esterni dell’Unione Europea.  
Questa situazione rende confuso il destino di quella parte più vasta di potenziali immigrati, vale a dire di coloro che lasciano la propria terra per ragioni economiche.
La soluzione classica proposta a questo punto è fare in modo che l’Occidente aiuti questi Popoli a creare occupazione nel proprio Paese. Un suggerimento che sembra ragionevole, ma che, in realtà, è solo una comoda copertura per eludere il problema reale.
L’Occidente non è neppure in grado di risolvere i propri problemi occupazionali!
È, dunque, alquanto presuntuoso affermare che possa creare occupazione in quei Paesi, di cui intende estromettere i cittadini.


I. La vendita di armi al Terzo
Mondo nel ventennio 1950-1970
Nel ventennio 1950-1970, i Paesi africani acquistano armi per circa 1.000 miliardi di lire. Le industrie belliche degli Stati Uniti d’America e dell’Unione Sovietica si accaparrono la fascia più importante del mercato. Francia e Inghilterra vendono alle loro ex-colonie. I migliori clienti dell’Italia sono Sudafrica, Zambia, Ghana e Zaire.



“L’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere. È un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste.”
Ryszard Kapuscinski
 

Gazzetta del Popolo, 10 maggio 1936.

Ufficiali! Sottufficiali! Gregari di tutte le Forze Armate dello Stato, in Africa e in Italia! Camicie nere della rivoluzione!
Italiani e italiane in patria e nel mondo! Ascoltate!
Con le decisioni che fra pochi istanti conoscerete e che furono acclamate dal Gran Consiglio del fascismo, un grande evento si compie: viene suggellato il destino dell’Etiopia, oggi, 9 maggio, quattordicesimo anno dell’era fascista.
Tutti i nodi furono tagliati dalla nostra spada lucente e la vittoria africana resta nella Storia della patria, integra e pura, come i legionari caduti e superstiti la sognavano e la volevano. L’Italia ha finalmente il suo Impero. Impero fascista, perché porta i segni indistruttibili della volontà e della potenza del Littorio romano, perché questa è la meta verso la quale durante quattordici anni furono sollecitate le energie prorompenti e disciplinate delle giovani, gagliarde generazioni italiane. Impero di pace, perché l’Italia vuole la pace per sé e per tutti e si decide alla guerra soltanto quando vi è forzata da imperiose, incoercibili necessità di vita. Impero di civiltà e di umanità per tutte le popolazioni dell’Etiopia.
Questo è nella tradizione di Roma, che, dopo aver vinto, associava i popoli al suo destino.
Ecco la legge, o italiani, che chiude un periodo della nostra Storia e ne apre un altro come un immenso varco aperto su tutte le possibilità del futuro:
l. - I territori e le genti che appartenevano all’Impero di Etiopia sono posti sotto la sovranità piena e intera del Regno d’Italia.
2. - Il titolo di imperatore d’Etiopia viene assunto per sé e per i suoi successori dal re d’Italia.
Ufficiali! Sottufficiali! Gregari di tutte le forze Armate dello Stato, in Africa e in Italia! Camicie nere! Italiani e italiane!
Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’Impero. Lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le sue armi.
In questa certezza suprema, levate in alto, o legionari, le insegne, il ferro e i cuori, a salutare, dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma.
Ne sarete voi degni?
Questo grido è come un giuramento sacro, che vi impegna dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, per la vita e per la morte! Camicie nere! Legionari!
Saluto al re![8]


Baronessa Karen Christence Blixen-Finecke [1885 – 1962]

“La vera bellezza dei sogni è la loro atmosfera di libertà infinita: non la libertà del dittatore che vuole imporre la sua volontà nel mondo, ma la libertà dell’artista privo di volontà, libero dal volere. Il piacere del vero sognatore non dipende dalla sostanza del sogno ma da questo: tutto quello che accade nel sogno non accade solo senza il suo intervento ma fuori del suo controllo.”
Karen Blixen, La mia Africa

La più massiccia ordinazione viene dall’Etiopia[9]: 30 milioni di dollari in armi, chiesti dal governo militare di Addis Abeba agli Stati Uniti, per fronteggiare la guerriglia secessionista in Eritrea che, a sua volta, ricorre, prevalentemente, ad armi di fabbricazione sovietica, fornitele da Algeria, Siria, Iraq e, forse, anche Libia.
Questo non è, tuttavia, che l’ultimo episodio della corsa agli armamenti nell’Africa Sub-Sahariana. Se si calcola che, nel ventennio 1950-1970, la vendita di armi al Terzo Mondo aumenta del 9% l’anno, vale a dire oltre il doppio del tasso medio di sviluppo economico di quei Paesi, passando da 210 milioni a un miliardo e mezzo di dollari, l’Africa non teneva certo il primo posto tra gli acquirenti mondiali. Nessun Paese del Continente Nero, a esempio, possedeva missili e una marina. A eccezione della marina sudafricana di Pretoria, erano, per lo più, flotte di guardiacoste. Eppure, dal 1965 al 1969, l’importazione di armi a Sud del Sahara è di cinque volte e mezzo quella registrata nel quadriennio 1950-1954.
Molti fattori spiegano questo fenomeno.
Nei primi quindici anni della indipendenza della maggior parte dei Paesi africani, il Continente, che ha conosciuto il maggior numero di colpi di Stato e di rovesciamenti militari[10], è stato lacerato da una continua serie di conflitti di carattere tribale, frontaliero o rivoluzionario. A questo si aggiunga, anche per quei Paesi che non sono stati travagliati da guerre, il desiderio di costituire un proprio esercito, una volta partiti i colonizzatori di un tempo, per questioni sia di prestigio sia di sicurezza. Ed è nella logica delle cose che, giunti al potere, gli eserciti tendano, in genere, a rafforzarsi, anche sproporzionatamente, alle esigenze del Paese pur di mantenersi in sella. Così, a esempio, è stato calcolato che, nel 1972-1973, – secondo i dati forniti dall’International Institute for Strategic Studies di Londra – i bilanci della Difesa dei nove Paesi militarmente più potenti a Sud del Sahara – Etiopia, Ghana, Nigeria, Rhodesia, Somalia, Sudafrica, Tanzania, Uganda e Zaire – abbiano totalizzato un miliardo e 234 milioni di dollari.
Vi sono, poi, i bilanci della Difesa e gli acquisti bellici dei  Paesi minori – lo Zambia acquista dall’Italia 25 elicotteri di sostegno al combattimento Agusta-Bell AB-205 e, nel 1974, il piccolo Ruanda, sempre dall’Italia, 3 aerei biposto da addestramento Aermacchi AM-3C –. Il tutto per una cifra rimasta sconosciuta, ma che non poté essere che colossale di fronte agli altri impellenti bisogni del Continente Nero, sempre in preda alla carestia e alla fame.
Molti i mercanti di cannoni che si alternano in Africa.
Primi tra tutti i due Supergrandi.
Gli Stati Uniti, a esempio, accordano importanti aiuti militari allo Zaire e all’Etiopia, dove, nonostante la deposizione del loro grande alleato, l’imperatore Hailé Selassié, nel settembre del 1974, conservano una gigantesca base di comunicazioni.
Gli sforzi dell’Unione Sovietica si concentrano, invece, in Guinea, Mali, Mauritania, Nigeria e Somalia.     
E, infine, le ex-potenze coloniali che mantengono accordi militari con gli ex-governati.
La Gran Bretagna, che assiste il Kenia e l’Isola di Mauritius, oltre a disporre della base navale di Simon’s Town[11], in Sudafrica, vende, nel 1974, armi per circa un miliardo e mezzo di dollari, di cui una buona fetta, per ammissione delle stesse autorità inglesi, va all’Africa.
I Paesi africani erano allettati, soprattutto, dal carro armato anfibio inglese Scorpion, leggero e manovrabile, molto adatto per contrastare i movimenti di guerriglia.
Più importanti le realizzazioni francesi, nel 1974: 3 miliardi di dollari in armi vendute a 80 Paesi, alcuni dei quali africani. La produzione francese venduta in Africa varia dai prestigiosi aerei da caccia Mirage Dassault – che interessano l’Egitto, dopo essere stati acquistati dalla Libia – ai pugnali-scimitarra usati dalla guardia del corpo del presidente tunisino Habib Bourghiba. 
Nel commercio di armi con l’Africa, l’Italia[12] – che, nel 1974, esporta materiale bellico in tutto il mondo per 240 milioni di dollari – regge, dignitosamente, il confronto. I migliori clienti sono il Sudafrica e lo Zambia, ma non mancano altri acquirenti.

“L’Italia ha fatto cose sbagliate e terribili in Somalia, ma fa profondamente parte della nostra cultura, della nostra vita, della nostra psicologia. Dobbiamo continuare quel legame perché certo l’Italia potrà fare molto per la Somalia. A esempio, quando si parlerà di ricostruzione, aiutandoci a risecolarizzare la scuola. Chi, come i somali, ha perso la fede in se stesso deve sapersi perdonare. E perdonare gli altri, restaurando il dialogo.”
Nuruddin Farah[13]

All’inizio del gennaio del 1975, la magistratura torinese scopre un importante traffico di armi – si parla di 950 miliardi di lire – con il Ghana.

“Lotta Continua, 10 gennaio 1975 Un imponente traffico d’armi per 1.000 miliardi, giri di assegni da 300 milioni, un vertice fascista tenuto a Lione alla fine di dicembre con la partecipazione di almeno sei rappresentanti del golpismo italiano. Sono questi i risultati più importanti delle indagini condotte [per quanto ancora] dal giudice Violante di Torino.”

Nei primi di marzo, è la volta della magistratura genovese che interrompe, praticamente, le esportazioni verso lo Zaire, sospettando che molte casse di armi non prendano la via della Repubblica africana, bensì quella delle organizzazioni fasciste internazionali, specializzate in attentati.
A questo già rigoglioso traffico, bisogna aggiungere – anche se l’entità delle consegne è ignota – le forniture cinesi.
La Tanzania – e, in particolare Zanzibar, l’isola federata alla Tanzania – e il Congo-Brazzaville sono vere e proprie basi di Pechino per lo smistamento a tutti i movimenti di guerriglia africani di materiale bellico cinese. Un’altra via seguita dalla Cina per far giungere i suoi “prodotti” ai “ribelli” è costituita dai Paesi arabi, soprattutto l’Algeria, dove pressoché tutte le centrali di guerriglia africane sono rappresentate diplomaticamente.
Accanto a questi fornitori tradizionali dei Paesi africani, altri ne sorgono.
È noto, a esempio, che l’intervento turco a Cipro, nel luglio del 1974, trova l’esercito greco assolutamente impreparato, perché buona parte del suo arsenale di fabbricazione americana era stato distribuito alle forze armate di alcuni Paesi arabi e africani.
Questa politica suicida – tanto più che la crisi di Cipro era stata innescata proprio dai colonnelli, allora al potere, ad Atene – era stata varata dall’ex-ministro e numero due della giunta, il generale Stylianos Pattakos, per fare uscire la Grecia dall’isolamento diplomatico, in cui si trovava all’indomani del Golpe del 21 aprile 1967, avvicinandola al Terzo Mondo.
Prima dell’affermarsi sulla scena politica internazionale di quella potenza che viene chiamata petrodollaro e, soprattutto, prima dell’ascesa al potere in Libia del colonnello Mu’ammar Gheddafi, nel settembre del 1969, Israele aveva numerosi accordi di assistenza militare in Africa. I Paesi maggiormente interessati erano: Etiopia, Tanzania e Uganda. Il presidente ugandese, il sanguinario generale Idi Amin Dada [http://www.repubblica.it/2003/h/sezioni/esteri/amin/amin/amin.html][14], aveva seguito corsi di paracadutismo in Israele, proprio come il suo omologo dello Zaire, generale Joseph-Désiré Mobutu. Israele, inoltre, aveva, notevolmente, aiutato con armi, e sembra anche con istruttori, le tribù nilotiche della Tanzania, vale a dire del Sudan Meridionale, che, per dieci anni, avevano combattuto contro il governo centrale di Kartum, prima di giungere a un accordo di riconciliazione nazionale, nel febbraio del 1972. Era questo, secondo il governo israeliano, un metodo per creare una diversione nello schieramento arabo. È da notare che nelle fila degli insorti si trovavano anche alcuni mercenari bianchi, veterani di tutti i campi di battaglia africani, come “il colonnello” Rolf Steiner. Catturato dai regolari, processato per “delitti contro l’Africa” e condannato a 15 anni di galera, Steiner fu, infine, amnistiato per ragioni umanitarie.

Rolf Steiner

L’influenza, anche militare, di Israele in Africa è cessata con la Guerra del Kippur [6-25 ottobre 1973][15], quando sotto la pressione araba, molti Paesi del Continente Nero ruppero i rapporti diplomatici con Gerusalemme. Ma anche prima si erano verificati alcuni clamorosi voltafaccia.
Ammaliato dalle offerte finanziarie libiche, il generale Idi Amin Dada – giunto al potere, a Kampala, nel gennaio del 1971 – aveva rispedito in patria gli istruttori israeliani e il loro armamentario e si era, decisamente, rivolto a Gheddafi, nel settembre del 1972, quando scoppiata, nell’Uganda Meridionale, una sollevazione armata da parte delle forze di opposizione, guidate da Milton Obote e supportate dalla Tanzania contro il governo, la Libia aveva risposto con un ponte aereo in supporto del presidente ugandese. Intercettati nel cielo sudanese e costretti ad atterrare a Kartum – a quel tempo i rapporti tra Libia e Sudan erano tesissimi –, i 5 aerei si rivelarono carichi di materiale bellico e di soldati libici. In queste circostanze, Gheddafi emerse come un alleato politico e militare affidabile per tutti quei regimi che si fossero dimostrati amici. Al contempo fu, subito, chiaro che qualsiasi governo avesse deciso di mettersi sulla sua strada avrebbe dovuto affrontare un pericoloso oppositore.
Il conflitto in Uganda costò alla Libia 400 caduti.
L’appoggio di Gheddafi al regime di Amin Dada avrebbe rappresentato, negli anni a venire, una pietra miliare della politica africana del colonnello fino al rovesciamento dello stesso regime, nell’aprile del 1979. Nel corso di quegli anni, la Libia offrì, ripetutamente, armi, aerei e aiuti economici al regime ugandese, per riaffermare la propria forza politica e militare nella regione. La guardia del corpo di Amin era composta, esclusivamente, da beduini di Gheddafi e le ultime grandi manovre dell’esercito ugandese si svolsero in funzione di una eventuale riconquista del Golan siriano occupato da Israele. 
0ltre che per le potenze grandi o piccole, l’Africa era terreno di pascolo, quanto a forniture belliche, per un’altra pletora di trafficanti, i cui nomi tornavano all’orecchio dell’opinione pubblica internazionale non appena scoppiava un conflitto in una qualsiasi parte del mondo.
Pressoché in tutte le capitali africane erano di casa, anche, i rappresentanti delle inglesi Cogswell & Harrison, dell’Omnipol cecoslovacca, della Merex tedesca-occidentale, della canadese Levy Industries, nonché della belga Sidem International.
Per comprendere, tuttavia, l’importantissimo ruolo di questi mercanti di cannoni in terra d’Africa, bisogna riandare alla storia di almeno tre conflitti che hanno interessato il continente: quello del Congo, quello del Biafra, la provincia secessionista della Federazione nigeriana e la guerra, tuttora non sopita, nello Yemen, la vasta regione meridionale della Penisola Arabica che, pur non facendo geograficamente parte dell’Africa, ne condiziona la sicurezza, controllando l’accesso a Sud del Mar Rosso.
La tragedia congolese esplode, nell’estate del 1960, quando il Belgio concede, con estrema riluttanza, l’indipendenza a questa sua gigantesca colonia. Scoppiano le prime violenze: la gendarmeria africana insorge, i bianchi fuggono dal Paese o si rifugiano nella provincia meridionale del Katanga. Qui, con l’appoggio dei regimi bianco-razzisti dell’Africa Australe, la vera padrona del Congo coloniale, la potente Union Minière è ben decisa a opporsi all’africanizzazione per meglio sfruttare le ingenti risorse minerarie. L’Union Minière trova, così, un uomo, Moise Ciombé, disposto a dare una etichetta di “africanità” al golpe e, soprattutto, sborsa sull’unghia 52 milioni di dollari. Serviranno per reclutare mercenari, circa 600, per trasformare gli stabilimenti in fabbriche di munizioni e, soprattutto, per acquistare armi in ogni parte del mondo.
Sul Katanga piove un vero e proprio arsenale. Dapprima, si tratta di materiale raccogliticcio, anche se importante: mitragliatori Uzi di fabbricazione israeliana; pezzi separati di una dozzina di caccia-bombardieri Fouga Magister, di Dornier, di vecchi P51 della Seconda Guerra Mondiale, gentilmente ceduti dal governo di Pretoria. Anche 12 aerei Harvard, con razzi francesi, giungono nel Katanga smontati in casse, su convogli battenti la bandiera della Croce Rossa Internazionale.
Scoppia la guerra e i “berretti azzurri” dell’ONU cercano di riconquistare la provincia secessionista.

Ciombé sceglie bene i suoi uomini per l’acquisto di meteriale bellico:
-      Hubert Fauntleroy Julian, forse, il più noto, nero delle Antille, sedicente colonnello della Royal Air Force britannica, celebre in Inghilterra per avere sfidato in duello aereo il maresciallo tedesco Hermann Goering. Julian riceve un assegno per molti milioni di dollari e carta bianca. Viaggia negli Stati Uniti, in Svizzera, in Svezia e casse e casse e casse di “materiale agricolo” o di “porcellane” giungono a Elisabethville, la capitale del Katanga, via Angola o Mozambico. Julian, che verrà, brevemente, arrestato dalle forze dell’ONU, nell’aprile del 1962, intasca sempre una percentuale del 15% sugli affari trattati;
-      Alois Vogt, ufficialmente fabbricante di cassette per la posta a Vaduz, in Liechtenstein. All’esercito portoghese, Vogt cede un carico di 40mila fucili inglesi Lee Enfield N.1 MarkIII veterani dell’India, al prezzo di 2 sterline e 5 scellini al pezzo. Saranno, poi, rivenduti in Katanga a 60 sterline l’uno. Vogt, tuttavia, è imparziale: così le truppe regolari congolesi ricevono 1.200 lanciafiamme sotto l’etichetta di “irroratori agricoli”;    
-      Samuel Cummings[16], che tratta in Mauser tedeschi residuati della Seconda Guerra Mondiale, in Mannlicher-Carcano italiani, in Tokarev e Mosin-Nagant sovietici, acquistati dagli israeliani che, a loro volta, li avevano strappati agli egiziani nella Campagna del Sinai del 1956;  in Springfield e in carabine M1, provenienti dai depositi americani della Seconda Guerra Mondiale.
-      Ted Holden, che, nel gennaio del 1963, acquista da Cummings il 55% della Cogswell & Harrison. Specialista nell’esportazione di materiale bellico di Oltrecortina, si assicura ottimi contratti con il Katanga.
Ma tutto questo arsenale non riesce a proteggere Ciombé e l’Union Minière
Infine, le truppe dell’ONU entrano a Elisabethville. 
Ma l’avventura congolese non termina tanto presto.
È finita una battaglia, non la guerra!
Nel Nord e nell’Est del Paese insorgono i Simba, la tribù dei “leoni”, contro il potere centrale.
Ed entrano in scena l’Unione Sovietica e la Cina, desiderose di espandere la loro influenza in Africa.
Per le forniture sovietiche e cinesi – le prime passano dal Sudan, le seconde dalla Tanzania –, i Simba pagheranno oltre 2 milioni di dollari in lingotti d’oro, prelevati nelle miniere di Moto e trasportati a spalle fino a Giuba, nel Sudan Meridionale. Ma la situazione precipita e il Congo sprofonda nel caos.
È a questo punto che Ciombé viene richiamato in patria dal suo esilio madrileno.
Il primo atto di Ciombé è utilizzare i suoi enormi capitali depositati all’estero, per raccogliere mercenari e per ricostituire un esercito.
Nel 1964, avvengono due fatti significativi.
A Genova, due doganieri si insospettiscono della pesantezza di certe casse di un mercantile olandese, che dovrebbero contenere mandorle. Le fanno aprire e ne esce un piccolo arsenale di mortai e mitragliatrici. La magistratura italiana non riesce a risalire allo spedizioniere; ma, nei circoli internazionali dei trafficanti di armi, si fa il nome di Cummings.
In ottobre, invece, a Beirut, si scopre che, su un mercantile bulgaro di passaggio, le casse, descritte come contenenti macchine da cucire per i palestinesi rifugiati nel Sudan, rigurgitano, invece, di mitragliatrici sovietiche, destinate ai Simba.
La potenza militare degli “uomini leone” è tale che, in novembre, il Belgio decide di inviare in Congo i suoi paracadutisti, per liberare alcune centinaia di bianchi che i Simba tengono in ostaggio.
Belgi, mercenari di Ciombé ed esercito nazionale congolese si muovono alla riconquista delle regioni settentrionali e orientali.
A poco a poco, Unione Sovietica e Cina cessano i rifornimenti ai ribelli, giacché i Simba non hanno più oro per i pagamenti e, spesso, durante la ritirata, le armi comuniste finiscono in mano ai governativi o alle polizie degli Stati confinanti.
La sconfitta dei Simba sarà definitiva, nel 1966, ma le armi lasciate sul terreno o nascoste nella giungla, permetteranno agli ultimi mercenari bianchi di rivoltarsi contro il generale Mobutu, divenuto, nell’estate del 1967, presidente della Repubblica.
La tragedia del Congo si trascinava, ancora, grazie ai mercenari bianchi, quando una nuova guerra civile scoppiava in Africa.
Nel giugno del 1967, infatti, il generale Odumegwu Ojukwu proclamava l’indipendenza del Biafra, la regione orientale della federazione nigeriana abitata prevalentemente dalla popolazione Igbo.
La guerra contro i regolari del presidente della Repubblica, generale Yakubu Cowon, durerà fino al gennaio del 1970 e farà 2 milioni di morti.
In realtà, prevedendo la secessione, Ojukwu stava armando il primo nucleo del suo esercito – 25mila uomini – fino dal 1966. Si calcola che, in quel solo anno, gli Igbo spesero oltre un miliardo di sterline in materiale bellico.
Il primo carico – 3.600 tra Manchester inglesi e Thompson americani – non giunse a destinazione per un contrattempo, ma in seguito, quando Ojukwu si costituì una vera e propria aviazione – 16 aerei acquistati di seconda mano dalle linee nazionali di bandiera francese, spagnola e portoghese –, il traffico assunse proporzioni colossali.
La via era pressoché la stessa: Lisbona, poi, Sao Tomé, la piccola isola portoghese nel Golfo di Guinea e, infine, il Biafra. Sovente gli aerei portavano le insegne della Croce Rossa Internazionale o dell’Ordine di Malta per sfuggire alla caccia nigeriana. Ojukwu, d’altra parte, aveva formato anche una minuscola aviazione da guerra, comprendente 2 bombardieri americani B-26, acquistati, clandestinamente, prima della secessione e un certo numero di elicotteri francesi acquistati sotto il naso delle autorità federali, facendoli passare per apparecchi civili.      
E mentre la guerra procedeva, la corsa agli armamenti da parte del Biafra divenne spasmodica. Per bloccare gli acquisti di Ojukwu,  il governo centrale di Lagos decise di cambiare la moneta, rendendo, così, inutilizzabili i depositi nelle banche del Biafra.
Gli Igbo furono costretti, pertanto, ad acquistare a qualsiasi prezzo.
Il costo di un fucile poteva raddoppiare in meno di sei mesi e, una volta, per 3 motovedette inglesi, che erano state rivendute per 10mila sterline l’una, Ojukwu dovette sborsare 435mila sterline.
Si calcola che, in poco meno di 15 giorni, il Biafra abbia speso in armi sulle piazze di Bruxelles e di Francoforte 6 milioni e 800mila dollari.
Non tutti questi soldi sono andati in materiale bellico.
Vi erano, anche, i mercenari.
Il primo nucleo – 81 uomini – erano tutti francesi, veterani della Legione Straniera e dei campi di battaglia dell’Indocina e dell’Algeria.
Poi, ne arrivarono di tutte le nazionalità.
Non mancò, naturalmente, all’appello Steiner, anche lui un ex-legionario, che fu posto alla testa della Quarta Divisione Commandos, anche se, poi, cadde in disgrazia e fu deportato in manette dal Biafra.
E vi erano, perfino, coloro che si definivano “idealisti”, come l’asso dell’aviazione svedese Carl Gustav von Rosen [https://www.youtube.com/watch?v=RpYSYPFxsSQ, https://www.youtube.com/watch?v=-YmAQlPX0lM, https://www.youtube.com/watch?v=LijgAyyGsTo, https://www.youtube.com/watch?v=ZT5HOGvafIg&t=45s], un nobile che rischiò di far cambiare il corso della guerra con le sue incursioni sulle posizioni dei federali.
Durante tutto il conflitto, il ruolo della Francia fu determinante. Il generale Charles de Gaulle aveva, subito, afferrato l’importanza del Biafra, ricco di risorse minerarie, soprattutto di petrolio. Si trattava, inoltre, di estendere l’influenza di Parigi in una regione africana fino allora considerata di spettanza inglese.     
A manovrare le fila di una imponente rete di aiuti militari e logistici è Jacques Foccart, segretario generale dell’Eliseo agli affari africani e malgasci – funzione che manterrà fino al 1974 e, in teoria, poco più che onorifica –. Non solo la Francia chiuse, spesso, entrambi gli occhi sul traffico di armi verso il Biafra; ma, in un certo periodo, lo incoraggiò apertamente.
Dagli aeroporti di Libréville, nel Gabon, e di Abidjan, in Costa d’Avorio, partivano aerei francesi per il Biafra, carichi di armi fabbricate in Francia.  
Mentre gli Stati Uniti, il Belgio, l’Italia, l’Olanda e, in un secondo tempo, anche la Cecoslovacchia avevano decretato l’embargo sulle armi destinate alla Nigeria e al Biafra – embargo che non impedì di scoprire, in Italia, un importante traffico di materiale bellico destinato a quelle zone –, dalla parte dei federali del generale Yakubu Dan-Yumma Gowon [https://www.vanguardngr.com/2017/12/regrets-head-state-gowon/] si schierò, immediatamente, la Gran Bretagna, desiderosa di mantenere le proprie posizioni di privilegio in Nigeria. Benché, ufficialmente, Londra dichiarasse la propria neutralità nel conflitto, Lagos fu, abbondantemente, rifornita di armi pesanti inglesi, soprattutto carri armati.
Un altro importante approvvigionatore dei regolari fu l’Unione Sovietica che colse, così, la palla al balzo per mettere piede in una parte del mondo che, fino ad allora, le era stata preclusa.
In Nigeria, arrivarono squadriglie di Mig e di bombardieri Ilyushin ai comandi di soldati egiziani, quegli stessi piloti che avevano dato così scarse prove durante la guerra del giugno del 1967 contro Israele. Piloti egiziani su aerei sovietici hanno combattuto, per molto tempo, anche lontano dal Golfo di Guinea, nei cieli dello Yemen, una delle porte dell’Africa Orientale.
La guerra nello Yemen era scoppiata, nel settembre del 1962, quando un colpo di Stato repubblicano aveva abbattuto il sovrano locale, l’imam Muhammad Al-Badr [http://www.independent.co.uk/news/people/obituary-imam-muhammad-al-badr-1309697.html].
Il golpe era stato, probabilmente, incoraggiato dal presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, nel tentativo di estendere la propria influenza all’imboccatura meridionale del Mar Rosso e di contrastare le posizioni dell’Arabia Saudita, conservatrice e feudale, tradizionale protettrice della Monarchia yemenita. Subito, l’Egitto spedì nello Yemen uomini e armi. Al momento del ritiro del corpo di spedizione egiziano, nell’estate del 1967, l’esercito occupante poteva contare su circa 55mila uomini.
Le armi erano, in larga parte, di fabbricazione sovietica; ma nel mercato entrarono immediatamente anche Cina, Cecoslovacchia e Bulgaria.
Si disse, allora, che i bulgari avessero consegnato ai repubblicani yemeniti anche un lotto di bombe ideate dai tedeschi, durante la Seconda Guerra Mondiale, i cui gas distruggevano il sistema nervoso. È certo, tuttavia, che i gas furono, ampiamente, usati dall’aviazione egiziana.
Contro i repubblicani di Saana, l’Arabia Saudita mobilitò, subito, a colpi di centinaia di migliaia di dollari le tribù di confine rimaste fedeli al deposto imam.
Altri finanziamenti per la causa realista vennero da ambienti petroliferi americani, preoccupati dalle manovre  nasseriane nei pressi dei loro preziosi pozzi.
Si dice, anche, che molto generosi per l’imam si dimostrassero gli israeliti americani, che cercavano, in questo modo, di insabbiare Nasser in una lunga guerra di usura, distogliendo l’attenzione dell’Egitto dall’eterno avversario, Israele.
Questi finanziamenti, come spesso accade, non servirono solo per l’acquisto di armi e per ungere le ruote delle tribù yemenite, ma anche per arruolare mercenari europei.
Agli ordini di Bob Denard, un veterano del Katanga, si schierarono, in un certo periodo, 500 “volontari” bianchi. Il loro ruolo fu determinante non solo per riportare i realisti all’attacco – giunsero, perfino, ad assediare Saana, la capitale avversaria –, ma anche per istruire e addestrare all’uso di armi moderne i guerriglieri, fondando, così, quello che, poi, è divenuto l’attuale esercito yemenita.
La guerra terminò in pratica con l’accordo di Kartum, firmato da Gamal Abd el-Nasser e da re Feisal d’Arabia Saudita, nell’agosto del 1967.
Spossato dalla clamorosa sconfitta nel Sinai a opera di Israele, il rais egiziano richiamò in patria i suoi uomini.
Feisal, in cambio, si assunse l’onere della ricostruzione economica e militare dell’Egitto. 
Ma era, veramente, tutto finito nelle sabbie dello Yemen?


Chacun de nous a un Ange Gardien sur Terre.
Cet Ange Gardien… parfois nous Le connaissons à peine, mais Il, Il nous connaissent bien, Il nous observe et veille sur nous de loin… parfois même nous ne Le remarquons même pas…
Car notre Ange peut être un simple voisin à qui nous ne prêtons aucune attention, ou que nous nous contentons de saluer en le croisant dans la cage d’escalier ou dans la rue.
Jamais un véritable Ange Gardien ne vous dira qu’Il est un Ange Gardien, et encore moins votre Ange Gardien.
Si quelqu’un vous dit:
“Je suis ton Ange Gardien!”,
méfiez-vous.
Les Anges Gardiens sont humbles, et pour rien au monde Ils ne voudront révéler leur véritable fonction.
Pour faire simple, comparons-les à des Agents Secrets.
Par définition, un Agent Secret ne révèlera à personne, même sous la torture, quel est son vrai métier.
La ressemblance s’arrête là.
Un Agent Secret a choisi son métier et il est payé pour l’exercer.
Tandis qu’un Ange Gardien n’a pas choisi d’être un Ange Gardien, c’est la Vie qui l’a décidé pour Lui.
Et Il ne reçoit aucune rémunération en échange de ses services.
Sa seule récompense est le plaisir de voir quelqu’un heureux grâce à Lui.
Ne décevez pas votre Ange Gardien.
Et surtout ne Lui faites pas de mal.
Vous pourriez Le perdre.
Les Anges Gardiens pleurent comme tous les Etres Humains.
Ne faites pas pleurer Le Vôtre!
Je peux vous assurer que je parle à mon Ange Gardien comme je parle à mes amis.
Un jour où j’étais un peu triste, j’ai fait une méditation en demandant un soutien à mon Ange Gardien et dans ma méditation, je L’ai vu en face de moi et Il m’a prise dans ses bras. C’était tellement réconfortant et apaisant que mon cœur s’est ouvert en grand et je L’ai remercié infiniment.
Je Lui dis souvent à quel point je L’aime. 
Merci Mon Ange Gardien!


Daniela Zini

Copyright © 7 febbraio 2018 ADZ
 


[1] Natural Resources Defense Council.

[2] Intorno alla metà degli Anni Novanta, sull’onda di una serie di casi eclatanti, i governi del cosiddetto mondo libero prendono coscienza e ammettono, ufficialmente, che un nuovo temibile soggetto si è affacciato sulla scena internazionale del post-Guerra Fredda: la Mafia russa, o meglio i sistemi criminali organizzati facenti capo alle ex-Repubbliche Sovietiche, giacché non si tratta di un’unica organizzazione rigidamente centralizzata, ma di una vera e propria piovra multietnica. L’emergenza è percepita nello specifico del traffico di armamenti non convenzionali e prevalentemente legati alla produzione di bombe atomiche.
Sullo sfondo si staglia la crisi/decomposizione del mastodontico, ma arrugginito, apparato militare-industriale dell’URSS. A quel tempo, dei 176 colossi del settore, 10 sono completamente fermi, 123 lavorano solo poche ore a settimana, 43 continuano a operare più o meno a tempo pieno, mentre i circa 15 milioni di addetti rimangono senza stipendio per mesi. Di qui, il saccheggio dei laboratori e delle officine e la marea montante del contrabbando, per tirare avanti. Basti pensare che, nel 1993, i furti di uranio scoperti dalla polizia nell’ex-URSS sono 11 e oltre 700 i tentativi falliti.
Quanti saranno stati, invece, quelli conclusi con successo?
Le vie del contrabbando passano, in genere, attraverso i Paesi baltici, percorrendo la Polonia e finendo in Germania, centro principale di smistamento in Occidente.
Non vengono trascurate neppure le frontiere meridionali dell’ex-impero, mal sorvegliate. I varchi sono aperti soprattutto in Moldavia e Ucraina. Nel porto di Odessa vengono confiscate 60 ampolle con 300 grammi di sostanze radioattive.
Per fronteggiare la minaccia, FBI e DEA, le due principali agenzie federali americane anticrimine, offrono il loro aiuto al governo russo nella lotta contro il drago mafioso, mettendo a disposizione uomini, strumenti e banche-dati informatizzate.
Si inizia a vedere nell’Italia il crocevia ideale delle alleanze possibili tra vecchio e nuovo crimine organizzato dell’Est e dell’Ovest, di cui si avrà più tardi prova provata.
La ragione di tale straordinaria mobilitazione è legata alla preoccupazione per la proliferazione delle armi di distruzione di massa e per la moltiplicazione delle rotte del narcotraffico, in fase di ritracciamento a seguito del declino dei cartelli colombiani.
Intervistata, nell’agosto del 1994, su queste problematiche, la giornalista americana Claire Sterling, esperta di terrorismo, dichiara:
“La bomba nucleare non è ancora accessibile sul mercato criminale internazionale. Però si è creata all’interno dei centri russi di ricerca atomica una rete di società private di export-import che nessuno sorveglia e che lavorano direttamente alle installazioni atomiche.
Se,   poi, si considera che 40mila imprese presenti dentro l’impero ex-sovietico sono in mano alla criminalità mafiosa, così come 407 banche e 47 borse di materie prime e valuta, si avrà la reale dimensione del fenomeno e la misura della probabilità che la malavita si appropri di materiali così delicati e ad alto rischio. Tutto ciò sotto il comando di migliaia di gang, che trafugano in media ogni mese ricchezze naturali e tecnologiche per un valore pari a 2 miliardi di dollari.”
Ma che profilo hanno questi bosses senza scrupoli, venuti alla ribalta con il traffico di armi e di materiali radioattivi?
In realtà il mondo inizia ad accorgersi di loro quando sono già una potenza affermata in patria ed emergente all’estero, in diversi teatri. A descriverli nei loro aspetti estetico, di costume e sociologico, è il giornalista Enrico Franceschini de la Repubblica, in un servizio da Mosca:
“Riconoscerli è facile. A modo loro, indossano sempre un’“uniforme”. Giacca a doppio petto, camicia col colletto aperto, scarpe di cuoio italiane o inglesi, anche quando le strade sono coperte di neve e fango; capelli a spazzola, collo taurino, muscoli da sollevamento pesi; telefonino in mano, gippone Nissan Patrol o Grand Cherokee a due passi. Li incontri a gruppi di quattro-cinque, il sabato pomeriggio a far la spesa al Sadko Arkade, il più grande shopping-center di Mosca. Qualche volta si portano dietro le donne, addobbate come Claudia Schiffer sulla passerella dell’alta moda. E, a parte le donne, fanno paura solo a guardarli.”

Secondo Trud, quotidiano dei sindacati, nell’ex-Unione Sovietica vi erano 160 padrini, 5.700 cosche, circa 100mila affiliati, mentre l’80% delle aziende privatizzate apparteneva alla piovra.
Viktor Iljukhin, capo di una commissione di inchiesta parlamentare, intorno alla metà degli Anni Novanta, dichiarava in proposito:
“La Russia di oggi è il più grande Stato criminale di tutti i tempi.”
Di rincalzo, il parere di una task force di ricerca, nominata dall’allora presidente Boris Eltsin:
“Mentre in Europa e in America la Mafia controlla determinate attività come prostituzione, droga e scommesse clandestine, in Russia ha invaso tutti i settori dell’economia, fondendosi con gli organi del potere esecutivo.”
“Non appagata dalla Grande Rivoluzione Criminale in patria, la piovra russa allunga i suoi tentacoli in Sicilia, a Brooklyn, in Giappone, in accordo e qualche volta in disaccordo con i gangsters italiani, americani o asiatici. Presto diventerà più potente di Cosa Nostra e dei narcotrafficanti colombiani. Crollata l’URSS, la Mafia ha fatto passi da gigante ed è diventata molto attiva in campo internazionale, rubando spazio alle vecchie e consolidate Mafie occidentali. Più giovane e aggressiva, meno burocratizzata, ha tutti i requisiti per emergere come la forza dominante nel mondo del crimine del prossimo secolo.”
Lo stesso Gurov riferisce, a questo proposito, di incontri che si sarebbero svolti tra i bosses di una dozzina di Nazioni, a Zurigo, nel 1989, e, successivamente, in Polonia, nel 1991, per decidere un’azione comune a vasto raggio.
Si consolidava, così, a metà degli Anni Novanta, l’egemonia di tre o quattro grandi consorzi malavitosi che decidevano la strategia comune e le tattiche seguite dalla galassia dei gruppi minori. Quanto alle attività illecite gestite, il contrabbando di armi e di materie prime [metalli preziosi, petrolio, legname, etc.] avrebbe costituito il core business della piovra, più sullo sfondo, invece, la droga.
Nel 1993, il giro di affari legato a questo settore si attesta intorno ai 200 miliardi di rubli.
Secondo la testimonianza pubblica resa da Hans-Ludwig Zachert [http://legislature.camera.it/_dati/leg11/lavori/stampati/pdf/36370.pdf], presidente del Bundeskriminalamt, nel solo 1992, furono scoperti 158 casi di traffico illegale di materiale radioattivo, mentre nell’anno successivo i casi furono 241.
Nel biennio 1992-1993, vi furono 39 sequestri di materiale e, nel solo 1993, furono identificati 545 sospetti, il 53% dei quali erano tedeschi, mentre la parte restante era formata in maggioranza da polacchi, cechi e russi. Questo commercio pur essendo alimentato, principalmente, dai Paesi dell’Europa Orientale, era, tuttavia, internazionale. 
Il 10 agosto 1994, la polizia tedesca sequestrò 363,4 grammi di plutonio di alta qualità e 201 grammi dì litio 6 [necessario alla realizzazione della bomba H] e arrestò un dentista colombiano e due spagnoli, che avevano effettuato il trasporto da Mosca a Monaco su un volo di linea della Lufthansa, anche se – a quanto riportato dai media – si sarebbe trattato di una transazione fasulla, messa in piedi ai servizi segreti tedeschi [https://archive.org/stream/lescienze-331/1996_331_djvu.txt].
Quello stesso mercoledì di agosto, si trovava sul medesimo volo della Lufthansa, il viceministro per l’ energia atomica russo, Viktor Sidorenko, [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/08/14/il-mercato-radioattivo.html, http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/1995/05/09/Esteri/NUCLEARE-STERN-SIDORENKO-COINVOLTO-NEL-TRAFFICO_135200.php], che avrebbe dovuto avviare rapporti di collaborazione tra Russia e Germania nel settore dell’energia nucleare civile. Venne fatto accomodare in una saletta dell’aeroporto e sottoposto a interrogatorio per accertare eventuali collegamenti tra la sua persona e il terzetto di personaggi, trovati in possesso di plutonio 239, principale componente della bomba atomica.
Nelle cancellerie occidentali scese il gelo.
Per la prima volta, si aveva la prova tangibile della fondatezza della nuke connection, la rete di connessioni tra avventurieri, Mafie dell’ex-URSS, servizi segreti più o meno deviati e terroristi, nel traffico di materiali nucleari.
Altri sequestri  di materiale radioattivo si verificarono a Budapest e a Praga.
I segnali di questo drammatico mutamento si erano già manifestati, il 10 maggio 1994, quando la polizia tedesca aveva arrestato il commerciante Adolf Jaekle di 52 anni [http://www.stampalternativa.it/liberacultura/books/tuttelemafie.pdf,
http://www.nuclearfiles.org/menu/key-issues/nuclear-weapons/issues/proliferation/chronology-fissile-material-theft.htm, https://books.google.it/books?id=FROoqAp2QJsC&pg=PT141&lpg=PT141&dq=Adolf+Jaekle++brema&source=bl&ots=m_ob14lMoW&sig=7Hz3DWAe0L37cznEdS7K7QwJxws&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiw1uWLmZTZAhWE_KQKHbC6DWcQ6AEIKDAA#v=onepage&q=Adolf%20Jaekle%20%20brema&f=false, http://www.independent.co.uk/news/world/russias-nuclear-car-boot-sale-atomic-fingerprints-should-reveal-how-stolen-plutonium-ended-up-in-a-1384750.html], in possesso di circa un milione di marchi. Nel suo alloggio, a Tengen Wiechs, gli investigatori avevano rinvenuto, inoltre, diverse agende zeppe di appunti e indirizzi di Paesi arabi e dell’Est europeo, ma il colpo di scena si era verificato nel garage, dove era emerso uno strano involucro: un contenitore di piombo alto 11 centimetri e largo 7. All’interno, erano contenuti circa 65 grammi di polvere, con un’elevata attività gamma. Secondo l’Istituto per gli Elementi Transuranici  [ITU] di Karlsruhe, la miscela conteneva almeno 6 grammi di plutonio 239, arricchito al 99,7%. Il resto, invece, era costituito da “mercurio rosso”, una misteriosa sostanza prodotta sempre dai laboratori ex-sovietici, le cui applicazioni spaziano dal potenziamento delle prestazioni dei motori spaziali alla costruzione di ordigni nucleari. L’approfondimento delle indagini aveva chiarito che il plutonio sequestrato nelle due operazioni poteva provenire da uno dei seguenti tre impianti: Celjabinsk-65 [Urali], Tomsk-7 [Siberia], Krasnojarsk-26.
All’origine di questo traffico, comunque, vi era la catastrofica situazione dell’industria russa degli armamenti nucleari, che, nel 1994, dava lavoro a circa 100mila persone, che percepivano – se lo percepivano – un salario medio di 113 dollari al mese. I lavoratori del settore ricorsero, più volte, allo sciopero per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle loro condizioni.
Nel 1996, Vladimir Nechai, 60 anni, insigne fisico nucleare, direttore del Centro Federale Studi Atomici sugli Urali, noto in era sovietica come Celjabinsk-70, si suicidò per disperazione con un colpo di rivoltella alla tempia. Prima di suicidarsi, scrisse un biglietto di poche righe per spiegare il suo gesto disperato. Un collega riferì il testo alla TASS:
“Non ce la faccio più. Né io, né gli altri tremila scienziati, ricercatori, tecnici di questo centro, riceviamo più lo stipendio dal maggio scorso. Nessuno dà ascolto alle nostre proteste. Lo stress, il senso d’ impotenza, la rabbia, mi stanno facendo impazzire. Non vedo altra soluzione che questa.”
In tali circostanze, la tentazione è troppo grande perché qualcuno tra le decine di migliaia di addetti non finisca per cedere, visto che, potenzialmente, il prezzo sul mercato nero di una quantità di plutonio a misura di bomba è nell’ordine di centinaia di milioni di dollari. Inoltre, le condizioni di sicurezza, in cui avvenne lo smantellamento delle basi sovietiche fuori dai confini russi, furono assai precarie.
Nel 1995, il governo dell’Estonia ammise il furto di materiale radioattivo dalla base nucleare di Padliski.

[3] La Jugoslavia federale era costituita da sei Repubbliche [Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia] e due Regioni Autonome unite alla Serbia [Kosovo e Vojvodina].
Nel 1980, con la morte di Tito, scoppiano le tensioni politiche che sono all’origine della guerra civile tra le varie Repubbliche che componevano lo Stato Federale.
Nel periodo che va dal 1990 al 1999, con un precedente nel 1989, quando la Serbia si era opposta all’autonomia del Kosovo, le parti in guerra utilizzano a più riprese la pulizia etnica per prevalere.
La responsabilità primaria è da attribuirsi ai serbi, che danno inizio al conflitto, preparato da lungo tempo; ma responsabili sono, anche, i croati e i musulmani, che, a loro volta, hanno praticato l’epurazione etnica nei confronti degli altri gruppi.
Dal 1990-1991, con la dichiarazione di indipendenza delle Repubbliche di Slovenia e Croazia, si spezza la fragile convivenza di popolazioni appartenenti a diversi ceppi etnici [serbo, albanese, croato, ungherese e rom], con storie e religioni diverse [cristiani cattolici e ortodossi, musulmani ed ebrei].
L’occasione storica è propizia per la realizzazione della Grande Serbia.
Già, nel 1937, gli estremisti nazionalisti serbi avevano preparato un programma genocidario per il Kosovo, con l’obiettivo di ripulire la Serbia dagli elementi stranieri, deportando la popolazione kosovara verso l’Albania e la Turchia.
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, peraltro, gli Ustascia [“insorti”, movimento fascista fondato, nel 1928, da Ante Pavelic, per l’indipendenza della Croazia] usano in Croazia il metodo della pulizia etnica nei confronti dei serbi, compiendo un vero e proprio massacro genocidario [300mila vittime serbe].
Su queste vicende storiche si costituisce la certezza serba di rappresentare il “bene”, mentre i croati vengono giudicati “il popolo che ha il genocidio nel sangue”.
Il movente principale va ricercato nel nazionalismo esasperato, coltivato non solo dai serbi, ma da tutte le parti in causa, che si configura qui come una contrapposizione di tipo etnico-religioso. A questo va aggiunta una rivolta delle campagne contro le città e dei sobborghi periferici contro il centro, secondo una ideologia che vedeva le città come luoghi di perdizione e la campagna come autentica e originaria fonte della Nazione.
La pulizia etnica, ovvero il tentativo di rendere una data area etnicamente omogenea, usando la forza e l’intimidazione per allontanare persone di un altro gruppo etnico o religioso, caratterizza il decennio 1990-1999, nel corso del quale sia i serbi sia i croati tentano di istituire territori etnicamente omogenei, attraverso una guerra totale che coinvolge i civili, rinchiudendoli in lager, e che usa, oltre all’eliminazione fisica e all’espulsione dei membri di altre etnie, anche lo stupro etnico.
L’episodio più noto è quello del luglio del 1995, quando a Srebrenica, una città nell’Est della Bosnia Erzegovina, i soldati serbo-bosniaci, guidati dal generale Ratko Mladic, massacrarono circa 8mila uomini e ragazzi bosniaci musulmani. La città, che era stata dichiarata zona di sicurezza delle Nazioni Unite, fu conquistata l’11 luglio, nonostante la presenza di un contingente di caschi blu olandesi. Quello di Srebrenica è il più grave massacro avvenuto, in Europa, dalla Seconda Guerra Mondiale.

[4] Il governo di Jomo Kenyatta fu caratterizzato da una gestione personalistica e familiaristica. Centro assoluto del potere, il Signore della Morte – come i giornali inglesi definivano Kenyatta – rimase in carica fino alla morte e distribuì gli incarichi di Stato, esclusivamente, tra parenti e membri del suo clan. Utilizzò la corruzione come sistema di gestione degli affari economici e statali. Quando giunse al potere, dopo avere sequestrato le enormi proprietà terriere dei coloni, anziché ridistribuirle al popolo, ne tenne larga parte per sé, divenendo il più grande latifondista del Kenya e uno dei maggiori di tutta l’Africa. Il resto lo affidò ai membri del suo clan, ai contadini non rimasero che pochissimi campi e terreni.
Jaramogi Oginga Odinga, ex-vicepresidente di Kenyatta, poi, passato all’opposizione, dichiarò, in una conferenza stampa del 1966, come ci riferisce il noto giornalista polacco Ryszard Kapuscinski:
È un nemico molto più spietato e inumano del colonialismo che abbiamo combattuto.

[5] L’intervento dell’ONU, in Somalia, nei primi Anni Novanta, finalizzato al tentativo di fronteggiare la grave situazione di quella regione del Corno d’Africa, stremata da anni di guerra civile, di carestia e di pestilenze, fu disposto con più risoluzioni del Consiglio di Sicurezza.
Gli interventi furono, all’inizio, prevalentemente, di carattere umanitario, accompagnati dall’imposizione dell’embargo alle forniture di armi e dall’invito a cessare le ostilità alle parti coinvolte nel conflitto.
Il 3 gennaio 1992, l’inviato speciale dell’ONU, James Jonah, giunse a Bali Dogle, a 140 chilometri a Nord-Ovest da Mogadiscio, per ricercare una mediazione tra le due fazioni in lotta.
Il 23 gennaio, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la Risoluzione n. 733, stabilì un completo embargo su tutte le spedizioni di armi per la Somalia; autorizzò, altreasì, il segretario generale Boutros Boutros-Ghali, a prendere contatto con tutte le parti coinvolte nel conflitto per ottenere la cessazione delle ostilità e consentire la distribuzione degli aiuti umanitari.
Il 14 febbraio, Ali Mahdi e Aidid firmarono un impegno per la cessazione delle ostilità, anche se la tregua fu formalizzata soltanto il 3 marzo. Il cessate il fuoco rese possibile la distribuzione di aiuti urgenti alla popolazione, minacciata dalla carestia. Dal novembre del 1991 al marzo del 1992, il conflitto aveva provocato la morte di 40mila persone.
Il 17 marzo, con la Risoluzione n. 746, il Consiglio di Sicurezza, prendendo nota degli accordi di cessate il fuoco, approvò l’invio di una équipe tecnica in Somalia.
Il 27 aprile, con la Risoluzione n. 751, l’ONU, per rendere stabile il cessate il fuoco tra le fazioni, siglato nel marzo precedente, istituì una missione militare, UNOSOM, inviando, immediatamente, un’unità di 50 osservatori, per sovrintendere al rispetto del cessate il fuoco. Il gruppo di osservatori militari, accettato da tutte le parti in causa, giunse in Somalia dal 5 al 23 luglio 1992, tra Mogadiscio e Berbera.
Con la Risoluzione n. 767 del 27 luglio, il Consiglio di Sicurezza, preoccupato dalla proliferazione di bande armate e allarmato dal deterioramento della situazione umanitaria, sollecitò il segretario generale di avvalersi pienamente di tutti i mezzi e dispositivi disponibili. Il Consiglio approvò, inoltre, la proposta del segretario generale che mirava a stabilire, in Somalia, quattro zone di operazioni nel quadro UNOSOM.
Il 3 dicembre 1992, fu approvata all’unanimità la Risoluzione n. 794, la quale istituiva una coalizione di forze di peace-keeping, sotto la guida degli Stati Uniti. La coalizione, che prese il nome di UNITAF, aveva il compito di assicurare la distribuzione degli aiuti umanitari e ristabilire la pace in Somalia. Il mandato prevedeva l’utilizzo di “tutti i mezzi necessari”, per garantire la consegna degli aiuti umanitari, in linea con quanto stabilito nel Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, compreso, dunque, il ricorso all’uso della forza.
Era la prima volta che l’ONU autorizzava l’utilizzo delle armi.
L’8 dicembre 1992, alle 22:40 ora italiana, iniziava la missione Restore Hope: i marines americani sbarcavano a Mogadiscio.
Nei giorni successivi partirono, anche, i militari italiani, al comando del generale Bruno Loi: l’Italia mandò uomini del San Marco, del Tuscania, del Col Moschin, della Folgore.
Lo stesso11 dicembre, partirono dal porto di Brindisi l’incrociatore Vittorio Veneto, la nave anfibia San Giorgio e il rifornitore di squadra Vesuvio, mentre il giorno successivo salparono, da Livorno, la fregata Grecale e la nave anfibia San Marco [XXIV gruppo navale].
Sempre l’11 dicembre, Aidid e Ali Madhi giunsero a una tregua che prevedeva, tra l’altro, una cosiddetta linea verde che divideva Mogadiscio in due aree di influenza.
L’8 gennaio 1993, le Nazioni Unite promossero la conclusione di un accordo programmatico tra le varie fazioni in lotta: punti qualificanti dell’intesa erano la convocazione di una conferenza di riconciliazione nazionale e l’immediata cessazione delle ostilità. La conferenza, convocata, il 15 marzo, a Addis Abbeba, fu presieduta da Lansana Kouyaté, portavoce del segretario generale Boutros Boutros-Ghali, con la mediazione del presidente etiope Meles Zenawi.
I lavori si conclusero, il 27 marzo, con gli Accordi di Addis Abeba, siglati da 15 esponenti delle diverse fazioni in conflitto, compreso Aidid e il rappresentante di Ali Mahdi, Mohamed Afrah Qanyare. Gli accordi disponevano un immediato cessate il fuoco, un programma di ricostruzione e un nuovo sistema di governo. Dal punto di vista istituzionale, fu previsto un Consiglio Nazionale di transizione, formato da 3 rappresentanti per ciascuna delle 18 Regioni della Somalia, 5 seggi in rappresentanza di Mogadiscio e un membro per ogni fazione presente alla conferenza. A tale Consiglio si sarebbero affiancati Dipartimenti Amministrativi Centrali, Consigli Regionali e Consigli Distrettuali.
Nel contempo, l’ONU riorganizzò le regole di ingaggio della missione attraverso il passaggio da UNITAF a UNOSOM II.
Nei mesi successivi, tuttavia, tornarono a verificarsi violenti scontri tra Aidid e Ali Mahdi.
Il 5 giugno 1993, nel corso della cosiddetta Battaglia della Radio, 23 militari pakistani furono uccisi dai miliziani di Aidid, in vicinanza della Manifattura Tabacchi di Mogadiscio. Solo l’intervento dei militari italiani, inquadrati nei reparti del Col Moschin, riuscì a evitare una strage di dimensioni catastrofiche, senza ulteriore spargimento di sangue.
Il 2 luglio, gli stessi Italiani furono bersaglio dei guerriglieri di Aidid. Il comando italiano aveva predisposto, in conformità alle regole stabilite dall’ONU, un rastrellamento nella zona di Haliwa [Operazione Canguro 11], al fine di disarmare le varie fazioni in lotta. A operazione ultimata, i mezzi italiani furono circondati. Occupate le vie di fuga attraverso la costruzione di barricate, i miliziani iniziarono a sparare con RPG-2 dagli edifici circostanti. Al contempo, per evitare ogni possibile reazione da parte italiana, gli uomini di Aidid costrinsero la popolazione civile ad affluire nella zona degli scontri.
Fu questa la Battaglia del Pastificio.
Nell’imboscata caddero 3 italiani e altri 20 rimasero feriti.
Il 12 luglio, nel tentativo di catturare Aidid, le forze statunitensi sferrano un imponente attacco aereo, bombardando, a Mogadiscio Sud, l’abitazione di Abdi Hassan Keybdid, ministro dell’interno di Aidid, dove era in corso una riunione politica tra i vertici dello SNA.
È una carneficina!
I Cobra americani uccidono più di 50 somali, quasi tutti civili.
La folla inferocita aggredisce i giornalisti giunti sul posto e massacra 4 giornalisti stranieri.
Nei disordini rimase coinvolta, anche, l’inviata italiana Ilaria Alpi, che riuscì a sfuggire per essere, successivamente, recuperata da una pattuglia inviatale in soccorso dal generale Bruno Loi.
Si giunse, poi, alla Battaglia di Mogadiscio del 3-4 ottobre.
I reparti statunitensi, in totale contrasto con gli altri Paesi partecipanti alla missione umanitaria, imbastirono un’operazione su vasta scala, l’Operation Gothic Serpent. La strategia americana si rivelò un fallimento, con numerose perdite civili e l’abbattimento di due elicotteri Black Hawk statunitensi [conflitto che avrebbe ispirato il libro Black Hawk Down, noto in Italia come Falco nero, e il film Black Hawk Down].
Durante i negoziati, tenutisi dal 1993 al 1995, i Signori della Guerra somali ottennero alcuni successi nella riconciliazione e nella creazione di pubbliche autorità.
I soldati ONU si ritirarono, il 3 marzo 1995, senza che l’ordine in Somalia fosse stato restaurato e dopo avere subito molte perdite.
Poco prima che il presidente Mohammed Siad Barre fosse deposto, circa i due terzi del territorio erano stati assegnati in concessione petrolifera a Conoco, Amoco, Chevron e Phillips. Alcuni giorni prima dell’arrivo dei marines, la Conoco aveva, perfino, ceduto la propria sede di Mogadiscio all’Ambasciata americana, che l’inviato speciale della prima amministrazione Bush usava come proprio quartier generale.
[6] Il 7 settembre 1962, moriva Karen Blixen, nella sua casa di Rungstedlund, una tipica casa del ‘500. La sua tomba, una lastra di pietra sotto un grande faggio, che porta inciso solo il suo nome, è nel parco, che lei si battè per trasformare in riserva ornitologica. Oggi, quel parco e quella casa, divenuta museo, sono meta di pellegrinaggi letterari. Vi sono il grammofono che le regalò Denys Finch Hatton, l’uomo più importante della sua vita; i dipinti a olio; l’orologio a pendolo andato e tornato dal Kenya; la vecchia macchina da scrivere Corona; tende che spazzano il pavimento e fiori ovunque.
Lei amava creare bellissimi bouquets di fiori! 

[7] Il genocidio del Ruanda fu uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’Africa del XX secolo. Secondo le stime di Human Rights Watch, dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994, per circa 100 giorni, vennero massacrate, sistematicamente, almeno 500mila persone. Il numero delle vittime, tuttavia, salì fino a raggiungere una cifra pari a circa 800mila o 1.000.000 di persone. Il genocidio viene considerato, ufficialmente, concluso alla fine dell’Opération Turquoise, voluta e intrapresa dai francesi, sotto l’egida dell’ONU

[8] Con queste parole, il  9 maggio 1936, alle ore 22:30, Benito Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia, a Roma, proclamava la sovranità italiana sull’Etiopia.
Pochi giorni prima, il 5 maggio, aveva annunciato la vittoria nella Guerra di Etiopia, iniziata il 3 ottobre 1935, con l’entrata vittoriosa delle truppe guidate da Badoglio, a Addis Abeba.
Con il nuovo impero nasceva l’Africa Orientale Italiana [A.O.I.], comprendente i territori dell’Etiopia, dell’Eritrea e della Somalia, suddivisi in 6 governi: Scioa, Galla e Sidamo, Harar, Eritrea, Somalia e Amara, ciascuno con un governatore e indipendenti in termini amministrativi.

[9] La posizione geografica di cui gode l’Eritrea aveva conferito una grande importanza agli occhi di Washington durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Negli Anni Quaranta, gli Stati Uniti volevano indebolire i loro concorrenti europei e iniziarono a interessarsi all’Africa, ma i francesi e i britannici possedevano, già, svariate colonie in quel continente.
L’Etiopia, al contrario, non era stata colonizzata.
Per Washington, quella era, dunque, la porta dalla quale potevano introdursi in Africa per installare la propria influenza e fare concorrenza alle potenze coloniali. L’Etiopia feudale sarebbe, così, divenuta una marionetta degli Stati Uniti, partecipando alle guerre in Congo e in Corea.
In seguito, quando la maggior parte dei Paesi africani divennero indipendenti negli Anni Cinquanta e Sessanta, Washington fece pressione affinché l’Organizzazione dell’Unità Africana [1963] avesse la sua base in Etiopia. Ciò avrebbe permesso agli Stati Uniti di esercitare il controllo su tutto il continente.
Come l’Iran e Israele in Medio Oriente, l’Etiopia era, dunque, un backlog, un gendarme degli Stati Uniti in Africa.
Dagli Anni Quaranta, il Pentagono e le industrie di armamenti private svilupparono importanti progetti nel Paese: assemblaggi di aerei, laboratori di riparazioni, una forza navale.
E, negli Anni Cinquanta, l’intelligence statunitense stabilì ad Asmara, una delle basi di telecomunicazioni più importanti. All’epoca, non vi era la vigilanza via satellite come oggi e i sistemi di ascolto coprivano un raggio limitato. Dall’Eritrea si poteva controllare ciò che accadeva in Africa, in Medio Oriente, nel Golfo e, perfino, in alcune parti dell’Unione Sovietica. Questa la ragione per cui gli Stati Uniti volevano che l’Eritrea si unisse all’Etiopia che era un alleato di Washington.
John Foster Dulles, eminente figura della politica statunitense, in un dibattito del Consiglio di Sicurezza, riconobbe:
“Dal punto di vista della giustizia si deve tenere conto delle opinoni del popolo eritreo, tuttavia, con tutti gli interessi strategici degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso e le considerazioni per la sicurezza e la pace nel mondo, si rende necessario che questo Paese si unisca all’Etiopia nostra alleata.”
Si decise, così, la sorte dell’Eritrea, con gravi conseguenze che avrebbero dato inizio alla più lunga lotta per l’indipendenza in Africa.
L’Etiopia era sostenuta dagli Stati Uniti e dall’Europa, ma anche da Israele che voleva allacciare alleanze con i Paesi non arabi della regione. Durante il tentativo di colpo di Stato, nel 1960, fu grazie a Israele che l’imperatore Hailé Selassié, in viaggio in Brasile, poté stabilire rapidamente i contatti con un generale e far fallire la ribellione. Specialisti israeliani della contro-rivoluzione allenarono una forza d’élite etiope di circa mille uomini, noti con il nome di Brigate Fiamma.

[10] Secondo uno studio dell’African Development Bank sono stati 200 i tentativi di colpo di Stato [non solo militari] nel continente africano tra il 1960 e il 2012. Di questi il 45% ha avuto successo. Lo studio rivela che nei tre periodi presi in considerazione, 1960-69, 1970-89 e 1990-2012, la zona che riporta il dato maggiore è l’Africa Occidentale, seguita da Africa Centrale e Orientale e, ultima, Africa del Sud.
È interessante notare che, mentre nel secondo periodo si sono registrati 99 tentati colpi di Stato, solo 67 sono avvenuti tra il 1990 e il 2010.

[11] La cittadina deve il proprio nome a Simon van der Stel, uno dei primi governatori della Colonia del Capo. Storicamente, Simon’s Town è, sempre, stata una base navale. Durante l’occupazione britannica era controllata dalla Royal Navy, oggi, ospita la South African Navy.
L’importanza strategica del luogo è legata alla posizione stessa del Capo di Buona Speranza, che si trova tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano.

[12] Le nostre forze armate si dotano di armi e mezzi, spesso, a loro inservibili, essendo questa una delle maggiori condizioni per le vendite all’estero. E, sempre, per incentivare le esportazioni, facciamo da istruttori a cileni, iracheni, etiopici, somali, turchi, venezuelani e così via.

[13] Anna Lombardi, Gli uomini hanno fallito. In Somalia la speranza è donna in “Il Venerdì di Repubblica”, n.1039 15 Febbraio 2008, pag.135

[14] Idi Amin Dada Oumee è il prototipo del dittatore africano: militare di basso rango, sanguinario, corrotto.
Amin fu presidente dell’Uganda dal 1971 al 1979.
In soli otto anni causò la morte di centinaia di migliaia di persone.
Accusato di cannibalismo e protezione dei terroristi palestinesi, portò uno dei Paesi meno poveri dell’Africa Centro-Orientale, da pochi anni uscito dalla colonizzazione inglese, a livelli di assoluta indigenza.
Entrato nell’esercito in giovane età, si distinse nei King’s African Rifles solo per lo zelo con il quale eseguiva gli ordini, ma dagli ufficiali inglesi era considerato poco più di un buffone per la sua mole gigantesca e i suoi modi goffi.
Da semplice sergente, dopo l’indipendenza diviene maggiore.
La sua prima missione, nel 1966, si risolve nel massacro di centinaia di persone nella regione del Buganda, ma il presidente Milton Obote lo promuove capo di stato maggiore.
Il 25 gennaio 1971, depone Obote e si autonomina presidente, ordinando il massacro delle truppe lealiste e delle etnie Langi e Acholi che sostenevano Obote.
Ha bisogno di aiuti militari; ma, dopo avere costretto gli occidentali che vivevano in Uganda a inginocchiarsi di fronte a lui e giurargli fedeltà e avere espulso 50mila indiani e pakistani che controllavano il commercio, la Gran Bretagna glieli rifiuta, così come Israele, uno dei suoi sostenitori. Cacciati dal Paese i consiglieri militari israeliani, che Tel Aviv aveva in un primo tempo inviato, Amin si riavvicina all’islam, dopo un incontro in Libia con il colonnello Gheddafi, e iniziano le persecuzioni contro le popolazioni cristiane e i missionari in Uganda.
Amin, che non nasconde la sua ammirazione per Adolf Hitler, protegge il terrorismo palestinese e, nel giugno del 1976, dà rifugio all’aeroporto di Entebbe ai palestinesi che avevano dirottato un aereo della El Al. Ma con un blitz esemplare, il 4 luglio, gli ostaggi vengono liberati dalle teste di cuoio israeliane.
Per nascondere il malcontento dell’esercito nel Sud-Ovest dell’Uganda, fa invadere la vicina Tanzania e, nell’ottobre 1978, riesce a occupare una striscia a Nord del fiume Kagera. Ma i tanzaniani rispondono e, in pochi mesi, sconfiggono le forze ugandesi e, l’11 aprile 1979, conquistano la capitale Kampala. Amin è costretto alla fuga, con le sue quattro mogli, prima, in Libia, poi, in Iraq, da Saddam Hussein, e, infine, in Arabia Saudita, dove muore, il 16 agosto 2003.
Si stima che Amin sia stato responsabile del massacro di circa 300mila persone.    
                                                                              
[15] Il 6 ottobre 1973 iniziò la cosiddetta Guerra dello Yom Kippur, in cui furono coinvolti Siria, Egitto e Israele. Quella dello Yom Kippur fu la più grande guerra combattuta in Medio Oriente fino a quella del Golfo e portò a alla crisi petrolifera del 1973, un embargo delle esportazioni di petrolio nei Paesi occidentali, che aggravò molto la crisi economica che, in quegli anni, aveva cominciato a colpire Europa e Stati Uniti. Alla base del conflitto vi fu uno dei problemi ancora attuali e irrisolti nella questione israeliana, vale a dire i confini del 1967. Si tratta di quei territori che Israele annetté in seguito alla Guerra dei Sei Giorni, un attacco preventivo lanciato da Israele contro Egitto, Giordania e Siria, nel 1967.
In seguito a questa brevissima guerra, Israele conquistò il Sinai, le alture del Golan a  Nord e la Cisgiordania, ossia quella parte di Giordania a Occidente del fiume Giordano e Gerusalemme Est.
Mu’ammar Gheddafi venne tenuto all’oscuro da Egitto e Siria dei piani per la Guerra dello Yom Kippur, nonostante la Libia fosse il primo fornitore di armi e petrolio dell’Egitto. Questo fu un duro colpo al prestigio del leader libico, che si era autoproclamato successore di Nasser e custode del panarabismo.
La sconfitta dell’Egitto e della Siria nello scontro con Israele e il successivo avvio del processo di pace tra Egitto e Israele, culminato nel 1979, con la firma del trattato di pace, causarono non solo la rottura del rapporto privilegiato tra Egitto e Libia e l’isolamento dell’Egitto nel mondo arabo, ma anche la fine del sogno panarabo di Gheddafi.   

[16] Samuel Cummings, personaggio fino dagli Anni Cinquanta assai attivo nel commercio di armi, attraverso una società appositamente costituita, con due sedi, l’una a New York e l’altra a Roma: la Adam Consolitated Industries inc. Cummings fu tra i più assidui partecipanti alle aste periodiche, per la vendita delle armi, organizzate dal Ministero della Difesa italiano.

“Nel 1957 [attraverso la Adam] comperò 70mila fucili da guerra […] pagandoli pressoché nulla: 0,75 centesimi di dollaro, equivalenti a meno di 300 lire l’uno in valuta dell’epoca. Nel 1960 […] fece uno dei colpi più grossi della sua carriera acquistando in una sola volta ben 570.745 armi portabili di vario tipo tra cui mitra e fucili mitragliatori. Nuovamente li pagò la cifra miseria di 1 dollaro e 12 centesimi l’uno […]. Tali armi furono poi revisionate e rimesse a nuovo, non si sa se in arsenali di Stato o privati […]. Con le armi comprate in Italia, Cummings ebbe un grave “infortunio sul lavoro” negli Stati Uniti. Il fucile col numero di matricola C2766, usato per assassinare il presidente Kennedy, faeva parte di una delle partite a lui vendute dal Ministero della Difesa italiano […].”
P.V. Buffa e P. L. Ficoneri, l’Espresso, 21 maggio 1977 
[Mario Guarino, Fedora Raugei, Licio Gelli: Vita, misteri scandali del capo della Loggia P2]

Un particolare rilevante, mai evidenziato come sarebbe stato doveroso.
La Commissione d’Inchiesta Parlamentare sulla Loggia P2, nell’aprile del 1982, venne informata dal SISDE non solo su alcuni aspetti dell’attività della misteriosa loggia, ubicata sulla Costa Azzurra, ma anche sui nominativi che vi operano attivamente.
Si rileva alle pagine 10-11 del Volume III, tomo 7bis, laddove si afferma:
“[…] il Gelli si sarebbe avvalso della stretta collaborazione del ragioniere Enrico Frittoli, titolare di una società import-export con sede in Montecarlo […]”.   
Oltre ai nomi di Ezio Giunchiglia, William Rosati e Lorenzo Antonucci, il servizio segreto afferma che lo stesso Frittoli viene indicato “come uomo di fiducia del trafficante internazionale di armi Samuel Cummings, presidente della Inter Arms di Londra e residente nel Principato di Monaco”.  
Particolare, quello relativo a Cummings, che rafforza la tesi di quanti sostengono che il capo piduista, per anni, si sia interessato, attivamente, al traffico internazionale di armi. 

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