“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

lunedì 2 dicembre 2019

TOTALITARISMO! I. I FRATELLI ROSSELLI "Se non li avesse uccisi Mussolini, li avrebbe fatti ammazzare Stalin!" di Daniela Zini



Totalitarismo!

“I movimenti totalitari mirano a organizzare le masse, non le classi, come i vecchi partiti d’interessi degli Stati nazionali del continente, e neppure i cittadini con opinioni e interessi nei riguardi del disbrigo degli affari pubblici, come i partiti dei Paesi anglosassoni.
Mentre tutti i gruppi politici si basano sul loro seguito proporzionale, essi fanno leva sulla nuda forza numerica, dell’ordine di milioni, al punto da rendere impossibile un loro regime, anche nelle circostanze più favorevoli, in Paesi con una popolazione relativamente poco numerosa.
Dopo la Prima Guerra Mondiale un’ondata totalitaria e semitotalitaria travolse il continente; movimenti fascisti si diffusero dall’Italia a quasi tutti i Paesi dell’Europa Centrale e Orientale [la parte ceca della Cecoslovacchia fu una delle eccezioni]; eppure Mussolini, che tanto amava il termine “Stato totalitario”, non tentò di instaurare un regime totalitario in piena regola, accontentandosi della dittatura del partito unico.
Dittature sostanzialmente non diverse sorsero in Romania, in Polonia, negli Stati baltici, in Ungheria, in Portogallo e infine in Spagna. I nazisti, che avevano un istinto infallibile per tali differenze, usavano criticare sdegnosamente i difetti degli alleati fascisti, mentre la loro genuina ammirazione per il regime bolscevico era frenata soltanto dal disprezzo per le razze dell’Europa Orientale.
L’unico uomo per cui Hitler avesse un “rispetto incondizionato” era il “geniale Stalin”; e anche se sulla Russia non possediamo [e presumibilmente non possederemo mai] il ricco materiale documentario di cui disponiamo per la Germania, sappiamo dal discorso di Chruscev al XX congresso del partito che Stalin si fidava soltanto di un uomo, e quello era Hitler.”

Hannah Arendt, Le origini del Totalitarismo.
 


Il Pci ai giovani
Pier Paolo Pasolini, 16 giugno 1968

Mi dispiace. La polemica contro
il Pci andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati:
peggio per voi.

Adesso i giornalisti di tutto il mondo [compresi
quelli delle televisioni]
vi leccano [come ancora si dice nel linguaggio
goliardico] il culo. Io no, cari.

Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
[benissimo!] ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.

La madre incallita come un facchino, o tenera
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli; la casupola
tra gli orti con la salvia rossa [in terreni
altrui, lottizzati]; i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.

E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio
furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
[per una quarantina di mille lire al mese]:
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi [in un tipo d’esclusione che non ha uguali];
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti [l’essere odiati fa odiare].

Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo [di eletta tradizione
risorgimentale]
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, cari [benché dalla parte
della ragione] eravate i ricchi,
mentre i poliziotti [che erano dalla parte
del torto] erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, cari. Stampa e Corriere della Sera, News-week e Monde
vi leccano il culo. Siete i loro figli,
la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano
non si preparano certo a una lotta di classe
contro di voi! Se mai,
si tratta di una lotta intestina.

Per chi, intellettuale o operaio,
è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea
che un giovane borghese riempia di botte un vecchio
borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera
un giovane borghese. Blandamente
i tempi di Hitler ritornano: la borghesia
ama punirsi con le sue proprie mani.
Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli
che operano a Trento o a Torino, a Pavia o a Pisa,
a Firenze e un po’ anche a Roma,
ma devo dire: il movimento studentesco [?]
non frequenta i vangeli la cui lettura
i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono
per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici;
una sola cosa gli studenti realmente conoscono:
il moralismo del padre magistrato o professionista,
il teppismo conformista del fratello maggiore
[naturalmente avviato per la strada del padre],
l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini
contadine anche se già lontane.

Questo, cari figli, sapete.
E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti:
la coscienza dei vostri diritti [si sa, la democrazia
prende in considerazione solo voi] e l’aspirazione
al potere.

Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre
sulla presa di potere.
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti,
nei vostri pallori snobismi disperati,
nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali,
nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo
[solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia
infima, o da qualche famiglia operaia
questi difetti hanno qualche nobiltà:
conosci te stesso e la scuola di Barbiana!]
Riformisti!
Reificatori!
Occupate le università
ma dite che la stessa idea venga
a dei giovani operai.

E allora: Corriere della Sera e Stampa, Newsweek e Monde
avranno tanta sollecitudine
nel cercar di comprendere i loro problemi?
La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte
dentro una fabbrica occupata?
Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi
un giovane operaio di occupare una fabbrica
senza morire di fame dopo tre giorni?
e andate a occupare le università, cari figli,
ma date metà dei vostri emolumenti paterni sia pur scarsi
a dei giovani operai perché possano occupare,
insieme a voi, le loro fabbriche. Mi dispiace.

È un suggerimento banale;
e ricattatorio. Ma soprattutto inutile:
perché voi siete borghesi
e quindi anticomunisti. Gli operai, loro,
sono rimasti al 1950 e più indietro.
Un’idea archeologica come quella della Resistenza
[che andava contestata venti anni fa,
e peggio per voi se non eravate ancora nati]
alligna ancora nei petti popolari, in periferia.
Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese,
e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula,
si è dato da fare per imparare un po’ di russo.
Smettetela di pensare ai vostri diritti,
smettetela di chiedere il potere.
Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,
a bandire dalla sua anima, una volta per sempre,
l’idea del potere.
Se il Gran Lama sa di essere il Gran Lama
vuol dire che non è il Gran Lama [Artaud]:
quindi, i Maestri
– che sapranno sempre di essere Maestri –
non saranno mai Maestri: né Gui né voi
riuscirete mai a fare dei Maestri.

I Maestri si fanno occupando le Fabbriche
non le università: i vostri adulatori [anche Comunisti]
non vi dicono la banale verità: che siete una nuova
specie idealista di qualunquisti: come i vostri padri,
come i vostri padri, ancora, cari! Ecco,
gli Americani, vostri odorabili coetanei,
coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando,
loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario!
Se lo inventano giorno per giorno!
Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno:
potreste ignorarlo?
Sì, voi volete ignorarlo [con grande soddisfazione
del Times e del Tempo].
Lo ignorate andando, con moralismo provinciale,
“più a sinistra”. Strano,
abbandonando il linguaggio rivoluzionario
del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale
Partito Comunista,
ne avete adottato una variante ereticale
ma sulla base del più basso idioma referenziale
dei sociologi senza ideologia.

Così parlando,
chiedete tutto a parole,
mentre, coi fatti, chiedete solo ciò
a cui avete diritto [da bravi figli borghesi]:
una serie di improrogabili riforme
l’applicazione di nuovi metodi pedagogici
e il rinnovamento di un organismo statale. I Bravi! Santi sentimenti!
Che la buona stella della borghesia vi assista!
Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti
della polizia costretti dalla povertà a essere servi,
e ubriacati dell’interesse dell’opinione pubblica
borghese [con cui voi vi comportate come donne
non innamorate, che ignorano e maltrattano
lo spasimante ricco]
mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso
per combattere contro i vostri padri:
ossia il comunismo.

Spero che l’abbiate capito
che fare del puritanesimo
è un modo per impedirsi
la noia di un’azione rivoluzionaria vera.
Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni!
Andate a invadere Cellule!
andate ad occupare gli usci
del Comitato Centrale: Andate, andate
ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere
di un Partito che è tuttavia all’opposizione
[anche se malconcio, per la presenza di signori
in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,
borghesi coetanei dei vostri schifosi papà]
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.
Che esso si decide a distruggere, intanto,
ciò che un borghese ha in sé,
dubito molto, anche col vostro apporto,
se, come dicevo, buona razza non mente…

Ad ogni modo: il Pci ai giovani, ostia!
Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto
consigliando? A cosa vi sto sospingendo?
Mi pento, mi pento!
Ho perso la strada che porta al minor male,
che Dio mi maledica. Non ascoltatemi.
Ahi, ahi, ahi,
ricattato ricattatore,
davo fiato alle trombe del buon senso.
Ma, mi son fermato in tempo,
salvando insieme,
il dualismo fanatico e l’ambiguità…
Ma son giunto sull’orlo della vergogna.

Oh Dio! che debba prendere in considerazione
l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile
accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?[1]
 


 
 

  

“Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non avere niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io del resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca.”
Pier Paolo Pasolini


Può tornare il fascismo?
Una dittatura, è noto, si impone, sempre, per incapacità a resistere del sistema e ogni azione di una parte ha successo per l’inazione di un’altra parte: il fascismo vinse perché il socialismo non seppe reagire adeguatamente, oltre che per la debolezza congenita dei governanti.
Sì, certo, la Storia non si ripete, ma le analogie storiche hanno il loro valore, perché sono la sintesi del temperamento di un Popolo, della sua struttura sociale, della sua emotività anche e, in fatto di emotività, gli Italiani, come tutti i Popoli mediterranei, sono campioni, per cui sono portati, sempre, agli eccessi, passando da un polo a quello estremo.
L’opinione pubblica, espressa dal corpo elettorale, ha rivelato una precisa inversione di rotta.
Quale ne sarà la conclusione?
In verità, il mutamento propone l’ipotesi di un “ritorno”, ma per via legale, vale a dire per designazione degli elettori.
Si è parlato di voto a dispetto, di protesta dell’opinione pubblica.
Quali le accuse del malcontento?
Sono molteplici.
Vi è una parte non trascurabile della popolazione, indignata per il decadimento dei valori tradizionali, per l’irrisione del concetto di Patria, per lo svilimento del senso di Nazione.
E vi è la maggioranza che fonda la propria delusione su ragioni economiche: i piccoli e medi industriali che vedono andare in rovina le loro fabbriche, gli impiegati e i professionisti che constatano la crescente insicurezza della loro posizione.
Vi è, poi, a giocare un ruolo importante il distacco irreparabile della classe politica dal Paese. I discorsi in chiave ermetica soprattutto. Gli elettori hanno iniziato ad accorgersene. Gli oratori sembra che badino più al ritmo che alla chiarezza dei concetti; i loro discorsi sono come le canzoni quando nascono, fatte di numeri: tre-cinquanta-quaranta / otto-sei-ventiquattro.
E, quando vogliono essere chiari, si buttano sulla Retorica e sulla Demagogia.
Scriveva Giuseppe Berto nel suo libro Modesta proposta per prevenire:

“Quando ci accorgiamo che qualcosa difetta di sostanza, noi la scriviamo con l’iniziale maiuscola, in questo modo conferendole una specie di garanzia immunitaria che la mette al riparo dal buonsenso e dalla critica.”

Quarantacinque anni fa, tra il 10 giugno e il 16 luglio 1974, Pier Paolo Pasolini firma tre editoriali, sul Corriere della Sera, allora diretto da Piero Ottone: Gli italiani non sono più quelli [10 giugno 1974][2], Il potere senza volto [24 giugno 1974][3] e Il fascismo degli antifascisti [16 luglio 1974][4], nei quali denuncia un fenomeno devastante e inarrestabile di mutazione antropologica conseguente alla trasformazione del sistema di Potere:

“L’omologazione culturale che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili. Nel comportamento quotidiano, mimico, somatico non c’è niente che distingua – ripeto, al di fuori di un  comizio o di un’azione politica – un fascista da un antifascista [di mezza età o giovane: i vecchi, in tal senso possono ancora esser distinti tra loro]. Questo per quel che riguarda i fascisti e gli antifascisti medi. Per quel che riguarda gli estremisti, l’omologazione è ancor più radicale.”
Gli italiani non sono più quelli, “Corriere della Sera”, 10 giugno 1974.

Prendendo coraggiosamente posizione contro un antifascismo di maniera ormai fuori tempo massimo, Pasolini mette in guardia da un Potere senza volto, senza olio di ricino, senza camicia nera e senza fez, ma capace di plasmare gli uomini, le vite, le menti e le coscienze. A distanza di poco meno di mezzo secolo, questi interventi mantengono intatta la loro forza critica, permettendo di cogliere alcuni dei tratti più profondi dell’Italia di oggi.
E, guardando ai giovani che, in quel 1974, si chiamano e si definiscono fascisti, Pasolini spiega che è una definizione puramente nominalistica e fuorviante:

I giovani dei campi fascisti, i giovani delle SAM, i giovani che sequestrano persone e mettono bombe sui treni, si chiamano e vengono chiamati “fascisti”: ma si tratta di una definizione puramente nominalistica. Infatti essi sono in tutto e per tutto identici all’enorme maggioranza dei loro coetanei. Culturalmente, psicologicamente, somaticamente – ripeto – non c’è niente che li distingua. Li distingue solo una “decisione” astratta e aprioristica che, per essere conosciuta, deve essere detta. Si può parlare casualmente per ore con un giovane fascista dinamitardo e non accorgersi che è un fascista. Mentre solo fino a dieci anni fa bastava non dico una parola, ma uno sguardo, per distinguerlo e riconoscerlo.
Il contesto culturale da cui questi fascisti vengono fuori è enormemente diverso da quello tradizionale. Questi dieci anni di storia italiana che hanno portato gli italiani a votare “no” al referendum, hanno prodotto – attraverso lo stesso meccanismo profondo – questi nuovi fascisti la cui cultura è identica a quella di coloro che hanno votato “no” al referendum.
Essi sono del resto poche centinaia o migliaia: e, se il governo e la polizia l’avessero voluto, essi sarebbero scomparsi totalmente dalla scena già dal 1969.
Il fascismo delle stragi è dunque un fascismo nominale, senza un’ideologia propria [perché vanificata dalla qualità di vita reale vissuta da quei fascisti], e, inoltre, artificiale: esso è cioè voluto da quel Potere, che dopo aver liquidato, sempre pragmaticamente, il fascismo tradizionale e la Chiesa [il clerico-fascismo che era effettivamente una realtà culturale italiana] ha poi deciso di mantenere in vita delle forze da opporre – secondo una strategia mafiosa e da Commissariato di Pubblica Sicurezza – all’eversione comunista. I veri responsabili delle Stragi di Milano e di Brescia non sono i giovani mostri che hanno messo le bombe, né i loro sinistri mandanti e finanziatori. Quindi è inutile e retorico fingere di attribuire qualche reale responsabilità a questi giovani e al loro fascismo nominale e artificiale. La cultura a cui  essi appartengono e che contiene gli elementi per la loro follia pragmatica è, lo ripeto ancora una volta, la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei. Non procura solo a loro condizioni intollerabili di conformismo e di nevrosi, e quindi di estremismo [che è appunto la conflagrazione dovuta alla miscela di conformismo e nevrosi].
Se il loro fascismo dovesse prevalere, sarebbe il fascismo di Spinola, non quello di Caetano: cioè sarebbe un fascismo ancora peggiore di quello tradizionale, ma non sarebbe più precisamente fascismo. Sarebbe qualcosa che già in realtà viviamo, e che i fascisti vivono in modo esasperato e mostruoso: ma non senza ragione.
Pier Paolo Pasolini, Gli italiani non sono più quelli, Corriere della Sera, 10 giugno 1974.

Semmai il problema era il nuovo Potere, non ancora rappresentato simbolicamente e dovuto alla omologazione della classe dominante, che stava omologando la società italiana.
Pasolini, in buona sostanza e in totale controtendenza rispetto agli altri intellettuali suoi contemporanei, invitava a cogliere e contrastare il volto disumano del nuovo Potere anziché rimuovere il problema, rispolverando un antifascismo fuori contesto e fuori tempo massimo.

Ma bisogna avere il coraggio intellettuale di dire che anche Berlinguer e il partito comunista italiano hanno dimostrato di non  aver capito bene cos’è successo nel nostro Paese negli ultimi dieci anni. Essi infatti non volevano il referendum; non volevano la “guerra di religione” ed erano estremamente timorosi sull’esito positivo delle votazioni. Anzi, su questo punto erano decisamente pessimisti. La “guerra di religione” è risultata invece poi un’astrusa, arcaica, superstiziosa previsione senza alcun fondamento.
Gli italiani si sono mostrati infinitamente più moderni di quanto il più ottimista dei comunisti fosse capace di immaginare. Sia il Vaticano che il Partito Comunista hanno sbagliato la loro analisi sulla situazione “reale” dell’Italia.
Sia il Vaticano che il partito comunista hanno dimostrato di aver osservato male gli italiani e di non aver creduto alla loro possibilità di evolversi anche molto rapidamente, al di là di ogni calcolo possibile.
Ora il Vaticano piange sul proprio errore. Il PCI invece, finge di non averlo commesso ed esulta per l’insperato trionfo.”

Perché, infatti, si chiedeva Pasolini, rilanciare, trenta anni dopo la fine della guerra e del fascismo, una offensiva antifascista in luogo di aggredire dalle fondamenta il nuovo Potere senza volto, con un sembiante di società democratica e di massa, il cui fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo”?
E in questo passaggio Pasolini aggiungeva un’autocritica inedita e importante:

In realtà ci siamo comportati coi fascisti [parlo soprattutto di quelli giovani] razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti, e di fronte a questa decisione del loro destino non ci fosse niente da fare. E non nascondiamocelo: tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale: sarebbe bastata forse una sola parola perché ciò non accadesse. Ma nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla, e si sono gettati a capofitto nell’orrenda avventura per semplice disperazione. Ma non potevamo distinguerli dagli altri [non dico dagli altri estremisti: ma da tutti gli altri]. È questa la nostra spaventosa giustificazione. Padre Zosima [letteratura per letteratura!] ha subito saputo distinguere, tra tutti quelli che si erano ammassati nella sua cella,
Dmitrj Karamazov, il parricida. Allora si è alzato dalla sua seggioletta ed è andato a prosternarsi davanti a lui. E l’ha fatto [come avrebbe detto più tardi al Karamazov più giovane] perché Dmitrj era destinato a fare la cosa più orribile e a sopportare il più disumano dolore. Pensate [se ne avete la forza] a quel ragazzo o a quei ragazzi che sono andati a mettere le bombe nella piazza di Brescia. Non c’era da alzarsi e da andare a prosternarsi davanti a loro? Ma erano giovani con capelli lunghi, oppure con baffetti tipo primo Novecento, avevano in testa bende oppure scopolette calate sugli occhi, erano pallidi e presuntuosi, il loro problema era vestirsi alla moda tutti allo stesso modo, avere Porsche o Ferrari, oppure motociclette da guidare come piccoli idioti arcangeli con dietro le ragazze ornamentali, sì, ma moderne, e a favore del divorzio, della liberazione della donna, e in generale dello sviluppo... Erano insomma giovani come tutti gli altri: niente li distingueva in alcun modo. Anche se avessimo voluto non avremmo potuto andare a prosternarci davanti a loro. Perché il vecchio fascismo, sia pure attraverso la degenerazione retorica, distingueva: mentre il nuovo fascismo – che è tutt’altra cosa – non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo.”
Pier Paolo Pasolini, Il Potere senza volto, Corriere della sera, 24 giugno 1974.

Permeato di un’amarezza più accentuata è, invece, il punto di vista di Leonardo Sciascia[5], che amava collocarsi a “sinistra dei comunisti”, ma non manifestando alcuna simpatia, dopo i fatti del ‘68, nei confronti dei partiti e dei gruppi extraparlamentari[6], dei quali nel Contesto segnala l’ambiguità.
Nei suoi scritti, Sciascia insiste sul carattere congenito del fascismo in Italia, proponendo quasi una resa militante alla sua ineluttabilità e, tuttavia, invita a mantenere alta la guardia nei confronti di quelli che, oggi, vengono definiti “rigurgiti fascisti”. Nell’intervista a Marcelle Padovani, intitolata La Sicilia come metafora [1979], Sciascia afferma:

“Non dubito affatto che quest’impegno deriva dalla mia condizione familiare, che ha saputo suscitare in me un istinto di casse; e poi dall’esperienza del fascismo, che è stata dura e “sofferta”, come si usa dire, e che mi ha fatto capire come il fascismo non potesse realizzarsi che contro di me, contro i miei interesso e quelli di tutti coloro che mi assomigliavano. Credo che se sono diventato un certo tipo di scrittore, lo devo alla passione antifascista. La mia sensibilità al fascismo continua ad essere assai forte, la riconosco ovunque ed in ogni luogo, persino quando riveste i panni dell’antifascismo, e resto sensibile all’eternamente possibile fascismo italiano. Il fascismo non è morto. Convinto di questo, sento una gran voglia di combattere, di impegnarmi di più, di essere sempre più deciso e intransigente, mantenere un atteggiamento sempre polemico nei riguardi di qualsiasi potere. Tra le cose che mi rimprovero come viltà, viltà personale  anche se si tratta di una viltà sociologica e storica, c’è quella di non aver osato prendere le difese di certi fascisti quando mi è sembrato che fossero accusati ingiustamente.”

Bellissimo Paese l’Italia, diceva Leonardo Sciascia, ma con un grande difetto: smarrisce la Memoria. E non solo: è un Paese senza verità. L’“innocenza” l’Italia non l’ha persa, come molti sostengono, nel 1969, con lo scoppio delle bombe alla Banca dell’Agricoltura a Milano.
L’innocenza l’Italia l’aveva, già, persa il Primo Maggio del 1947 con la Strage di Portella della Ginestra. È quel giorno che inizia la lunghissima teoria della menzogna di Stato, i suoi segreti, i suoi misteri. E, anzi, a essere pedanti, due anni prima, il 17 giugno 1945, quando il leader dell’indipendentismo siciliano Antonio Canepa, noto anche con lo pseudonimo di Mario Turri, viene ucciso, in circostanze non del tutto chiare, insieme al suo braccio destro Carmelo Rosano di ventidue anni e a Giuseppe Lo Giudice di diciotto anni, in un conflitto a fuoco con i carabinieri, in contrada Murazzu Ruttu, presso Randazzo, sulla Strada Statale 120.
Autore tra i prediletti di Leonardo Sciascia, Vitaliano Brancati, ne I piaceri, scrive che “ se noi non ricordassimo , il mondo sarebbe sottilissimo, una lastra di spessore, sulla quale fulmineamente stampato, un perpetuo presente attirerebbe su di sé i nostri sguardi stupiti e incantati” e poi una osservazione quasi incidentale, ma di grande profondità:

“Molte generazioni evitano di abbrutirsi solo perché uno dei loro componenti ha il dovere di ricordare.”



I.           I FRATELLI ROSSELLI

“Se non li avesse uccisi Mussolini,
li avrebbe fatti ammazzare Stalin!”

così sentenziò, amaramente, Diego Abad de Santillán, pseudonimo di Sinesio Baudilio García Fernández [1897-1983], vecchio esule anarchico, amico di Carlo, uno dei martiri di Bagnoles-de-l’Orne. La cronaca convulsa e contraddittoria del primo periodo del conflitto spagnolo sembra giustificare questa desolante ipotesi: vediamo perché! 


Nello e Carlo Rosselli con la loro madre Amelia.
 



Il 3 aprile del 1892, il padre dei Rosselli, Giuseppe Emanuele [detto Joe], sposa a Roma Amelia Pincherle.
I Pincherle sono una famiglia di ebrei veneziani.
Giuseppe Emanuele Rosselli è un musicista; Amelia è una letterata.
Amelia Pincherle è la prima donna che scrive per il teatro nella Storia dell’Italia unita. Suo fratello è il padre di Alberto Pincherle, che sarà noto come scrittore con il nome di Alberto.
Di Alberto Moravia, quindi, Amelia era zia e i fratelli Rosselli cugini primi.
Tra i legami familiari di Amelia, troviamo anche Laura Capon, figlia di un cugino, che sarà la moglie del fisico Enrico Fermi.
Giuseppe e Amelia hanno tre figli, Aldo, Carlo e Nello [il cui vero nome era Sabatino], nati rispettivamente nel 1895, nel 1899 e nel 1900.
Il loro matrimonio si rompe presto e, nel 1903, Amelia si trasferisce da Roma a Firenze, nella casa di via Giusti, con i tre figli in tenera età, affrontando da donna sola una difficile situazione familiare.
Fedele alla tradizione risorgimentale e mazziniana, la famiglia Rosselli al tempo della Prima Guerra Mondiale partecipa dell’interventismo democratico, nel solco di altri esponenti di questo filone ideale e politico: come Gaetano Salvemini, che dei fratelli Rosselli sarebbe stato prima Maestro e poi compagno di lotta.
Il maggiore dei fratelli, Aldo, cade nella Prima Guerra Mondiale, nel marzo del 1916, in Carnia, nel Friuli.
Anche gli altri due fratelli vengono arruolati, seppure non direttamente impegnati in combattimento.
È comunque una esperienza che li fa maturare e li rende adulti.




 

La sera del giorno 9, Hélène Besneux, una giovane manicure di Bagnolles, tornando dal lavoro in bicicletta, aveva osservato due vetture ferme lungo la strada, sul luogo del delitto. Aveva potuto osservare un uomo che scendeva da una delle due vetture per salire sull’altra. Le era sembrato di intravedere una macchia di sangue sul terreno ma lo sguardo minaccioso dell’individuo l’aveva indotta ad affrettare il passo.
L’indomani, il giorno 10, una Ford 12CV nera, targata 3808 RF3, era stata ritrovata con a bordo un ordigno esplosivo, un bossolo di revolver e alcuni giornali francesi: si trattava della macchina di Carlo Rosselli.
Venerdì 11, il fabbro Henri Jarry, attraversando il bosco, aveva rinvenuto due cadaveri a circa 9 chilometri dal punto in cui era stata scoperta la Ford. A qualche metro dai corpi, un pugnale conficcato in terra: la lama lunga 10 centimetri, il manico in legno di quercia, ricurvo in cima, sul quale incisa una R e scritte in inchiostro azzurro, in lingua italiana due parole “Eroi fascisti”.
 


Augustin Souchy, Luce Fabbri e Diego Abad de Santillán.


La notizia dell’omicidio di Carlo e Nello Rosselli su La Stampa del 12 giugno 1937.







L’autopsia viene compiuta, nella stessa serata del 12, e dura fino a mezzanotte alla presenza del giudice istruttore del tribunale di Domfrond Alfred Evrard.
Ben diciassette ferite d’arma da taglio sul corpo di Nello Rosselli, che ha, sicuramente, opposto una strenua resistenza come appare chiaro da tracce di capelli e di fili di stoffa trovati tra le unghie; mentre solo quattro sono bastate per finire Carlo Rosselli – una alla carotide –. Su ognuno dei due corpi almeno una ferita potrebbe essere anche di arma da fuoco.
Particolare importante, il pugnale ritrovato presso i corpi – la perizia stabilisce che si tratta di un tipo di arma in dotazione ai soldati francesi durante il primo conflitto mondiale – non è quello utilizzato per uccidere: disattenzione degli assassini, trucco per confondere le indagini o misterioso e lugubre avvertimento?   
Aldo Garosci, Alberto Tarchiani e Franco Venturi giungono in treno per il riconoscimento dei cadaveri.

“Carlo e Nello Rosselli sono stati assassinati da avversari politici.”

“I documenti che Carlo, direttore di Giustizia e Libertà, aveva con sé sono scomparsi.”

Questi titoli ricoprono le prime pagine dei giornali parigini del 12 e del 13 giugno 1937 [https://criminocorpus.org/media/filer_public/15/33/1533ab30-b8fc-41f2-94b9-ac213ece6205/bilipo_p_dev_1937_0451.pdf].

Ai primi di giugno, Carlo Rosselli era partito per Bagnoles-de-l’Orne, una tranquilla stazione termale della Normandia per curare una forma di flebite che si era riacutizzata, mesi addietro, in Spagna. Aveva preso alloggio all’Hôtel Cordier, a Tessé-la-Madeleine, un sobborgo di Bagnoles, dove, il 6 giugno, lo aveva raggiunto il fratello da Firenze e, il 7, la moglie Marion Cave.
Il 10, Nello sarebbe ripartito e Carlo avrebbe concluso le sue cure.
Mercoledì 9, Marion dovette ripartire per essere presente a Parigi al decimo compleanno del figlio maggiore Giovanni Giacomo.
È una bella giornata e, dopo avere accompagnato Marion alla stazione, nel pomeriggio verso le 16.30, i due fratelli decidono di fare una breve passeggiata fino ad Alençon sulla Ford di Carlo. Hanno intenzione di visitare la celebre scuola di Pizzi, ma la trovano chiusa e acquistano in un negozio un fazzoletto di pizzi, poi, ritrovato nelle tasche di Nello.
Verso le 18, riprendono la strada del ritorno attraverso il Parco di Couterne.   
L’ora del crimine è fissata intorno alle 19.30.
I due fratelli devono essere ripartiti verso le 18.00 – 18.30, giacché il tragitto da Alençon a Bagnoles è all’incirca di un’ora.
All’altezza del Castello di Couterne, gli assassini li attendono: simulano un guasto all’automobile oppure è un vero e proprio appuntamento fissato in quel luogo?
Questi interrogativi sono stati i primi punti fermi dell’indagine. Infatti, una cosa è certa: i due fratelli sono scesi dalla loro auto senza diffidenza alcuna.
Nessuno di loro è rimasto nella vettura.
Sono stati uccisi senza avere il tempo di difendersi e trascinati, poi, per alcuni metri nel bosco. Si sono avvicinati ai sicari come andassero incontro ad amici.
Sembra evidente alle autorità inquirenti che non abbiano temuto né pericoli, né tantomeno imboscate.
Le esequie di Carlo e Nello si svolgono a Parigi, il 19, dieci giorni dopo l’efferato fatto di sangue.
Le due bare sono esposte alla Maison des Syndicats, circondate da bandiere rosse e da centinaia di corone di fiori provenienti da tutto il mondo.
Sul feretro di Carlo sono deposti la tuta e il casco di miliziano, simboli del suo recente passato di combattente in terra di Spagna.
Le note della Settima Sinfonia di Beethoven echeggiano nella vasta sala.
Si compone il corteo che si avvia verso il cimitero del Père-Lachaise.
Una immensa colonna precede i carri funebri.
Dietro, un’altra imponente colonna di gente commossa preceduta dalla moglie di Carlo, Marion, circondata da tutta la sezione parigina di Giustizia e Libertà.
Ai lati, i lavoratori di Parigi, al passaggio levano i pugni tesi verso le bare, rendendo omaggio alla vittima in un commosso silenzio.
Carlo Rosselli appartiene, oramai, anche al proletariato di tutto il mondo.
Centinaia di famiglie operaie fanno parte di quella folla di centocinquantamila persone che dilaga per le vie della città. 
 
  
Aldo Garosci, storico, politico e antifascista italiano, cammina da solo esibendo i simboli di quella lotta e del perché di quella morte: il casco e la tuta da miliziano di combattente volontario in Spagna, appartenuti a Carlo Rosselli.
Giustizia e Libertà pubblica nel numero che stampa il 18 giugno 1937, il giorno prima dei funerali, e che è distribuito ai funerali, il discorso che Carlo Rosselli aveva tenuto il 10 febbraio 1937 ad Argenteuil, nella banlieu Nord Ovest di Parigi, ai volontari in partenza per la Spagna, proposto con il titolo Perché andammo in Spagna. Il nocciolo politico di quel testo è nelle righe di esordio, laddove Rosselli enuncia che cosa voglia dire combattere per la libertà.
“Dopo lunghi anni di esilio io confesso che fu solo quando varcai le frontiere della Spagna, quando mi iscrissi nelle milizie popolari e rivestii la tuta, divisa simbolica del lavoro armato e imbracciai un fucile, che mi sentii ridiventare uomo libero, nella pienezza della mia dignità. All’estero siamo sempre e sempre saremo dei minorati, degli esuli. In Spagna no. In Spagna ci sentiamo pari, fratelli. Dopo essere stati obbligati tanti anni a chiedere, magari solo il sacrosanto diritto al lavoro e ala residenza, in Spagna abbiamo la gioia di dare.”

 
 
Al cimitero, il corteo si arresta presso il Muro dei Federati dove il 28 maggio 1871, al termine di una giornata di combattimenti in mezzo alle tombe, furono fucilati gli ultimi eroici difensori della Comune: le bandiere scarlatte si inchinano.
Sul luogo della sepoltura, tra gli altri, anche l’anarcosindacalista spagnolo Juan Garcia Oliver, amico di Carlo, ex-ministro della giustizia nel Governo Largo Caballero, caduto un mese prima, reca il palpitante saluto dei miliziani spagnoli, definendo Carlo:

“Uno dei primi e dei migliori comandanti dell’esercito rivoluzionario.”   

Viene posato sul feretro di Carlo un gran fascio di rododendri giunti nottetempo, attraverso i passaggi alpini, dall’Italia, inviati da un gruppo di compagni lavoratori.
Solo nell’aprile del 1952, quattordici anni dopo, le salme di Nello e di Carlo verranno traslate in Italia, a Firenze.
Carlo e Nello Rosselli erano nati, rispettivamente, a Roma, il 16 novembre 1899 e, a Firenze, il 29 novembre 1900.

 
Da sinistra, Gaetano Salvemini, Marion Cave con il marito Carlo Rosselli. Il penultimo a destra è Ernesto Rossi [Firenze 1923]. Dal 1920, si riunirono attorno all’ormai anziano Salvemini un gruppo di giovani ex-interventisti democratici, Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei, Nello Traquandi, i fratelli Niccoli, Gino Frontali,  i quali, per discutere e approfondire liberamente i problemi d’attualità, diedero vita al Circolo di Cultura, che, dal 1923, ebbe sede al numero 27 di Borgo Santi Apostoli. Per le posizioni nettamente antifasciste il circolo fu distrutto dai fascisti, il 31 dicembre 1924.

Durante gli anni dell’università entrano in contatto con Gaetano Salvemini, insegnante di Storia nell’Ateneo fiorentino, che contribuisce, in notevole misura, alla loro formazione intellettuale e politica.
Nello si dedica, ben presto, agli studi storici.
Carlo, laureatosi in scienze politiche, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, il 10 giugno 1924, si dedica, totalmente, all’attività antifascista e fonda con lo stesso Salvemini ed Ernesto Rossi il foglio clandestino Non mollare!
 

  
Da sinistra: Lorenzo De Bova, Filippo Turati, Carlo Rosselli, Sandro Pertini e Ferruccio Parri, a Calvi, in Corsica, dopo la fuga in motoscafo da Savona [1926].

Nell’ottobre del 1925, una squadraccia fascista fa irruzione nella loro abitazione fiorentina, distruggendo la biblioteca di Carlo.
Nello rientra a Firenze, mentre Carlo si stabilisce a Milano.
Nel dicembre del 1926, con Ferruccio Parri e Sandro Pertini Carlo Rosselli mette in atto un piano di fuga per Filippo Turati.
Insieme raggiungono la Corsica.
Parri e Rosselli rientrano in Italia.
Arrestati, utilizzano questa occasione per denunciare, durante il processo, ricordato come il processo dei professori, nel settembre del 1927, la tirannia fascista.
Condannato a 5 anni di confino, Carlo non parte solo, giacché è colpito dallo stesso provvedimento anche il fratello.
Rientrato Nello a Firenze, sotto sorveglianza speciale della polizia, dopo soli cinque mesi, Carlo tenta l’evasione.
Nel luglio del 1929, con Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, da Lipari, Carlo raggiunge le coste della Tunisia e, di là, nell’agosto dello stesso anno, si reca a Parigi che, da quel momento, diviene la sua base operativa.
La personalità di Carlo Rosselli si impone, ben presto, come una delle più vive ed energiche nell’ambiente dei fuoriusciti antifascisti a Parigi.
Alla fine del 1929, dà vita a una formazione politica denominata Giustizia e Libertà. Sono con lui Alberto Tarchiani, Emilio Lussu, Alberto Cianca, Fausto Nitti, Cipriano Facchinetti, Raffaele Rossetti, Gioacchino Dolci.
Le origini prevalentemente liberali e repubblicane di sinistra portano, secondo le parole dello stesso Carlo Rosselli, in uno dei suoi ultimi scritti su Giustizia e Libertà del 14 maggio 1937, a: “un movimento politico nuovo senza riscontro nella geografia politica tradizionale… “Giustizia e Libertà” è un movimento che ha ormai un netto carattere proletario. Non solo perché il proletario si dimostra dovunque come l’unica classe capace di operare quel sovvertimento di istituzioni e di valori che si propone; non solo perché nel seno del movimento i proletari hanno sempre maggiore peso; ma perché nell’esperienza concreta della lotta ha misurato tutta l’incapacità, lo svuotamento della borghesia italiana come classe dirigente. Certo, non è facile definire “Giustizia e Libertà” in base alla terminologia usuale dei partiti proletari. In base a questa terminologia dovremmo definirci a un tempo socialisti e comunisti e libertari…”
Sui fogli del settimanale Giustizia e Libertà svolge un’attività giornalistica instancabile. Organizza attività cospirative e di sabotaggio in Italia, con alterne fortune, finché lo ritroviamo in Spagna, tra i primi, allo scoppio della guerra contro il franchismo.
Sabatino, detto Nello, sposato e con quattro figli, pur rimanendo in contatto con le organizzazioni clandestine antifasciste, dopo il 1925, si ritira dall’attività politica militante, dedicandosi, soprattutto, agli studi storici sul periodo risorgimentale. Di lui sono rimaste notevoli opere come Mazzini e Bakunin [1927] e Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano [1932].
È inutile ricordare, nel nostro caso, gli elementi rappresentati da scontate nozioni storiografiche generali della situazione europea, mentre può essere utile per lo studio del Caso Rosselli mettere a fuoco alcuni risvolti della dinamica storica di quei momenti in cui campeggia la Guerra Civile Spagnola, ultima grande passione di Carlo.
Il conflitto iberico degli Anni Trenta, a novant’anni dalla sua fine, ripropone, tuttora, temi di scottante attualità per l’aspetto multiforme degli interrogativi ancora irrisolti cui diede vita.
Il fenomeno rivoluzionario, sviluppatosi durante la lotta antifascista della Guerra di Spagna, nel primo periodo che va dall’estate del 1936 a quella del 1937, rappresenta ancora per gli storici un argomento di estremo interesse.
Nel fatidico luglio del 1936, a fianco degli operai, il proletariato agricolo spagnolo reagì al golpe militare franchista, impadronendosi delle terre e dando vita a una esperienza unica nella Storia del Novecento, unica perché nel contesto generale della Repubblica, nata nel 1931, i contadini riuscirono in veste di protagonisti di una vera e propria rivoluzione socialista, a porre le basi di un solido “dualismo di potere” all’incontro di un sistema capitalista. Basi di potere proletario che resistettero almeno per un anno – estate 1936 – estate 1937 – alla controffensiva conservatrice all’interno della Repubblica, nel pieno corso dello stesso conflitto. In conseguenza di ciò, si aprì, all’interno della Repubblica spagnola, un vero e proprio conflitto determinato da due diverse concezioni relative alla conduzione della guerra.

“Noi facciamo la guerra e la rivoluzione nello stesso tempo.”,

aveva affermato José Buenaventura Durruti, il comandante anarchico della colonna miliziana omonima, il cui passaggio non aveva rappresentato solo la cacciata dei franchisti ma l’instaurazione di un sistema di autogestione armata da parte delle comunità contadine.
Dopo le tragiche giornate di Barcellona del maggio del 1937, vale a dire dopo il riuscito attacco governativo contro gli anarcosindacalisti e i marxisti antistaliniani in Catalogna, l’ultimo colpo alle posizioni di potere proletario e contadino fu rappresentato proprio dalla liquidazione delle collettività agricole anarchiche in Aragona, nell’agosto dello stesso anno.
Come spiegare il complesso e tragico sviluppo di tali avvenimenti?
Carlo Rosselli, dopo la diretta partecipazione come miliziano sul fronte aragonese, seguì dalla Francia con trepidazione ogni sviluppo della vicenda fino a tutto il mese di maggio e ci sembra di poter ricavare dai suoi scritti attenti e angosciati, una considerazione di fondo: in Spagna non si sta svolgendo una pura e semplice rivoluzione genericamente democratico-antifascista e neppure una lotta semplicemente antifeudale, ma un vero e proprio rivolgimento sociale, la più potente indispensabile arma per attaccare e battere il fascismo sul suolo iberico e fuori di esso. 
Così scriveva su Giustizia e Libertà, il 6 novembre 1936:

“Catalogna, baluardo della rivoluzione… La Catalogna ha saputo, in soli tre mesi, sostituire al vecchio ordine crollato un nuovo ordine sociale, rivelando – essi, gli anarchici – un notevole senso di misura, di realismo, di organizzazione… tutte le forze rivoluzionarie si sono unite su un concreto programma sindacale… In Catalogna sta nascendo una nuova forma di democrazia sociale, sintesi pratica dell’esperienza russa con l’eredità dell’Occidente… Sono stato 75 giorni al fronte e in trincea con gli anarchici catalani sono una delle avanguardie eroiche della rivoluzione occidentale. È nato con essi un nuovo mondo che è bello servire. Rivoluzionari dottrinari, riformisti della Lettera, uomini della II e della III Internazionale, governanti di Madrid, che storcete la bocca quando si parla dell’anarchismo catalano, ricordatevi il 19-20 luglio a Barcellona… In poche ore il fascismo feudale è spazzato. Tutta la Catalogna è libera. E dopo una settimana le prime colonne di popolani armati prendono l’offensiva in Aragona. Concludo come ho cominciato: la Catalogna tiene in mano i destini della Spagna e della rivoluzione. In un mese potrà armare 300mila uomini e vincere. Perché non lo ha già fatto? Il socialismo madrileno, accerchiato, ha continuato a inseguire il suo sogno centralista unitario, mentre a Barcellona non arrivano che le briciole. Il socialismo, il comunismo internazionale guardavano con preoccupazione questa creatura eterodossa. Ora fortunatamente, tutto ciò sta per mutare, Garcia Oliver, arrestato e torturato sotto la Repubblica, oggi fa parte del governo di Madrid, insieme ad altri tre compagni della CNT. Si potranno perdere ancora delle battaglie; ma si vincerà la guerra. La ragione di questa fede è molto semplice: un mondo nuovo è sbocciato, un popolo intero ha gustato i frutti delle libertà non solo nei comizi, ma nell’officina, nei campi, al fronte. Questo popolo non potrà più rassegnarsi alla schiavitù.”

Analisi poco governativa, limpida, secca, precisa e appassionata. Ma il governo centrale repubblicano, governo di Fronte Popolare, con quattro ministri anarchici travolti dalla logica delle cose, fu, paradossalmente, governo borghese legalitario, nel senso letterale della parola, per di più sostenuto in prima istanza dal Comintern stalinizzato.      
L’illusione di Rosselli non durò a lungo.
Il 18 maggio 1937, caduto Francisco Largo Caballero, quando si formò un nuovo gabinetto presieduto dal socialista Juan Negrin, gli anarchici non fecero più parte della compagine governativa.
Il 16 giugno, il POUM [Partido Obrero de Unificación Marxista], forza soprattutto catalana – con una colonna di miliziani fino dall’anno precedente sul fronte aragonese –, che appoggiava gli anarcosindacalisti, viene dichiarato fuori legge e il suo leader ex-trockijsta Andreu Nin i Pérez venne arrestato e, successivamente, eliminato dalla GHEPEU’.
Il POUM contava su poche migliaia di militanti, ma come forza marxista era un piccolo partito comunista antistaliniano, pertanto, eretico rispetto al Comintern; la sua forza era rappresentata, soprattutto, dalla qualità dei suoi militanti ed era considerata da Mosca un vero e proprio movimento trockijsta, pur non essendolo, in quanto Lev Trockij si era, sempre, dissociato dalla sua attività politica.
Questa la posizione della Pravda, il 17 dicembre 1936:

“Per quanto riguarda la Catalogna, l’epurazione degli elementi trockijsti e anarcosindacalisti è già cominciata e verrà portata avanti con la stessa energia che nell’Unione Sovietica.”

Sempre lo stesso quotidiano sovietico, organo ufficiale del CC del Partito Comunista, in data 22 marzo 1937:

“Dietro l’organo degli anarchici Solidaridad Obrera stanno i trockijsti e gli agenti della polizia tedesca.”

Vennero attaccati con accuse durissime, anche, gli anarchici fortissimi a livello di massa.
Il 29 giugno, gli anarcosindacalisti della CNT abbandonarono anche il governo catalano, Generalitat.    
L’11 agosto, poi, il Ministero della Difesa Nazionale dispose che l’Undicesima Divisione, al comando di Enrique Líster Forján, passasse all’azione repressiva nelle retrovie aragonesi per sciogliere manu militari le collettività anarchiche.
I reparti di miliziani anarcosindacalisti non si mossero.
Carlo Rosselli, morto il 9 giugno, assiste solo alla prima parte dell’oscura tragedia, fa in tempo, tuttavia, ad analizzare su Giustizia e Libertà gli avvenimenti dei primi giorni di maggio, in cui infuriarono nella capitale catalana aspri combattimenti tra anarcosindacalisti e poumisti, da una parte, e forze legalitarie capeggiate dagli stalinisti, dall’altra, ore in cui perse la vita, ucciso a tradimento da uomini del Comintern, il suo vecchio amico, Camillo Berneri.
Così Carlo Rosselli si esprime, il 21 maggio:

“I dolorosi avvenimenti di Barcellona spezzando, speriamo temporaneamente, l’unità delle forze peroletarie, hanno precipitato a Valencia una crisi politica, da tempo nell’aria, il cui significato è ancora lungi dall’essere chiaro, ma di cui vano sarebbe dissimulare la gravità… Lo spostamento in senso moderato e parlamentare della nuova formazione [governativa] è indubbio, anche se avviene sotto il segno di una più energica condotta della guerra. Resta da vedere se il nuovo governo riuscirà a consolidarsi, e in che direzione. Se il consolidamento avvenisse in virtù di un nuovo accordo tra il governo e le forze sindacali – tutte le forze sindacali – tale da riconsacrare il carattere proletario della democrazia spagnola, la crisi potrebbe riuscire addirittura benefica. Se invece il consolidamento dovesse avvenire in virtù di un progressivo svuotamento della rivoluzione, col ritorno larvato al sistema politico precedente il 19 luglio, allora la crisi potrebbe avverarsi fatale… si è arrivati, per reciproca colpa, alle giornate di Barcellona… La situazione politica in Spagna è delicata e può riserbare grosse sorprese… Certo l’URSS interviene in Spagna al di là del giusto e del necessario. Ma senza l’URSS esisterebbe oggi ancora una Spagna repubblicana?”

La seconda parte del dramma politico interno Carlo Rosselli non potrà purtroppo vederla. La politica sovietica del “socialismo in un solo Paese” non ha potuto che tradursi, come in una paradossale equazione, nella sistematica “organizzazione della sconfitta”, secondo le parole di Lev Trockij, malgrado la forte radicalità e l’estensione profonda delle crisi rivoluzionarie e la capacità offensiva di lotta delle masse lavoratrici.     
Durante il conflitto spagnolo è esistito un binario parallelo, caratterizzato sia nell’URSS sia presso i partiti aderenti alla Terza Internazionale, da un fenomeno singolare assimilabile soltanto, con un accostamento non azzardato, a quello del periodo della Controriforma, ossia il fenomeno della “caccia al trockijsta” considerato non solo l’alleato principe del fascismo ma il suo agente diretto.
Nell’agosto del 1936 e nel gennaio del 1937, hanno luogo, a Mosca, nella Sala di Ottobre della Casa dei Sindacati, due famosi processi.
Il primo, dal 19 al 28 agosto 1936, ricordato come il Processo dei Sedici, mirava a colpire i maggiori esponenti dell’opposizione di sinistra del partito e venne definito nei resoconti ufficiali “processo del centro terrorista trockijsta-zinoviviana”.
Il 24 agosto il presidente del Collegio Militare della Suprema Corte di Giustizia dell’URSS Vasilij Ulrich emise questa sentenza:

“[…] Con ciò fu accertato che: Zinov’ev Gregorij, Kamenev Lev, Evdokimov Grigorij, Bakaev Ivan, Mrac’kovskij Sergej, Ter-Vaganjan Vagarshak, Smirnov Ivan sono colpevoli: 1] di aver organizzato il “Centro terroristico trockijsta-zinov’eviano unificato” per assassinare i capi del governo sovietico e del partito comunista dell’URSS, 2] di aver preparato ed eseguito attraverso il gruppo terroristico illegale di Leningrado, Nikolaev- Kotolynov e altri, che il 29 dicembre 1934 furono condannati dal Collegio Militare della Suprema Corte di Giustizia dell’URSS, il delittuoso assassinio del compagno Sergej Kirov, 3] di aver organizzato una serie di gruppi terroristici che preparavano l’uccisione dei compagni Stalin, Voroscilov, Zdanov, Kaganovic, Ordzhonikidze, Kosior e Postyscev, cioè dei crimini contro gli articoli 58/8 e 58/11 del Codice Penale della RSFSR. Dreister Efim, Reingold Isaac, Pikel Richard, Gol’tsman Eduard, Fritz David, Olberg Valentin, Berman- Jurin Konon, Lurie Moisej, Lurie Nathan quali membri dell’organizzazione controrivoluzionaria terroristica trockijsta-zinov’eviana illegale di essere stati attivi partecipanti alla preparazione dell’uccisione dei capi del Partito e del Governo, dei compagni Stalin, Voroscilov, Zdanov, Kaganovic, Ordzhonikidze, Kosior e Postyscev, cioè dei delitti contro gli articoli 19 e 58/8, 58/11 del Codice Penale della RSFSR. Sulla base di quanto sopra esposto e in conformità con gli articoli 319 e 320 dell’ordinamento di procedura penale della RSFSR, il Collegio Militare della Suprema Corte di Giustizia dell’URSS condanna tutti e sedici gli imputati alla pena capitale mediante fucilazione e alla confisca di tutti i loro beni personali. Trockij Lev, attualmente all’estero, e suo figlio Sedov Lev, i quali attraverso le deposizioni degli imputati Smirnov, Gol’tsman, Dreister, Olberg, Fritz e Berman-Jurin, così come attraverso il materiale dell’attuale processo furono dichiarati colpevoli della preparazione diretta e della guida personale nell’organizzazione di atti terroristici nell’Unione Sovietica contro i capi del Partito comunista dell’URSS e dello Stato sovietico sono, nel caso in cui vengano trovati nel territorio dell’URSS, immediatamente da arrestare e da consegnare al Tribunale del Collegio Militare della Suprema Corte di Giustizia dell’URSS.”

Dal punto di vista prettamente formale, giuridico, questa sentenza altro non faceva che applicare delle norme scritte, ufficialmente violate dai sedici imputati.
La questione importante, tuttavia, è un’altra.
Questi sedici imputati veramente avevano violato l’articolo 58 del codice penale della RFSFR, che puniva le attività controrivoluzionarie con la pena capitale?
Davvero avevano progettato di eliminare fisicamente i più alti dirigenti del partito, Stalin su tutti?
Le esecuzioni furono rese note ventiquattro ore dopo la sentenza.
Tutti gli imputati, tranne Smirnov e Holtzman, che respinsero parzialmente le accuse, interrogati da Andrej Januar’evic Vyšinskij, si erano dichiarati colpevoli dei reati contestati.
Se il primo processo era servito a eliminare “vere” opposizioni, quindi, anche importanti personalità, nel secondo processo, celebrato dal 23 al 30 gennaio 1937 e denominato il Processo dei Diciassette, attraverso dirigenti importanti [Radek, Pjatakov, Sokol’nikov, Serebrjakov, Arnold, Boguslavskij, Chestov, Drobnis, Hrasche, Livsic, Knjazev, Muralov, Norkin, Pušin, Ratajcak, Stroilov e Turok], ma comunque di minore fama rispetto ai sedici, si condannavano varie forme di sabotaggio, tutte “personificate” durante la requisitoria di Vyšinskij. Il secondo processo di Mosca fu solo il primo terribile evento del 1937, l’anticamera di una serie di ondate repressive che di là a poco avrebbero investito un’elevata parte della popolazione, il picco di un processo partito molti anni prima e legato alla collettivizzazione delle campagne.
Ha, così, inizio l’epurazione di tutti i quadri dirigenti del Partito Comunista dell’Unione Sovietica che potevano fare ombra a Stalin, attuata dalla polizia segreta mediante assassinii, arresti e deportazioni illegali e, soprattutto, attraverso processi farsa, basati su prove e testimonianze false e conclusi, sempre, con la condanna, spesso a morte, degli imputati.
Il principale imputato rimase l’esule Lev Trockij ritenuto sempre più pericoloso, soprattutto, dopo il processo di gennaio:

“Che ha svelato le intese segrete fra Trockij, Hitler e il Mikado.”

Carlo Rosselli non condivide le posizioni trockijste; e, a volte, lancia dure critiche e frecciate al fondatore dell’Armata Rossa, ma continua a considerare tutti gli imputati di Mosca “rivoluzionari innocenti”. Sostenere che i trockijsti rappresentino una corrente del movimento operaio, che siano antifascisti e rivoluzionari, anche non condividendone le posizioni e magari considerandole non poco “errate”; pensare che in un fronte antifascista unito possa esservi un posto anche per loro, come per tutti coloro che desiderino combattere il fascismo – posizione di Giustizia e Libertà – rappresenta qualcosa di più di un grave errore.
Lo Stato Operaio n. 7-8 del luglio-agosto 1937, rivista teorica del Partito Comunista d’Italia, edita a Parigi, ricorda la tragica morte di Carlo Rosselli.
L’articolo a firma di Mario Montagnana prosegue però tra l’altro in questo modo:

“La lotta antifascista è una cosa molto seria. L’atteggiamento dei dirigenti di Giustizia e Libertà non è in questo caso, né politicamente né ideologicamente, una cosa seria… “Giustizia e Libertà” non è oggi, un movimento trockijsta, anche se nelle sue file si annidano alcuni trockijsti notori. Ma tutte le posizioni attuali di “Giustizia e Libertà” tendono a portare questo aggruppamento, lo vogliano o non lo vogliano, i suoi dirigenti, verso il trockijsmo
La posizione del trockijsmo verso il governo spagnolo è a tutti nota, come è nota la parte avuta dai trockijsti nei dolorosi fatti del maggio scorso a Barcellona. La posizione di “Giustizia e Libertà” nei confronti del governo spagnolo è sempre stata una posizione di diffidenza e di sospetto…       
Di fronte ai fatti di Barcellona, “Giustizia e Libertà” ha assunto una posizione formalmente agnostica, ma nella pratica piena di indulgenza e di solidarietà con coloro che volevano pugnalare alla schiena la Repubblica. Il trockijsmo crede alla inevitabilità della guerra, vuole la guerra, prepara la guerra. “Giustizia e Libertà”, senza assumere le stesse posizioni trockijste, crede essa pure alla inevitabilità della guerra, e non può perciò lottare per evitare la guerra. La posizione del trockijsmo, favorevole agli atti di terrore individuale, è a tutti nota. Essa è caratteristica dei piccoli borghesi esasperati. “Giustizia e Libertà” che non ha fiducia nelle masse, crede tuttora all’importanza fondamentale delle azioni compiute da “nuclei di ardimentosi contro l’apparato fascista”, cioè all’azione terroristica… Cosa dimostrano questi fatti, ai quali molti altri potrebbero essere aggiunti? Essi dimostrano che se oggi le posizioni di “Giustizia e Libertà” non coincidono in tutto con quelle trockijste, esse ne rappresentano, per così dire l’embrione, la fase iniziale. Spinte alle loro logiche conseguenze, esse, ripetiamo, portano inevitabilmente al trockijsmo.”     

Nel numero seguente del settembre Lo Stato Operaio, a una replica di Giustizia e Libertà, prosegue sullo stesso tono, ma investendo in modo più diretto la questione italiana: il dissenso appare profondo e difficilmente componibile.
Il problema spagnolo e quello parallelo italiano divengono di attualità ancora più scottante.
Nell’agosto del 1936 – vedasi Lo Stato Operaio n. 8 dell’agosto del 1936 – il famoso “appello” per la “riconciliazione del popolo italiano!” in cui il Partito Comunista d’Italia affermava:
“i comunisti fanno proprio il programma fascista del 1919, che è un programma di libertà”, e le continue “mani tese” nei confronti dei cattolici, lucidamente analizzati e criticati da Carlo Rosselli, avevano, già, posto le prime basi dell’attuale dissenso tra Giustizia e Libertà e il Partito Comunista d’Italia stalinizzato. Quest’ultimo, punta ancora a un possibilistico recupero delle masse in Italia; Giustizia e Libertà considera, invece, sotto questo profilo, soprattutto dopo l’avventura etiopica, chiusa la partita: per Rosselli la guerra mondiale è inevitabile e l’unico modo per contrastare il fascismo, in ogni dove, rimane il sabotaggio e l’azione armata.
È un dissenso tattico-strategico oltremodo profondo.
Non è nostro compito addentrarci in analisi che potrebbero condurci a sfiorare la fantapolitica, possiamo solo prendere atto delle preoccupazioni di fondo di Giustizia e Libertà e di Carlo Rosselli.
Carlo Rosselli ha, anche, l’irritata consapevolezza che nulla si faccia per colpire gli uomini del fascismo anche fisicamente, con tutti i mezzi; con l’azione terroristica individuale, con attentati, sabotaggi, che fiaccassero il morale dell’avversario, senza tregua, con un’azione se ci è permesso l’accostamento, “vietnamizzante” della lotta. Agli storici futuri il giudizio su questa visione globale.
Il Comitato Centrale di Giustizia e Libertà, immediatamente dopo la notizia della efferata uccisione, comunica:

“Noi accusiamo formalmente Benito Mussolini di aver dato ordine a sicari fascisti di venire in Francia per assassinare Carlo e Nello Rosselli.”

Questa è, anche, l’opinione generale. 
Nel gennaio del 1938, il Ministero dell’Interno francese annuncia alla stampa che gli assassini dei fratelli Rosselli sono  stati individuati e arrestati.
Sono oscuri sicari, membri del CSAR, Comité Secret d’Action Révolutionnaire, associazione di estrema destra più nota sotto il nome di Cagoule [Cappuccio][7], una specie di Ku-Klux-Klan francese. Il processo viene, nondimeno, insabbiato in seguito a mutamenti politici nel Paese. Più tardi, durante il periodo filonazista di Henri-Philippe-Omer Pétain, la Cagoule stessa sarà al governo. I cagoulards, comunque, sono stati, sempre, considerati dei semplici esecutori su commissione: una partita di almeno 100 moschetti semiautomatici Beretta risultò essere stata il loro compenso. Alla caduta del regime collaborazionista in Francia, il procedimento contro i cagoulards viene riaperto.
Fernand Ladislas Jakubiez fa una dettagliata confessione:

“Erano accompagnati da una donna [la moglie di Carlo] che lasciarono alla stazione di Bagnolles. A un certo punto, la vettura di Filiol, nella quale stavo io, oltrepassò quella dei Rosselli e le tagliò la strada. Filiol scese sulla strada con Baillet – con questo nome, che risultò poi inesatto, Jakubiez tentò di coprire uno degli imputati deceduti – simulando una panne. La vettura dei Rosselli si arrestò, Carlo rimase al volante. Il fratello scese. Filiol era curvo innanzi alla vettura come se cercasse la panne, si rialzò bruscamente e scaricò il suo parabellum contro Nello, che cadde. Baillet si precipitò sulla vettura in cui si trovava Carlo, che stava al volante e sparò anche contro di lui. Carlo fu ucciso sul colpo. Suo fratello, gravemente ferito, era caduto nel fossato. Io lo colpii con pugnale, credo due o tre volte; Filiol lo finì in seguito con l’arma che possedeva. Il pugnale che fu trovato sul luogo era mio. Filiol conservò il suo. Era stato lui che ci aveva tutti armati con un pugnale dello stesso modello. Puireux rimase al volante della sua macchina durante l’affare. Gli occupanti della seconda macchina, che avevano veduto il delitto, girarono su se stessi nella direzione di Parigi. Baillet ed io buttammo i due corpi nel bosco, sui margini della strada. Filiol li aveva frugati e aveva preso su di essi delle carte che furono spedite in Italia, come appresi in seguito. Io montai sulla macchina delle vittime insieme con Baillet; l’abbandonammo dopo alcuni chilometri.”
 


Eugène Deloncle


 
 Jean-Marie Bouvyer


Jean Filiol










L’11 ottobre del 1948, si apre davanti alle Assises de la Seine il Processo della Cagoule, una organizzazione clandestina paramilitare di estrema destra, creata nel 1936 dopo la scioglimento delle leghe[8]. Un processo-fiume: 50 accusati presenti, 60 avvocati e 400 testimoni. 





 
 L’articolo di Pierre Scize, apparso su Le Figaro dell’11 ottobre 1948.
“Soixante-quatre accusés, quatre cents témoins au procès de “la Cagoule”
Un grand procès?
Un long procès?
Tous les records de l’instruction judiciaire sont battus, certains faits retenus par l’acte d’accusation remontant à 1937. Onze années, dont il faut défalquer quatre ans d’occupation, pendant lesquelles les accusés jouirent de la liberté et entretinrent les meilleurs rapports avec les maîtres du jour.
Qu’est-ce donc au juste que ces “Cagoulards” au surnom destiné à frapper l’imagination populaire?
On imagine des conseils secrets sous des arceaux gothiques avec manteaux couleur muraille, san-benito, cires ardentes, poignards empoisonnés, serments exécrables, salles des supplices et autres accessoires réjouissants. Inutile de dire que tout cela n’est que billevesées et roman-feuilleton.
La réalité, parée de toute autre couleur, a cependant de quoi exciter l’intérêt des amateurs de romans d’aventures. Il s’agit, en réalité, d’une «bande» comme celles dont Jules Romains nous a montré la naissance et comme il en naquit beaucoup en Europe depuis trente ans. Bandes révolutionnaires pour qui tous les moyens sont bons qui conduisent à la conquête du pouvoir. On en vit naître et prospérer un peu partout: en Hongrie, en Russie, en Italie, en Allemagne, en Espagne, en France. Leurs chefs mettaient en commun le même appétit de puissance et de domination, la même absence de scrupule, la même prédilection pour les moyens du terrorisme. La vie humaine comptait comme rien à leurs yeux. L’opinion des masses était identiquement foulée aux pieds par ces doctrinaires. Les fondements de la morale étaient subvertis. Les pires moyens étaient employés à justifier une fin, toujours la même: l’avènement au pouvoir suprême du chef de la bande et de ses satellites et complices.
Il est remarquable, et il est consolant aussi, de constater que ces aventuriers qui firent couler tant de sang accumulèrent tant de ruines et dont, hélas! la carrière n’est pas terminée, réussirent -au moins pour un temps plus ou moins long- partout, sauf en France.
Anita Helmy, Expert en art moderne, présente cinq artistes qui ont créé des œuvres fortement inspirées de Van Gogh.
Sommes-nous épargnés de la contagion par notre esprit de mesure, notre peu de goût pour ces sortes?
Notre attachement aux valeurs individuelles? Ou bien avons-nous, en ceci comme en beaucoup d’autres choses, précédé de quelques lustres les autres nations dans la voie des aventures dictatoriales et ces expériences nous ont-elles donné un terrible dégoût de la chose?
Cette façon de nous montrer des précurseurs ne serait pas pour déplaire au Français moyen.
Les “cagoulards”? Ce sont, pour la plupart, des hommes qui las de marquer le pas à la manière des figurants d’opéra, derrière des chefs de chœur comme Maurras et consorts, las de chanter: “Courons! Oui, courons!” sans bouger de place, voulurent dépasser leurs chefs et prouver le mouvement en marchant. De la théorie ils voulurent passer à la pratique. Ils organisèrent des sociétés secrètes correspondant à divers degrés d’initiation: O.S.A.R.N. [Organisation Secrète d’Action Révolutionnaire Nationale][9], C.S.A.R. [Comité Secret d’Action révolutionnaire], Chevaliers du Glaive [pour quelques attardés romantiques sans doute], U.C.A.D. [Union des Comités d’action défensive] pour les troupes cotisantes de qui il n’y avait pas grand-chose à atteindre sur le plan de l’action.
Tout de suite les conjurés se mirent au travail: assassinats, meurtres, enlèvements, trafic d’armes, attentats à la bombe et autres activités condamnables. Entre autres méfaits, on reproche aux «cagoulards» l’assassinat du trafiquant d’armes Jean-Baptiste, de son complice Maurice Juif, tous deux anciens camelots du roi: le meurtre de Navachine, agent soviétique probable; de Laetitia Toureaux, indicatrice de police poignardée dans le métro; des frères Roselli, tués près de Bagnoles-de-l’Orne; de Max Dormoy, ancien ministre de l’Intérieur, assassiné pendant son sommeil, à Montélimar, durant l’occupation.
D’autres ne se gênent pas pour dire que les principaux coupables ne seront pas à la barre. Beaucoup sont morts, d’autres ont expié.
On les accuse d’avoir en outre été les auteurs de l’attentat de la rue de Presbourg, qui causa la mort de deux gardiens de la paix. On se rappelle aussi qu’une explosion, au cours de laquelle quatorze jeunes soldats trouvèrent la mort, se produisit à l’annexe du laboratoire municipal de Villejuif, où l’on entreposait les caisses de grenades saisies dans les différents “arsenaux” de la Cagoule.
Affaires infiniment ramifiées portant sur plusieurs années et mettant en cause les personnalités les plus diverses. Depuis le simple idéologue, admirateur des théories de la violence chères à Georges Sorel; jusqu’à de sinistres hommes de main, tueurs, agents de basses besognes.
C’est donc un monde très mêlé qui se lèvera aujourd’hui à l’appel du président Ledoux. Coupables et comparses, théoriciens et exécutants, ils sont soixante-quatre appelés. Quelques-uns sont en fuite et personne ne peut affirmer même qu’ils vivent encore.
Des affaires annexes, évoquées devant d’autres tribunaux, sont inextricablement mêlées à celles-ci. La Cour devra disjoindre quelques dossiers. Elle se propose d’entendre à peu près quatre cents témoins.
Ira-t-elle même au terme de sa tâche et produira-t-elle un verdict avant la fin de l’automne?
Il est des gens autorisés, au Palais même, pour en douter.
D’autres ne se gênent pas pour dire que les principaux coupables ne seront pas à la barre.
Beaucoup sont morts, d’autres ont expié, tel Joseph Darnand, ex-chef de la Milice, inculpé de meurtre de Maurice Juif; d’autres enfin ont disparu sans laisser de traces dans le grand remous de la guerre.
Encore une fois, on retiendra au bénéfice de notre pays que c’est un des rares en Europe, avec l’Angleterre, les pays flamands et les démocraties Scandinaves, à ne pas s’être laissé entraîner aux pires aventures par des ambitieux, des illuminés ou des fous.

 

Il primo febbraio del 1935, François-Maurice-Adrien-Marie Mitterrand[10] partecipa alla manifestazione dell’Action Française contro i medici stranieri autorizzati a esercitare in Francia, al grido di La France aux Français. La sua partecipazione questa manifestazione è attestata da due foto, pubblicate su Les Camelots du Roi di Maurice Pujo, in cui François Mitterrand appare dinanzi a un cordone di agenti di polizia.
Nel dicembre del 1942, Mitterrand scrive nel giornale ufficiale di Vichy, France, revue de l’Etat nouveau:
“Se la Francia non vuole morire in questa melma, gli ultimi francesi degni di questo nome devono dichiarare una guerra senza quartiere a tutti quanti, all’interno come all’estero, si preparano ad aprirne le dighe: ebrei, massoni, comunisti… sempre gli stessi e tutti gollisti.”
Di fronte a  tali affermazioni non si possono avere dubbi circa la prima fede petainista e filofascista del giovane François, che, nel 1942, ha solo ventisei anni.
L’anno successivo, nel 1943, Mitterrand, che in primavera è stato decorato dell’ordine della Francisque – una distinzione onorifica del regime di Vichy – , dopo un incontro difficile con il generale Charles de Gaulle, entra nella Resistenza gollista, conservando peraltro le sue mansioni presso l’amministrazione di Vichy.
Come si può spiegare l’atteggiamento di François Mitterrand, protettore con la sua dottrina dei terroristi di estrema sinistra?
È un problema storico di notevole entità, che mette in luce, ancora una volta, le contraddizioni della Storia europea tuttora aperte e le difficoltà a superare l’eredità del fascismo, in Italia come in Francia.
Tutto inizia con un matrimonio, nel 1939, tra Robert Mitterrand, fratello maggiore di François, con Edith Cahier, figlia di un ufficiale di artiglieria. In sé, nulla di strano, se non fosse che Paul Cahier è un parente di Eugène Deloncle, leader di una organizzazione terroristica di destra, la Cagoule e detenuto nella Prison de la Santé, dal 1937, per complotto contro la Repubblica. La famiglia Mitterand, dunque, acconsente a una unione con persone opinabili.
Mitterrand era stato di destra e aveva militato nella Cagoule in gioventù e si era trasformato in un presidente socialista che aveva riportato la sinistra al Potere.
Chi faceva parte della Cagoule?
Soltanto i fascisti francesi e i loro confratelli italiani?
O anche personaggi che dopo la Liberazione avrebbero fatto parte di altre forze, opposte, nello schieramento repubblicano?
Certo, avere militato a venti anni nella Cagoule e avere accettato, dopo la guerra, un posto da Schueller, ex-finanziatore della Cagoule, non fa di Mitterand un complice dei crimini della Cagoule al pari delle migliaia di collaboratori dell’Oréal, ma può essere assolto dall’avere oscurato un delitto compiuto dai peggiori fascisti del suo Paese, servi del fascismo europeo, a distanza di più di cinquanta anni ed essere restato fedele al suo clan e ai suoi amici?
Negli Anni Cinquanta, il generale Charles de Gaulle aveva posto il veto al fascicolo sulla Cagoule negli Archivi di Stato francesi. I presidenti gollisti che gli succedettero hanno mantenuto quel veto e nessuno storico ha mai potuto consultare il fascicolo che riguarda il duplice assassinio dei fratelli Rosselli.
Negli Anni Ottanta e Novanta, quando Mitterrand è eletto presidente della Repubblica, non ha tolto il veto posto da de Gaulle agli inizi della Repubblica sul caso della Cagoule, di contro, fino al 1992, deporrà una corona di fiori sulla tomba di Henri-Philippe-Omer Pétain.
   



 
  


Eugène-Paul-Louis Schueller[11] [1881-1957] nel suo laboratorio [1920].
In un breve comunicato, diffuso la notte del 3 Febbraio 2004, L’Oréal, il gigante della cosmesi, annunciava la ristrutturazione del suo capitale. La famiglia Bettencourt e il gruppo Nestlé, che detenevano la maggioranza de L’Oréal attraverso l’intermediazione della holding di controllo Gasparal, fondata da Schueller durante la Seconda Guerra Mondiale, sarebbero stati i suoi diretti proprietari. Scompariva, dunque, la holding di controllo.  L’ereditiera del gruppo, Liliane Bettencourt[12], figlia di Eugène Paul Louis Schueller diveniva la donna più ricca di Francia.
La storia del gruppo mette in luce il volto nascosto della politica francese contemporanea. 





 
 Liliane Schueller, figlia di Eugène-Paul-Louis Schueller e moglie di André Bettencourt, proprietaria de L’Oréal.




 André Bettencourt


Il 15 ottobre 1942, François Mitterrand e Marcel Barrois incontrano il maresciallo Henri-Philippe-Omer Pétain all’Hôtel du Parc, sede del Governo di Vichy.









François Mitterrand e Sandro Pertini


François Mitterrand e l’Abbé Pierre [Henri-Antoine Grouès], ideologo della Dottrina Mitterand e difensore delle Brigate Rosse.
Il 16 marzo del 1978, Innocente Salvoni, la cui moglie, Françoise Tuscher, è segretaria dell’istituto francese Hyperion, nonché nipote dell’Abbé Pierre, viene riconosciuto da due testimoni come uno dei membri del commando brigatista che, in via Fani, aveva sequestrato Aldo Moro.

Il generale Gianadelio Maletti rivelò l’esistenza di un rapporto datato 1975, in cui denunciava il rischio che le BR, decapitate dagli arresti di Curcio e Franceschini, potessero rinascere sotto la direzione di uomini di maggiore peso culturale, ma a prezzo di mutare considerevolmente la propria matrice politica.
Un riferimento all’Hyperion?

Nell’autunno 1977, l’Hyperion apre un ufficio di rappresentanza a Roma in via Nicotera 26. Nello stesso stabile operano alcune società coperte dal SISMI. Gli uffici restano aperti, fino al giugno del 1978, ossia per l’arco temporale che va dalla progettazione del sequestro di Aldo Moro, fino a poco dopo il suo tragico epilogo.

Giovanni Pellegrino, per sette anni, alla guida della Commissione Stragi, avanzò il sospetto che Hyperion fosse un punto d’incrocio tra Servizi segreti dell’Ovest e dell’Est, assolutamente necessario nella logica del mantenimento degli equilibri di Yalta. Equilibri che Aldo Moro, con la sua politica di apertura al PCI, minava gravemente.
Pellegrino rintraccia un riferimento all’Hyperion nella testimonianza del generale Nicolò Bozzo, fidato collaboratore del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Bozzo ha raccontato in sede giudiziaria che dalla Chiesa gli aveva chiesto di indagare su “una struttura segreta paramilitare con funzione organizzativa antinvasione, ma che aveva poi debordato in azioni illegali e con funzioni di stabilizzazione del quadro interno, struttura che poteva aver avuto origine sin dal periodo della Resistenza, attraverso infiltrazioni nelle organizzazioni di sinistra e attraverso un controllo di alcune organizzazioni”.
Ecco come il giudice Carlo Mastelloni ricorda l’incontro con l’Abbé Pierre che, a metà degli Anni Ottanta, si presentò al Tribunale di Venezia:
“Era venuto dalla Francia per rendere dichiarazioni spontanee in favore del gruppo di italiani residenti a Parigi che ruotavano intorno alla scuola di lingue Hyperion. Avevo emesso contro di loro una serie di mandati di cattura per reati che avevano a che fare con il terrorismo rosso. Venne a dirmi che erano persone perseguitate da una centrale legata alla destra, che li aveva accolti in seno alla sua organizzazione, che al massimo avevano commesso errori di gioventù.
Fece otto giorni di sciopero della fame. Mi resi conto che l’Abate era una specie di referente dell’Hyperion anche perché sua nipote Françoise Tuscher, segretaria della scuola, era la moglie di uno dei ricercati, Innocente Salvoni. La foto di Salvoni fu diffusa dal ministero dell’Interno il giorno del rapimento dello statista dc assieme a quella di altri 19 latitanti, sospettati di essere coinvolti nell’agguato di via Fani. Ma non venne più riproposta nelle settimane dopo.
Sappiamo poi che durante il sequestro, l’Abbé si recò nella sede della Dc a piazza del Gesù per parlare con il segretario del partito, Zaccagnini. Ma non sappiamo se lo incontrò e cosa si dissero.
L’Abbé Pierre era un eroe della Resistenza, un uomo che aveva una visione superiore di come vanno le cose, aveva l’atteggiamento di chi vedeva lo scenario completo.”


Negli Anni Settanta opera, a Parigi, una scuola di lingue che è stata al centro di inchieste giudiziarie. Un istituto ritenuto ambiguo, come enigmatico è uno dei suoi fondatori, Corrado Simioni.


François Mitterrand, Giulio Andreotti, Nilde Iotti e Gianni De Michelis.


Il processo dei cagoulards si svolse alle Assise di Parigi dall’11 al 18 novembre 1948. 20 anni di lavori forzati per Métenier, lavori forzati a vita per Jakubiez e 4 anni di lavori forzati per Puireux. Tra i latitanti che furono condannati a morte, alcuni risultarono, negli anni 1950, tranquillamente viventi a Parigi.
Da chi erano partiti gli ordini ai cagoulards?
La risposta avrebbe dovuto essere fornita dall’Alta Corte di Giustizia per la Punizione dei Crimini Fascisti, riunitasi dal 29 gennaio al 12 marzo 1945.

 Henri-Philippe-Omer Pétain e Adolf Hitler.

Furono condannati in un primo tempo Filippo Anfuso, ex-capo di gabinetto di Galeazzo Ciano ed esponente della Repubblica di Salò, il capo del SIM, Servizio Informazioni Militari, generale Mario Roatta – era stato per qualche tempo comandante delle forze fasciste italiane in Spagna – rispettivamente a morte e all’ergastolo; il colonnello dei carabinieri Santo Emanuele del SIM che ammise di avere ricevuto l’ordine di eliminare Carlo Rosselli, ordine giunto da Ciano, ebbe l’ergastolo. Medesima pena anche al maggiore dei carabinieri Roberto Navale[13], latitante, capo del controspionaggio a Torino, al quale era stato trasmesso l’ordine da Emanuele. Roatta fuggì durante il processo. Rientrò in Italia solo nel 1966, dopo la revoca della sentenza. Altre pene vennero, poi, inflitte ad altri personaggi minori.
Innumerevoli ricorsi si succedettero, per ben quattro anni, sicché si giunse, il 14 ottobre 1949, presso la Corte di Assise di Perugia, all’assoluzione con formula piena per Anfuso e per insufficienza di prove per Emanuele e navale.
Ecco le parti più significative della sconcertante sentenza:

“Però la Corte non può dissimularsi un dubbio, tenue è vero, ma sempre un dubbio; che nel torbido mondo del fuoriuscitismo internazionale in Francia potessero fermentare oscure tragedie e che vittime di una di queste possa anche essere stato Carlo Rosselli. Non è dato, cioè, di escludere che, avuto riguardo all’ambiente dove il delitto è avvenuto, si svolgesse, magari all’insaputa di Emanuele e di Navale, qualche attività criminosa parallela alla loro, e che essi abbiano invece potuto credere che all’opera loro, in seguito alla coincidenza nel tempo, l’uccisione si dovesse; in modo da arrogarsene, come hanno fatto, il merito. In conseguenza di questo dubbio sia pur vago ed affidato a supposizioni incerte, la Corte ravvisa di assolvere i ripetuti Navale ed Emanuele per insufficienza di prove dall’addebito dell’omicidio di Carlo Rosselli.  
Che quello di Nello Rosselli, trovandosi casualmente col fratello, fosse causato dal suo tentativo di resistenza… è opera propria ed esclusiva dei “cagoulards”. Quindi gli imputati debbono essere assolti dall’addebito relativo per non aver commesso il fatto, nulla essendo risultato a loro carico.
Che nei riguardi dell’Anfuso per l’omicido di Carlo Rosselli non è emerso il minimo elemento di prova.”

Scriveva Indro Montanelli, venti anni fa:

“Dopo la Liberazione, si cercò di ricostruire quell’infame delitto sugli archivi della polizia fascista, e soprattutto di quella segreta dell’OVRA. Da Senise, che della polizia era stato, dopo Bocchini, il capo, ma aveva esercitato il suo mandato in maniera ineccepibile, seppi che i protagonisti di quella nobile impresa erano stati i Cagoulards, i fascisti francesi, da sempre sul libro paga dell’OVRA, ma niente indicava che essi avessero agito su sua richiesta. Correva voce che a darne ordine fosse stato Ciano, allora Ministro degli Esteri.
Ma Senise non ci credeva. “Ciano – mi disse era un ometto di peso leggero, ma non un sanguinario: un’impresa del genere era più grande di lui”. Comunque l’accusa coinvolse Filippo Anfuso, che di Ciano era stato capo di gabinetto ed accorto consigliere; e che, catturato a Berlino come ambasciatore di Salò, era stato consegnato ai tribunali francesi [quelli della Liberazione] che stavano istruendo il processo contro i residui Cagoulards.
Anch’esso era accusato di essere stato un loro mandante ma fu scagionato ed assolto per assoluta mancanza di prove.
Al suo ritorno in Italia, ne parlai varie volte con lui [eravamo amici di vecchia data]. Alla domanda: “Ma perché i Cagoulards presero l’iniziativa senza averne ricevuto l’ordine da chi li pagava?” rispose “Forse per dimostrare che il salario se lo meritavano!”
Indro Montanelli, Corriere della Sera, 9 febbraio 1999.

Gli ultimi momenti di Carlo Rosselli e di suo fratello, così come le trame precise del delitto di Bagnoles-de-l’Orne, rimangono tuttora, comunque, coperti da un velo di mistero.
Esistono, innanzitutto, a esempio molte contraddizioni, tra la confessione di Jakubiez, il cagoulard, le constatazioni, seppure vaghe, fatte da pochi testimoni e le dichiarazioni dei funzionari di polizia, prima e dopo la perizia necroscopica. Quest’ultima aveva confermato sostanzialmente solo un’aggressione all’arma bianca, mentre dal processo ai cagoulards risultò, in primo piano, determinante, l’uso delle armi da fuoco.
Come mai Hélène Besneux giunta sul luogo del delitto, quando ancora vi sostavano due auto e cioè poco dopo il delitto, non dichiarò di avere udito il rumore di spari? 
Il problema del coltello rinvenuto presso i cadaveri costituisce, poi, un autentico enigma: infatti, la perizia compiuta immediatamente sull’arma, escluse che fosse servita per il delitto, mentre per Jakubiez, risulta essere stato usato da lui stesso per colpire Nello.
Che dire poi della scritta in italiano, eseguita a inchiostro “Eroi fascisti”?
E della R incisa?
Non mancano, certo, in questa vicenda, gli elementi inquietanti di un vero e proprio giallo.
Un altro interrogativo ancora più sconcertante è costituito dall’impossibilità di stabilire con certezza se si sia trattato di un agguato o di un appuntamento.
Nell’ipotesi di una imboscata, come poté accadere che Carlo Rosselli, portato a concepire militarmente ogni suo passo e ogni suo gesto, che mai abbandonava la sua pistola automatica di grosso calibro, ben consapevole di essere uno dei bersagli più ambiti del nemico fascista, potesse così ingenuamente cadere in un tranello simile a quello descritto da Jakubiez?
 


 
Mario Roatta

Agli inizi del 1936, solo per citare una controprova, aveva smascherato un certo Zanatta con uno stile e una prontezza di riflessi che non possono lasciare dubbi. Zanatta andava affermando di avere disertato, per avversione al regime, dall’incrociatore fascista Trento a Suez e aveva preso a frequentare l’ambiente dei fuoriusciti. Carlo gli diede un appuntamento a casa sua. Lo smascherò all’istante, scostandogli la giacca con gesto sicuro e scoprendo, infatti, alla cintura una pistola con un proiettile in canna. Messo alle strette Zanatta confessò di essere un agente fascista.
Nel caso si voglia, invece, prendere in considerazione la tesi dell’appuntamento, si spiegherebbe quella che venne ritenuta un’imperdonabile ingenuità. In questo caso, si può correttamente pensare che Carlo Rosselli conoscesse, perfettamente, almeno qualcuno dei suoi assassini: agenti del doppio gioco.
È risaputo, sempre secondo le affermazioni degli inquirenti, che Carlo e Nello, all’indomani del giorno dell’assassinio, il giorno 10, avrebbero lasciato la stazione termale.
Come mai per sole ventiquattro ore Carlo non partì insieme a Marion per Parigi?
Nello sarebbe ripartito per Firenze e Carlo, entro breve tempo, sarebbe rientrato in Spagna, nonostante il permanere dei suoi disturbi di salute, persuaso che, proprio in quei giorni, si sarebbero avuto momenti difficili e che la sua permanenza sarebbe stata importante.
Proiettato di nuovo verso la Spagna, avrebbe cercato di chiarire, definitivamente, a se stesso gli angoscianti quesiti che si stavano profilando all’orizzonte. 
 
 


Commemorazione dell’ 82° anniversario della morte dei fratelli Rosselli.





Diego Abad de Santillán, pseudonimo di Sinesio Baudilio García Fernández.

È estremamente emozionante ricordare qui un’intervista rilasciata a Buenos Aires, il 22 dicembre 1975, dall’anziano esule anarchico Diego Abad de Santillán, pseudonimo di Sinesio Baudilio García Fernández, amico di Carlo, proprio colui che con Camillo Berneri aveva steso, nell’agosto del 1936, l’Atto Costitutivo della Colonna Rosselli. Alla domanda:

“Tra i combattenti italiani in Spagna hai conosciuto bene sia i comunisti italiani che Carlo Rosselli?”

Diego Abad de Santillán ha così risposto:

“Sì, ma Carlo era tutt’altra cosa. Un socialista libertario, praticamente come noi. Organizzò per primo un gruppo di volontari internazionali e combatté sul fronte di Huesca. Quando andai a trovarlo, aveva contratto una flebite e dovette lasciare il fronte. Lo incontrai di nuovo a Marsiglia e si offerse di aiutarmi nella conduzione dell’economia, dal momento che non poteva più combattere. Ma con lui dovevo essere sincero: “Sono all’opposizione in Catalogna e a Madrid”, gli dissi, “sono contro l’intervento di Stalin in Spagna: non voglio che ti complichi la situazione stando con me.” Otto giorni più tardi Mussolini lo fece uccidere. Se lo avessi fatto venire con me lo avrebbero ucciso gli stalinisti. Proprio così: o l’uccidevano i fascisti o l’uccidevano gli stalinisti in Spagna.”

L’incontro, proprio come afferma Diego Abad de Santillán, avvenne a Marsiglia, alla fine di maggio o il primo di giugno, perché Rosselli, partito da Parigi, il 27 maggio, non andò direttamente a Bagnoles-de-l’Orne.
Così, come è sempre stato lampante che Carlo Rosselli fosse uno dei più attivi e accesi dirigenti del movimento antifascista e, quindi, che la sua morte fosse voluta e cercata in ogni momento e con ogni mezzo dal regime di Benito Mussolini, sono, invece, sempre stati discussi e oscurati da ombre mai fugate i meccanismi e la dinamica dei collegamenti che condussero alla tragedia del Parco di Couterne.


Daniela Zini
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[1] Sulla Battaglia di Valle Giulia, Pier Paolo Pasolini scrisse Il PCI ai giovani, in cui affermò di simpatizzare con i poliziotti. Questa presa di posizione costò allo scrittore un ulteriore isolamento all’interno del PCI. A guidare l’attacco contro la polizia furono, congiuntamente, gli esponenti del nascente movimento studentesco e del movimento di estrema destra Avanguardia Nazionale Giovanile, guidati da Stefano Delle Chiaie. Avanguardia Nazionale Giovanile era supportata da alcuni esponenti del FUAN-Caravella, di Primula Goliardica e del MSI.
Tra i partecipanti agli scontri di Valle Giulia, vicini al movimento studentesco, ritroviamo il regista Paolo Pietrangeli, che all’episodio dedicò la famosa canzone Valle Giulia [https://www.youtube.com/watch?v=_SS116Hdnkw], divenuta un simbolo del movimento sessantottino; Giuliano Ferrara, che rimase ferito; Paolo Liguori; Aldo Brandirali; Ernesto Galli Della Loggia; Oreste Scalzone e tra i poliziotti Michele Placido, futuro attore.
Al termine degli scontri, i militanti guidati da Delle Chiaie e il FUAN occuparono la Facoltà di Giurisprudenza; mentre gli studenti di sinistra occuparono la Facoltà di Lettere. Si registrarono 4 arrestati, 228 fermati, 148 feriti tra le forze dell’ordine e 478 tra gli studenti.
Otto automezzi della polizia furono incendiati e cinque pistole sottratte agli agenti.
Quel Primo Marzo a Valle Giulia studenti di destra e di sinistra insieme danno scacco alle forze dell’ordine.
“Non siam scappati più, non siam scappati più!”
Si assiste a una rivolta generazionale, apparentemente, estranea alla dicotomia fascismo-antifascismo, tanto cara ai partiti. E, infatti, il primo a intervenire sarà Giorgio Almirante, subito accorso all’Università, con il suo servizio d’ordine, a mettere in riga gli studenti di destra, minacciandoli e sconfessandoli; il secondo sarà Pasolini, con il controverso testo poetico Il Pci ai giovani, destinato a Nuovi argomenti e pubblicato in estratto da l’Espresso, il 16 giugno 1968, con il titolo Vi odio, cari studenti.
Nel commentare su l’Espresso, questo suo componimento, Pier Paolo Pasolini prova a precisare “che questi brutti versi, e cioè non chiari, io li ho scritti su più registri contemporaneamente: e quindi sono tutti “sdoppiati” cioè ironici e autoironici. Tutto è detto tra virgolette. Il pezzo sui poliziotti è un pezzo di ars retorica, che un notaio bolognese impazzito potrebbe definire, nella fattispecie, una captatio malevolentiae: le virgolette sono perciò quelle della provocazione”. L’unico brano non provocatorio, riferisce Pasolini, “è quello parentetico finale. Qui sì pongo, sia pure attraverso lo schermo ironico e amaro [non potevo convertire di colpo il démone che mi ha frequentato, subito dopo la battaglia di Valle Giulia – e insisto sulla cronologia anche per i non filologi], un problema “vero”: nel futuro si colloca un dilemma: guerra civile o rivoluzione?”. E ancora: “La borghesia sta trionfando, sta rendendo borghesi gli operai, da una parte, e i contadini ex coloniali, dall’altra.”  Infine, “attraverso il neo-capitalismo la borghesia sta per diventare la società stessa, sta per coincidere con la storia del mondo”.
Tornerà altre volte sull’argomento, in particolare, lo farà, il 17 maggio 1969, nella sua rubrica Il Caos, sul settimanale Tempo illustrato:
“Proprio un anno fa ho scritto una poesia sugli studenti, che la massa degli studenti, innocentemente, ha “ricevuto” come si riceve un prodotto di massa: cioè alienandolo dalla sua natura, attraverso la più elementare semplificazione. Infatti quei miei versi, che avevo scritto per una rivista “per pochi”, “Nuovi Argomenti”, erano stati proditoriamente pubblicati da un rotocalco, “L’Espresso” [io avevo dato il mio consenso solo per qualche estratto]: il titolo dato dal rotocalco non era il mio, ma era uno slogan inventato dal rotocalco stesso, slogan [Vi odio, cari studenti] che si è impresso nella testa vuota della massa consumatrice come se fosse cosa mia. Potrei analizzare a uno a uno quei versi nella loro oggettiva trasformazione da ciò che erano [per “Nuovi Argomenti”] a ciò che sono divenuti attraverso un medium di massa [“L’Espresso”]. Mi limiterò a una nota per quel che riguarda il passo sui poliziotti. Nella mia poesia dicevo, in due versi, di simpatizzare per i poliziotti, figli di poveri, piuttosto che per i signorini della facoltà di architettura di Roma […]; nessuno dei consumatori si è accorto che questa non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore, e dirigerla su ciò che veniva dopo, in una dozzina di versi, dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescio, in quanto il potere oltre che additare all’odio razziale i poveri – gli spossessati del mondo – ha la possibilità anche di fare di questi poveri degli strumenti, creando verso di loro un’altra specie di odio razziale; le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come “ghetti” particolari, in cui la “qualità di vita” è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università.”
Ma per quanto Pasolini argomenti, «ormai la frittata era fatta».
Come scrive Wu Ming 1 in La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia, sull’Internazionale del 29 ottobre 2015   [https://www.internazionale.it/reportage/wu-ming-1/2015/10/29/pasolini-polizia-anniversario-morte]:
“[…]Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.
Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.
Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.
Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari […].” 
[2] 2 giugno: sull’“Unità” in prima pagina c’è il titolo delle grandi occasioni e suona: “Viva la repubblica antifascista.” Certo, viva la repubblica antifascista. Ma che senso reale ha questa frase? Cerchiamo di analizzarlo. Essa in concreto nasce da due fatti, che la giustificano del resto pienamente: 1] La vittoria schiacciante del “no” il 12 maggio, 2] la strage fascista di Brescia del 28 dello stesso mese. La vittoria del “no” è in realtà una sconfitta non solo di Fanfani e del Vaticano, ma, in certo senso, anche di Berlinguer e del partito comunista. Perché? Fanfani e il Vaticano hanno dimostrato di non aver capito niente di ciò che è successo nel nostro paese in questi ultimi dieci anni: il popolo italiano è risultato – in modo oggettivo e lampante – infinitamente più “progredito” di quanto essi pensassero, puntando ancora sul vecchio sanfedismo contadino e paleoindustriale. Ma bisogna avere il coraggio intellettuale di dire che anche Berlinguer e il partito comunista italiano hanno dimostrato di non aver capito bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni. Essi infatti non volevano il referendum; non volevano la “guerra di religione” ed erano estremamente timorosi sull’esito positivo delle votazioni. Anzi, su questo punto erano decisamente pessimisti. La “guerra di religione” è risultata invece poi un’astrusa, arcaica, superstiziosa previsione senza alcun fondamento. Gli italiani si sono mostrati infinitamente più moderni di quanto il più ottimista dei comunisti fosse capace di immaginare. Sia il Vaticano che il Partito Comunista hanno sbagliato la loro analisi sulla situazione “reale” dell’Italia. Sia il Vaticano che il partito comunista hanno dimostrato di aver osservato male gli italiani e di non aver creduto alla loro possibilità di evolversi anche molto rapidamente, al di là di ogni calcolo possibile. Ora il Vaticano piange sul proprio errore. Il PCI invece, finge di non averlo commesso ed esulta per l’insperato trionfo.
Ma è stato proprio un vero trionfo? Io ho delle buone ragioni per dubitarne. Ormai è passato quasi un mese da quel felice 12 maggio e posso perciò permettermi di esercitare la mia critica senza temere di fare del disfattismo inopportuno. La mia opinione è che il cinquantanove per cento dei “no”, non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo, del progresso e della democrazia: niente affatto: esso sta a dimostrare invece due cose: 1] che i “ceti medi” sono radicalmente – direi antropologicamente – cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori [ancora vissuti solo esistenzialmente e non “nominati”] dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. É stato lo stesso Potere – attraverso lo “sviluppo” della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione [soprattutto, in maniera imponente, la televisione] – a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo. 2] che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione, del tipo che ho accennato qui sopra [modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante ecc.]. Il “no” è stato una vittoria, indubbiamente. Ma la reale indicazione che esso dà è quella di una “mutazione” della cultura italiana: che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressismo socialista. Se così stanno le cose, allora, che senso ha la “Strage di Brescia” [come già quella di Milano]? Si tratta di una strage fascista, che implica dunque una indignazione antifascista? Se son le parole che contano, allora bisogna rispondere positivamente. Se sono i fatti allora la risposta non può essere che negativa; o per lo meno tale da rinnovare i vecchi termini del problema. L’Italia non è mai stata capace di esprimere una grande Destra. È questo, probabilmente, il fatto determinante di tutta la sua storia recente. Ma non si tratta di una causa, bensì di un effetto. L’Italia non ha avuto una grande Destra perché non ha avuto una cultura capace di esprimerla. Essa ha potuto esprimere solo quella rozza, ridicola, feroce destra che è il fascismo. In tal senso il neo-fascismo parlamentare è la fedele continuazione del fascismo tradizionale. Sennonché, nel frattempo, ogni forma di continuità storica si è spezzata. Lo “sviluppo”, pragmaticamente voluto dal Potere, si è istituito storicamente in una specie di epochè, che ha radicalmente “trasformato”, in pochi anni, il mondo italiano. Tale salto “qualitativo” riguarda dunque sia i fascisti che gli antifascisti: si tratta infatti del passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo [il popolo] e di umanesimo cencioso [i ceti medi] da un’organizzazione culturale arcaica, all’organizzazione moderna della “cultura di massa”. La cosa, in realtà, è enorme: è un fenomeno, insisto, di “mutazione” antropologica. Soprattutto forse perché ciò ha mutato i caratteri necessari del Potere. La “cultura di massa”, per esempio, non può essere una cultura ecclesiastica, moralistica e patriottica: essa è infatti direttamente legata al consumo, che ha delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica, tali da creare automaticamente un Potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbìe affini. L’omologazione «culturale» che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili. Nel comportamento quotidiano, mimico, somatico non c’è niente che distingua – ripeto, al di fuori di un comizio o di un’azione politica – un fascista da un antifascista [di mezza età o giovane: i vecchi, in tal senso possono ancora esser distinti tra loro]. Questo per quel che riguarda i fascisti e gli antifascisti medi. Per quel che riguarda gli estremisti, l’omologazione è ancor più radicale. A compiere l’orrenda strage di Brescia sono stati dei fascisti. Ma approfondiamo questo loro fascismo. È un fascismo che si fonda su Dio? Sulla Patria? Sulla Famiglia? Sul perbenismo tradizionale, sulla moralità intollerante, sull’ordine militaresco portato nella vita civile? O, se tale fascismo si autodefinisce ancora, pervicacemente, come fondato su tutte queste cose, si tratta di un’autodefinizione sincera? Il criminale Esposti – per fare un esempio – nel caso che in Italia fosse stato restaurato, a suon di bombe, il fascismo, sarebbe stato disposto ad accettare l’Italia della sua falsa e retorica nostalgia? L’Italia non consumistica, economa e eroica [come lui la credeva]? L’Italia scomoda e rustica? L’Italia senza televisione e senza benessere? L’Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio? L’Italia con le donne chiuse in casa e semi-velate? No: è evidente che anche il più fanatico dei fascisti considererebbe anacronistico rinunciare a tutte queste conquiste dello “sviluppo”. Conquiste che vanificano, attraverso nient’altro che la loro letterale presenza – divenuta totale e totalizzante – ogni misticismo e ogni moralismo del fascismo tradizionale. Dunque il fascismo non è più il fascismo tradizionale. Che cos’è, allora? I giovani dei campi fascisti, i giovani delle SAM, i giovani che sequestrano persone e mettono bombe sui treni, si chiamano e vengono chiamati “fascisti”: ma si tratta di una definizione puramente nominalistica. Infatti essi sono in tutto e per tutto identici all’enorme maggioranza dei loro coetanei. Culturalmente, psicologicamente, somaticamente – ripeto – non c’è niente che li distingua. Li distingue solo una «decisione» astratta e aprioristica che, per essere conosciuta, deve essere detta. Si può parlare casualmente per ore con un giovane fascista dinamitardo e non accorgersi che è un fascista. Mentre solo fino a dieci anni fa bastava non dico una parola, ma uno sguardo, per distinguerlo e riconoscerlo. Il contesto culturale da cui questi fascisti vengono fuori è enormemente diverso da quello tradizionale. Questi dieci anni di Storia italiana che hanno portato gli italiani a votare “no” al referendum, hanno prodotto – attraverso lo stesso meccanismo profondo – questi nuovi fascisti la cui cultura è identica a quella di coloro che hanno votato “no” al referendum. Essi sono del resto poche centinaia o migliaia: e, se il governo e la polizia l’avessero voluto, essi sarebbero scomparsi totalmente dalla scena già dal 1969. Il fascismo delle stragi è dunque un fascismo nominale, senza un’ideologia propria [perché vanificata dalla qualità di vita reale vissuta da quei fascisti], e, inoltre, artificiale: esso è cioè voluto da quel Potere, che dopo aver liquidato, sempre pragmaticamente, il fascismo tradizionale e la Chiesa [il clerico-fascismo che era effettivamente una realtà culturale italiana] ha poi deciso di mantenere in vita delle forze da opporre – secondo una strategia mafiosa e da Commissariato di Pubblica Sicurezza – all’eversione comunista. I veri responsabili delle stragi di Milano e di Brescia non sono i giovani mostri che hanno messo le bombe, né i loro sinistri mandanti e finanziatori. Quindi è inutile e retorico fingere di attribuire qualche reale responsabilità a questi giovani e al loro fascismo nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono e che contiene gli elementi per la loro follia pragmatica è, lo ripeto ancora una volta, la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei. Non procura solo a loro condizioni intollerabili di conformismo e di nevrosi, e quindi di estremismo [che è appunto la conflagrazione dovuta alla miscela di conformismo e nevrosi]. Se il loro fascismo dovesse prevalere, sarebbe il fascismo di Spinola, non quello di Caetano: cioè sarebbe un fascismo ancora peggiore di quello tradizionale, ma non sarebbe più precisamente fascismo. Sarebbe qualcosa che già in realtà viviamo, e che i fascisti vivono in modo esasperato e mostruoso: ma non senza ragione.”
Pier Paolo Pasolini, Gli italiani non sono più quelli, Corriere della sera, 10 giugno 1974.

[3] Che cos’è la cultura di una nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori, dei letterati, dei cineasti ecc.: cioè che essa sia la cultura dell’intelligencija. Invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante, che, appunto, attraverso la lotta di classe, cerca di imporla almeno formalmente. Non è infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli operai e dei contadini. La cultura di una nazione è l’insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse. E sarebbe dunque astratta se non fosse riconoscibile – o, per dir meglio, visibile – nel vissuto e nell’esistenziale, e se non avesse di conseguenza una dimensione pratica. Per molti secoli, in Italia, queste culture sono state distinguibili anche se storicamente unificate. Oggi – quasi di colpo, in una specie di Avvento – distinzione e unificazione storica hanno ceduo il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere. Scrivo “Potere” con la P maiuscola – cosa che Maurizio Ferrara accusa di irrazionalismo, su “l’Unità” [12-6-1974] – solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero limitato di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto [industrializzazione totale], e, per di più, come tutto non italiano [transnazionale]. Conosco anche – perché le vedo e le vivo – alcune caratteristiche di questo nuovo Potere ancora senza volto: per esempio il suo rifiuto del vecchio sanfedismo e del vecchio clericalismo, la sua decisione di abbandonare la Chiesa, la sua determinazione [coronata da successo] di trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi, e soprattutto la sua smania, per così dire cosmica, di attuare fino in fondo lo “Sviluppo”: produrre e consumare. L’identikit di questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti “moderni”, dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente: ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all’edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una “mutazione” della classe dominante, è in realtà – se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia – una forma “totale” di fascismo. Ma questo Potere ha anche “omologato” culturalmente l’Italia: si tratta dunque di una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre. La strategia della tensione è una spia, anche se sostanzialmente anacronistica, di tutto questo. Maurizio Ferrara, nell’articolo citato [come del resto Ferrarotti, in “Paese Sera”, 14-6-1974] mi accusa di estetismo. E tende con questo a escludermi, a recludermi. Va bene: la mia può essere l’ottica di un “artista”, cioè, come vuole la buona borghesia, di un matto. Ma il fatto per esempio che due rappresentanti del vecchio Potere [che servono però ora, in realtà, benché interlocutoriamente, il Potere nuovo] si siano ricattati a vicenda a proposito dei finanziamenti ai Partiti e del caso Montesi, può essere anche una buona ragione per fare impazzire: cioè screditare talmente una classe dirigente e una società davanti agli occhi di un uomo, da fargli perdere il senso dell’opportunità e dei limiti, gettandolo in un vero e proprio stato di “anomia”. Va detto inoltre che l’ottica dei pazzi è da prendersi in seria considerazione: a meno che non si voglia essere progrediti in tutto fuorché sul problema dei pazzi, limitandosi comodamente a rimuoverli. Ci sono certi pazzi che guardano le facce della gente e il suo comportamento. Ma non perché epigoni del positivismo lombrosiano [come rozzamente insinua Ferrara], ma perché conoscono la semiologia. Sanno che la cultura produce dei codici; che i codici producono il comportamento; che il comportamento è un linguaggio; e che in un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato [tecnicizzato] il linguaggio del comportamento [fisico e mimico] assume una decisiva importanza. Per tornare così all’inizio del nostro discorso, mi sembra che ci siano delle buone ragioni per sostenere che la cultura di una nazione [nella fattispecie l’Italia] è oggi espressa soprattutto attraverso il linguaggio del comportamento, o linguaggio fisico, più un certo quantitativo – completamente convenzionalizzato e estremamente povero – di linguaggio verbale. É a un tale livello di comunicazione linguistica che si manifestano: a] la mutazione antropologica degli italiani; b] la loro completa omologazione a un unico modello. Dunque: decidere di farsi crescere i capelli fin sulle spalle, oppure tagliarsi i capelli e farsi crescere i baffi [in una citazione protonovecentesca]; decidere di mettersi una benda in testa oppure di calcarsi una scopoletta sugli occhi; decidere se sognare una Ferrari o una Porsche; seguire attentamente i programmi televisivi; conoscere i titoli di qualche best-seller; vestirsi con pantaloni e magliette prepotentemente alla moda; avere rapporti ossessivi con ragazze tenute accanto esornativamente, ma, nel tempo stesso, con la pretesa che siano “libere” ecc. ecc. ecc.: tutti questi sono atti culturali. Ora, tutti gli Italiani giovani compiono questi identici atti, hanno questo stesso linguaggio fisico, sono interscambiabili; cosa vecchia come il mondo, se limitata a una classe sociale, a una categoria: ma il fatto è che questi atti culturali e questo linguaggio somatico sono interclassisti. In una piazza piena di giovani, nessuno potrà più distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968. I problemi di un intellettuale appartenente all’intelligencija sono diversi da quelli di un partito e di un uomo politico, anche se magari l’ideologia è la stessa. Vorrei che i miei attuali contraddittori di sinistra comprendessero che io sono in grado di rendermi conto che, nel caso che lo Sviluppo subisse un arresto e si avesse una recessione, se i Partiti di Sinistra non appoggiassero il Potere vigente, l’Italia semplicemente si sfascerebbe; se invece lo Sviluppo continuasse così com’è cominciato, sarebbe indubbiamente realistico il cosiddetto “compromesso storico”, unico modo per cercare di correggere quello Sviluppo, nel senso indicato da Berlinguer nel suo rapporto al cc del partito comunista [cfr. “l’Unità”, 4-6-1974]. Tuttavia, come a Maurizio Ferrara non competono le “facce”, a me non compete questa manovra di pratica politica. Anzi, io ho, se mai, il dovere di esercitare su essa la mia critica, donchisciottescamente e magari anche estremisticamente. Quali sono dunque i miei problemi? Eccone per esempio uno. Nell’articolo che ha suscitato questa polemica [“Corriere della sera”, 10-6-1974] dicevo che i responsabili reali delle stragi di Milano e di Brescia sono il governo e la polizia italiana: perché se governo e polizia avessero voluto, tali stragi non ci sarebbero state. È un luogo comune. Ebbene, a questo punto mi farò definitivamente ridere dietro dicendo che responsabili di queste stragi siamo anche noi progressisti, antifascisti, uomini di sinistra. Infatti in tutti questi anni non abbiamo fatto nulla: 1] perché parlare di “Strage di Stato” non divenisse un luogo comune, e tutto si fermasse lì; 2] [e più grave] non abbiamo fatto nulla perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l’indignazione più tranquilla era la coscienza. In realtà ci siamo comportati coi fascisti [parlo soprattutto di quelli giovani] razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti, e di fronte a questa decisione del loro destino non ci fosse niente da fare. E non nascondiamocelo: tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale: sarebbe bastata forse una sola parola perché ciò non accadesse. Ma nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla, e si sono gettati a capofitto nell’orrenda avventura per semplice disperazione. Ma non potevamo distinguerli dagli altri [non dico dagli altri estremisti: ma da tutti gli altri]. È questa la nostra spaventosa giustificazione. Padre Zosima [letteratura per letteratura!] ha subito saputo distinguere, tra tutti quelli che si erano ammassati nella sua cella, Dmitrj Karamazov, il parricida. Allora si è alzato dalla sua seggioletta ed è andato a prosternarsi davanti a lui. E l’ha fatto [come avrebbe detto più tardi al Karamazov più giovane] perché Dmitrj era destinato a fare la cosa più orribile e a sopportare il più disumano dolore. Pensate [se ne avete la forza] a quel ragazzo o a quei ragazzi che sono andati a mettere le bombe nella piazza di Brescia. Non c’era da alzarsi e da andare a prosternarsi davanti a loro? Ma erano giovani con capelli lunghi, oppure con baffetti tipo primo Novecento, avevano in testa bende oppure scopolette calate sugli occhi, erano pallidi e presuntuosi, il loro problema era vestirsi alla moda tutti allo stesso modo, avere Porsche o Ferrari, oppure motociclette da guidare come piccoli idioti arcangeli con dietro le ragazze ornamentali, sì, ma moderne, e a favore del divorzio, della liberazione della donna, e in generale dello sviluppo... Erano insomma giovani come tutti gli altri: niente li distingueva in alcun modo. Anche se avessimo voluto non avremmo potuto andare a prosternarci davanti a loro. Perché il vecchio fascismo, sia pure attraverso la degenerazione retorica, distingueva: mentre il nuovo fascismo - che è tutt’altra cosa - non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo.”
Pier Paolo Pasolini, Il Potere senza volto, Corriere della sera, 24 giugno 1974.

[4] Marco Pannella è a più di settanta giorni di digiuno: è giunto allo stremo; i medici cominciano a essere veramente preoccupati e, più ancora, spaventati. D’altra parte non si vede la minima possibilità oggettiva che qualcosa di nuovo intervenga a consentire a Pannella di interrompere questo suo digiuno che può ormai divenire mortale [va aggiunto poi che un’altra quarantina di suoi compagni si sono man mano associati con lui a digiunare]. Nessuno dei rappresentanti del potere parlamentare [quindi sia del governo che dell’opposizione] sembra, neanche minimamente, disposto a «compromettersi» con Pannella e i suoi compagni. La volgarità del realismo politico sembra non poter trovare alcun punto di connessione col candore di Pannella, e quindi la possibilità di esorcizzare e inglobare il suo scandalo. Il disprezzo teologico lo circonda. Da una parte Berlinguer e il cc del pci; dall’altra i vecchi potenti democristiani. Quanto al Vaticano è molto tempo ormai che lì i cattolici si sono dimenticati di essere cristiani. Tutto ciò non meraviglia, e vedremo il perché. Ma a cogliere il messaggio di Pannella sono renitenti, scettici e vilmente evasivi anche i “minori” [cioè quelli che hanno “minore potere”]: per esempio i cosiddetti “cattolici del no”; oppure i progressisti più liberi [che intervengono in appoggio di Pannella solo in quanto “singoli”, non mai come rappresentanti di partiti o gruppi]. Ora, ti meraviglierai profondamente, lettore, nel conoscere le iniziali ragioni per cui Pannella e altre decine di persone hanno dovuto adottare questa estrema arma del digiuno, in tale stato di disinteresse, abbandono, disprezzo. Nessuno infatti “ti ha informato”, fin da principio e con un minimo di chiarezza e di tempestività, di tali ragioni: e certamente, vista la situazione che ti ho qui delineato, immaginerai chissà quali scandalose enormità. Invece, eccole: “1] la garanzia che fosse concesso dalla RAI-TV un quarto d’ora di trasmissione alla LID e un quarto d’ora a Don Franzoni; 2] la garanzia che il presidente della Repubblica concedesse un’udienza pubblica ai rappresentanti della LID e del Partito Radicale, che l’avevano inutilmente richiesta e sollecitata da oltre un mese; 3] la garanzia che fosse presa in considerazione dalla commissione sanità della Camera la proposta di legge socialista sulla legalizzazione dell’aborto; 4] la garanzia che la proprietà del “Messaggero” assicurasse non una generica fedeltà ai principi laici del giornale, ma l’informazione laica e in particolare il diritto all’informazione delle minoranze laiche.” Si tratta, come vedi, di una richiesta di garanzie di normalissima vita democratica. La loro “purezza” di principio non esclude stavolta la loro perfetta attuabilità. Vista, ripeto, la totale mancanza di informazione in cui “tutta” la stampa italiana ti ha lasciato in proposito di Pannella e del suo movimento, non ci sarebbe da meravigliarsi se tu pensassi che questo Pannella sia un mostro. Mettiamo una specie di Fumagalli. Le cui richieste siano “comunque” e “aprioristicamente” da non prendere in considerazione. Ebbene, tanto per cominciare ti dirò che, secondo il principio democratico cui Pannella non deroga mai, lo stesso Fumagalli, che ho nominato pour cause, avrebbe diritto di essere preso in considerazione nel caso che avanzasse richieste del genere “formale” di quelle avanzate dai radicali. Il rispetto per la persona – per la sua configurazione profonda alla quale un sentimento della libertà la cui formalità sia intesa come sostanziale, permette di articolarsi ed esprimersi a un livello per così dire “sacralizzato” da una ragione laica, rispetto anche alle più degradate idee politiche concrete – è per Pannella il primum di ogni teoria e di ogni prassi politica. In questo consiste il suo essere scandaloso. Uno scandalo inintegrabile, proprio perché il suo principio, sia pure in termini schematici e popolari, è sancito dalla costituzione. Questo principio politico assolutamente democratico è attualizzato da Pannella attraverso l’ideologia della non-violenza. Ma non è tanto la non-violenza fisica che conta [essa può anche essere messa in discussione]: quella che conta è la non-violenza morale: ossia la totale, assoluta, inderogabile mancanza di ogni moralismo. [“Sosteniamo che è morale quel che appare a ciascuno.”] . È tale forma di non-violenza [che ripudia anche se stessa come moralistica] che porta Pannella e i radicali all’altro scandalo: l’assoluto rifiuto di ogni forma di potere e la conseguente condanna [“non credo al potere, e ripudio perfino la fantasia se minaccia d’occuparlo”]. Frutto dell’assoluta e quasi ascetica purezza di questi principi, che si potrebbero definire “meta politici”, è una straordinaria limpidezza dello sguardo posato sulle cose e sui fatti: esso infatti non incontra né l’oscurità involontaria dei pregiudizi né quella voluta dei compromessi. Tutto è luce e ragione intorno a tale sguardo, che dunque, avendo come oggetto le cose e i fatti storici e concreti e il conseguente giudizio su di essi – finisce col creare – le premesse dell’inaccettabilità scandalosa, da parte della gente-bene, della politica radicale [“lungo l’antifascismo della linea Parri-Sofri si snoda da vent’anni la litania della gente-bene della nostra politica”; “...dove sono mai i fascisti se non al potere e al governo? sono i Moro, i Fanfani, i Rumor, i Pastore, i Gronchi, i Segni e – perché no? – i Tanassi, i Cariglia, e magari i Saragat, i La Malfa. Contro la politica di costoro, lo capisco, si può e si deve essere antifascisti...”]. Ecco, a questo punto, suppongo, caro lettore, che ti sia chiaro lo “scandalo” Pannella; ma suppongo anche che tu sia tentato di considerare nel tempo stesso tale scandalo come donchisciottesco e verbale. Che la posizione di questi militanti radicali [la non-violenza, il rifiuto di ogni forma di potere e così via] sia ingiallita come quella del pacifismo, della contestazione, eccetera, e che infine il loro sia mero velleitarismo, che sarebbe addirittura santo e santificabile, se le loro condanne e le loro proposte non fossero così circostanziate e così dirette ad personam. Invece le cose non stanno affatto così. I loro principi per così dire “meta politici” hanno condotto i radicali a una prassi politica di un assoluto realismo. E non è per tali principi “scandalosi” che il mondo del potere – governo e opposizione – ignora, reprime, esclude Pannella, fino al punto di fare, eventualmente, del suo amore per la vita un assassinio: ma è appunto per la sua prassi politica realistica. Infatti è il Partito Radicale, la LID [e il loro leader Marco Pannella] che sono i reali vincitori del referendum del 12 maggio. Ed è per l’appunto questo che non viene loro perdonato «da nessuno». Essi sono stati i soli ad accettare la sfida del referendum e a volerlo, sicuri della schiacciante vittoria: previsione che era il risultato fatalmente concomitante di un “principio” democratico inderogabile [anche a rischio della sconfitta] e di una “realistica analisi” della vera volontà delle nuove masse italiane. Non è dunque, ripeto, un principio democratico astratto [diritto di decisione dal basso e rifiuto di ogni atteggiamento paternalistico], ma un’analisi realistica, che è attualmente l’imperdonabile colpa del PR e della LID. Anziché essere ricevuti e complimentati dal primo cittadino della Repubblica, in omaggio alla volontà del popolo italiano, volontà da essi prevista, Pannella e i suoi compagni vengono ricusati come intoccabili. Invece che apparire come protagonisti sullo schermo della televisione, non gli si concede nemmeno un miserabile quarto d’ora di “tribuna libera”. Certo il Vaticano e Fanfani, i grandi sconfitti del referendum, non potranno mai ammettere che Pannella, semplicemente “esista”. Ma neanche Berlinguer e il PCI, gli altri sconfitti del referendum, potranno mai ammettere una simile esistenza. Pannella viene dunque “abrogato” dalla coscienza e dalla vita pubblica italiana. A questo punto la vicenda si conclude con un interrogativo. La possibilità di digiunare di Pannella ha un limite organico drammatico. E niente lascia presumere ch’egli voglia abbandonare. Cosa stanno facendo gli uomini o i gruppi di potere in grado di decidere della sua sorte? Fino a che punto arriverà il loro cinismo, la loro impotenza o il loro calcolo? Non gioca poi certo a favore della sorte di Pannella il fatto che essi a questo punto abbiano ben poco da perdere, il loro unico problema essendo, ora, salvare il salvabile, e prima di tutto se stessi. La realtà gli si è voltata repentinamente contro; la barca vaticana, dentro la quale contavano di condurre a termine al sicuro l’intera traversata del pelago della loro vita, minaccia seriamente di affondare; le masse italiane sono nauseate di loro, e si son fatte, sia pure ancora esistenzialmente, portatrici di valori con cui essi hanno creduto di scherzare, e che invece si sono rivelati i veri valori, tali da vanificare i grandi valori del passato, e da trascinare in una sola rovina fascisti e antifascisti [di oggi]. Anche il minimo che poteva essere loro richiesto, cioè una certa capacità di amministrare, si rivela una atroce illusione: illusione di cui gli italiani dovranno ben accorgersi, perché – come i valori del consumo e del benessere – dovranno viverla “nel proprio corpo”. Sono le sinistre che devono intervenire. Ma non si tratta di salvare la vita di Pannella. E tantomeno di salvargliela facendo in modo che le quattro piccole “garanzie” che egli chiedeva e le altre che ora si sono aggiunte, vengano prese in considerazione. Si tratta di prendere in considerazione l’esistenza di Pannella, del PR e della LID. E la circostanza vuole che l’esistenza di Pannella, del PR e della LID coincidano con un pensiero e una volontà di azione di portata storica e decisiva. Che coincidano cioè con la presa di coscienza di una nuova realtà del nostro paese e di una nuova qualità di vita delle masse, che è finora sfuggita sia al potere che all’opposizione. Pannella, il PR e la LID hanno preso coscienza di questo con totale ottimismo, con vitalità, con ascetica volontà di andare fino in fondo: ottimismo forse relativo o almeno drammatico per quanto riguarda gli uomini, ma incrollabile per quanto riguarda i principi [non visti come astratti né moralistici]. Essi propongono otto nuovi referendum [riuniti praticamente in uno solo]: e lo propongono ormai da anni, in una cosciente sfida a quello proposto dalla destra clericale [e finito con la più grande vittoria democratica della recente storia italiana]. Sono questi otto referendum [abrogazione del Concordato fra Stato e Chiesa, degli annullamenti ecclesiastici, dei codici militari, delle norme contro la libertà di stampa e contro la libertà di informazione televisiva, delle norme fasciste e parafasciste del codice, tra cui quelle contro l’aborto, e infine l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti], sono questi otto referendum che stanno a dimostrare, in quanto ideazione concreta e progetto di lotta politica, la visione realistica di Pannella, del PR e della LID. Sfidare il vecchio mondo politico italiano su questo punto e batterlo è l’unico modo per imprimere una decisiva svolta pratica alla situazione in cui l’Italia è precipitata, oltre a essere oggi l’unico atto rivoluzionario possibile. Ma questo è contro troppi miserabili interessi di uomini e partiti, ed è questo che sta pagando Pannella di persona. Nella vita pubblica ci sono dei momenti tragici, o peggio ancora, seri, in cui bisogna trovare la forza di giocare. Non resta altra soluzione. Dallo stile epistolare passerei qui dunque, caro lettore, a quello del volantinaggio, allo scopo di suggerirti il modo di non commettere, in questa circostanza, quello che i cattolici chiamano peccato di omissione, o, comunque, allo scopo di spingerti a fare il gioco, vitale, di chi decide di compiere un gesto “responsabile”. Tu potresti decisamente intervenire nel rapporto, a quanto pare, insolubile, tra l’intransigenza democratica di Pannella e l’impotenza del Potere, inviando un telegramma o un biglietto di “protesta” ai seguenti indirizzi. 1] Segreterie Nazionali dei Partiti [escluso, s’intende, il MSI e affini], 2] Presidenza della Camera e del Senato.
Pier Paolo Pasolini, Il fascismo degli antifascisti, Corriere della sera, 16 luglio 1974. 

[5] In Nero su nero, Leonardo Sciascia parla del suo rapporto con Pier Paolo Pasolini:
“Ho cercato ieri – e fortunatamente ritrovato nel disordine in cui stanno le mie cose – il foglio ingiallito del giornale “La libertà” in cui Pasolini pubblicò il 9 marzo del 1951 un articolo sul mio primo libretto. Un articolo su tre colonne: come se di quell’ esile libretto egli avesse parlato sapendo quello che avrei scritto dopo, fino a oggi. S’ intitola “Dittatura in fiaba”. E si chiude con questo concetto, che parlando di me aveva poi ribadito in “Passione e ideologia” e, l’ anno scorso, recensendo “Todo modo”: “Ma anche questi improvvisi bagliori, queste gocce di sangue rappreso, sono assorbiti nel contesto di questo linguaggio, così puro che il lettore si chiede se per caso il suo stesso contenuto, la dittatura, non sia stata una favola.” E credo che questo giudizio – e perciò lo riporto – non fosse di entusiasmo ma di limitazione, considerando che lui amava un linguaggio meno puro, più urgente e rovente. Comunque da quel momento siamo stati amici. Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel periodo in cui lui lavorava all’antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali [l’ultimo nell’atrio dell’albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a cercare attori per “Le mille e una notte”]. Ma io mi sentivo sempre un suo amico: e credo che anche lui nei miei riguardi. C’era, però, come un’ ombra tra noi, ed era l’ ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto – come dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti, i corrotti e cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero e lo dicevo senza vantarmene, dolorosamente la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua. E voglio ancora dire ancora una cosa, al di là dell’ angoscioso fatto personale: la sua morte quale che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell’ultimo numero del “Mondo”, una lettera a Italo Calvino.”
Leonardo Sciascia, Nero su Nero.

[6] Nell’articolo Gli errori della stampa comunista, scritto per Epoca, il 4 febbraio 1980, Leonardo Sciascia passa in rassegna le responsabilità del PCI in merito al movimento studentesco del ‘68, da intendere come errori, colpe, equivoci. Fa riferimento, in coda al suo ragionamento, alle “ultime azioni dei terroristi”, alle conseguenze innescate, risalendo agli scontri all’Università di Roma tra polizia e studenti, che dilagarono il giorno successivo a Valle Giulia.

[7] Da quando  ha incontrato, l’8 maggio 1937, a Parigi, il dirigente del Partito Comunista Giuseppe Dozza, la Cagoule inizia a interessarsi, attivamente, a Carlo Rosselli.
Due giorni dopo, Carlo Rosselli verrà pedinato insieme alla moglie inglese Marion Cave, nei pressi del Cafè La Coupole.
E, qualche giorno più tardi, Jean-Marie Bouvyer, che si presenta alla portineria del palazzo in cui abitano i Rosselli, per proporre una polizza di assicurazione, verrà allontanato dalla responsabile del condominio, insospettita.
Faranno parte del commando incaricato del duplice omicidio:
-      Jean Filiol, 28 anni, iscritto, anche, all’Action Francaise di Charles Maurras, è tipografo in rue Felicien David, a Parigi. Ha, già, alle spalle un omicidio;
-      Alice Lamy, circa 30 anni, modista, capelli bruni, è originaria di Verneuil-sur-Igneraie;
-      Fernand Ladislas Jakubiez, 27 anni, di padre polacco e madre tedesca. Di professione disegnatore, ha lavorato, saltuariamente, come barista e come buttafuori in teatro. Nell’O.S.A.R.N. si occupa, in particolare, dell’acquisto di armi in Belgio e in Svizzera. Killer di mano svelta, ma non di carattere, interrogato dalla polizia crolla subito con angosciose ritrattazioni;
   Robert-Gaston- Emile Puireux, 27 anni, è, invece, di forte temperamento. È nato a Parigi e lavora nell’ambito del commercio. È proprietario della Peugeot 402 nera, con cui partecipa all’agguato. Entrambi i genitori sono filomonarchici;
-      François Baillet, 25 anni, di grossa statura, ha fatto il pugile. Di professione cuciniere. È nato a Egreselles-le-Bocage, stessa area geografica di Bagnoles, il cui territorio conosce molto bene. Il suo coinvolgimento nel duplice omicidi emergerà solo molto più tardi;
-      Jacques Fauran, 25 anni, è un simpatizzante. Viene cooptato nella Cagoule solo due giorni prima dell’agguato perché in possesso di una decappottabile rossa che serve, inderogabilmente, in quel lavoro;
André Tenaille, 28 anni, fabbro ferraio. La cugina di sua madre è moglie di Eugène Deloncle, il fondatore della Cagoule. Suo fratello Charles, ingegnere, è intimo degli agenti del SIM operanti in Francia. Subito dopo il delitto, il 9 giugno, André varca la frontiera italiana e si stabilisce a Torino, e trova lavoro alla FIAT.
-      Jean-Marie Bouvyer, 20 anni, il più giovane del gruppo. Nei giorni del delitto beneficia di una licenza dal suo reggimento, in cui è impegnato come soldato semplice. François Mitterand aiuterà l’amico, influenzando il processo;
-      Louis Huguet, 35 anni, pugile dilettante, anche lui fabbro. Subito dopo l’uccisione dei Rosselli viene arrestato dalla polizia.
Il 13 giugno, per concludere l’opera e dare conferma dell’avvenuto delitto, tre esponenti della Cagoule si recano, a Torino, per consegnare copia dei documenti sottratti a Carlo Rosselli al “dottor Nobile”, in realtà, l’ufficiale al Comando del Centro Controspionaggio di Torino del SIM, che teneva i contatti con l’organizzazione.

[8] Il 6 Febbraio 1934, in reazione a un clamoroso scandalo politico-finanziario, le associazioni dei combattenti della Grande Guerra manifestano, a Parigi, davanti alla Camera dei deputati, per ottenere le dimissioni del governo Daladier. Sotto la spinta dei fascisti, il raduno diventa un’insurrezione e cerca di rovesciare la Repubblica in favore del colonnello de La Rocque, che rifiuta il ruolo che gli si voleva attribuire.
Vi furono altri tafferugli nelle settimane seguenti e un tentativo di linciaggio di Léon Blum, durante il funerale di uno storico monarchico.
Il 18 giugno, il governo annuncia lo scioglimento delle leghe.
Immediatamente, un gruppo di militanti fascisti, per la maggior parte provenienti dalla XVII sezione dei Camelots du roi, rompe con il filosofo monarchico Charles Maurras e decide di passare alla clandestinità.
Fondano così l’Organisation secrète d’action révolutionnaire nationale [O.S.A.R.N.]. Attorno a questa organizzazione gravitano Eugène Deloncle, Aristide Corre, Jean Fillol, Jacques Corrèze, cui, presto, si aggiungono Gabriel Jeantet, François Méténier e il dottor Henri Martin. Il colonnello de La Rocque mette in guardia i vecchi affiliati alle leghe contro l’infiltrazione di “gruppi di tradimento”, ossia fascisti che agiscono per conto di nazioni estere, come l’Italia o la Germania.
L’O.S.A.R.N. si struttura rapidamente in gruppi locali e in un sistema gerarchico fortemente suddiviso, in modo che al di fuori dei capi, i membri dell’organizzazione sono totalmente all’oscuro circa la sua grandezza, i suoi obbiettivi reali, i suoi mezzi e il sostegno che riceve. Alcune cellule, quali i Chevaliers du glaive, sono condotte a Nizza da Joseph Darnant e François Durand de Grossouvre, dove adottano un rituale e abiti ispirati al Klu Klux Klan: sarà la ragione per cui l’O.S.A.R.N. verrà chiamato dai monarchici la Cagoule.
Amico intimo di Eugène Deloncle, Eugène Schueller mette a disposizione il suo patrimonio per il complotto. Diverse riunioni del gruppo dirigente si tengono negli uffici della sede de L’Oréal. Un gruppo di giovani, residenti nel dormitorio dei Padri Maristi, al numero civico 104 di rue  Vaugirard, frequenta i capi del complotto e si unisce ad alcune delle loro azioni, senza aderire formalmente alla organizzazione: Pierre Guillan de Bénouville, Claude Roy, André Bettencourt e Robert Mitterand, fratello di François, marito della nipote di Eugène Deloncle.
In un anno e mezzo, l’O.S.A.R.N. formalizza le sue relazioni con il governo di Benito Mussolini, poi con quello di Adolf Hitler. Per loro conto invia armi in Spagna, a Francisco Franco. In cambio ottiene considerevoli appoggi finanziari e logistici.
L’organizzazione tenta un colpo di Stato, nella notte tra il 15 e il 16 novembre, che fallisce. L’indomani e durante le settimane seguenti il complotto vengono svelati tutti i suoi particolari: alcune perquisizioni permettono di scoprire nascondigli di armi in tutta la Francia. In totale sono ritrovate centinaia di mitragliatori, migliaia di fucili e uniformi, decine di migliaia di granate, centinaia di migliaia di munizioni, tutto proveniente dalla Francia o dalla Germania.
Il presidente del consiglio, Edouard Daladier, frena l’inchiesta quando si comincia a scoprire che l’O.S.A.R.N. ha degli affiliati tra gli ufficiali fino ad arrivare allo stato maggiore. In effetti, non è possibile decapitare l’esercito francese mentre la minaccia della guerra si fa sempre più reale. Il presidente ha torto, perché la guerra mondiale è effettivamente dichiarata e la Francia capitola.
[9] La O.S.A.R.N. è fondata, nel giugno del 1936, dall’ingegnere navale quarantasettenne Eugène Deloncle, nato a Brest, uomo di estrema destra, la cui personale connotazione politica resta, tuttavia, sempre molto ambigua nonostante i cospicui aiuti del SIM, il Servizio di Sicurezza Italiano, che giungono sotto forma di finanziamenti in denaro e forniture di armi.
Epilogo della sicura ambiguità, infatti, è lo schierarsi di molti dell’O.S.A.R.N. a favore di Charles de Gaulle durante il Governo Vichy. Lo stesso Eugène Deloncle è ucciso dai nazisti per tradimento. 
[10] PARIGI - L’agitata gioventù politica di Mitterrand, le sue simpatie nei confronti della destra nazionale nell’anteguerra e la sua attività nei primi due anni dello Stato di Vichy del maresciallo Pétain, ritornano alla ribalta. Il fogliettone mai concluso delle voci, delle mezze verità più o meno ufficiali, degli enigmi mai risolti, su quegli anni hanno riempito decine di biografie dell’attuale capo dello Stato. Ed oggi esso si arricchisce di un nuovo capitolo: l’appena edito voluminoso libro-inchiesta con cui il giornalista Pierre Pean, documenti alla mano, ricostruisce minuziosamente la giovinezza del presidente. Arrivando alla inequivocabile conferma che il leader della sinistra fu negli anni universitari legato agli ambienti e ad alcune organizzazioni nazionaliste di destra e che nel ‘40, all’indomani della disfatta e dell’ armistizio, in età più matura credette nella continuità dello Stato francese incarnato dal maresciallo Pétain e dalla sua Repubblica di Vichy. Una conferma che porta l’imprimatur dello stesso Mitterrand, il quale ha accettato di collaborare all’inchiesta sui segreti della sua giovinezza con la sorprendente sincerità di chi alla fine della lunga carriera politica che lo ha portato ai vertici dello Stato, sembra addirittura trovare sollievo nel dire tutto quello che fino ad oggi era stato negato o taciuto. Rivelazioni e conferme si intrecciano nell’intento di stabilire una verità spesso assai scabrosa e ambigua. Tra queste verità c’è quella del Mitterrand diciottenne, proveniente da una famiglia ricca cattolica e di destra, appena arrivato a Parigi dalla sua provincia natale della Charante, militante del famigerato movimento delle “Croci di fuoco” del colonnello De La Rocque, ferocemente anti-comunista e con marcate simpatie nei confronti dei regimi fascisti, incondizionato partigiano di Mussolini e del modello fascista italiano. Il Mitterrand che partecipa ai “pogrom” lanciati dai Volontari delle Croci di fuoco contro i “metech”, gli indesiderabili immigrati di colore all’Università di Parigi, poi subito dopo presidente del Circolo letterario del Journal del Partito sociale francese che ha rimpiazzato le Croci di fuoco e che scrive e organizza collette per la “causa” contro il Fronte popolare e il leader socialista Léon Blum. Quello stesso Blum cui molti lustri dopo, nell’apoteosi della vittoria socialista del 1981, all’ indomani della sua elezione all’ Eliseo Mitterrand renderà omaggio al Pantheon con in pugno una rosa rossa emblema del Partito socialista. È sempre in quegli anni Trenta, che molti biografi l’hanno voluto individuare come membro della “Cagoule”, l’organizzazione di estrema destra che nel 1937 si incaricò ed eseguì per ordine di Mussolini l’assassinio a Bagnoles-de-l’Orne dei fratelli Rosselli. Pierre Pean, sostiene che non esiste documento alcuno che comprovi questa accusa, ma mostra tuttavia, e Mitterrand lo riconosce, che il futuro presidente “incrocerà” spesso nel suo entourage più d’uno dei famigerati “cagoulards” e in particolare quel Jean Bouvyer, amico di famiglia, incarcerato per l’assassinio dei fratelli Rosselli, al quale spesso egli renderà visita in carcere, conservandogli “per fedeltà” come egli stesso dice, un’amicizia che lo spingerà persino ad intervenire in suo favore all’ epoca dell’epurazione. Ma il capitolo più scabroso resta pur sempre quello di Vichy e del suo vero rapporto col Regime Pétainista che Mitterrand raggiunge nel 1941 dopo la sua evasione da un campo di concentramento tedesco e dove, venticinquenne, ne diviene immediatamente attivissimo funzionario. Non già per fare il doppiogioco, come ha sempre lasciato dire ai suoi amici, ma per una adesione sincera a Pétain, “sposando”, come scrive Pierre Pean, il clima politico dell’epoca. Un’epoca in cui molti, e Mitterrand tra questi, credono alla “rivoluzione nazionale” del maresciallo e guardano a Pétain come al salvatore della patria, alla continuità dello Stato francese che si è dissolto nella disfatta. Certo egli non è né antisemita né pro-tedesco, ma come scrive Pean è “semplicemente peteanista”. E “tutta la sua azione tra il 1941 e il 1942, non fu per nulla di opposizione alla politica del maresciallo” commenta l’autore dell’ inchiesta che ha ritrovato anche una foto esclusiva che ritrae Mitterrand, allora funzionario al Commissariato per i prigionieri di guerra rimpatriati, al fianco di Pétain. È l’epoca in cui per i servizi resi a Vichy, il solerte funzionario Mitterrand riceverà la più alta onorificenza del regime, la famosa “Franciska” tante volte rimproveratagli lungo la sua lunga carriera politica. Mitterrand che quell’onorificenza gli serviva di copertura per la sua attività clandestina. Ma secondo Pean è solo nel 1943 che Mitterrand si avvicinerà, più per una evoluzione politica che non ideologica, alla resistenza. Organizzando i reduci del gruppo Ora[10], sotto lo pseudonimo di battaglia di capitano Morland, riconosciuto non senza qualche diffidenza dal generale de Gaulle che Mitterrand ha raggiunto prima a Londra poi ad Algeri. Pean d’altra parte non risparmia di rimproverare indirettamente a Mitterrand ricordandoglieli i legami di “fedeltà e amicizia” che il più volte ministro della quarta Repubblica e il futuro presidente socialista della Quinta Repubblica ha continuato a tenere vivi con personaggi come René Bousquet, l’ex-capo della polizia di Vichy, l’organizzatore dei rastrellamenti degli ebrei francesi finiti tutti ad Auschwitz. Mitterrand non nega ormai più nulla. Ma al suo biografo lancia solo questa frase che ha il sapore di una specie di autoassoluzione: “In quei periodi torbidi quando si era giovani era difficile fare delle scelte. Me la sono cavata piuttosto bene. È ingiusto giudicare la gente per degli errori che si spiegano nell’atmosfera dell’ epoca. Agli uomini politici non si perdona proprio nulla.”
Quando Mitterand era razzista, Franco Fabiani, la Repubblica, 2 settembre 1994 [https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/09/02/quando-mitterrand-era-razzista.html].

[11] Nel 1907, veniva fondata L’Oréal da Eugène-Paul-Louis Schueller, che, nel 1928, aveva assorbito Monsavon, le vernici Valentine, gli shampoo Dop e la rivista Votre Beauté.
Il fondatore del gruppo era stato anche uno dei grandi finanziatori del nazismo francese e dell’organizzazione di destra conosciuta con il nome di Cagoule. Alla liberazione, la società e i suoi affiliati stranieri si adoperarono per dare asilo ai criminali in fuga.
Nel Settembre del 1940, Eugène Deloncle e Schueller fondano il Movimento Sociale Rivoluzionario [il cui acronimo è MSR, che si pronuncia aime et sert, ama e servi], con il sostegno dell’ambasciatore del Terzo Reich, Otto Abetz, e l’approvazione personale del capo della Gestapo, Reinhardt Heydrich. Le riunioni della dirigenza del MSR si tengono negli uffici de L’Oréal, al numero civico 14 di rue Royale, a Parigi.
Il programma dell’organizzazione riporta:
“Noi vogliamo costruire una nuova Europa in cooperazione con la Germania nazional-socialista e tutte le altre Nazioni europee che non siano schiave del capitalismo liberale, dell’ebraismo, dei bolscevichi, e della massoneria [...] rigenerare la razza francese [...] obbligare gli ebrei rimasti in Francia a seguire leggi severe che impediscano loro di inquinare la nostra razza [...] creare un’economia socialista [...] che assicuri una giusta distribuzione delle risorse facendo aumentare gli stipendi e la produzione.”
Come prima applicazione di questo programma, Deloncle organizza un attentato esplosivo contro sette sinagoghe parigine, nella notte tra il 2 e il 3 ottobre 1941.
Inoltre, viene fondata un’organizzazione con l’aiuto di Theo Dannecker, membro delle SS, delegato di Adolf Eichmann: la Communauté Française, il cui scopo è “liberare completamente [la Francia] da questi fermenti di corruzione che sono gli ebrei e i massoni”. È questa l’organizzazione segreta, che, spesso, organizza le spoliazioni di ebrei per rimpinguare le tasche dei suoi membri, tra i quali Jacques Corrèze e Jean Fillol, il sicario della Cagoule.
Quanto al giovane André Bettencourt, sotto la tripla tutela del ministro della propaganda, Joseph Goebbels, della Wehrmacht e della Gestapo, ha il controllo su tutte le pubblicazioni francesi, sia collaborazioniste sia naziste. È lui che dirige La terre française, una pubblicazione esplicitamente nazista, destinata alle famiglie di campagna, che consiglia, vivamente, la rieducazione degli intellettuali decadenti attraverso il ritorno forzato “alla terra che non inganna mai”.
Assume l’agronomo Réné Dumont e offre, regolarmente, a Schueller le colonne dei suoi giornali.
Il 15 Febbraio 1941, sotto richiesta delle SS, il MSR di Deloncle si fonde con i Rassemblement National Populaire [RNP] di Marcel Déat.
Eugène Schueller diviene il punto di riferimento economico.
Il 22 Giugno 1941, il Terzo Reich attacca l’Unione Sovietica.
Deloncle e Schueller decidono di creare la Légion des volontaires français [LVF], comandata da Jacques Corrèze per combattere il comunismo sul fronte orientale. Tutti i suoi membri giurano fedeltà al Führer.
Attraverso questa organizzazione armata cercano di eliminare Pierre Laval, loro avversario politico, e il loro alleato e rivale Marcel Déat.
Il 27 Agosto 1941, in occasione di una cerimonia di partenza di un contingente della LVF per il fronte russo, organizzano un doppio attentato, durante il quale Laval e Déat rimangono feriti.
La battaglia di Stalingrado inverte il corso degli eventi.
Ormai il Terzo Reich non è più invincibile.
André Bettencourt si riavvicina al suo amico François Mitterand, che esercita diverse funzioni a Vichy e condivide l’ufficio con Jean Ousset, responsabile del movimento giovanile della Légion Française dei combattenti di Joseph Darnand. Entreranno allora a far parte della Resistenza all’interno del Mouvement National des Prisonniers de Guerre et Déportés [MNPGD].
Alla fine del 1942, André Bettencourt è inviato da Eugène Schueller, che è divenuto uno dei maggiori azionisti della Nestlé, in Svizzera.
Approfitta della trasferta per incontrare Allen Dulles e Max Schoop dell’Office of Strategic Services [OSS].
Eugène Deloncle è assassinato.
Il 10 Giugno 1994, Jean Fillol guida la divisione delle SS a Ouradour-sur-Glane, che si macchierà di numerose atrocità.
Grazie alla testimonianza di André Bettencourt e François Mitterand, Eugène Schueller verrà scarcerato con la motivazione che aveva partecipato alla Resistenza.
L’Oréal diviene il rifugio dei vecchi amici.
François Mitterand è il direttore della rivista Votre Beauté e André Bettencourt è eletto direttore del gruppo.
Con l’aiuto dell’Opus Dei, Henri Deloncle, fratello di Eugène,  ingrandisce l’Oréal-Spagna, dove assume Jean Fillol.
Quanto a Jacques Corrèze, diviene l’amministratore delegato della Cosmair [L’Oréal] negli Stati Uniti.   

[12] Nel 1950, André Bettencourt sposa Liliane, l’unica figlia di Eugène Paul Louis Schueller.
André Bettencourt ha avuto una brillante carriera.
Giornalista, ha fondato, nel 1945, il Journal agricole, per i vecchi lettori de La terre française.
La sua carriera politica l’ha condotto, più volte, in parlamento e al governo. Ha, dunque, potuto riprendere le sue vecchie attività, divenendo segretario di Stato per l’informazione [1954-55], posto creato dal suo amico François Mitterand, nel 1948.

[13] Il generale Roatta, Anfuso, Emanuele e Navale vennero tutti sottoposti a processo dopo la guerra: Anfuso venne condannato alla fucilazione alla schiena e gli altri all’ergastolo. L’appello sconvolse tutto: Anfuso e Roatta assolti con formula piena, Navale e Emanuele per insufficienza di prove.
Ventuno anni dopo l’assassinio dei fratelli Rosselli, nell’ottobre del 1958, il nome dell’ex-maggiore dei carabinieri e agente del SIM Roberto Navale riecheggiò nuovamente in un’aula di un palazzo di giustizia. Fu il Tribunale di Pinerolo, città a 38 chilometri da Torino, a riesumarlo. Il 7 ottobre 1958, i giudici, infatti, inflissero 13 mesi di reclusione, per il reato di ricettazione fallimentare a Roberto Navale. La condanna di Navale in quel processo per il fallimento del commerciante di petroli Pietro Flogna, rammentò per qualche settimana, sui giornali, il ruolo che l’ex-capo del centro SIM di Torino aveva avuto nell’affaire Rosselli. Non è l’unica sorpresa a emergere scavando tra i fascicoli di polizia dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Tra le carte riguardanti l’ufficiale dei carabinieri reali, che, nel giugno del 1941, era stato assunto alla FIAT, guidata da Vittorio Valletta, come capo dei servizi di sicurezza, spicca una nota, che il Servizio Informazioni Speciali [SIS] della Polizia italiana, il 3 luglio 1950, trasmette alla Divisione affari riservati del ministero dell’Interno:
“Il noto ex-maggiore dell’Arma Navale Roberto, già appartenente ai servizi informativi militari, che tanto fece parlare di sé per l’uccisione dei fuorusciti italiani Rosselli avvenuta in Francia durante il fascismo, comincia a far riparlare di sé per una sua attività che egli svolgerebbe a Torino e in Milano a favore di servizi stranieri.”
Era sospettato di essere al soldo dei francesi, ma anche della CIA.

1 commento:

  1. CARI ITALIANI CHE, OGGI, TEMETE UN RITORNO DEL FASCISMO, MA DOVE CREDETE CHE SIANO FINITI TUTTI I FASCISTI?
    INGHIOTTITI, COME PER MIRACOLO, DALLA TERRA, IL GIORNO DELLA LIBERAZIONE?
    O SONO DIVENUTI TUTTI PARTIGIANI DELL'ULTIMA ORA?
    VE NE SONO STATI E VE NE SONO ANCORA... DI VIVI, SAPETE!
    E SONO QUELLI CHE SEMBRANO PAVENTARLO DI PIU'...
    E NON DA OGGI, GIA' DAI PRIMI VAGITI DELLA NOSTRA REPUBBLICA DEMOCRATICA...
    A CONTARCI, SEMBREREBBE CHE SOLO BENITO MUSSOLINI E LA SUA FAMIGLIA CON CLARETTA PETACCI E QUALCHE ALTRO COMPAGNO, PARDON, CAMERATA DI MERENDE FOSSERO FASCISTI.
    VI SIETE, MAI, CHIESTI PERCHE' I RESPONSABILI DI EFFERATI ASSASSINII ED ECCIDI NON SIANO, MAI, STATI ASSICURATI ALLA GIUSTIZIA, NONOSTANTE SI CONOSCESSE IL LORO NOME E IL LORO INDIRIZZO DI CASA?
    IO NON SO ESATTAMENTE SU QUALI EVENTI SI CHIUDA IL PROGRAMMA DI STORIA NELLE SCUOLE, MA SAREI PRONTA A GIOCARMI QUELLO CHE NON HO - E SONO CERTA CHE NON LO PERDEREI! - CHE MOLTI TRA I GIOVANI - MA ANCHE TRA I MIEI COETANEI! - NON CONOSCANO LA STORIA DEL NOSTRO PAESE, CHE, SEPPURE, MILLENARIO, HA CONQUISTATO L'UNITA', SOLO GEOGRAFICA, IN VERITA', DA 150 ANNI CIRCA...
    MOLTO POCO, IN VERITA', PER CREARE UNA COSCIENZA NAZIONALE... CHE SI TENTA DI FAR PASSARE PER RADICALISMO NAZIONALISTA.
    IO NON LO TEMO UN RITORNO DEL FASCISMO E, MOLTO SEMPLICEMENTE, PERCHE' NON NE SIAMO, MAI, USCITI.
    DEVO FARE I NOMI?
    OGNUNO HA IL SUO MODO DI DIRE LE COSE.
    VI E' CHI SI SENTE APPAGATO MANDANDO AFFANCULO QUESTO O QUEL POLITICO, PRIMA, DURANTE, DOPO, LONTANO DAI PASTI SU FACEBOOK, IO PREFERISCO DOCUMENTARMI E SCRIVERE - FORSE, SAREBBE PIU' GIUSTO DIRE RISCRIVERE, MA MI SEMBREREBBE UN ATTEGGIAMENTO ANCORA PIU' PRESUNTUOSO E ARROGANTE! - SULLA NOSTRA STORIA, IN PARTICOLARE, SUL FASCISMO, VISTO CHE E' UN TERMINE MOLTO USATO E ABUSATO ULTIMAMENTE PER TACITARE UN INTERLOCUTORE CHE NON CONDIVIDE IL NOSTRO PENSIERO.
    E' UN PROGETTO CHE TENGO NEL CASSETTO, DA MOLTI ANNI, DI CUI AVEVO FATTO PARTECIPE IL NONNO, CHE AVREBBE POTUTO ESSERE PER ME UNA VERA FONTE MERAVIGLIOSA DI INFORMAZIONI DI PRIMA MANO...
    AHIME', SE NE E' ANDATO PRIMA CHE POTESSIMO REALIZZARLO, MA IL PROGETTO RESTA E SI E', ANCHE MATERIALIZZATO CON IL MIO PRIMO SCRITTO SUI FRATELLI ROSSELLI...
    QUANTO MI PIACEREBBE INTERROGARE CHI DICO IO SUI FRATELLI ROSSELLI PER SPIARNE L'ESPRESSIONE DEL VOLTO...
    MA MAI DIRE MAI!
    LA FINE DELL'ANNO SI AVVICINA E, CON ESSA, ANCHE LE FESTIVITA' NATALIZIE.
    QUESTO ANNO, LE ASPETTO PARTICOLARMENTE CON ANSIA...
    HO BISOGNO DI PRENDERMI UN LUNGO E MERITATO STACCO DA TUTTO E DA TUTTI...
    POI, CON IL PROSSIMO ANNO, SI CAMBIA GENERE!
    BASTA CON IL MONDO VIRTUALE...
    EVVIVA IL MONDO REALE...
    BUONA SERATA!

    Daniela Zini

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