Totalitarismo!
“I movimenti totalitari mirano a organizzare le masse, non le
classi, come i vecchi partiti d’interessi degli Stati nazionali del continente,
e neppure i cittadini con opinioni e interessi nei riguardi del disbrigo degli
affari pubblici, come i partiti dei Paesi anglosassoni.
Mentre tutti i gruppi politici si basano sul loro seguito
proporzionale, essi fanno leva sulla nuda forza numerica, dell’ordine di
milioni, al punto da rendere impossibile un loro regime, anche nelle
circostanze più favorevoli, in Paesi con una popolazione relativamente poco
numerosa.
Dopo la Prima Guerra Mondiale un’ondata totalitaria e
semitotalitaria travolse il continente; movimenti fascisti si diffusero dall’Italia
a quasi tutti i Paesi dell’Europa Centrale e Orientale [la parte ceca della
Cecoslovacchia fu una delle eccezioni]; eppure Mussolini, che tanto amava il
termine “Stato totalitario”, non tentò di instaurare un regime totalitario in
piena regola, accontentandosi della dittatura del partito unico.
Dittature sostanzialmente non diverse sorsero in Romania, in
Polonia, negli Stati baltici, in Ungheria, in Portogallo e infine in Spagna. I
nazisti, che avevano un istinto infallibile per tali differenze, usavano
criticare sdegnosamente i difetti degli alleati fascisti, mentre la loro
genuina ammirazione per il regime bolscevico era frenata soltanto dal disprezzo
per le razze dell’Europa Orientale.
L’unico uomo per cui Hitler avesse un “rispetto incondizionato”
era il “geniale Stalin”; e anche se sulla Russia non possediamo [e
presumibilmente non possederemo mai] il ricco materiale documentario di cui
disponiamo per la Germania, sappiamo dal discorso di Chruscev al XX congresso
del partito che Stalin si fidava soltanto di un uomo, e quello era Hitler.”
Hannah Arendt, Le origini del Totalitarismo.
Il Pci ai giovani
Pier Paolo Pasolini, 16 giugno 1968
Mi dispiace. La polemica contro
il Pci andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati:
peggio per voi.
Adesso i giornalisti di tutto il mondo [compresi
quelli delle televisioni]
vi leccano [come ancora si dice nel linguaggio
goliardico] il culo. Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
[benissimo!] ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli; la casupola
tra gli orti con la salvia rossa [in terreni
altrui, lottizzati]; i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio
furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
[per una quarantina di mille lire al mese]:
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi [in un tipo d’esclusione che non ha uguali];
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti [l’essere odiati fa odiare].
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo [di eletta tradizione
risorgimentale]
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, cari [benché dalla parte
della ragione] eravate i ricchi,
mentre i poliziotti [che erano dalla parte
del torto] erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, cari. Stampa e Corriere della Sera, News-week e
Monde
vi leccano il culo. Siete i loro figli,
la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano
non si preparano certo a una lotta di classe
contro di voi! Se mai,
si tratta di una lotta intestina.
Per chi, intellettuale o operaio,
è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea
che un giovane borghese riempia di botte un vecchio
borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera
un giovane borghese. Blandamente
i tempi di Hitler ritornano: la borghesia
ama punirsi con le sue proprie mani.
Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli
che operano a Trento o a Torino, a Pavia o a Pisa,
a Firenze e un po’ anche a Roma,
ma devo dire: il movimento studentesco [?]
non frequenta i vangeli la cui lettura
i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono
per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici;
una sola cosa gli studenti realmente conoscono:
il moralismo del padre magistrato o professionista,
il teppismo conformista del fratello maggiore
[naturalmente avviato per la strada del padre],
l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini
contadine anche se già lontane.
Questo, cari figli, sapete.
E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti:
la coscienza dei vostri diritti [si sa, la democrazia
prende in considerazione solo voi] e l’aspirazione
al potere.
Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre
sulla presa di potere.
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti,
nei vostri pallori snobismi disperati,
nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali,
nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo
[solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia
infima, o da qualche famiglia operaia
questi difetti hanno qualche nobiltà:
conosci te stesso e la scuola di Barbiana!]
Riformisti!
Reificatori!
Occupate le università
ma dite che la stessa idea venga
a dei giovani operai.
E allora: Corriere della Sera e Stampa, Newsweek e Monde
avranno tanta sollecitudine
nel cercar di comprendere i loro problemi?
La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte
dentro una fabbrica occupata?
Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi
un giovane operaio di occupare una fabbrica
senza morire di fame dopo tre giorni?
e andate a occupare le università, cari figli,
ma date metà dei vostri emolumenti paterni sia pur scarsi
a dei giovani operai perché possano occupare,
insieme a voi, le loro fabbriche. Mi dispiace.
È un suggerimento banale;
e ricattatorio. Ma soprattutto inutile:
perché voi siete borghesi
e quindi anticomunisti. Gli operai, loro,
sono rimasti al 1950 e più indietro.
Un’idea archeologica come quella della Resistenza
[che andava contestata venti anni fa,
e peggio per voi se non eravate ancora nati]
alligna ancora nei petti popolari, in periferia.
Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese,
e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula,
si è dato da fare per imparare un po’ di russo.
Smettetela di pensare ai vostri diritti,
smettetela di chiedere il potere.
Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,
a bandire dalla sua anima, una volta per sempre,
l’idea del potere.
Se il Gran Lama sa di essere il Gran Lama
vuol dire che non è il Gran Lama [Artaud]:
quindi, i Maestri
– che sapranno sempre di essere Maestri –
non saranno mai Maestri: né Gui né voi
riuscirete mai a fare dei Maestri.
I Maestri si fanno occupando le Fabbriche
non le università: i vostri adulatori [anche Comunisti]
non vi dicono la banale verità: che siete una nuova
specie idealista di qualunquisti: come i vostri padri,
come i vostri padri, ancora, cari! Ecco,
gli Americani, vostri odorabili coetanei,
coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando,
loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario!
Se lo inventano giorno per giorno!
Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno:
potreste ignorarlo?
Sì, voi volete ignorarlo [con grande soddisfazione
del Times e del Tempo].
Lo ignorate andando, con moralismo provinciale,
“più a sinistra”. Strano,
abbandonando il linguaggio rivoluzionario
del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale
Partito Comunista,
ne avete adottato una variante ereticale
ma sulla base del più basso idioma referenziale
dei sociologi senza ideologia.
Così parlando,
chiedete tutto a parole,
mentre, coi fatti, chiedete solo ciò
a cui avete diritto [da bravi figli borghesi]:
una serie di improrogabili riforme
l’applicazione di nuovi metodi pedagogici
e il rinnovamento di un organismo statale. I Bravi! Santi sentimenti!
Che la buona stella della borghesia vi assista!
Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti
della polizia costretti dalla povertà a essere servi,
e ubriacati dell’interesse dell’opinione pubblica
borghese [con cui voi vi comportate come donne
non innamorate, che ignorano e maltrattano
lo spasimante ricco]
mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso
per combattere contro i vostri padri:
ossia il comunismo.
Spero che l’abbiate capito
che fare del puritanesimo
è un modo per impedirsi
la noia di un’azione rivoluzionaria vera.
Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni!
Andate a invadere Cellule!
andate ad occupare gli usci
del Comitato Centrale: Andate, andate
ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere
di un Partito che è tuttavia all’opposizione
[anche se malconcio, per la presenza di signori
in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,
borghesi coetanei dei vostri schifosi papà]
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.
Che esso si decide a distruggere, intanto,
ciò che un borghese ha in sé,
dubito molto, anche col vostro apporto,
se, come dicevo, buona razza non mente…
Ad ogni modo: il Pci ai giovani, ostia!
Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto
consigliando? A cosa vi sto sospingendo?
Mi pento, mi pento!
Ho perso la strada che porta al minor male,
che Dio mi maledica. Non ascoltatemi.
Ahi, ahi, ahi,
ricattato ricattatore,
davo fiato alle trombe del buon senso.
Ma, mi son fermato in tempo,
salvando insieme,
il dualismo fanatico e l’ambiguità…
Ma son giunto sull’orlo della vergogna.
Oh Dio! che debba prendere in considerazione
l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile
accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?
“Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella
che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta;
dall’essermi messo in condizione di non avere niente da perdere, e quindi di
non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io del
resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca.”
Pier Paolo Pasolini
Può tornare il fascismo?
Una dittatura, è noto, si impone,
sempre, per incapacità a resistere del sistema e ogni azione di una parte ha
successo per l’inazione di un’altra parte: il fascismo vinse perché il
socialismo non seppe reagire adeguatamente, oltre che per la debolezza
congenita dei governanti.
Sì, certo, la Storia
non si ripete, ma le analogie storiche hanno il loro valore, perché sono la
sintesi del temperamento di un Popolo, della sua struttura
sociale, della sua emotività anche e, in fatto di emotività, gli Italiani,
come tutti i Popoli mediterranei, sono campioni, per
cui sono portati, sempre, agli eccessi, passando da un polo a quello estremo.
L’opinione pubblica, espressa dal corpo
elettorale, ha rivelato una precisa inversione di rotta.
Quale ne sarà la conclusione?
In verità, il mutamento propone l’ipotesi
di un “ritorno”, ma per via legale, vale a dire per designazione degli elettori.
Si è parlato di voto a dispetto, di
protesta dell’opinione pubblica.
Quali le accuse del malcontento?
Sono molteplici.
Vi è una parte non trascurabile della
popolazione, indignata per il decadimento dei valori tradizionali, per l’irrisione
del concetto di Patria, per lo svilimento del senso di Nazione.
E vi è la maggioranza che fonda la
propria delusione su ragioni economiche: i piccoli e medi industriali che
vedono andare in rovina le loro fabbriche, gli impiegati e i professionisti che
constatano la crescente insicurezza della loro posizione.
Vi è, poi, a giocare un ruolo
importante il distacco irreparabile della classe politica dal Paese. I discorsi
in chiave ermetica soprattutto. Gli elettori hanno iniziato ad accorgersene.
Gli oratori sembra che badino più al ritmo che alla chiarezza dei concetti; i
loro discorsi sono come le canzoni quando nascono, fatte di numeri:
tre-cinquanta-quaranta / otto-sei-ventiquattro.
E, quando vogliono essere chiari, si
buttano sulla Retorica e sulla Demagogia.
Scriveva Giuseppe Berto nel suo libro Modesta
proposta per prevenire:
“Quando ci accorgiamo che qualcosa difetta di sostanza, noi la
scriviamo con l’iniziale maiuscola, in questo modo conferendole una specie di
garanzia immunitaria che la mette al riparo dal buonsenso e dalla critica.”
Quarantacinque anni fa, tra il 10 giugno e il 16 luglio
1974, Pier Paolo Pasolini firma tre editoriali, sul Corriere della Sera, allora diretto da Piero Ottone:
Gli italiani non sono più quelli [10
giugno 1974],
Il potere senza volto [24 giugno 1974]
e Il fascismo degli antifascisti [16
luglio 1974],
nei quali denuncia un fenomeno
devastante e inarrestabile di mutazione antropologica conseguente alla
trasformazione del sistema di Potere:
“L’omologazione “culturale” che ne è derivata riguarda tutti:
popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel
senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani
è ormai la stessa. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di
una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un
qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano
antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più
impressionante, fisicamente, interscambiabili. Nel comportamento quotidiano,
mimico, somatico non c’è niente che distingua – ripeto, al di fuori di un
comizio o di un’azione politica – un fascista da un antifascista [di mezza età
o giovane: i vecchi, in tal senso possono ancora esser distinti tra loro].
Questo per quel che riguarda i fascisti e gli antifascisti medi. Per quel che
riguarda gli estremisti, l’omologazione è ancor più radicale.”
Gli italiani non sono più quelli, “Corriere della Sera”, 10 giugno 1974.
Prendendo coraggiosamente posizione contro un
antifascismo di maniera ormai fuori tempo massimo, Pasolini mette in guardia da un Potere senza volto, senza olio di ricino, senza camicia nera e
senza fez, ma capace di plasmare gli uomini, le vite, le menti e le coscienze.
A distanza di poco meno di mezzo secolo, questi interventi mantengono intatta
la loro forza critica, permettendo di cogliere alcuni dei tratti più profondi
dell’Italia di oggi.
E, guardando
ai giovani che, in quel 1974, si chiamano e si definiscono fascisti, Pasolini
spiega che è una definizione puramente nominalistica e fuorviante:
“I
giovani dei campi fascisti, i giovani delle SAM, i giovani che sequestrano
persone e mettono bombe sui treni, si chiamano e vengono chiamati “fascisti”:
ma si tratta di una definizione puramente nominalistica. Infatti essi sono in
tutto e per tutto identici all’enorme maggioranza dei loro coetanei.
Culturalmente, psicologicamente, somaticamente – ripeto – non c’è niente che li
distingua. Li distingue solo una “decisione” astratta e aprioristica che, per
essere conosciuta, deve essere detta. Si può parlare casualmente per ore con un
giovane fascista dinamitardo e non accorgersi che è un fascista. Mentre solo
fino a dieci anni fa bastava non dico una parola, ma uno sguardo, per distinguerlo
e riconoscerlo.
Il contesto culturale da cui questi fascisti vengono fuori è
enormemente diverso da quello tradizionale. Questi dieci anni di storia
italiana che hanno portato gli italiani a votare “no” al referendum, hanno
prodotto – attraverso lo stesso meccanismo profondo – questi nuovi fascisti la
cui cultura è identica a quella di coloro che hanno votato “no” al referendum.
Essi sono del resto poche centinaia o migliaia: e, se il governo
e la polizia l’avessero voluto, essi sarebbero scomparsi totalmente dalla scena
già dal 1969.
Il fascismo delle stragi è dunque un fascismo nominale, senza
un’ideologia propria [perché vanificata dalla qualità di vita reale vissuta da
quei fascisti], e, inoltre, artificiale: esso è cioè voluto da quel Potere, che
dopo aver liquidato, sempre pragmaticamente, il fascismo tradizionale e la
Chiesa [il clerico-fascismo che era effettivamente una realtà culturale
italiana] ha poi deciso di mantenere in vita delle forze da opporre – secondo
una strategia mafiosa e da Commissariato di Pubblica Sicurezza – all’eversione
comunista. I veri responsabili delle Stragi di Milano e di Brescia non sono i
giovani mostri che hanno messo le bombe, né i loro sinistri mandanti e
finanziatori. Quindi è inutile e retorico fingere di attribuire qualche reale
responsabilità a questi giovani e al loro fascismo nominale e artificiale. La cultura a cui
essi appartengono e che contiene gli elementi per la loro follia pragmatica è,
lo ripeto ancora una volta, la stessa dell’enorme maggioranza dei loro
coetanei. Non procura solo a loro condizioni intollerabili di conformismo e di
nevrosi, e quindi di estremismo [che è appunto la conflagrazione dovuta alla
miscela di conformismo e nevrosi].
Se il loro fascismo dovesse prevalere, sarebbe il fascismo di
Spinola, non quello di Caetano: cioè sarebbe un fascismo ancora peggiore di
quello tradizionale, ma non sarebbe più precisamente fascismo. Sarebbe qualcosa
che già in realtà viviamo, e che i fascisti vivono in modo esasperato e
mostruoso: ma non senza ragione.
Pier Paolo Pasolini, Gli italiani non sono più quelli, Corriere
della Sera, 10 giugno 1974.
Semmai il problema era il nuovo Potere, non ancora
rappresentato simbolicamente e dovuto alla omologazione della classe dominante,
che stava omologando la società italiana.
Pasolini, in buona sostanza e in totale controtendenza
rispetto agli altri intellettuali suoi contemporanei, invitava a cogliere e
contrastare il volto disumano del nuovo Potere anziché rimuovere il problema,
rispolverando un antifascismo fuori contesto e fuori tempo massimo.
“Ma
bisogna avere il coraggio intellettuale di dire che anche Berlinguer e il
partito comunista italiano hanno dimostrato di non aver capito bene cos’è
successo nel nostro Paese negli ultimi dieci anni. Essi infatti non volevano il
referendum; non volevano la “guerra di religione” ed erano estremamente
timorosi sull’esito positivo delle votazioni. Anzi, su questo punto erano
decisamente pessimisti. La “guerra di religione” è risultata invece poi
un’astrusa, arcaica, superstiziosa previsione senza alcun fondamento.
Gli italiani si sono mostrati infinitamente più moderni di
quanto il più ottimista dei comunisti fosse capace di immaginare. Sia il
Vaticano che il Partito Comunista hanno sbagliato la loro analisi sulla situazione
“reale” dell’Italia.
Sia il Vaticano che il partito comunista hanno dimostrato di
aver osservato male gli italiani e di non aver creduto alla loro possibilità di
evolversi anche molto rapidamente, al di là di ogni calcolo possibile.
Ora il Vaticano piange sul proprio errore. Il PCI invece, finge
di non averlo commesso ed esulta per l’insperato trionfo.”
Perché, infatti, si chiedeva Pasolini, rilanciare,
trenta anni dopo la fine della guerra e del fascismo, una offensiva
antifascista in luogo di aggredire dalle fondamenta il nuovo Potere senza
volto, con un sembiante di società democratica e di massa, il cui fine “è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo”?
E in questo passaggio Pasolini aggiungeva un’autocritica
inedita e importante:
“In realtà ci siamo comportati coi fascisti [parlo soprattutto di quelli
giovani] razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto
credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti, e di
fronte a questa decisione del loro destino non ci fosse niente da fare. E non
nascondiamocelo: tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di
quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era
che un gesto, immotivato e irrazionale: sarebbe bastata forse una sola parola
perché ciò non accadesse. Ma nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro.
Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari
erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla
di nulla, e si sono gettati a capofitto nell’orrenda avventura per semplice
disperazione. Ma non potevamo distinguerli dagli altri [non dico dagli altri
estremisti: ma da tutti gli altri]. È questa la nostra spaventosa giustificazione.
Padre Zosima [letteratura per letteratura!] ha subito saputo distinguere, tra
tutti quelli che si erano ammassati nella sua cella,
Permeato
di un’amarezza più accentuata è, invece, il punto di vista di Leonardo Sciascia, che amava
collocarsi a “sinistra dei comunisti”, ma
non manifestando alcuna simpatia, dopo i fatti del ‘68, nei confronti dei
partiti e dei gruppi extraparlamentari,
dei quali nel Contesto segnala l’ambiguità.
Nei suoi
scritti, Sciascia insiste sul carattere congenito del fascismo in Italia, proponendo
quasi una resa militante alla sua ineluttabilità e, tuttavia, invita a
mantenere alta la guardia nei confronti di quelli che, oggi, vengono definiti
“rigurgiti fascisti”. Nell’intervista a Marcelle Padovani,
intitolata La Sicilia come metafora
[1979], Sciascia afferma:
“Non dubito affatto che quest’impegno deriva dalla mia condizione
familiare, che ha saputo suscitare in me un istinto di casse; e poi
dall’esperienza del fascismo, che è stata dura e “sofferta”, come si usa dire,
e che mi ha fatto capire come il fascismo non potesse realizzarsi che contro di
me, contro i miei interesso e quelli di tutti coloro che mi assomigliavano. Credo che se sono diventato un certo tipo di scrittore, lo devo
alla passione antifascista. La mia sensibilità al fascismo continua ad essere
assai forte, la riconosco ovunque ed in ogni luogo, persino quando riveste i
panni dell’antifascismo, e resto sensibile all’eternamente possibile fascismo
italiano. Il fascismo non è morto. Convinto di questo, sento una gran voglia di
combattere, di impegnarmi di più, di essere sempre più deciso e intransigente,
mantenere un atteggiamento sempre polemico nei riguardi di qualsiasi potere.
Tra le cose che mi rimprovero come viltà, viltà personale anche se si
tratta di una viltà sociologica e storica, c’è quella di non aver osato
prendere le difese di certi fascisti quando mi è sembrato che fossero accusati
ingiustamente.”
Bellissimo Paese l’Italia, diceva Leonardo
Sciascia, ma con un grande difetto: smarrisce la Memoria. E non solo: è un
Paese senza verità. L’“innocenza” l’Italia non l’ha persa, come molti
sostengono, nel 1969, con lo scoppio delle bombe alla Banca dell’Agricoltura a
Milano.
L’innocenza l’Italia l’aveva, già, persa il Primo
Maggio del 1947 con la Strage di Portella della Ginestra. È quel giorno che
inizia la lunghissima teoria della menzogna di Stato, i suoi segreti, i suoi
misteri. E, anzi, a essere pedanti, due anni prima, il 17 giugno 1945, quando il
leader dell’indipendentismo siciliano Antonio Canepa,
noto anche con lo pseudonimo di Mario
Turri, viene ucciso,
in circostanze non del tutto chiare,
insieme al suo braccio destro Carmelo Rosano di
ventidue anni e a Giuseppe Lo Giudice di diciotto anni, in un conflitto a fuoco con i carabinieri, in
contrada Murazzu Ruttu, presso Randazzo, sulla Strada Statale 120.
Autore tra i prediletti di Leonardo Sciascia,
Vitaliano Brancati, ne I piaceri, scrive che “ se noi non ricordassimo , il mondo
sarebbe sottilissimo, una lastra di spessore, sulla quale fulmineamente
stampato, un perpetuo presente attirerebbe su di sé i nostri sguardi stupiti e
incantati” e poi una osservazione quasi incidentale, ma di
grande profondità:
“Molte generazioni evitano di abbrutirsi solo perché uno dei
loro componenti ha il dovere di ricordare.”
I.
I FRATELLI ROSSELLI
“Se non li avesse uccisi Mussolini,
li avrebbe fatti ammazzare Stalin!”
così sentenziò,
amaramente, Diego Abad de Santillán,
pseudonimo di Sinesio Baudilio García
Fernández [1897-1983], vecchio esule anarchico, amico di Carlo, uno dei
martiri di Bagnoles-de-l’Orne. La cronaca convulsa e contraddittoria del primo
periodo del conflitto spagnolo sembra giustificare questa desolante ipotesi:
vediamo perché!
Nello
e Carlo Rosselli con la loro madre Amelia.
Il 3 aprile del 1892, il padre dei
Rosselli, Giuseppe Emanuele [detto Joe], sposa a Roma Amelia Pincherle.
I Pincherle sono una famiglia di ebrei
veneziani.
Giuseppe Emanuele Rosselli è un
musicista; Amelia è una letterata.
Amelia Pincherle è la prima donna che
scrive per il teatro nella Storia dell’Italia unita. Suo fratello è il padre di
Alberto Pincherle, che sarà noto come scrittore con il nome di Alberto.
Di Alberto Moravia, quindi, Amelia
era zia e i fratelli Rosselli cugini primi.
Tra i legami familiari di Amelia,
troviamo anche Laura Capon, figlia di un cugino, che sarà la moglie del fisico
Enrico Fermi.
Giuseppe e Amelia hanno tre figli,
Aldo, Carlo e Nello [il cui vero nome era Sabatino], nati rispettivamente nel
1895, nel 1899 e nel 1900.
Il loro matrimonio si rompe presto e,
nel 1903, Amelia si trasferisce da Roma a Firenze, nella casa di via Giusti,
con i tre figli in tenera età, affrontando da donna sola una difficile
situazione familiare.
Fedele alla tradizione risorgimentale
e mazziniana, la famiglia Rosselli al tempo della Prima Guerra Mondiale
partecipa dell’interventismo democratico, nel solco di altri esponenti di
questo filone ideale e politico: come Gaetano Salvemini, che dei fratelli
Rosselli sarebbe stato prima Maestro e poi compagno di lotta.
Il maggiore dei fratelli, Aldo, cade
nella Prima Guerra Mondiale, nel marzo del 1916, in Carnia, nel Friuli.
Anche gli altri due fratelli vengono
arruolati, seppure non direttamente impegnati in combattimento.
È comunque una esperienza che li fa
maturare e li rende adulti.
La
sera del giorno 9, Hélène Besneux, una giovane manicure di Bagnolles, tornando
dal lavoro in bicicletta, aveva osservato due vetture ferme lungo la strada,
sul luogo del delitto. Aveva potuto osservare un uomo che scendeva da una delle
due vetture per salire sull’altra. Le era sembrato di intravedere una macchia
di sangue sul terreno ma lo sguardo minaccioso dell’individuo l’aveva indotta
ad affrettare il passo.
L’indomani,
il giorno 10, una Ford 12CV nera, targata 3808 RF3, era stata ritrovata con a
bordo un ordigno esplosivo, un bossolo di revolver
e alcuni giornali francesi: si trattava della macchina di Carlo Rosselli.
Venerdì
11, il fabbro Henri Jarry, attraversando il bosco, aveva rinvenuto due cadaveri
a circa 9 chilometri dal punto in cui era stata scoperta la Ford. A qualche
metro dai corpi, un pugnale conficcato in terra: la lama lunga 10 centimetri,
il manico in legno di quercia, ricurvo in cima, sul quale incisa una R
e scritte in inchiostro azzurro, in lingua italiana due parole “Eroi
fascisti”.
Augustin
Souchy, Luce Fabbri e Diego Abad de
Santillán.
La
notizia dell’omicidio di Carlo e Nello Rosselli su La Stampa del 12 giugno 1937.
L’autopsia
viene compiuta, nella stessa serata del 12, e dura fino a mezzanotte alla
presenza del giudice istruttore del tribunale di Domfrond Alfred Evrard.
Ben
diciassette ferite d’arma da taglio sul corpo di Nello Rosselli, che ha,
sicuramente, opposto una strenua resistenza come appare chiaro da tracce di
capelli e di fili di stoffa trovati tra le unghie; mentre solo quattro sono
bastate per finire Carlo Rosselli – una alla carotide –. Su ognuno dei due
corpi almeno una ferita potrebbe essere anche di arma da fuoco.
Particolare
importante, il pugnale ritrovato presso i corpi – la perizia stabilisce che si
tratta di un tipo di arma in dotazione ai soldati francesi durante il primo
conflitto mondiale – non è quello utilizzato per uccidere: disattenzione degli
assassini, trucco per confondere le indagini o misterioso e lugubre
avvertimento?
Aldo
Garosci, Alberto Tarchiani e Franco Venturi giungono in treno per il
riconoscimento dei cadaveri.
“Carlo e Nello Rosselli sono stati assassinati da avversari
politici.”
“I documenti che Carlo, direttore di Giustizia e Libertà, aveva
con sé sono scomparsi.”
Ai primi di giugno, Carlo Rosselli
era partito per Bagnoles-de-l’Orne, una tranquilla stazione termale della
Normandia per curare una forma di flebite che si era riacutizzata, mesi
addietro, in Spagna. Aveva preso alloggio all’Hôtel Cordier, a
Tessé-la-Madeleine, un sobborgo di Bagnoles, dove, il 6 giugno, lo aveva
raggiunto il fratello da Firenze e, il 7, la moglie Marion Cave.
Il
10, Nello sarebbe ripartito e Carlo avrebbe concluso le sue cure.
Mercoledì
9, Marion dovette ripartire per essere presente a Parigi al decimo compleanno
del figlio maggiore Giovanni Giacomo.
È
una bella giornata e, dopo avere accompagnato Marion alla stazione, nel
pomeriggio verso le 16.30, i due fratelli decidono di fare una breve
passeggiata fino ad Alençon sulla Ford di Carlo. Hanno intenzione di visitare
la celebre scuola di Pizzi, ma la trovano chiusa e acquistano in un negozio un
fazzoletto di pizzi, poi, ritrovato nelle tasche di Nello.
Verso
le 18, riprendono la strada del ritorno attraverso il Parco di Couterne.
L’ora
del crimine è fissata intorno alle 19.30.
I
due fratelli devono essere ripartiti verso le 18.00 – 18.30, giacché il
tragitto da Alençon a Bagnoles è all’incirca di un’ora.
All’altezza
del Castello di Couterne, gli assassini li attendono: simulano un guasto all’automobile
oppure è un vero e proprio appuntamento fissato in quel luogo?
Questi
interrogativi sono stati i primi punti fermi dell’indagine. Infatti, una cosa è
certa: i due fratelli sono scesi dalla loro auto senza diffidenza alcuna.
Nessuno
di loro è rimasto nella vettura.
Sono
stati uccisi senza avere il tempo di difendersi e trascinati, poi, per alcuni
metri nel bosco. Si sono avvicinati ai sicari come andassero incontro ad amici.
Sembra
evidente alle autorità inquirenti che non abbiano temuto né pericoli, né
tantomeno imboscate.
Le
esequie di Carlo e Nello si svolgono a Parigi, il 19, dieci giorni dopo l’efferato
fatto di sangue.
Le
due bare sono esposte alla Maison des
Syndicats, circondate da bandiere rosse e da centinaia di corone di fiori
provenienti da tutto il mondo.
Sul
feretro di Carlo sono deposti la tuta e il casco di miliziano, simboli del suo
recente passato di combattente in terra di Spagna.
Le
note della Settima Sinfonia di
Beethoven echeggiano nella vasta sala.
Si
compone il corteo che si avvia verso il cimitero del Père-Lachaise.
Una
immensa colonna precede i carri funebri.
Dietro,
un’altra imponente colonna di gente commossa preceduta dalla moglie di Carlo,
Marion, circondata da tutta la sezione parigina di Giustizia e Libertà.
Ai
lati, i lavoratori di Parigi, al passaggio levano i pugni tesi verso le bare,
rendendo omaggio alla vittima in un commosso silenzio.
Carlo
Rosselli appartiene, oramai, anche al proletariato di tutto il mondo.
Centinaia
di famiglie operaie fanno parte di quella folla di centocinquantamila persone
che dilaga per le vie della città.
Aldo Garosci, storico, politico e antifascista italiano, cammina
da solo esibendo i simboli di quella lotta e del perché di quella morte: il
casco e la tuta da miliziano di combattente volontario in Spagna, appartenuti a
Carlo Rosselli.
Giustizia e Libertà pubblica nel numero che stampa il 18 giugno 1937, il giorno prima dei funerali,
e che è distribuito ai funerali, il discorso che Carlo Rosselli aveva tenuto il
10 febbraio 1937 ad Argenteuil, nella banlieu
Nord Ovest di Parigi, ai volontari in partenza per la Spagna, proposto con il
titolo Perché andammo in Spagna. Il
nocciolo politico di quel testo è nelle righe di esordio, laddove Rosselli
enuncia che cosa voglia dire combattere per la libertà.
“Dopo lunghi anni di esilio io confesso che fu solo
quando varcai le frontiere della Spagna, quando mi iscrissi nelle milizie
popolari e rivestii la tuta, divisa simbolica del lavoro armato e imbracciai un
fucile, che mi sentii ridiventare uomo libero, nella pienezza della mia
dignità. All’estero siamo sempre e sempre saremo dei minorati, degli esuli. In
Spagna no. In Spagna ci sentiamo pari, fratelli. Dopo essere stati obbligati
tanti anni a chiedere, magari solo il sacrosanto diritto al lavoro e ala
residenza, in Spagna abbiamo la gioia di dare.”
Al cimitero,
il corteo si arresta presso il Muro dei Federati dove il 28 maggio 1871, al termine
di una giornata di combattimenti in mezzo alle tombe, furono fucilati gli
ultimi eroici difensori della Comune: le bandiere scarlatte si inchinano.
Sul luogo
della sepoltura, tra gli altri, anche l’anarcosindacalista spagnolo Juan Garcia
Oliver, amico di Carlo, ex-ministro della giustizia nel Governo Largo Caballero,
caduto un mese prima, reca il palpitante saluto dei miliziani spagnoli,
definendo Carlo:
“Uno dei primi e dei migliori comandanti dell’esercito rivoluzionario.”
Viene posato
sul feretro di Carlo un gran fascio di rododendri giunti nottetempo, attraverso
i passaggi alpini, dall’Italia, inviati da un gruppo di compagni lavoratori.
Solo nell’aprile
del 1952, quattordici anni dopo, le salme di Nello e di Carlo verranno traslate
in Italia, a Firenze.
Carlo e
Nello Rosselli erano nati, rispettivamente, a Roma, il 16 novembre 1899 e, a
Firenze, il 29 novembre 1900.
Da sinistra, Gaetano Salvemini, Marion Cave con il marito Carlo Rosselli.
Il penultimo a destra è Ernesto Rossi [Firenze 1923]. Dal 1920, si riunirono
attorno all’ormai anziano Salvemini un gruppo di giovani ex-interventisti
democratici, Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei, Nello
Traquandi, i fratelli Niccoli, Gino Frontali,
i quali, per discutere e approfondire liberamente i problemi
d’attualità, diedero vita al Circolo di
Cultura, che, dal 1923, ebbe sede al numero 27 di Borgo Santi Apostoli. Per
le posizioni nettamente antifasciste il circolo fu distrutto dai fascisti, il
31 dicembre 1924.
Durante gli
anni dell’università entrano in contatto con Gaetano Salvemini, insegnante di
Storia nell’Ateneo fiorentino, che contribuisce, in notevole misura, alla loro
formazione intellettuale e politica.
Nello si
dedica, ben presto, agli studi storici.
Carlo, laureatosi
in scienze politiche, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, il 10 giugno
1924, si dedica, totalmente, all’attività antifascista e fonda con lo stesso
Salvemini ed Ernesto Rossi il foglio clandestino Non mollare!.
Da sinistra: Lorenzo
De Bova, Filippo Turati, Carlo Rosselli, Sandro Pertini e Ferruccio Parri, a
Calvi, in Corsica, dopo la fuga in motoscafo da Savona [1926].
Nell’ottobre
del 1925, una squadraccia fascista fa irruzione nella loro abitazione
fiorentina, distruggendo la biblioteca di Carlo.
Nello rientra
a Firenze, mentre Carlo si stabilisce a Milano.
Nel dicembre
del 1926, con Ferruccio Parri e Sandro Pertini Carlo Rosselli mette in atto un piano
di fuga per Filippo Turati.
Insieme
raggiungono la Corsica.
Parri e
Rosselli rientrano in Italia.
Arrestati,
utilizzano questa occasione per denunciare, durante il processo, ricordato come
il processo dei professori, nel settembre del 1927, la tirannia fascista.
Condannato a
5 anni di confino, Carlo non parte solo, giacché è colpito dallo stesso
provvedimento anche il fratello.
Rientrato
Nello a Firenze, sotto sorveglianza speciale della polizia, dopo soli cinque
mesi, Carlo tenta l’evasione.
Nel luglio
del 1929, con Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, da Lipari, Carlo raggiunge
le coste della Tunisia e, di là, nell’agosto dello stesso anno, si reca a
Parigi che, da quel momento, diviene la sua base operativa.
La
personalità di Carlo Rosselli si impone, ben presto, come una delle più vive ed
energiche nell’ambiente dei fuoriusciti antifascisti a Parigi.
Alla fine
del 1929, dà vita a una formazione politica denominata Giustizia e Libertà. Sono con lui Alberto Tarchiani, Emilio Lussu,
Alberto Cianca, Fausto Nitti, Cipriano Facchinetti, Raffaele Rossetti,
Gioacchino Dolci.
Le origini
prevalentemente liberali e repubblicane di sinistra portano, secondo le parole
dello stesso Carlo Rosselli, in uno dei suoi ultimi scritti su Giustizia e Libertà del 14 maggio 1937,
a: “un movimento politico nuovo senza riscontro nella
geografia politica tradizionale… “Giustizia e Libertà” è un movimento che ha
ormai un netto carattere proletario. Non solo perché il proletario si dimostra
dovunque come l’unica classe capace di operare quel sovvertimento di
istituzioni e di valori che si propone; non solo perché nel seno del movimento
i proletari hanno sempre maggiore peso; ma perché nell’esperienza concreta
della lotta ha misurato tutta l’incapacità, lo svuotamento della borghesia
italiana come classe dirigente. Certo, non è facile definire “Giustizia e Libertà”
in base alla terminologia usuale dei partiti proletari. In base a questa
terminologia dovremmo definirci a un tempo socialisti e comunisti e libertari…”
Sui fogli
del settimanale Giustizia e Libertà
svolge un’attività giornalistica instancabile. Organizza attività cospirative e
di sabotaggio in Italia, con alterne fortune, finché lo ritroviamo in Spagna,
tra i primi, allo scoppio della guerra contro il franchismo.
Sabatino,
detto Nello, sposato e con quattro figli, pur rimanendo in contatto con le organizzazioni
clandestine antifasciste, dopo il 1925, si ritira dall’attività politica
militante, dedicandosi, soprattutto, agli studi storici sul periodo
risorgimentale. Di lui sono rimaste notevoli opere come Mazzini e Bakunin [1927] e Carlo
Pisacane nel Risorgimento Italiano [1932].
È inutile
ricordare, nel nostro caso, gli elementi rappresentati da scontate nozioni
storiografiche generali della situazione europea, mentre può essere utile per
lo studio del Caso Rosselli mettere a fuoco alcuni risvolti della dinamica
storica di quei momenti in cui campeggia la Guerra Civile Spagnola, ultima
grande passione di Carlo.
Il conflitto
iberico degli Anni Trenta, a novant’anni dalla sua fine, ripropone, tuttora,
temi di scottante attualità per l’aspetto multiforme degli interrogativi ancora
irrisolti cui diede vita.
Il fenomeno
rivoluzionario, sviluppatosi durante la lotta antifascista della Guerra di
Spagna, nel primo periodo che va dall’estate del 1936 a quella del 1937,
rappresenta ancora per gli storici un argomento di estremo interesse.
Nel fatidico
luglio del 1936, a fianco degli operai, il proletariato agricolo spagnolo reagì
al golpe militare franchista, impadronendosi delle terre e dando vita a una
esperienza unica nella Storia del Novecento, unica perché nel contesto generale
della Repubblica, nata nel 1931, i contadini riuscirono in veste di
protagonisti di una vera e propria rivoluzione socialista, a porre le basi di
un solido “dualismo di potere” all’incontro di un sistema capitalista. Basi di
potere proletario che resistettero almeno per un anno – estate 1936 – estate
1937 – alla controffensiva conservatrice all’interno della Repubblica, nel
pieno corso dello stesso conflitto. In conseguenza di ciò, si aprì, all’interno
della Repubblica spagnola, un vero e proprio conflitto determinato da due
diverse concezioni relative alla conduzione della guerra.
“Noi facciamo la guerra e la rivoluzione nello stesso tempo.”,
aveva
affermato José Buenaventura Durruti, il comandante anarchico della colonna
miliziana omonima, il cui passaggio non aveva rappresentato solo la cacciata
dei franchisti ma l’instaurazione di un sistema di autogestione armata da parte
delle comunità contadine.
Dopo le
tragiche giornate di Barcellona del maggio del 1937, vale a dire dopo il riuscito
attacco governativo contro gli anarcosindacalisti e i marxisti antistaliniani
in Catalogna, l’ultimo colpo alle posizioni di potere proletario e contadino fu
rappresentato proprio dalla liquidazione delle collettività agricole anarchiche
in Aragona, nell’agosto dello stesso anno.
Come
spiegare il complesso e tragico sviluppo di tali avvenimenti?
Carlo
Rosselli, dopo la diretta partecipazione come miliziano sul fronte aragonese,
seguì dalla Francia con trepidazione ogni sviluppo della vicenda fino a tutto
il mese di maggio e ci sembra di poter ricavare dai suoi scritti attenti e
angosciati, una considerazione di fondo: in Spagna non si sta svolgendo una
pura e semplice rivoluzione genericamente democratico-antifascista e neppure
una lotta semplicemente antifeudale, ma un vero e proprio rivolgimento sociale,
la più potente indispensabile arma per attaccare e battere il fascismo sul
suolo iberico e fuori di esso.
Così
scriveva su Giustizia e Libertà, il 6
novembre 1936:
“Catalogna, baluardo della rivoluzione… La Catalogna ha saputo, in soli tre
mesi, sostituire al vecchio ordine crollato un nuovo ordine sociale, rivelando
– essi, gli anarchici – un notevole senso di misura, di realismo, di
organizzazione… tutte le forze rivoluzionarie si sono unite su un concreto
programma sindacale… In Catalogna sta nascendo una nuova forma di democrazia
sociale, sintesi pratica dell’esperienza russa con l’eredità dell’Occidente…
Sono stato 75 giorni al fronte e in trincea con gli anarchici catalani sono una
delle avanguardie eroiche della rivoluzione occidentale. È nato con essi un
nuovo mondo che è bello servire. Rivoluzionari dottrinari, riformisti della
Lettera, uomini della II e della III Internazionale, governanti di Madrid, che
storcete la bocca quando si parla dell’anarchismo catalano, ricordatevi il
19-20 luglio a Barcellona… In poche ore il fascismo feudale è spazzato. Tutta
la Catalogna è libera. E dopo una settimana le prime colonne di popolani armati
prendono l’offensiva in Aragona. Concludo come ho cominciato: la Catalogna
tiene in mano i destini della Spagna e della rivoluzione. In un mese potrà
armare 300mila uomini e vincere. Perché non lo ha già fatto? Il socialismo
madrileno, accerchiato, ha continuato a inseguire il suo sogno centralista
unitario, mentre a Barcellona non arrivano che le briciole. Il socialismo, il
comunismo internazionale guardavano con preoccupazione questa creatura
eterodossa. Ora fortunatamente, tutto ciò sta per mutare, Garcia Oliver,
arrestato e torturato sotto la Repubblica, oggi fa parte del governo di Madrid,
insieme ad altri tre compagni della CNT. Si potranno perdere ancora delle
battaglie; ma si vincerà la guerra. La ragione di questa fede è molto semplice:
un mondo nuovo è sbocciato, un popolo intero ha gustato i frutti delle libertà
non solo nei comizi, ma nell’officina, nei campi, al fronte. Questo popolo non
potrà più rassegnarsi alla schiavitù.”
Analisi poco
governativa, limpida, secca, precisa e appassionata. Ma il governo centrale
repubblicano, governo di Fronte Popolare, con quattro ministri anarchici
travolti dalla logica delle cose, fu, paradossalmente, governo borghese
legalitario, nel senso letterale della parola, per di più sostenuto in prima
istanza dal Comintern stalinizzato.
L’illusione
di Rosselli non durò a lungo.
Il 18 maggio
1937, caduto Francisco Largo Caballero, quando si formò un nuovo gabinetto
presieduto dal socialista Juan Negrin, gli anarchici non fecero più parte della
compagine governativa.
Il 16 giugno,
il POUM [Partido
Obrero de Unificación Marxista], forza
soprattutto catalana – con una colonna di miliziani fino dall’anno precedente
sul fronte aragonese –, che appoggiava gli anarcosindacalisti, viene dichiarato
fuori legge e il suo leader ex-trockijsta Andreu
Nin i Pérez venne arrestato e, successivamente, eliminato dalla GHEPEU’.
Il POUM contava su poche migliaia di
militanti, ma come forza marxista era un piccolo partito comunista
antistaliniano, pertanto, eretico rispetto al Comintern; la sua forza era rappresentata, soprattutto, dalla
qualità dei suoi militanti ed era considerata da Mosca un vero e proprio
movimento trockijsta, pur non essendolo, in quanto Lev
Trockij si era,
sempre, dissociato dalla sua attività politica.
Questa la
posizione della Pravda, il 17
dicembre 1936:
“Per quanto riguarda la Catalogna, l’epurazione degli elementi trockijsti e anarcosindacalisti è già cominciata e
verrà portata avanti con la stessa energia che nell’Unione Sovietica.”
Sempre lo
stesso quotidiano sovietico, organo ufficiale del CC del Partito Comunista, in
data 22 marzo 1937:
“Dietro l’organo degli anarchici Solidaridad Obrera stanno i trockijsti e gli agenti della polizia tedesca.”
Vennero
attaccati con accuse durissime, anche, gli anarchici fortissimi a livello di
massa.
Il 29
giugno, gli anarcosindacalisti della CNT
abbandonarono anche il governo catalano, Generalitat.
L’11 agosto,
poi, il Ministero della Difesa Nazionale dispose che l’Undicesima Divisione, al
comando di Enrique Líster Forján, passasse
all’azione repressiva nelle retrovie aragonesi per sciogliere manu militari le collettività
anarchiche.
I reparti di
miliziani anarcosindacalisti non si mossero.
Carlo
Rosselli, morto il 9 giugno, assiste solo alla prima parte dell’oscura
tragedia, fa in tempo, tuttavia, ad analizzare su Giustizia e Libertà gli avvenimenti dei primi giorni di maggio, in
cui infuriarono nella capitale catalana aspri combattimenti tra
anarcosindacalisti e poumisti, da una parte, e forze legalitarie capeggiate
dagli stalinisti, dall’altra, ore in cui perse la vita, ucciso a tradimento da
uomini del Comintern, il suo vecchio
amico, Camillo Berneri.
Così Carlo
Rosselli si esprime, il 21 maggio:
“I dolorosi avvenimenti di Barcellona spezzando, speriamo temporaneamente,
l’unità delle forze peroletarie, hanno precipitato a Valencia una crisi
politica, da tempo nell’aria, il cui significato è ancora lungi dall’essere
chiaro, ma di cui vano sarebbe dissimulare la gravità… Lo spostamento in senso
moderato e parlamentare della nuova formazione [governativa] è indubbio, anche
se avviene sotto il segno di una più energica condotta della guerra. Resta da
vedere se il nuovo governo riuscirà a consolidarsi, e in che direzione. Se il
consolidamento avvenisse in virtù di un nuovo accordo tra il governo e le forze
sindacali – tutte le forze sindacali – tale da riconsacrare il carattere
proletario della democrazia spagnola, la crisi potrebbe riuscire addirittura
benefica. Se invece il consolidamento dovesse avvenire in virtù di un
progressivo svuotamento della rivoluzione, col ritorno larvato al sistema
politico precedente il 19 luglio, allora la crisi potrebbe avverarsi fatale… si
è arrivati, per reciproca colpa, alle giornate di Barcellona… La situazione
politica in Spagna è delicata e può riserbare grosse sorprese… Certo l’URSS
interviene in Spagna al di là del giusto e del necessario. Ma senza l’URSS
esisterebbe oggi ancora una Spagna repubblicana?”
La seconda
parte del dramma politico interno Carlo Rosselli non potrà purtroppo vederla. La
politica sovietica del “socialismo in
un solo Paese” non ha potuto
che tradursi, come in una paradossale equazione, nella sistematica “organizzazione della sconfitta”, secondo
le parole di Lev Trockij, malgrado la forte radicalità e l’estensione
profonda delle crisi rivoluzionarie e la capacità offensiva di lotta delle
masse lavoratrici.
Durante il
conflitto spagnolo è esistito un binario parallelo, caratterizzato sia nell’URSS
sia presso i partiti aderenti alla Terza Internazionale, da un fenomeno
singolare assimilabile soltanto, con un accostamento non azzardato, a quello
del periodo della Controriforma, ossia il fenomeno della “caccia al trockijsta”
considerato non solo l’alleato principe del fascismo ma il suo agente diretto.
Nell’agosto del 1936 e nel gennaio del 1937, hanno
luogo, a Mosca, nella Sala di Ottobre della Casa dei
Sindacati, due famosi processi.
Il primo, dal 19 al 28 agosto
1936, ricordato come il Processo dei Sedici, mirava
a colpire i maggiori esponenti dell’opposizione di sinistra del partito e venne
definito nei resoconti ufficiali “processo del
centro terrorista trockijsta-zinoviviana”.
Il
24 agosto il presidente del Collegio Militare della Suprema Corte di Giustizia
dell’URSS Vasilij Ulrich emise questa sentenza:
“[…] Con ciò fu accertato che: Zinov’ev Gregorij, Kamenev Lev,
Evdokimov Grigorij, Bakaev Ivan, Mrac’kovskij Sergej, Ter-Vaganjan Vagarshak,
Smirnov Ivan sono colpevoli: 1] di aver organizzato il “Centro terroristico
trockijsta-zinov’eviano unificato” per assassinare i capi del governo sovietico
e del partito comunista dell’URSS, 2] di aver preparato ed eseguito attraverso
il gruppo terroristico illegale di Leningrado, Nikolaev- Kotolynov e altri, che
il 29 dicembre 1934 furono condannati dal Collegio Militare della Suprema Corte
di Giustizia dell’URSS, il delittuoso assassinio del compagno Sergej Kirov, 3]
di aver organizzato una serie di gruppi terroristici che preparavano
l’uccisione dei compagni Stalin, Voroscilov, Zdanov, Kaganovic, Ordzhonikidze,
Kosior e Postyscev, cioè dei crimini contro gli articoli 58/8 e 58/11 del
Codice Penale della RSFSR. Dreister Efim, Reingold Isaac, Pikel Richard,
Gol’tsman Eduard, Fritz David, Olberg Valentin, Berman- Jurin Konon, Lurie
Moisej, Lurie Nathan quali membri dell’organizzazione controrivoluzionaria
terroristica trockijsta-zinov’eviana illegale di essere stati attivi
partecipanti alla preparazione dell’uccisione dei capi del Partito e del
Governo, dei compagni Stalin, Voroscilov, Zdanov, Kaganovic, Ordzhonikidze,
Kosior e Postyscev, cioè dei delitti contro gli articoli 19 e 58/8, 58/11 del
Codice Penale della RSFSR. Sulla base di quanto sopra esposto e in conformità
con gli articoli 319 e 320 dell’ordinamento di procedura penale della RSFSR, il
Collegio Militare della Suprema Corte di Giustizia dell’URSS condanna tutti e sedici
gli imputati alla pena capitale mediante fucilazione e alla confisca di tutti i
loro beni personali. Trockij Lev, attualmente all’estero, e suo figlio Sedov
Lev, i quali attraverso le deposizioni degli imputati Smirnov, Gol’tsman,
Dreister, Olberg, Fritz e Berman-Jurin, così come attraverso il materiale
dell’attuale processo furono dichiarati colpevoli della preparazione diretta e
della guida personale nell’organizzazione di atti terroristici nell’Unione
Sovietica contro i capi del Partito comunista dell’URSS e dello Stato sovietico
sono, nel caso in cui vengano trovati nel territorio dell’URSS, immediatamente
da arrestare e da consegnare al Tribunale del Collegio Militare della Suprema
Corte di Giustizia dell’URSS.”
Dal
punto di vista prettamente formale, giuridico, questa sentenza altro non faceva
che applicare delle norme scritte, ufficialmente violate dai sedici imputati.
La
questione importante, tuttavia, è un’altra.
Questi
sedici imputati veramente avevano violato l’articolo 58 del codice penale della
RFSFR, che puniva le attività
controrivoluzionarie con la pena capitale?
Davvero
avevano progettato di eliminare fisicamente i più alti dirigenti del partito,
Stalin su tutti?
Le
esecuzioni furono rese note ventiquattro ore dopo la sentenza.
Tutti
gli imputati, tranne Smirnov e Holtzman, che respinsero parzialmente le accuse,
interrogati da Andrej Januar’evic Vyšinskij, si erano dichiarati colpevoli dei
reati contestati.
Se
il primo processo era servito a eliminare “vere” opposizioni, quindi, anche
importanti personalità, nel secondo
processo, celebrato dal 23 al 30 gennaio 1937 e denominato il Processo dei
Diciassette, attraverso dirigenti importanti [Radek, Pjatakov, Sokol’nikov,
Serebrjakov, Arnold, Boguslavskij, Chestov, Drobnis, Hrasche, Livsic, Knjazev,
Muralov, Norkin, Pušin, Ratajcak, Stroilov e Turok], ma comunque di minore fama
rispetto ai sedici, si condannavano varie forme di sabotaggio, tutte
“personificate” durante la requisitoria di Vyšinskij. Il secondo processo di
Mosca fu solo il primo terribile evento del 1937, l’anticamera di una serie di
ondate repressive che di là a poco avrebbero investito un’elevata parte della
popolazione, il picco di un processo partito molti anni prima e legato alla
collettivizzazione delle campagne.
Ha, così, inizio l’epurazione di tutti
i quadri dirigenti del Partito Comunista dell’Unione Sovietica che potevano
fare ombra a Stalin, attuata dalla polizia segreta mediante assassinii, arresti
e deportazioni illegali e, soprattutto, attraverso processi farsa, basati su
prove e testimonianze false e conclusi, sempre, con la condanna, spesso a
morte, degli imputati.
Il
principale imputato rimase l’esule Lev Trockij ritenuto
sempre più pericoloso, soprattutto, dopo il processo di gennaio:
“Che ha svelato le intese segrete fra Trockij, Hitler e il Mikado.”
Carlo
Rosselli non condivide le posizioni trockijste; e, a volte,
lancia dure critiche e frecciate al fondatore dell’Armata Rossa, ma continua a
considerare tutti gli imputati di Mosca “rivoluzionari innocenti”. Sostenere
che i trockijsti rappresentino una corrente del movimento operaio, che siano
antifascisti e rivoluzionari, anche non condividendone le posizioni e magari
considerandole non poco “errate”; pensare che in un fronte antifascista unito
possa esservi un posto anche per loro, come per tutti coloro che desiderino
combattere il fascismo – posizione di Giustizia
e Libertà – rappresenta qualcosa di più di un grave errore.
Lo Stato Operaio n. 7-8 del
luglio-agosto 1937, rivista teorica del Partito Comunista d’Italia, edita a
Parigi, ricorda la tragica morte di Carlo Rosselli.
L’articolo a
firma di Mario Montagnana prosegue però tra l’altro in questo modo:
“La lotta antifascista è una cosa molto seria. L’atteggiamento dei
dirigenti di Giustizia e Libertà non è in questo caso, né politicamente né
ideologicamente, una cosa seria… “Giustizia e Libertà” non è oggi, un movimento
trockijsta, anche se nelle sue file si annidano alcuni
trockijsti notori. Ma tutte le posizioni attuali
di “Giustizia e Libertà” tendono a portare questo aggruppamento, lo vogliano o
non lo vogliano, i suoi dirigenti, verso il trockijsmo…
La posizione del trockijsmo verso il governo spagnolo è a tutti nota, come è nota la parte avuta dai trockijsti nei dolorosi fatti del maggio scorso a
Barcellona. La posizione di “Giustizia e Libertà” nei confronti del governo
spagnolo è sempre stata una posizione di diffidenza e di sospetto…
Di fronte ai fatti di Barcellona, “Giustizia e Libertà” ha assunto una
posizione formalmente agnostica, ma nella pratica piena di indulgenza e di
solidarietà con coloro che volevano pugnalare alla schiena la Repubblica. Il trockijsmo crede alla inevitabilità della guerra,
vuole la guerra, prepara la guerra. “Giustizia e Libertà”, senza assumere le
stesse posizioni trockijste, crede essa pure alla inevitabilità della guerra, e non può perciò
lottare per evitare la guerra. La posizione del trockijsmo, favorevole agli atti di terrore
individuale, è a tutti nota. Essa è caratteristica dei piccoli borghesi
esasperati. “Giustizia e Libertà” che non ha fiducia nelle masse, crede tuttora
all’importanza fondamentale delle azioni compiute da “nuclei di ardimentosi
contro l’apparato fascista”, cioè all’azione terroristica… Cosa dimostrano
questi fatti, ai quali molti altri potrebbero essere aggiunti? Essi dimostrano
che se oggi le posizioni di “Giustizia e Libertà” non coincidono in tutto con quelle
trockijste, esse ne rappresentano, per così dire l’embrione,
la fase iniziale. Spinte alle loro logiche conseguenze, esse, ripetiamo,
portano inevitabilmente al trockijsmo.”
Nel numero
seguente del settembre Lo Stato Operaio,
a una replica di Giustizia e Libertà,
prosegue sullo stesso tono, ma investendo in modo più diretto la questione
italiana: il dissenso appare profondo e difficilmente componibile.
Il problema
spagnolo e quello parallelo italiano divengono di attualità ancora più
scottante.
Nell’agosto
del 1936 – vedasi Lo Stato Operaio n. 8 dell’agosto
del 1936 – il famoso “appello” per la “riconciliazione
del popolo italiano!” in cui il Partito Comunista d’Italia
affermava:
“i comunisti fanno proprio il programma fascista del 1919, che è un
programma di libertà”, e le continue “mani tese”
nei confronti dei cattolici, lucidamente analizzati e criticati da Carlo Rosselli,
avevano, già, posto le prime basi dell’attuale dissenso tra Giustizia e Libertà e il Partito
Comunista d’Italia stalinizzato. Quest’ultimo, punta ancora a un possibilistico
recupero delle masse in Italia; Giustizia
e Libertà considera, invece, sotto questo profilo, soprattutto dopo l’avventura
etiopica, chiusa la partita: per Rosselli la guerra mondiale è inevitabile e l’unico
modo per contrastare il fascismo, in ogni dove, rimane il sabotaggio e l’azione
armata.
È un
dissenso tattico-strategico oltremodo profondo.
Non è nostro
compito addentrarci in analisi che potrebbero condurci a sfiorare la
fantapolitica, possiamo solo prendere atto delle preoccupazioni di fondo di Giustizia e Libertà e di Carlo Rosselli.
Carlo
Rosselli ha, anche, l’irritata consapevolezza che nulla si faccia per colpire
gli uomini del fascismo anche fisicamente, con tutti i mezzi; con l’azione
terroristica individuale, con attentati, sabotaggi, che fiaccassero il morale
dell’avversario, senza tregua, con un’azione se ci è permesso l’accostamento,
“vietnamizzante” della lotta. Agli storici futuri il giudizio su questa visione
globale.
Il Comitato
Centrale di Giustizia e Libertà,
immediatamente dopo la notizia della efferata uccisione, comunica:
“Noi accusiamo formalmente Benito Mussolini di aver dato ordine a sicari
fascisti di venire in Francia per assassinare Carlo e Nello Rosselli.”
Questa è, anche,
l’opinione generale.
Nel gennaio
del 1938, il Ministero dell’Interno francese annuncia alla stampa che gli
assassini dei fratelli Rosselli sono
stati individuati e arrestati.
Sono oscuri
sicari, membri del CSAR, Comité Secret d’Action Révolutionnaire,
associazione di estrema destra più nota sotto il nome di Cagoule [Cappuccio],
una specie di Ku-Klux-Klan francese. Il processo viene, nondimeno, insabbiato
in seguito a mutamenti politici nel Paese. Più tardi, durante il periodo
filonazista di Henri-Philippe-Omer Pétain, la Cagoule stessa sarà al governo. I cagoulards, comunque, sono stati, sempre,
considerati dei semplici esecutori su commissione: una partita di almeno 100
moschetti semiautomatici Beretta risultò essere stata il loro compenso. Alla
caduta del regime collaborazionista in Francia, il procedimento contro i cagoulards viene riaperto.
Fernand
Ladislas Jakubiez fa una dettagliata confessione:
“Erano accompagnati da una donna [la moglie di Carlo] che lasciarono alla
stazione di Bagnolles. A un certo punto, la vettura di Filiol, nella quale
stavo io, oltrepassò quella dei Rosselli e le tagliò la strada. Filiol scese
sulla strada con Baillet – con questo nome, che risultò poi inesatto, Jakubiez
tentò di coprire uno degli imputati deceduti – simulando una panne. La vettura
dei Rosselli si arrestò, Carlo rimase al volante. Il fratello scese. Filiol
era curvo innanzi alla vettura come se cercasse la panne, si rialzò bruscamente
e scaricò il suo parabellum contro Nello, che cadde. Baillet si precipitò sulla
vettura in cui si trovava Carlo, che stava al volante e sparò anche contro di
lui. Carlo fu ucciso sul colpo. Suo fratello, gravemente ferito, era caduto nel
fossato. Io lo colpii con pugnale, credo due o tre volte; Filiol lo finì in
seguito con l’arma che possedeva. Il pugnale che fu trovato sul luogo era mio.
Filiol conservò il suo. Era stato lui che ci aveva tutti armati con un pugnale
dello stesso modello. Puireux rimase al volante della sua macchina durante l’affare.
Gli occupanti della seconda macchina, che avevano veduto il delitto, girarono
su se stessi nella direzione di Parigi. Baillet ed io buttammo i due corpi nel
bosco, sui margini della strada. Filiol li aveva frugati e aveva preso su di
essi delle carte che furono spedite in Italia, come appresi in seguito. Io montai
sulla macchina delle vittime insieme con Baillet; l’abbandonammo dopo alcuni
chilometri.”
Eugène Deloncle
Jean-Marie Bouvyer
Jean Filiol
L’11 ottobre del 1948,
si apre davanti alle Assises de la Seine
il Processo della Cagoule, una
organizzazione clandestina paramilitare di estrema destra, creata nel 1936 dopo
la scioglimento delle leghe.
Un processo-fiume: 50 accusati presenti, 60 avvocati e 400 testimoni.
L’articolo di
Pierre Scize, apparso su Le Figaro
dell’11 ottobre 1948.
“Soixante-quatre accusés, quatre cents
témoins au procès de “la Cagoule”
Un grand procès?
Un long procès?
Tous les records de l’instruction judiciaire sont battus,
certains faits retenus par l’acte d’accusation remontant à 1937. Onze années, dont il faut défalquer
quatre ans d’occupation, pendant lesquelles les accusés jouirent de la liberté
et entretinrent les meilleurs rapports avec les maîtres du jour.
Qu’est-ce donc au juste que ces “Cagoulards”
au surnom destiné à frapper l’imagination populaire?
On imagine des conseils secrets sous des
arceaux gothiques avec manteaux couleur muraille, san-benito, cires ardentes,
poignards empoisonnés, serments exécrables, salles des supplices et autres
accessoires réjouissants. Inutile de dire que tout cela n’est que billevesées et roman-feuilleton.
La réalité, parée de toute autre couleur, a
cependant de quoi exciter l’intérêt des amateurs de romans d’aventures. Il
s’agit, en réalité, d’une «bande» comme celles dont Jules Romains nous a montré
la naissance et comme il en naquit beaucoup en Europe depuis trente ans. Bandes révolutionnaires pour qui tous les
moyens sont bons qui conduisent à la conquête du pouvoir. On en vit
naître et prospérer un peu partout: en Hongrie, en Russie, en Italie, en
Allemagne, en Espagne, en France. Leurs chefs mettaient en commun le même
appétit de puissance et de domination, la même absence de scrupule, la même
prédilection pour les moyens du terrorisme. La vie humaine comptait comme rien
à leurs yeux. L’opinion des masses était identiquement foulée aux pieds par ces
doctrinaires. Les fondements de la morale étaient subvertis. Les pires moyens
étaient employés à justifier une fin, toujours la même: l’avènement au pouvoir suprême du chef de la bande et de ses satellites
et complices.
Il est remarquable, et il est consolant
aussi, de constater que ces aventuriers qui firent couler tant de sang
accumulèrent tant de ruines et dont, hélas! la carrière n’est pas terminée,
réussirent -au moins pour un temps plus ou moins long- partout, sauf en France.
Anita Helmy, Expert en art moderne,
présente cinq artistes qui ont créé des œuvres fortement inspirées de Van Gogh.
Sommes-nous épargnés de la contagion par
notre esprit de mesure, notre peu de goût pour ces sortes?
Notre attachement aux valeurs
individuelles? Ou bien avons-nous, en ceci comme en beaucoup d’autres choses,
précédé de quelques lustres les autres nations dans la voie des aventures
dictatoriales et ces expériences nous ont-elles donné un terrible dégoût de la
chose?
Cette façon de nous montrer des précurseurs
ne serait pas pour déplaire au Français moyen.
Les “cagoulards”? Ce sont, pour la plupart, des hommes qui las de marquer le pas à la
manière des figurants d’opéra, derrière des chefs de chœur comme Maurras et
consorts, las de chanter: “Courons! Oui, courons!” sans bouger de place,
voulurent dépasser leurs chefs et prouver le mouvement en marchant. De la théorie
ils voulurent passer à la pratique. Ils
organisèrent des sociétés secrètes correspondant à divers degrés d’initiation: O.S.A.R.N.
[Organisation Secrète d’Action Révolutionnaire Nationale],
C.S.A.R. [Comité Secret d’Action révolutionnaire], Chevaliers du Glaive [pour
quelques attardés romantiques sans doute], U.C.A.D. [Union des Comités d’action
défensive] pour les troupes cotisantes de qui il n’y avait pas grand-chose à
atteindre sur le plan de l’action.
Tout de suite les conjurés se mirent au travail:
assassinats, meurtres, enlèvements, trafic d’armes, attentats à la bombe et
autres activités condamnables. Entre autres méfaits, on reproche aux «cagoulards»
l’assassinat du trafiquant d’armes Jean-Baptiste, de son complice Maurice Juif,
tous deux anciens camelots du roi: le meurtre de Navachine, agent soviétique
probable; de Laetitia Toureaux, indicatrice de police poignardée dans le métro;
des frères Roselli, tués près de Bagnoles-de-l’Orne; de Max Dormoy, ancien ministre de l’Intérieur, assassiné pendant son
sommeil, à Montélimar, durant l’occupation.
D’autres ne se gênent pas pour dire que les
principaux coupables ne seront pas à la barre. Beaucoup sont morts, d’autres
ont expié.
On les accuse d’avoir en outre été les
auteurs de l’attentat de la rue de Presbourg, qui causa la mort de deux
gardiens de la paix. On se rappelle aussi qu’une explosion, au cours de
laquelle quatorze jeunes soldats trouvèrent la mort, se produisit à l’annexe du
laboratoire municipal de Villejuif, où l’on entreposait les caisses de grenades
saisies dans les différents “arsenaux” de la Cagoule.
Affaires infiniment ramifiées portant sur
plusieurs années et mettant en cause les personnalités les plus diverses. Depuis le simple idéologue, admirateur des
théories de la violence chères à Georges Sorel; jusqu’à de sinistres hommes de
main, tueurs, agents de basses besognes.
C’est donc un monde très mêlé qui se lèvera
aujourd’hui à l’appel du président Ledoux. Coupables et comparses, théoriciens
et exécutants, ils sont soixante-quatre
appelés. Quelques-uns sont en fuite et personne ne peut affirmer même qu’ils
vivent encore.
Des affaires annexes, évoquées devant
d’autres tribunaux, sont inextricablement mêlées à celles-ci. La Cour devra
disjoindre quelques dossiers. Elle se
propose d’entendre à peu près quatre cents témoins.
Ira-t-elle même au terme de sa tâche et
produira-t-elle un verdict avant la fin de l’automne?
Il est des gens autorisés, au Palais même,
pour en douter.
D’autres ne se gênent pas pour dire que les principaux
coupables ne seront pas à la barre.
Beaucoup sont morts, d’autres ont expié, tel Joseph Darnand, ex-chef de la Milice,
inculpé de meurtre de Maurice Juif; d’autres
enfin ont disparu sans laisser de traces dans le grand remous de la guerre.
Encore une fois, on retiendra au bénéfice
de notre pays que c’est un des rares en
Europe, avec l’Angleterre, les pays flamands et les démocraties Scandinaves, à
ne pas s’être laissé entraîner aux pires aventures par des ambitieux, des
illuminés ou des fous.”
Il primo febbraio del 1935, François-Maurice-Adrien-Marie Mitterrand partecipa alla
manifestazione dell’Action Française contro
i medici stranieri autorizzati a esercitare in Francia, al grido di La France aux Français. La sua
partecipazione questa manifestazione è attestata da due foto, pubblicate su Les Camelots du Roi di Maurice Pujo, in
cui François Mitterrand appare dinanzi a un cordone di agenti di polizia.
Nel dicembre del 1942, Mitterrand
scrive nel giornale ufficiale di Vichy, France,
revue de l’Etat nouveau:
“Se la Francia non vuole morire in questa melma, gli
ultimi francesi degni di questo nome devono dichiarare una guerra senza
quartiere a tutti quanti, all’interno come all’estero, si preparano ad aprirne
le dighe: ebrei, massoni, comunisti… sempre gli stessi e tutti gollisti.”
Di fronte a tali affermazioni non si possono avere dubbi
circa la prima fede petainista e filofascista del giovane François, che, nel
1942, ha solo ventisei anni.
L’anno successivo, nel 1943,
Mitterrand, che in primavera è stato decorato dell’ordine della Francisque – una distinzione onorifica
del regime di Vichy – , dopo un incontro difficile con il generale Charles de
Gaulle, entra nella Resistenza gollista, conservando peraltro le sue mansioni
presso l’amministrazione di Vichy.
Come si può spiegare
l’atteggiamento di François Mitterrand, protettore con la sua dottrina dei terroristi
di estrema sinistra?
È un problema storico di notevole
entità, che mette in luce, ancora una volta, le contraddizioni della Storia
europea tuttora aperte e le difficoltà a superare l’eredità del fascismo, in
Italia come in Francia.
Tutto inizia con un matrimonio, nel 1939, tra Robert Mitterrand, fratello
maggiore di François, con Edith Cahier, figlia di un ufficiale di artiglieria.
In sé, nulla di strano, se non fosse che Paul Cahier è un parente di Eugène
Deloncle, leader di una
organizzazione terroristica di destra, la Cagoule
e detenuto nella Prison de la Santé,
dal 1937, per complotto contro la Repubblica. La famiglia Mitterand, dunque,
acconsente a una unione con persone opinabili.
Mitterrand era stato di destra e aveva militato nella Cagoule in gioventù e si era trasformato in un presidente
socialista che aveva riportato la sinistra al Potere.
Chi faceva parte della Cagoule?
Soltanto i fascisti francesi e i loro confratelli italiani?
O anche personaggi che dopo la Liberazione avrebbero fatto parte
di altre forze, opposte, nello schieramento repubblicano?
Certo, avere militato a venti anni
nella Cagoule e avere accettato, dopo
la guerra, un posto da Schueller, ex-finanziatore della Cagoule, non fa di Mitterand un complice dei crimini della Cagoule al pari delle migliaia di
collaboratori dell’Oréal, ma può
essere assolto dall’avere oscurato un delitto compiuto dai peggiori fascisti
del suo Paese, servi del fascismo europeo, a distanza di più di cinquanta anni
ed essere restato fedele al suo clan e ai suoi amici?
Negli Anni Cinquanta, il generale
Charles de Gaulle aveva posto il veto al fascicolo sulla Cagoule negli Archivi di Stato francesi. I presidenti gollisti che
gli succedettero hanno mantenuto quel veto e nessuno storico ha mai potuto
consultare il fascicolo che riguarda il duplice assassinio dei fratelli
Rosselli.
Negli Anni Ottanta e Novanta,
quando Mitterrand è eletto presidente della Repubblica, non ha tolto il veto
posto da de Gaulle agli inizi della Repubblica sul caso della Cagoule, di contro, fino al 1992,
deporrà una corona di fiori sulla tomba di Henri-Philippe-Omer Pétain.
Eugène-Paul-Louis
Schueller
[1881-1957] nel suo laboratorio [1920].
In un breve
comunicato, diffuso la notte del 3 Febbraio 2004, L’Oréal, il gigante della cosmesi, annunciava la ristrutturazione
del suo capitale. La famiglia Bettencourt e il gruppo Nestlé, che detenevano la maggioranza de L’Oréal attraverso l’intermediazione della holding di controllo Gasparal,
fondata da Schueller durante la Seconda Guerra Mondiale, sarebbero stati i suoi
diretti proprietari. Scompariva, dunque, la holding
di controllo. L’ereditiera del gruppo,
Liliane Bettencourt,
figlia di Eugène Paul Louis Schueller diveniva la donna più ricca di Francia.
La storia del
gruppo mette in luce il volto nascosto della politica francese contemporanea.
Liliane Schueller, figlia di Eugène-Paul-Louis
Schueller e moglie di André
Bettencourt, proprietaria de L’Oréal.
André
Bettencourt
Il 15 ottobre 1942, François Mitterrand e Marcel Barrois
incontrano il maresciallo Henri-Philippe-Omer Pétain all’Hôtel du Parc, sede del Governo di Vichy.
François Mitterrand e Sandro Pertini
François
Mitterrand e l’Abbé Pierre [Henri-Antoine Grouès], ideologo della Dottrina
Mitterand e difensore delle Brigate Rosse.
Il 16 marzo del
1978, Innocente Salvoni, la cui moglie, Françoise Tuscher, è segretaria
dell’istituto francese Hyperion, nonché nipote dell’Abbé Pierre, viene
riconosciuto da due testimoni come uno dei membri del commando brigatista che,
in via Fani, aveva sequestrato Aldo Moro.
Il generale Gianadelio Maletti rivelò l’esistenza di un rapporto
datato 1975, in cui denunciava il rischio che le BR, decapitate dagli arresti di Curcio e Franceschini, potessero
rinascere sotto la direzione di uomini di maggiore peso culturale, ma a prezzo
di mutare considerevolmente la propria matrice politica.
Un riferimento all’Hyperion?
Nell’autunno 1977,
l’Hyperion apre un ufficio di
rappresentanza a Roma in via Nicotera 26. Nello stesso stabile operano alcune
società coperte dal SISMI. Gli uffici
restano aperti, fino al giugno del 1978, ossia per l’arco temporale che va
dalla progettazione del sequestro di Aldo Moro, fino a poco dopo il suo tragico
epilogo.
Giovanni
Pellegrino, per sette anni, alla guida della Commissione Stragi, avanzò il
sospetto che Hyperion fosse un punto
d’incrocio tra Servizi segreti dell’Ovest e dell’Est, assolutamente necessario
nella logica del mantenimento degli equilibri di Yalta. Equilibri che Aldo
Moro, con la sua politica di apertura al PCI,
minava gravemente.
Pellegrino
rintraccia un riferimento all’Hyperion
nella testimonianza del generale Nicolò Bozzo, fidato collaboratore del
generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Bozzo ha raccontato in sede giudiziaria
che dalla Chiesa gli aveva chiesto di indagare su “una struttura segreta paramilitare con funzione organizzativa
antinvasione, ma che aveva poi debordato in azioni illegali e con funzioni di
stabilizzazione del quadro interno, struttura che poteva aver avuto origine sin
dal periodo della Resistenza, attraverso infiltrazioni nelle organizzazioni di
sinistra e attraverso un controllo di alcune organizzazioni”.
Ecco come il
giudice Carlo Mastelloni ricorda l’incontro con l’Abbé Pierre che, a metà degli
Anni Ottanta, si presentò al Tribunale di Venezia:
“Era venuto dalla Francia per rendere dichiarazioni spontanee in
favore del gruppo di italiani residenti a Parigi che ruotavano intorno alla
scuola di lingue Hyperion. Avevo emesso contro di loro una serie di mandati di
cattura per reati che avevano a che fare con il terrorismo rosso. Venne a dirmi
che erano persone perseguitate da una centrale legata alla destra, che li aveva
accolti in seno alla sua organizzazione, che al massimo avevano commesso errori
di gioventù.
Fece otto giorni di sciopero della fame. Mi resi conto che l’Abate
era una specie di referente dell’Hyperion anche perché sua nipote Françoise
Tuscher, segretaria della scuola, era la moglie di uno dei ricercati, Innocente
Salvoni. La foto di Salvoni fu diffusa dal ministero dell’Interno il giorno del
rapimento dello statista dc assieme a quella di altri 19 latitanti, sospettati
di essere coinvolti nell’agguato di via Fani. Ma non venne più riproposta nelle
settimane dopo.
Sappiamo poi che durante il sequestro, l’Abbé si recò nella sede
della Dc a piazza del Gesù per parlare con il segretario del partito,
Zaccagnini. Ma non sappiamo se lo incontrò e cosa si dissero.
L’Abbé Pierre era un eroe della Resistenza, un uomo che aveva
una visione superiore di come vanno le cose, aveva l’atteggiamento di chi
vedeva lo scenario completo.”
Negli Anni Settanta
opera, a Parigi, una scuola di lingue che è stata al centro di inchieste
giudiziarie. Un istituto ritenuto ambiguo, come enigmatico è uno dei suoi
fondatori, Corrado Simioni.
François Mitterrand, Giulio Andreotti, Nilde Iotti e Gianni De Michelis.
Il processo
dei cagoulards si svolse alle Assise
di Parigi dall’11 al 18 novembre 1948. 20 anni di lavori forzati per Métenier,
lavori forzati a vita per Jakubiez e 4 anni di lavori forzati per Puireux. Tra
i latitanti che furono condannati a morte, alcuni risultarono, negli anni 1950,
tranquillamente viventi a Parigi.
Da chi erano
partiti gli ordini ai cagoulards?
La risposta avrebbe dovuto essere fornita dall’Alta Corte di Giustizia per la Punizione dei
Crimini Fascisti, riunitasi dal 29 gennaio al 12 marzo 1945.
Henri-Philippe-Omer Pétain e Adolf Hitler.
Furono condannati in un primo tempo Filippo Anfuso,
ex-capo di gabinetto di Galeazzo Ciano ed esponente della Repubblica di Salò,
il capo del SIM, Servizio Informazioni Militari, generale Mario Roatta – era stato
per qualche tempo comandante delle forze fasciste italiane in Spagna –
rispettivamente a morte e all’ergastolo; il colonnello dei carabinieri Santo
Emanuele del SIM che ammise di avere ricevuto l’ordine di eliminare Carlo Rosselli,
ordine giunto da Ciano, ebbe l’ergastolo. Medesima pena anche al maggiore dei
carabinieri Roberto Navale, latitante, capo del controspionaggio a Torino, al
quale era stato trasmesso l’ordine da Emanuele. Roatta fuggì durante il
processo. Rientrò in Italia solo nel 1966, dopo la revoca della sentenza. Altre
pene vennero, poi, inflitte ad altri personaggi minori.
Innumerevoli ricorsi si succedettero, per ben quattro
anni, sicché si giunse, il 14 ottobre 1949, presso la Corte di Assise di
Perugia, all’assoluzione con formula piena per Anfuso e per insufficienza di
prove per Emanuele e navale.
Ecco le parti più significative della sconcertante
sentenza:
“Però la Corte non può dissimularsi un
dubbio, tenue è vero, ma sempre un dubbio; che nel torbido mondo del fuoriuscitismo
internazionale in Francia potessero fermentare oscure tragedie e che vittime di
una di queste possa anche essere stato Carlo Rosselli. Non è dato, cioè, di
escludere che, avuto riguardo all’ambiente dove il delitto è avvenuto, si
svolgesse, magari all’insaputa di Emanuele e di Navale, qualche attività
criminosa parallela alla loro, e che essi abbiano invece potuto credere che all’opera
loro, in seguito alla coincidenza nel tempo, l’uccisione si dovesse; in modo da
arrogarsene, come hanno fatto, il merito. In conseguenza di questo dubbio sia
pur vago ed affidato a supposizioni incerte, la Corte ravvisa di assolvere i
ripetuti Navale ed Emanuele per insufficienza di prove dall’addebito dell’omicidio
di Carlo Rosselli.
Che quello di Nello Rosselli, trovandosi
casualmente col fratello, fosse causato dal suo tentativo di resistenza… è
opera propria ed esclusiva dei “cagoulards”. Quindi gli imputati debbono essere
assolti dall’addebito relativo per non aver commesso il fatto, nulla essendo
risultato a loro carico.
Che nei riguardi dell’Anfuso per l’omicido
di Carlo Rosselli non è emerso il minimo elemento di prova.”
Scriveva
Indro Montanelli, venti anni fa:
“Dopo la Liberazione, si cercò di ricostruire quell’infame
delitto sugli archivi della polizia fascista, e soprattutto di quella segreta
dell’OVRA. Da Senise, che della polizia era stato, dopo Bocchini, il capo, ma
aveva esercitato il suo mandato in maniera ineccepibile, seppi che i
protagonisti di quella nobile impresa erano stati i Cagoulards, i fascisti
francesi, da sempre sul libro paga dell’OVRA, ma niente indicava che essi
avessero agito su sua richiesta. Correva voce che a darne ordine fosse stato
Ciano, allora Ministro degli Esteri.
Ma Senise non ci credeva. “Ciano – mi disse era un ometto di
peso leggero, ma non un sanguinario: un’impresa del genere era più grande di
lui”. Comunque l’accusa coinvolse Filippo Anfuso, che di Ciano era stato capo
di gabinetto ed accorto consigliere; e che, catturato a Berlino come
ambasciatore di Salò, era stato consegnato ai tribunali francesi [quelli della
Liberazione] che stavano istruendo il processo contro i residui Cagoulards.
Anch’esso era accusato di essere stato un loro mandante ma fu
scagionato ed assolto per assoluta mancanza di prove.
Al suo ritorno in Italia, ne parlai varie volte con lui [eravamo amici di
vecchia data]. Alla domanda: “Ma perché i Cagoulards presero l’iniziativa senza
averne ricevuto l’ordine da chi li pagava?” rispose “Forse per dimostrare che
il salario se lo meritavano!”
Indro Montanelli, Corriere della Sera,
9 febbraio 1999.
Gli ultimi momenti di Carlo Rosselli e di suo
fratello, così come le trame precise del delitto di Bagnoles-de-l’Orne,
rimangono tuttora, comunque, coperti da un velo di mistero.
Esistono, innanzitutto, a esempio molte
contraddizioni, tra la confessione di Jakubiez, il cagoulard, le constatazioni, seppure vaghe, fatte da pochi
testimoni e le dichiarazioni dei funzionari di polizia, prima e dopo la perizia
necroscopica. Quest’ultima aveva confermato sostanzialmente solo un’aggressione
all’arma bianca, mentre dal processo ai cagoulards
risultò, in primo piano, determinante, l’uso delle armi da fuoco.
Come mai Hélène Besneux giunta sul luogo del delitto,
quando ancora vi sostavano due auto e cioè poco dopo il delitto, non dichiarò
di avere udito il rumore di spari?
Il problema del coltello rinvenuto presso i cadaveri
costituisce, poi, un autentico enigma: infatti, la perizia compiuta
immediatamente sull’arma, escluse che fosse servita per il delitto, mentre per
Jakubiez, risulta essere stato usato da lui stesso per colpire Nello.
Che dire poi della scritta in italiano, eseguita a
inchiostro “Eroi fascisti”?
E della R
incisa?
Non mancano, certo, in questa vicenda, gli elementi
inquietanti di un vero e proprio giallo.
Un altro interrogativo ancora più sconcertante è
costituito dall’impossibilità di stabilire con certezza se si sia trattato di
un agguato o di un appuntamento.
Nell’ipotesi di una imboscata, come poté accadere che
Carlo Rosselli, portato a concepire militarmente ogni suo passo e ogni suo
gesto, che mai abbandonava la sua pistola automatica di grosso calibro, ben
consapevole di essere uno dei bersagli più ambiti del nemico fascista, potesse
così ingenuamente cadere in un tranello simile a quello descritto da Jakubiez?
Mario Roatta
Agli inizi del 1936, solo per citare una controprova,
aveva smascherato un certo Zanatta con uno stile e una prontezza di riflessi
che non possono lasciare dubbi. Zanatta andava affermando di avere disertato,
per avversione al regime, dall’incrociatore fascista Trento a Suez e aveva
preso a frequentare l’ambiente dei fuoriusciti. Carlo gli diede un appuntamento
a casa sua. Lo smascherò all’istante, scostandogli la giacca con gesto sicuro e
scoprendo, infatti, alla cintura una pistola con un proiettile in canna. Messo
alle strette Zanatta confessò di essere un agente fascista.
Nel caso si voglia, invece, prendere in considerazione
la tesi dell’appuntamento, si spiegherebbe quella che venne ritenuta un’imperdonabile
ingenuità. In questo caso, si può correttamente pensare che Carlo Rosselli
conoscesse, perfettamente, almeno qualcuno dei suoi assassini: agenti del
doppio gioco.
È risaputo, sempre secondo le affermazioni degli
inquirenti, che Carlo e Nello, all’indomani del giorno dell’assassinio, il
giorno 10, avrebbero lasciato la stazione termale.
Come mai per sole ventiquattro ore Carlo non partì
insieme a Marion per Parigi?
Nello sarebbe ripartito per Firenze e Carlo, entro
breve tempo, sarebbe rientrato in Spagna, nonostante il permanere dei suoi
disturbi di salute, persuaso che, proprio in quei giorni, si sarebbero avuto
momenti difficili e che la sua permanenza sarebbe stata importante.
Proiettato di nuovo verso la Spagna, avrebbe cercato
di chiarire, definitivamente, a se stesso gli angoscianti quesiti che si
stavano profilando all’orizzonte.
Commemorazione dell’
82° anniversario della morte dei fratelli Rosselli.
Diego Abad de Santillán, pseudonimo di Sinesio
Baudilio García Fernández.
È estremamente emozionante ricordare qui un’intervista
rilasciata a Buenos Aires, il 22 dicembre 1975, dall’anziano esule anarchico Diego Abad de Santillán,
pseudonimo di Sinesio Baudilio García
Fernández, amico di Carlo, proprio colui che con Camillo Berneri aveva steso,
nell’agosto del 1936, l’Atto Costitutivo della Colonna Rosselli. Alla domanda:
“Tra i combattenti
italiani in Spagna hai conosciuto bene sia i comunisti italiani che Carlo
Rosselli?”
Diego Abad de Santillán ha così risposto:
“Sì, ma Carlo era
tutt’altra cosa. Un socialista libertario, praticamente come noi. Organizzò per
primo un gruppo di volontari internazionali e combatté sul fronte di Huesca.
Quando andai a trovarlo, aveva contratto una flebite e dovette lasciare il
fronte. Lo incontrai di nuovo a Marsiglia e si offerse di aiutarmi nella
conduzione dell’economia, dal momento che non poteva più combattere. Ma con lui
dovevo essere sincero: “Sono all’opposizione in Catalogna e a Madrid”, gli
dissi, “sono contro l’intervento di Stalin in Spagna: non voglio che ti
complichi la situazione stando con me.” Otto giorni più tardi Mussolini lo fece
uccidere. Se lo avessi fatto venire con me lo avrebbero ucciso gli stalinisti.
Proprio così: o l’uccidevano i fascisti o l’uccidevano gli stalinisti in
Spagna.”
L’incontro, proprio come afferma Diego Abad de
Santillán, avvenne a Marsiglia, alla fine di maggio o il primo di giugno,
perché Rosselli, partito da Parigi, il 27 maggio, non andò direttamente a
Bagnoles-de-l’Orne.
Così, come è sempre stato lampante che Carlo
Rosselli fosse uno dei più attivi e accesi dirigenti del movimento antifascista
e, quindi, che la sua morte fosse voluta e cercata in ogni momento e con ogni
mezzo dal regime di Benito Mussolini, sono, invece, sempre stati discussi e
oscurati da ombre mai fugate i meccanismi e la dinamica dei collegamenti che
condussero alla tragedia del Parco di Couterne.
Daniela Zini
Copyright © 2 dicembre 2019 ADZ
Sulla Battaglia di Valle Giulia, Pier Paolo Pasolini scrisse Il PCI ai
giovani, in cui affermò di simpatizzare con i poliziotti. Questa presa di
posizione costò allo scrittore un ulteriore isolamento all’interno del PCI. A
guidare l’attacco contro la polizia furono, congiuntamente, gli esponenti del
nascente movimento studentesco e del movimento di estrema destra Avanguardia Nazionale Giovanile, guidati
da Stefano Delle Chiaie. Avanguardia
Nazionale Giovanile era supportata da alcuni esponenti del FUAN-Caravella, di Primula Goliardica e del MSI.
Tra i partecipanti agli scontri
di Valle Giulia, vicini al movimento studentesco, ritroviamo il regista Paolo
Pietrangeli, che all’episodio dedicò la famosa canzone Valle Giulia [https://www.youtube.com/watch?v=_SS116Hdnkw],
divenuta un simbolo del movimento sessantottino; Giuliano Ferrara, che rimase
ferito; Paolo Liguori; Aldo Brandirali; Ernesto Galli Della Loggia; Oreste
Scalzone e tra i poliziotti Michele Placido, futuro attore.
Al termine
degli scontri, i militanti guidati da Delle Chiaie e il FUAN occuparono la Facoltà di Giurisprudenza; mentre gli studenti
di sinistra occuparono la Facoltà di Lettere. Si registrarono 4 arrestati, 228
fermati, 148 feriti tra le forze dell’ordine e 478 tra gli studenti.
Otto automezzi
della polizia furono incendiati e cinque pistole sottratte agli agenti.
Quel
Primo Marzo a Valle Giulia studenti di destra e di sinistra insieme danno
scacco alle forze dell’ordine.
“Non siam scappati più, non siam
scappati più!”
Si
assiste a una rivolta generazionale, apparentemente, estranea alla dicotomia
fascismo-antifascismo, tanto cara ai partiti. E, infatti, il primo a
intervenire sarà Giorgio Almirante, subito accorso all’Università, con il suo
servizio d’ordine, a mettere in riga gli studenti di destra, minacciandoli e
sconfessandoli; il secondo sarà Pasolini, con il controverso testo poetico Il Pci ai giovani, destinato a Nuovi argomenti e pubblicato in estratto
da l’Espresso, il 16 giugno 1968, con
il titolo Vi odio, cari studenti.
Nel commentare su l’Espresso, questo suo componimento,
Pier Paolo Pasolini prova a precisare “che
questi brutti versi, e cioè non chiari, io li ho scritti su più registri
contemporaneamente: e quindi sono tutti “sdoppiati” cioè ironici e autoironici.
Tutto è detto tra virgolette. Il pezzo sui poliziotti è un pezzo di ars retorica, che un notaio bolognese impazzito
potrebbe definire, nella fattispecie, una captatio malevolentiae: le virgolette
sono perciò quelle della provocazione”. L’unico brano non provocatorio,
riferisce Pasolini, “è quello parentetico
finale. Qui sì pongo, sia pure attraverso lo schermo ironico e amaro [non
potevo convertire di colpo il démone che mi ha frequentato, subito dopo la battaglia
di Valle Giulia – e insisto sulla cronologia anche per i non filologi], un
problema “vero”: nel futuro si colloca un dilemma: guerra civile o
rivoluzione?”. E ancora: “La
borghesia sta trionfando, sta rendendo borghesi gli operai, da una parte, e i contadini
ex coloniali, dall’altra.” Infine, “attraverso il neo-capitalismo la borghesia
sta per diventare la società stessa, sta per coincidere con la storia del
mondo”.
Tornerà altre volte
sull’argomento, in particolare, lo farà, il 17 maggio 1969, nella sua rubrica Il Caos, sul settimanale Tempo illustrato:
“Proprio un anno fa ho scritto
una poesia sugli studenti, che la massa degli studenti, innocentemente, ha
“ricevuto” come si riceve un prodotto di massa: cioè alienandolo dalla sua
natura, attraverso la più elementare semplificazione. Infatti quei miei versi,
che avevo scritto per una rivista “per pochi”, “Nuovi Argomenti”, erano stati
proditoriamente pubblicati da un rotocalco, “L’Espresso” [io avevo dato il mio
consenso solo per qualche estratto]: il titolo dato dal rotocalco non era il
mio, ma era uno slogan inventato dal rotocalco stesso, slogan [Vi
odio, cari studenti] che si è impresso nella testa
vuota della massa consumatrice come se fosse cosa mia. Potrei analizzare a uno
a uno quei versi nella loro oggettiva trasformazione da ciò che erano [per
“Nuovi Argomenti”] a ciò che sono divenuti attraverso un medium di massa
[“L’Espresso”]. Mi limiterò a una nota per quel che riguarda il passo sui
poliziotti. Nella mia poesia dicevo, in due versi, di simpatizzare per i
poliziotti, figli di poveri, piuttosto che per i signorini della facoltà di
architettura di Roma […]; nessuno dei consumatori si è accorto che questa non
era che una boutade,
una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del
lettore, e dirigerla su ciò che veniva dopo, in una dozzina di versi, dove i
poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescio, in quanto
il potere oltre che additare all’odio razziale i poveri – gli spossessati del
mondo – ha la possibilità anche di fare di questi poveri degli strumenti,
creando verso di loro un’altra specie di odio razziale; le caserme dei
poliziotti vi erano dunque viste come “ghetti” particolari, in cui la “qualità
di vita” è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università.”
Ma per quanto Pasolini
argomenti, «ormai la frittata era fatta».
“[…]Il
Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo
dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto
il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a
spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti”
perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva]
esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non
arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli
studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che
non è borghese”.
Ma ormai la frittata era fatta e
sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per
la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show,
scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.
Ogni volta che si manifesta il
conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha
chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la
polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla
violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in
faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola
Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi
eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di
papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o
popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.
Ho però il sospetto che il
mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe
“appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75
nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi
come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i
rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli
tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari […].”
“2 giugno: sull’“Unità” in
prima pagina c’è il titolo delle grandi occasioni e suona: “Viva la repubblica
antifascista.” Certo, viva la repubblica antifascista. Ma che senso reale ha
questa frase? Cerchiamo di analizzarlo. Essa in concreto nasce da due fatti,
che la giustificano del resto pienamente: 1] La vittoria schiacciante del “no”
il 12 maggio, 2] la strage fascista di Brescia del 28 dello stesso mese. La
vittoria del “no” è in realtà una sconfitta non solo di Fanfani e del Vaticano,
ma, in certo senso, anche di Berlinguer e del partito comunista. Perché?
Fanfani e il Vaticano hanno dimostrato di non aver capito niente di ciò che è
successo nel nostro paese in questi ultimi dieci anni: il popolo italiano è
risultato – in modo oggettivo e lampante – infinitamente più “progredito” di
quanto essi pensassero, puntando ancora sul vecchio sanfedismo contadino e
paleoindustriale. Ma bisogna avere il coraggio intellettuale di dire che anche
Berlinguer e il partito comunista italiano hanno dimostrato di non aver capito
bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni. Essi infatti non
volevano il referendum; non volevano la “guerra di religione” ed erano
estremamente timorosi sull’esito positivo delle votazioni. Anzi, su questo
punto erano decisamente pessimisti. La “guerra di religione” è risultata invece
poi un’astrusa, arcaica, superstiziosa previsione senza alcun fondamento. Gli
italiani si sono mostrati infinitamente più moderni di quanto il più ottimista
dei comunisti fosse capace di immaginare. Sia il Vaticano che il Partito
Comunista hanno sbagliato la loro analisi sulla situazione “reale” dell’Italia.
Sia il Vaticano che il partito comunista hanno dimostrato di aver osservato
male gli italiani e di non aver creduto alla loro possibilità di evolversi
anche molto rapidamente, al di là di ogni calcolo possibile. Ora il Vaticano
piange sul proprio errore. Il PCI invece, finge di non averlo commesso ed
esulta per l’insperato trionfo.
Ma è stato proprio un vero trionfo? Io ho delle buone ragioni per
dubitarne. Ormai è passato quasi un mese da quel felice 12 maggio e posso
perciò permettermi di esercitare la mia critica senza temere di fare del
disfattismo inopportuno. La mia opinione è che il cinquantanove per cento dei
“no”, non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo, del
progresso e della democrazia: niente affatto: esso sta a dimostrare invece due
cose: 1] che i “ceti medi” sono radicalmente – direi antropologicamente –
cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali
ma sono i valori [ancora vissuti solo esistenzialmente e non “nominati”]
dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza
modernistica di tipo americano. É stato lo stesso Potere – attraverso lo
“sviluppo” della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del
consumo, la moda, l’informazione [soprattutto, in maniera imponente, la
televisione] – a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori
tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo. 2] che l’Italia
contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo
posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa
borghesizzazione, del tipo che ho accennato qui sopra [modernizzante, falsamente
tollerante, americaneggiante ecc.]. Il “no” è stato una vittoria,
indubbiamente. Ma la reale indicazione che esso dà è quella di una “mutazione”
della cultura italiana: che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che
dal progressismo socialista. Se così stanno le cose, allora, che senso ha la
“Strage di Brescia” [come già quella di Milano]? Si tratta di una strage
fascista, che implica dunque una indignazione antifascista? Se son le parole
che contano, allora bisogna rispondere positivamente. Se sono i fatti allora la
risposta non può essere che negativa; o per lo meno tale da rinnovare i vecchi
termini del problema. L’Italia non è mai stata capace di esprimere una grande
Destra. È questo, probabilmente, il fatto determinante di tutta la sua storia
recente. Ma non si tratta di una causa, bensì di un effetto. L’Italia non ha
avuto una grande Destra perché non ha avuto una cultura capace di esprimerla.
Essa ha potuto esprimere solo quella rozza, ridicola, feroce destra che è il
fascismo. In tal senso il neo-fascismo parlamentare è la fedele continuazione
del fascismo tradizionale. Sennonché, nel frattempo, ogni forma di continuità
storica si è spezzata. Lo “sviluppo”, pragmaticamente voluto dal Potere, si è
istituito storicamente in una specie di epochè, che ha radicalmente
“trasformato”, in pochi anni, il mondo italiano. Tale salto “qualitativo”
riguarda dunque sia i fascisti che gli antifascisti: si tratta infatti del
passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo [il popolo] e di umanesimo cencioso
[i ceti medi] da un’organizzazione culturale arcaica, all’organizzazione
moderna della “cultura di massa”. La cosa, in realtà, è enorme: è un fenomeno,
insisto, di “mutazione” antropologica. Soprattutto forse perché ciò ha mutato i
caratteri necessari del Potere. La “cultura di massa”, per esempio, non può
essere una cultura ecclesiastica, moralistica e patriottica: essa è infatti
direttamente legata al consumo, che ha delle sue leggi interne e una sua
autosufficienza ideologica, tali da creare automaticamente un Potere che non sa
più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbìe affini.
L’omologazione «culturale» che ne è derivata riguarda tutti: popolo e
borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che
si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai
la stessa. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una
scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi
cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista.
Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante,
fisicamente, interscambiabili. Nel comportamento quotidiano, mimico, somatico
non c’è niente che distingua – ripeto, al di fuori di un comizio o di un’azione
politica – un fascista da un antifascista [di mezza età o giovane: i vecchi, in
tal senso possono ancora esser distinti tra loro]. Questo per quel che riguarda
i fascisti e gli antifascisti medi. Per quel che riguarda gli estremisti, l’omologazione
è ancor più radicale. A compiere l’orrenda strage di Brescia sono stati dei
fascisti. Ma approfondiamo questo loro fascismo. È un fascismo che si fonda su
Dio? Sulla Patria? Sulla Famiglia? Sul perbenismo tradizionale, sulla moralità
intollerante, sull’ordine militaresco portato nella vita civile? O, se tale
fascismo si autodefinisce ancora, pervicacemente, come fondato su tutte queste
cose, si tratta di un’autodefinizione sincera? Il criminale Esposti – per fare
un esempio – nel caso che in Italia fosse stato restaurato, a suon di bombe, il
fascismo, sarebbe stato disposto ad accettare l’Italia della sua falsa e
retorica nostalgia? L’Italia non consumistica, economa e eroica [come lui la
credeva]? L’Italia scomoda e rustica? L’Italia senza televisione e senza
benessere? L’Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio? L’Italia con le
donne chiuse in casa e semi-velate? No: è evidente che anche il più fanatico
dei fascisti considererebbe anacronistico rinunciare a tutte queste conquiste
dello “sviluppo”. Conquiste che vanificano, attraverso nient’altro che la loro
letterale presenza – divenuta totale e totalizzante – ogni misticismo e ogni
moralismo del fascismo tradizionale. Dunque il fascismo non è più il fascismo
tradizionale. Che cos’è, allora? I giovani dei campi fascisti, i giovani delle
SAM, i giovani che sequestrano persone e mettono bombe sui treni, si chiamano e
vengono chiamati “fascisti”: ma si tratta di una definizione puramente
nominalistica. Infatti essi sono in tutto e per tutto identici all’enorme
maggioranza dei loro coetanei. Culturalmente, psicologicamente, somaticamente –
ripeto – non c’è niente che li distingua. Li distingue solo una «decisione»
astratta e aprioristica che, per essere conosciuta, deve essere detta. Si può
parlare casualmente per ore con un giovane fascista dinamitardo e non
accorgersi che è un fascista. Mentre solo fino a dieci anni fa bastava non dico
una parola, ma uno sguardo, per distinguerlo e riconoscerlo. Il contesto
culturale da cui questi fascisti vengono fuori è enormemente diverso da quello
tradizionale. Questi dieci anni di Storia italiana che hanno portato gli
italiani a votare “no” al referendum, hanno prodotto – attraverso lo stesso
meccanismo profondo – questi nuovi fascisti la cui cultura è identica a quella
di coloro che hanno votato “no” al referendum. Essi sono del resto poche
centinaia o migliaia: e, se il governo e la polizia l’avessero voluto, essi
sarebbero scomparsi totalmente dalla scena già dal 1969. Il fascismo delle
stragi è dunque un fascismo nominale, senza un’ideologia propria [perché
vanificata dalla qualità di vita reale vissuta da quei fascisti], e, inoltre,
artificiale: esso è cioè voluto da quel Potere, che dopo aver liquidato, sempre
pragmaticamente, il fascismo tradizionale e la Chiesa [il clerico-fascismo che
era effettivamente una realtà culturale italiana] ha poi deciso di mantenere in
vita delle forze da opporre – secondo una strategia mafiosa e da Commissariato
di Pubblica Sicurezza – all’eversione comunista. I veri responsabili delle
stragi di Milano e di Brescia non sono i giovani mostri che hanno messo le
bombe, né i loro sinistri mandanti e finanziatori. Quindi è inutile e retorico
fingere di attribuire qualche reale responsabilità a questi giovani e al loro
fascismo nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono e che
contiene gli elementi per la loro follia pragmatica è, lo ripeto ancora una
volta, la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei. Non procura solo a
loro condizioni intollerabili di conformismo e di nevrosi, e quindi di
estremismo [che è appunto la conflagrazione dovuta alla miscela di conformismo
e nevrosi]. Se il loro fascismo dovesse prevalere, sarebbe il fascismo di
Spinola, non quello di Caetano: cioè sarebbe un fascismo ancora peggiore di
quello tradizionale, ma non sarebbe più precisamente fascismo. Sarebbe qualcosa
che già in realtà viviamo, e che i fascisti vivono in modo esasperato e
mostruoso: ma non senza ragione.”
Pier Paolo Pasolini, Gli
italiani non sono più quelli, Corriere della sera, 10 giugno 1974.
“Che cos’è la cultura di una
nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia
la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori, dei letterati, dei
cineasti ecc.: cioè che essa sia la cultura dell’intelligencija. Invece non è
così. E non è neanche la cultura della classe dominante, che, appunto,
attraverso la lotta di classe, cerca di imporla almeno formalmente. Non è
infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli
operai e dei contadini. La cultura di una nazione è l’insieme di tutte queste
culture di classe: è la media di esse. E sarebbe dunque astratta se non fosse
riconoscibile – o, per dir meglio, visibile – nel vissuto e nell’esistenziale,
e se non avesse di conseguenza una dimensione pratica. Per molti secoli, in
Italia, queste culture sono state distinguibili anche se storicamente
unificate. Oggi – quasi di colpo, in una specie di Avvento – distinzione e
unificazione storica hanno ceduo il posto a una omologazione che realizza quasi
miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta
tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere. Scrivo “Potere” con la P
maiuscola – cosa che Maurizio Ferrara accusa di irrazionalismo, su “l’Unità”
[12-6-1974] – solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo
Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. Non lo riconosco più né
nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo
riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita
da un certo numero limitato di grandi industriali: a me, almeno, essa appare
piuttosto come un tutto [industrializzazione totale], e, per di più, come tutto
non italiano [transnazionale]. Conosco anche – perché le vedo e le vivo –
alcune caratteristiche di questo nuovo Potere ancora senza volto: per esempio
il suo rifiuto del vecchio sanfedismo e del vecchio clericalismo, la sua
decisione di abbandonare la Chiesa, la sua determinazione [coronata da successo]
di trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi, e soprattutto la
sua smania, per così dire cosmica, di attuare fino in fondo lo “Sviluppo”:
produrre e consumare. L’identikit di questo volto ancora bianco del nuovo
Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti “moderni”, dovuti alla
tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente: ma anche
dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa,
perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista
come il consumatore; e quanto all’edonismo, esso nasconde evidentemente una
decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai
conosciuto. Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e
dovuto a una “mutazione” della classe dominante, è in realtà – se proprio
vogliamo conservare la vecchia terminologia – una forma “totale” di fascismo.
Ma questo Potere ha anche “omologato” culturalmente l’Italia: si tratta dunque
di una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione
dell’edonismo e della joie de vivre. La strategia della tensione è una spia,
anche se sostanzialmente anacronistica, di tutto questo. Maurizio Ferrara,
nell’articolo citato [come del resto Ferrarotti, in “Paese Sera”, 14-6-1974] mi
accusa di estetismo. E tende con questo a escludermi, a recludermi. Va bene: la
mia può essere l’ottica di un “artista”, cioè, come vuole la buona borghesia,
di un matto. Ma il fatto per esempio che due rappresentanti del vecchio Potere
[che servono però ora, in realtà, benché interlocutoriamente, il Potere nuovo]
si siano ricattati a vicenda a proposito dei finanziamenti ai Partiti e del
caso Montesi, può essere anche una buona ragione per fare impazzire: cioè
screditare talmente una classe dirigente e una società davanti agli occhi di un
uomo, da fargli perdere il senso dell’opportunità e dei limiti, gettandolo in
un vero e proprio stato di “anomia”. Va detto inoltre che l’ottica dei pazzi è
da prendersi in seria considerazione: a meno che non si voglia essere
progrediti in tutto fuorché sul problema dei pazzi, limitandosi comodamente a
rimuoverli. Ci sono certi pazzi che guardano le facce della gente e il suo
comportamento. Ma non perché epigoni del positivismo lombrosiano [come
rozzamente insinua Ferrara], ma perché conoscono la semiologia. Sanno che la
cultura produce dei codici; che i codici producono il comportamento; che il
comportamento è un linguaggio; e che in un momento storico in cui il linguaggio
verbale è tutto convenzionale e sterilizzato [tecnicizzato] il linguaggio del
comportamento [fisico e mimico] assume una decisiva importanza. Per tornare
così all’inizio del nostro discorso, mi sembra che ci siano delle buone ragioni
per sostenere che la cultura di una nazione [nella fattispecie l’Italia] è oggi
espressa soprattutto attraverso il linguaggio del comportamento, o linguaggio
fisico, più un certo quantitativo – completamente convenzionalizzato e
estremamente povero – di linguaggio verbale. É a un tale livello di comunicazione
linguistica che si manifestano: a] la mutazione antropologica degli italiani;
b] la loro completa omologazione a un unico modello. Dunque: decidere di farsi
crescere i capelli fin sulle spalle, oppure tagliarsi i capelli e farsi
crescere i baffi [in una citazione protonovecentesca]; decidere di mettersi una
benda in testa oppure di calcarsi una scopoletta sugli occhi; decidere se
sognare una Ferrari o una Porsche; seguire attentamente i programmi
televisivi; conoscere i titoli di qualche best-seller; vestirsi con pantaloni
e magliette prepotentemente alla moda; avere rapporti ossessivi con ragazze
tenute accanto esornativamente, ma, nel tempo stesso, con la pretesa che siano
“libere” ecc. ecc. ecc.: tutti questi sono atti culturali. Ora, tutti gli
Italiani giovani compiono questi identici atti, hanno questo stesso linguaggio
fisico, sono interscambiabili; cosa vecchia come il mondo, se limitata a una
classe sociale, a una categoria: ma il fatto è che questi atti culturali e
questo linguaggio somatico sono interclassisti. In una piazza piena di giovani,
nessuno potrà più distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un
fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968. I problemi
di un intellettuale appartenente all’intelligencija sono diversi da quelli di
un partito e di un uomo politico, anche se magari l’ideologia è la stessa.
Vorrei che i miei attuali contraddittori di sinistra comprendessero che io sono
in grado di rendermi conto che, nel caso che lo Sviluppo subisse un arresto e
si avesse una recessione, se i Partiti di Sinistra non appoggiassero il Potere
vigente, l’Italia semplicemente si sfascerebbe; se invece lo Sviluppo
continuasse così com’è cominciato, sarebbe indubbiamente realistico il
cosiddetto “compromesso storico”, unico modo per cercare di correggere quello
Sviluppo, nel senso indicato da Berlinguer nel suo rapporto al cc del partito
comunista [cfr. “l’Unità”, 4-6-1974]. Tuttavia, come a Maurizio Ferrara non
competono le “facce”, a me non compete questa manovra di pratica politica.
Anzi, io ho, se mai, il dovere di esercitare su essa la mia critica,
donchisciottescamente e magari anche estremisticamente. Quali sono dunque i
miei problemi? Eccone per esempio uno. Nell’articolo che ha suscitato questa
polemica [“Corriere della sera”, 10-6-1974] dicevo che i responsabili reali
delle stragi di Milano e di Brescia sono il governo e la polizia italiana:
perché se governo e polizia avessero voluto, tali stragi non ci sarebbero
state. È un luogo comune. Ebbene, a questo punto mi farò definitivamente ridere
dietro dicendo che responsabili di queste stragi siamo anche noi progressisti,
antifascisti, uomini di sinistra. Infatti in tutti questi anni non abbiamo
fatto nulla: 1] perché parlare di “Strage di Stato” non divenisse un luogo
comune, e tutto si fermasse lì; 2] [e più grave] non abbiamo fatto nulla perché
i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra
coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era
l’indignazione più tranquilla era la coscienza. In realtà ci siamo comportati
coi fascisti [parlo soprattutto di quelli giovani] razzisticamente: abbiamo
cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero
predestinati razzisticamente a essere fascisti, e di fronte a questa decisione
del loro destino non ci fosse niente da fare. E non nascondiamocelo: tutti
sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva
di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato
e irrazionale: sarebbe bastata forse una sola parola perché ciò non accadesse.
Ma nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati
come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e
delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla, e si sono
gettati a capofitto nell’orrenda avventura per semplice disperazione. Ma non
potevamo distinguerli dagli altri [non dico dagli altri estremisti: ma da tutti
gli altri]. È questa la nostra spaventosa giustificazione. Padre Zosima
[letteratura per letteratura!] ha subito saputo distinguere, tra tutti quelli
che si erano ammassati nella sua cella, Dmitrj Karamazov, il parricida. Allora
si è alzato dalla sua seggioletta ed è andato a prosternarsi davanti a lui. E
l’ha fatto [come avrebbe detto più tardi al Karamazov più giovane] perché
Dmitrj era destinato a fare la cosa più orribile e a sopportare il più disumano
dolore. Pensate [se ne avete la forza] a quel ragazzo o a quei ragazzi che sono
andati a mettere le bombe nella piazza di Brescia. Non c’era da alzarsi e da
andare a prosternarsi davanti a loro? Ma erano giovani con capelli lunghi,
oppure con baffetti tipo primo Novecento, avevano in testa bende oppure
scopolette calate sugli occhi, erano pallidi e presuntuosi, il loro problema
era vestirsi alla moda tutti allo stesso modo, avere Porsche o Ferrari, oppure
motociclette da guidare come piccoli idioti arcangeli con dietro le ragazze
ornamentali, sì, ma moderne, e a favore del divorzio, della liberazione della
donna, e in generale dello sviluppo... Erano insomma giovani come tutti gli
altri: niente li distingueva in alcun modo. Anche se avessimo voluto non
avremmo potuto andare a prosternarci davanti a loro. Perché il vecchio
fascismo, sia pure attraverso la degenerazione retorica, distingueva: mentre il
nuovo fascismo - che è tutt’altra cosa - non distingue più: non è
umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la
riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo.”
Pier Paolo Pasolini, Il Potere senza volto, Corriere
della sera, 24 giugno 1974.
“Marco Pannella è a più di
settanta giorni di digiuno: è giunto allo stremo; i medici cominciano a essere
veramente preoccupati e, più ancora, spaventati. D’altra parte non si vede la
minima possibilità oggettiva che qualcosa di nuovo intervenga a consentire a
Pannella di interrompere questo suo digiuno che può ormai divenire mortale [va
aggiunto poi che un’altra quarantina di suoi compagni si sono man mano associati
con lui a digiunare]. Nessuno dei rappresentanti del potere parlamentare
[quindi sia del governo che dell’opposizione] sembra, neanche minimamente,
disposto a «compromettersi» con Pannella e i suoi compagni. La volgarità del
realismo politico sembra non poter trovare alcun punto di connessione col
candore di Pannella, e quindi la possibilità di esorcizzare e inglobare il suo
scandalo. Il disprezzo teologico lo circonda. Da una parte Berlinguer e il cc
del pci; dall’altra i vecchi potenti democristiani. Quanto al Vaticano è molto
tempo ormai che lì i cattolici si sono dimenticati di essere cristiani. Tutto
ciò non meraviglia, e vedremo il perché. Ma a cogliere il messaggio di Pannella
sono renitenti, scettici e vilmente evasivi anche i “minori” [cioè quelli che
hanno “minore potere”]: per esempio i cosiddetti “cattolici del no”; oppure i
progressisti più liberi [che intervengono in appoggio di Pannella solo in
quanto “singoli”, non mai come rappresentanti di partiti o gruppi]. Ora, ti
meraviglierai profondamente, lettore, nel conoscere le iniziali ragioni per cui
Pannella e altre decine di persone hanno dovuto adottare questa estrema arma
del digiuno, in tale stato di disinteresse, abbandono, disprezzo. Nessuno
infatti “ti ha informato”, fin da principio e con un minimo di chiarezza e di
tempestività, di tali ragioni: e certamente, vista la situazione che ti ho qui
delineato, immaginerai chissà quali scandalose enormità. Invece, eccole: “1] la
garanzia che fosse concesso dalla RAI-TV un quarto d’ora di trasmissione alla
LID e un quarto d’ora a Don Franzoni; 2] la garanzia che il presidente della
Repubblica concedesse un’udienza pubblica ai rappresentanti della LID e del
Partito Radicale, che l’avevano inutilmente richiesta e sollecitata da oltre un
mese; 3] la garanzia che fosse presa in considerazione dalla commissione sanità
della Camera la proposta di legge socialista sulla legalizzazione dell’aborto;
4] la garanzia che la proprietà del “Messaggero” assicurasse non una generica
fedeltà ai principi laici del giornale, ma l’informazione laica e in
particolare il diritto all’informazione delle minoranze laiche.” Si tratta,
come vedi, di una richiesta di garanzie di normalissima vita democratica. La
loro “purezza” di principio non esclude stavolta la loro perfetta attuabilità.
Vista, ripeto, la totale mancanza di informazione in cui “tutta” la stampa
italiana ti ha lasciato in proposito di Pannella e del suo movimento, non ci
sarebbe da meravigliarsi se tu pensassi che questo Pannella sia un mostro.
Mettiamo una specie di Fumagalli. Le cui richieste siano “comunque” e
“aprioristicamente” da non prendere in considerazione. Ebbene, tanto per
cominciare ti dirò che, secondo il principio democratico cui Pannella non
deroga mai, lo stesso Fumagalli, che ho nominato pour cause, avrebbe diritto di
essere preso in considerazione nel caso che avanzasse richieste del genere
“formale” di quelle avanzate dai radicali. Il rispetto per la persona – per la
sua configurazione profonda alla quale un sentimento della libertà la cui formalità
sia intesa come sostanziale, permette di articolarsi ed esprimersi a un livello
per così dire “sacralizzato” da una ragione laica, rispetto anche alle più
degradate idee politiche concrete – è per Pannella il primum di ogni teoria e
di ogni prassi politica. In questo consiste il suo essere scandaloso. Uno
scandalo inintegrabile, proprio perché il suo principio, sia pure in termini
schematici e popolari, è sancito dalla costituzione. Questo principio politico
assolutamente democratico è attualizzato da Pannella attraverso l’ideologia
della non-violenza. Ma non è tanto la non-violenza fisica che conta [essa può
anche essere messa in discussione]: quella che conta è la non-violenza morale:
ossia la totale, assoluta, inderogabile mancanza di ogni moralismo.
[“Sosteniamo che è morale quel che appare a ciascuno.”] . È tale forma di
non-violenza [che ripudia anche se stessa come moralistica] che porta Pannella
e i radicali all’altro scandalo: l’assoluto rifiuto di ogni forma di potere e
la conseguente condanna [“non credo al potere, e ripudio perfino la fantasia se
minaccia d’occuparlo”]. Frutto dell’assoluta e quasi ascetica purezza di questi
principi, che si potrebbero definire “meta politici”, è una straordinaria
limpidezza dello sguardo posato sulle cose e sui fatti: esso infatti non
incontra né l’oscurità involontaria dei pregiudizi né quella voluta dei
compromessi. Tutto è luce e ragione intorno a tale sguardo, che dunque, avendo
come oggetto le cose e i fatti storici e concreti e il conseguente giudizio su
di essi – finisce col creare – le premesse dell’inaccettabilità scandalosa, da
parte della gente-bene, della politica radicale [“lungo l’antifascismo della
linea Parri-Sofri si snoda da vent’anni la litania della gente-bene della
nostra politica”; “...dove sono mai i fascisti se non al potere e al governo?
sono i Moro, i Fanfani, i Rumor, i Pastore, i Gronchi, i Segni e – perché no? –
i Tanassi, i Cariglia, e magari i Saragat, i La Malfa. Contro la politica di
costoro, lo capisco, si può e si deve essere antifascisti...”]. Ecco, a questo
punto, suppongo, caro lettore, che ti sia chiaro lo “scandalo” Pannella; ma
suppongo anche che tu sia tentato di considerare nel tempo stesso tale scandalo
come donchisciottesco e verbale. Che la posizione di questi militanti radicali
[la non-violenza, il rifiuto di ogni forma di potere e così via] sia ingiallita
come quella del pacifismo, della contestazione, eccetera, e che infine il loro
sia mero velleitarismo, che sarebbe addirittura santo e santificabile, se le loro
condanne e le loro proposte non fossero così circostanziate e così dirette ad
personam. Invece le cose non stanno affatto così. I loro principi per così dire
“meta politici” hanno condotto i radicali a una prassi politica di un assoluto
realismo. E non è per tali principi “scandalosi” che il mondo del potere –
governo e opposizione – ignora, reprime, esclude Pannella, fino al punto di
fare, eventualmente, del suo amore per la vita un assassinio: ma è appunto per
la sua prassi politica realistica. Infatti è il Partito Radicale, la LID [e il
loro leader Marco Pannella] che sono i reali vincitori del referendum del 12
maggio. Ed è per l’appunto questo che non viene loro perdonato «da nessuno».
Essi sono stati i soli ad accettare la sfida del referendum e a volerlo, sicuri
della schiacciante vittoria: previsione che era il risultato fatalmente
concomitante di un “principio” democratico inderogabile [anche a rischio della
sconfitta] e di una “realistica analisi” della vera volontà delle nuove masse
italiane. Non è dunque, ripeto, un principio democratico astratto [diritto di
decisione dal basso e rifiuto di ogni atteggiamento paternalistico], ma
un’analisi realistica, che è attualmente l’imperdonabile colpa del PR e della
LID. Anziché essere ricevuti e complimentati dal primo cittadino della
Repubblica, in omaggio alla volontà del popolo italiano, volontà da essi
prevista, Pannella e i suoi compagni vengono ricusati come intoccabili. Invece
che apparire come protagonisti sullo schermo della televisione, non gli si
concede nemmeno un miserabile quarto d’ora di “tribuna libera”. Certo il
Vaticano e Fanfani, i grandi sconfitti del referendum, non potranno mai
ammettere che Pannella, semplicemente “esista”. Ma neanche Berlinguer e il PCI,
gli altri sconfitti del referendum, potranno mai ammettere una simile
esistenza. Pannella viene dunque “abrogato” dalla coscienza e dalla vita
pubblica italiana. A questo punto la vicenda si conclude con un interrogativo.
La possibilità di digiunare di Pannella ha un limite organico drammatico. E
niente lascia presumere ch’egli voglia abbandonare. Cosa stanno facendo gli
uomini o i gruppi di potere in grado di decidere della sua sorte? Fino a che
punto arriverà il loro cinismo, la loro impotenza o il loro calcolo? Non gioca
poi certo a favore della sorte di Pannella il fatto che essi a questo punto
abbiano ben poco da perdere, il loro unico problema essendo, ora, salvare il
salvabile, e prima di tutto se stessi. La realtà gli si è voltata
repentinamente contro; la barca vaticana, dentro la quale contavano di condurre
a termine al sicuro l’intera traversata del pelago della loro vita, minaccia
seriamente di affondare; le masse italiane sono nauseate di loro, e si son
fatte, sia pure ancora esistenzialmente, portatrici di valori con cui essi
hanno creduto di scherzare, e che invece si sono rivelati i veri valori, tali
da vanificare i grandi valori del passato, e da trascinare in una sola rovina
fascisti e antifascisti [di oggi]. Anche il minimo che poteva essere loro
richiesto, cioè una certa capacità di amministrare, si rivela una atroce
illusione: illusione di cui gli italiani dovranno ben accorgersi, perché – come
i valori del consumo e del benessere – dovranno viverla “nel proprio corpo”.
Sono le sinistre che devono intervenire. Ma non si tratta di salvare la vita di
Pannella. E tantomeno di salvargliela facendo in modo che le quattro piccole
“garanzie” che egli chiedeva e le altre che ora si sono aggiunte, vengano prese
in considerazione. Si tratta di prendere in considerazione l’esistenza di
Pannella, del PR e della LID. E la circostanza vuole che l’esistenza di
Pannella, del PR e della LID coincidano con un pensiero e una volontà di azione
di portata storica e decisiva. Che coincidano cioè con la presa di coscienza di
una nuova realtà del nostro paese e di una nuova qualità di vita delle masse,
che è finora sfuggita sia al potere che all’opposizione. Pannella, il PR e la
LID hanno preso coscienza di questo con totale ottimismo, con vitalità, con
ascetica volontà di andare fino in fondo: ottimismo forse relativo o almeno
drammatico per quanto riguarda gli uomini, ma incrollabile per quanto riguarda
i principi [non visti come astratti né moralistici]. Essi propongono otto nuovi
referendum [riuniti praticamente in uno solo]: e lo propongono ormai da anni,
in una cosciente sfida a quello proposto dalla destra clericale [e finito con
la più grande vittoria democratica della recente storia italiana]. Sono questi
otto referendum [abrogazione del Concordato fra Stato e Chiesa, degli
annullamenti ecclesiastici, dei codici militari, delle norme contro la libertà
di stampa e contro la libertà di informazione televisiva, delle norme fasciste
e parafasciste del codice, tra cui quelle contro l’aborto, e infine
l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti], sono questi otto
referendum che stanno a dimostrare, in quanto ideazione concreta e progetto di
lotta politica, la visione realistica di Pannella, del PR e della LID. Sfidare
il vecchio mondo politico italiano su questo punto e batterlo è l’unico modo
per imprimere una decisiva svolta pratica alla situazione in cui l’Italia è
precipitata, oltre a essere oggi l’unico atto rivoluzionario possibile. Ma
questo è contro troppi miserabili interessi di uomini e partiti, ed è questo
che sta pagando Pannella di persona. Nella vita pubblica ci sono dei momenti
tragici, o peggio ancora, seri, in cui bisogna trovare la forza di giocare. Non
resta altra soluzione. Dallo stile epistolare passerei qui dunque, caro
lettore, a quello del volantinaggio, allo scopo di suggerirti il modo di non
commettere, in questa circostanza, quello che i cattolici chiamano peccato di
omissione, o, comunque, allo scopo di spingerti a fare il gioco, vitale, di chi
decide di compiere un gesto “responsabile”. Tu potresti decisamente intervenire
nel rapporto, a quanto pare, insolubile, tra l’intransigenza democratica di
Pannella e l’impotenza del Potere, inviando un telegramma o un biglietto di
“protesta” ai seguenti indirizzi. 1] Segreterie Nazionali dei Partiti [escluso,
s’intende, il MSI e affini], 2] Presidenza della Camera e del Senato.
Pier Paolo Pasolini, Il fascismo degli antifascisti,
Corriere della sera, 16 luglio 1974.
In Nero su nero, Leonardo Sciascia parla del suo rapporto con Pier
Paolo Pasolini:
“Ho
cercato ieri – e fortunatamente ritrovato nel disordine in cui stanno le mie
cose – il foglio ingiallito del giornale “La libertà” in cui Pasolini pubblicò
il 9 marzo del 1951 un articolo sul mio primo libretto. Un articolo su tre
colonne: come se di quell’ esile libretto egli avesse parlato sapendo quello
che avrei scritto dopo, fino a oggi. S’ intitola “Dittatura in fiaba”. E si
chiude con questo concetto, che parlando di me aveva poi ribadito in “Passione
e ideologia” e, l’ anno scorso, recensendo “Todo modo”: “Ma anche questi
improvvisi bagliori, queste gocce di sangue rappreso, sono assorbiti nel
contesto di questo linguaggio, così puro che il lettore si chiede se per caso
il suo stesso contenuto, la dittatura, non sia stata una favola.” E credo che
questo giudizio – e perciò lo riporto – non fosse di entusiasmo ma di
limitazione, considerando che lui amava un linguaggio meno puro, più urgente e
rovente. Comunque da quel momento siamo stati amici. Ci scrivevamo assiduamente
e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel
periodo in cui lui lavorava all’antologia della poesia dialettale italiana. Poi
la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali
[l’ultimo nell’atrio dell’albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a
cercare attori per “Le mille e una notte”]. Ma io mi sentivo sempre un suo
amico: e credo che anche lui nei miei riguardi. C’era, però, come un’ ombra tra
noi, ed era l’ ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto – come
dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è
vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla
parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti, i corrotti e cretini che
gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è
ora di pena, di rimorso. Io ero e lo dicevo senza vantarmene, dolorosamente la
sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni
abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le
stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che
mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua. E voglio ancora dire
ancora una cosa, al di là dell’ angoscioso fatto personale: la sua morte quale
che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi
particolari che verranno fuori io la vedo come una tragica testimonianza di
verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo,
nell’ultimo numero del “Mondo”, una lettera a Italo Calvino.”
Leonardo
Sciascia, Nero su Nero.
Da quando ha incontrato, l’8 maggio 1937, a Parigi, il
dirigente del Partito Comunista Giuseppe Dozza, la Cagoule inizia a interessarsi, attivamente, a Carlo Rosselli.
Due giorni dopo, Carlo Rosselli
verrà pedinato insieme alla moglie inglese Marion Cave, nei pressi del Cafè La Coupole.
E, qualche giorno più tardi,
Jean-Marie Bouvyer, che si presenta alla portineria del palazzo in cui abitano
i Rosselli, per proporre una polizza di assicurazione, verrà allontanato dalla
responsabile del condominio, insospettita.
Faranno parte del commando
incaricato del duplice omicidio:
-
Jean
Filiol, 28 anni, iscritto, anche, all’Action
Francaise di Charles Maurras, è tipografo in rue Felicien David, a Parigi.
Ha, già, alle spalle un omicidio;
-
Alice
Lamy, circa 30 anni, modista, capelli bruni, è originaria di Verneuil-sur-Igneraie;
-
Fernand
Ladislas Jakubiez, 27 anni, di padre polacco e madre tedesca. Di professione
disegnatore, ha lavorato, saltuariamente, come barista e come buttafuori in
teatro. Nell’O.S.A.R.N. si occupa, in
particolare, dell’acquisto di armi in Belgio e in Svizzera. Killer di mano svelta, ma non di
carattere, interrogato dalla polizia crolla subito con angosciose ritrattazioni;
Robert-Gaston-
Emile Puireux, 27 anni, è, invece, di forte temperamento. È nato a Parigi e
lavora nell’ambito del commercio. È proprietario della Peugeot 402 nera, con cui partecipa all’agguato. Entrambi i
genitori sono filomonarchici;
-
François
Baillet, 25 anni, di grossa statura, ha fatto il pugile. Di professione
cuciniere. È nato a Egreselles-le-Bocage, stessa area geografica di Bagnoles,
il cui territorio conosce molto bene. Il suo coinvolgimento nel duplice omicidi
emergerà solo molto più tardi;
-
Jacques
Fauran, 25 anni, è un simpatizzante. Viene cooptato nella Cagoule solo due giorni prima dell’agguato perché in possesso di una
decappottabile rossa che serve, inderogabilmente, in quel lavoro;
André Tenaille, 28 anni, fabbro ferraio. La cugina di
sua madre è moglie di Eugène Deloncle, il fondatore della Cagoule. Suo fratello Charles, ingegnere, è intimo degli agenti del
SIM operanti in Francia. Subito dopo il delitto, il 9
giugno, André varca la frontiera italiana e si stabilisce a Torino, e trova
lavoro alla FIAT.
-
Jean-Marie Bouvyer, 20 anni, il più giovane del
gruppo. Nei
giorni del delitto beneficia di una licenza dal suo reggimento, in cui è
impegnato come soldato semplice. François Mitterand aiuterà l’amico,
influenzando il processo;
-
Louis
Huguet, 35 anni, pugile dilettante, anche lui fabbro. Subito dopo l’uccisione dei
Rosselli viene arrestato dalla polizia.
Il 13 giugno, per concludere l’opera e dare
conferma dell’avvenuto delitto, tre esponenti della Cagoule si recano, a Torino, per consegnare copia dei documenti
sottratti a Carlo Rosselli al “dottor Nobile”, in realtà, l’ufficiale al Comando del Centro Controspionaggio di
Torino del SIM, che teneva i contatti
con l’organizzazione.
Il 6 Febbraio 1934, in reazione
a un clamoroso scandalo politico-finanziario, le associazioni dei combattenti
della Grande Guerra manifestano, a Parigi, davanti alla Camera dei deputati,
per ottenere le dimissioni del governo Daladier. Sotto la spinta dei fascisti,
il raduno diventa un’insurrezione e cerca di rovesciare la Repubblica in favore
del colonnello de La Rocque, che rifiuta il ruolo che gli si voleva attribuire.
Vi furono altri tafferugli nelle
settimane seguenti e un tentativo di linciaggio di Léon Blum, durante il
funerale di uno storico monarchico.
Il 18 giugno, il governo
annuncia lo scioglimento delle leghe.
Immediatamente, un gruppo di
militanti fascisti, per la maggior parte provenienti dalla XVII sezione dei Camelots du roi, rompe con il
filosofo monarchico Charles Maurras e decide di passare alla clandestinità.
Fondano così l’Organisation secrète
d’action révolutionnaire nationale [O.S.A.R.N.]. Attorno a questa organizzazione
gravitano Eugène Deloncle, Aristide Corre, Jean Fillol, Jacques Corrèze, cui,
presto, si aggiungono Gabriel Jeantet, François Méténier e il dottor Henri
Martin. Il colonnello de La Rocque mette in guardia i vecchi affiliati alle
leghe contro l’infiltrazione di “gruppi di tradimento”, ossia fascisti che
agiscono per conto di nazioni estere, come l’Italia o la Germania.
L’O.S.A.R.N. si struttura rapidamente in gruppi locali e in un sistema
gerarchico fortemente suddiviso, in modo che al di fuori dei capi, i membri
dell’organizzazione sono totalmente all’oscuro circa la sua grandezza, i suoi
obbiettivi reali, i suoi mezzi e il sostegno che riceve. Alcune cellule, quali
i Chevaliers du glaive, sono condotte
a Nizza da Joseph Darnant e François Durand de Grossouvre, dove adottano un
rituale e abiti ispirati al Klu Klux Klan:
sarà la ragione per cui l’O.S.A.R.N.
verrà chiamato dai monarchici la Cagoule.
Amico intimo di Eugène Deloncle,
Eugène Schueller mette a disposizione il suo patrimonio per il complotto.
Diverse riunioni del gruppo dirigente si tengono negli uffici della sede de L’Oréal. Un gruppo di giovani, residenti
nel dormitorio dei Padri Maristi, al numero civico 104 di rue Vaugirard, frequenta i capi del complotto e
si unisce ad alcune delle loro azioni, senza aderire formalmente alla
organizzazione: Pierre Guillan de Bénouville, Claude Roy, André Bettencourt e
Robert Mitterand, fratello di François, marito della nipote di Eugène Deloncle.
In un anno e mezzo, l’O.S.A.R.N. formalizza le sue relazioni
con il governo di Benito Mussolini, poi con quello di Adolf Hitler. Per loro
conto invia armi in Spagna, a Francisco Franco. In cambio ottiene considerevoli
appoggi finanziari e logistici.
L’organizzazione tenta un colpo
di Stato, nella notte tra il 15 e il 16 novembre, che fallisce. L’indomani e
durante le settimane seguenti il complotto vengono svelati tutti i suoi
particolari: alcune perquisizioni permettono di scoprire nascondigli di armi in
tutta la Francia. In totale sono ritrovate centinaia di mitragliatori, migliaia
di fucili e uniformi, decine di migliaia di granate, centinaia di migliaia di
munizioni, tutto proveniente dalla Francia o dalla Germania.
Il presidente del consiglio, Edouard
Daladier, frena l’inchiesta quando si comincia a scoprire che l’O.S.A.R.N. ha degli affiliati tra gli
ufficiali fino ad arrivare allo stato maggiore. In effetti, non è possibile
decapitare l’esercito francese mentre la minaccia della guerra si fa sempre più
reale. Il presidente ha torto, perché la guerra mondiale è effettivamente
dichiarata e la Francia capitola.
La O.S.A.R.N. è fondata, nel giugno del 1936,
dall’ingegnere navale quarantasettenne Eugène Deloncle, nato a Brest, uomo di
estrema destra, la cui personale connotazione politica resta, tuttavia, sempre
molto ambigua nonostante i cospicui aiuti del SIM, il Servizio di Sicurezza
Italiano, che giungono sotto forma di finanziamenti in denaro e forniture
di armi.
Epilogo
della sicura ambiguità, infatti, è lo schierarsi di molti dell’O.S.A.R.N. a favore di Charles de
Gaulle durante il Governo Vichy. Lo stesso Eugène Deloncle è ucciso dai nazisti
per tradimento.
PARIGI - L’agitata gioventù politica di Mitterrand, le sue simpatie nei
confronti della destra nazionale nell’anteguerra e la sua attività nei primi
due anni dello Stato di Vichy del maresciallo Pétain, ritornano alla ribalta.
Il fogliettone mai concluso delle voci, delle mezze verità più o meno
ufficiali, degli enigmi mai risolti, su quegli anni hanno riempito decine di
biografie dell’attuale capo dello Stato. Ed oggi esso si arricchisce di un
nuovo capitolo: l’appena edito voluminoso libro-inchiesta con cui il
giornalista Pierre Pean, documenti alla mano, ricostruisce minuziosamente la
giovinezza del presidente. Arrivando alla inequivocabile conferma che il leader
della sinistra fu negli anni universitari legato agli ambienti e ad alcune
organizzazioni nazionaliste di destra e che nel ‘40, all’indomani della
disfatta e dell’ armistizio, in età più matura credette nella continuità dello
Stato francese incarnato dal maresciallo Pétain e dalla sua Repubblica di Vichy.
Una conferma che porta l’imprimatur dello stesso Mitterrand, il quale ha
accettato di collaborare all’inchiesta sui segreti della sua giovinezza con la
sorprendente sincerità di chi alla fine della lunga carriera politica che lo ha
portato ai vertici dello Stato, sembra addirittura trovare sollievo nel dire
tutto quello che fino ad oggi era stato negato o taciuto. Rivelazioni e
conferme si intrecciano nell’intento di stabilire una verità spesso assai
scabrosa e ambigua. Tra queste verità c’è quella del Mitterrand diciottenne,
proveniente da una famiglia ricca cattolica e di destra, appena arrivato a
Parigi dalla sua provincia natale della Charante, militante del famigerato
movimento delle “Croci di fuoco” del colonnello De La Rocque, ferocemente
anti-comunista e con marcate simpatie nei confronti dei regimi fascisti,
incondizionato partigiano di Mussolini e del modello fascista italiano. Il
Mitterrand che partecipa ai “pogrom” lanciati dai Volontari delle Croci di
fuoco contro i “metech”, gli indesiderabili immigrati di colore all’Università
di Parigi, poi subito dopo presidente del Circolo letterario del Journal del
Partito sociale francese che ha rimpiazzato le Croci di fuoco e che scrive e
organizza collette per la “causa” contro il Fronte popolare e il leader
socialista Léon Blum. Quello stesso Blum cui molti lustri dopo, nell’apoteosi
della vittoria socialista del 1981, all’ indomani della sua elezione all’
Eliseo Mitterrand renderà omaggio al Pantheon con in pugno una rosa rossa
emblema del Partito socialista. È sempre in quegli anni Trenta, che molti
biografi l’hanno voluto individuare come membro della “Cagoule”, l’organizzazione
di estrema destra che nel 1937 si incaricò ed eseguì per ordine di Mussolini
l’assassinio a Bagnoles-de-l’Orne dei fratelli Rosselli. Pierre Pean, sostiene
che non esiste documento alcuno che comprovi questa accusa, ma mostra tuttavia,
e Mitterrand lo riconosce, che il futuro presidente “incrocerà” spesso nel suo
entourage più d’uno dei famigerati “cagoulards” e in particolare quel Jean
Bouvyer, amico di famiglia, incarcerato per l’assassinio dei fratelli Rosselli,
al quale spesso egli renderà visita in carcere, conservandogli “per fedeltà”
come egli stesso dice, un’amicizia che lo spingerà persino ad intervenire in
suo favore all’ epoca dell’epurazione. Ma il capitolo più scabroso resta pur
sempre quello di Vichy e del suo vero rapporto col Regime Pétainista che
Mitterrand raggiunge nel 1941 dopo la sua evasione da un campo di
concentramento tedesco e dove, venticinquenne, ne diviene immediatamente
attivissimo funzionario. Non già per fare il doppiogioco, come ha sempre
lasciato dire ai suoi amici, ma per una adesione sincera a Pétain, “sposando”,
come scrive Pierre Pean, il clima politico dell’epoca. Un’epoca in cui molti, e
Mitterrand tra questi, credono alla “rivoluzione nazionale” del maresciallo e
guardano a Pétain come al salvatore della patria, alla continuità dello Stato
francese che si è dissolto nella disfatta. Certo egli non è né antisemita né
pro-tedesco, ma come scrive Pean è “semplicemente peteanista”. E “tutta la sua
azione tra il 1941 e il 1942, non fu per nulla di opposizione alla politica del
maresciallo” commenta l’autore dell’ inchiesta che ha ritrovato anche una foto
esclusiva che ritrae Mitterrand, allora funzionario al Commissariato per i
prigionieri di guerra rimpatriati, al fianco di Pétain. È l’epoca in cui per i
servizi resi a Vichy, il solerte funzionario Mitterrand riceverà la più alta
onorificenza del regime, la famosa “Franciska” tante volte rimproveratagli
lungo la sua lunga carriera politica. Mitterrand che quell’onorificenza gli
serviva di copertura per la sua attività clandestina. Ma secondo Pean è solo
nel 1943 che Mitterrand si avvicinerà, più per una evoluzione politica che non
ideologica, alla resistenza. Organizzando i reduci del gruppo Ora,
sotto lo pseudonimo di battaglia di capitano Morland, riconosciuto non senza
qualche diffidenza dal generale de Gaulle che Mitterrand ha raggiunto prima a
Londra poi ad Algeri. Pean d’altra parte non risparmia di rimproverare
indirettamente a Mitterrand ricordandoglieli i legami di “fedeltà e amicizia”
che il più volte ministro della quarta Repubblica e il futuro presidente
socialista della Quinta Repubblica ha continuato a tenere vivi con personaggi
come René Bousquet, l’ex-capo della polizia di Vichy, l’organizzatore dei
rastrellamenti degli ebrei francesi finiti tutti ad Auschwitz. Mitterrand non
nega ormai più nulla. Ma al suo biografo lancia solo questa frase che ha il
sapore di una specie di autoassoluzione: “In quei periodi torbidi quando si era
giovani era difficile fare delle scelte. Me la sono cavata piuttosto bene. È
ingiusto giudicare la gente per degli errori che si spiegano nell’atmosfera
dell’ epoca. Agli uomini politici non si perdona proprio nulla.”
Nel 1907, veniva fondata L’Oréal da Eugène-Paul-Louis Schueller,
che, nel 1928, aveva assorbito Monsavon,
le vernici Valentine, gli shampoo Dop e la rivista Votre Beauté.
Il fondatore del gruppo era
stato anche uno dei grandi finanziatori del nazismo francese e
dell’organizzazione di destra conosciuta con il nome di Cagoule. Alla liberazione, la società e i suoi affiliati stranieri
si adoperarono per dare asilo ai criminali in fuga.
Nel Settembre del 1940, Eugène
Deloncle e Schueller fondano il Movimento
Sociale Rivoluzionario [il cui acronimo è MSR, che si pronuncia aime et
sert, ama e servi], con il sostegno dell’ambasciatore del Terzo Reich, Otto
Abetz, e l’approvazione personale del capo della Gestapo, Reinhardt Heydrich.
Le riunioni della dirigenza del MSR
si tengono negli uffici de L’Oréal,
al numero civico 14 di rue Royale, a Parigi.
Il programma dell’organizzazione
riporta:
“Noi
vogliamo costruire una nuova Europa in cooperazione con la Germania
nazional-socialista e tutte le altre Nazioni europee che non siano schiave del
capitalismo liberale, dell’ebraismo, dei bolscevichi, e della massoneria [...]
rigenerare la razza francese [...] obbligare gli ebrei rimasti in Francia a
seguire leggi severe che impediscano loro di inquinare la nostra razza [...]
creare un’economia socialista [...] che assicuri una giusta distribuzione delle
risorse facendo aumentare gli stipendi e la produzione.”
Come prima applicazione di
questo programma, Deloncle organizza un attentato esplosivo contro sette
sinagoghe parigine, nella notte tra il 2 e il 3 ottobre 1941.
Inoltre, viene fondata
un’organizzazione con l’aiuto di Theo Dannecker, membro delle SS, delegato di Adolf Eichmann: la Communauté Française, il cui scopo è “liberare completamente [la Francia] da
questi fermenti di corruzione che sono gli ebrei e i massoni”. È questa
l’organizzazione segreta, che, spesso, organizza le spoliazioni di ebrei per
rimpinguare le tasche dei suoi membri, tra i quali Jacques Corrèze e Jean
Fillol, il sicario della Cagoule.
Quanto al giovane André
Bettencourt, sotto la tripla tutela del ministro della propaganda, Joseph
Goebbels, della Wehrmacht e della Gestapo, ha il controllo su tutte le
pubblicazioni francesi, sia collaborazioniste sia naziste. È lui che dirige La terre française, una pubblicazione
esplicitamente nazista, destinata alle famiglie di campagna, che consiglia,
vivamente, la rieducazione degli intellettuali decadenti attraverso il ritorno
forzato “alla terra che non inganna mai”.
Assume l’agronomo Réné Dumont e
offre, regolarmente, a Schueller le colonne dei suoi giornali.
Il 15 Febbraio 1941, sotto
richiesta delle SS, il MSR di Deloncle si fonde con i Rassemblement National Populaire [RNP]
di Marcel Déat.
Eugène Schueller diviene il
punto di riferimento economico.
Il 22 Giugno 1941, il Terzo Reich attacca l’Unione Sovietica.
Deloncle e Schueller decidono di
creare la Légion des volontaires français
[LVF], comandata da Jacques Corrèze per combattere il comunismo sul fronte
orientale. Tutti i suoi membri giurano fedeltà al Führer.
Attraverso questa organizzazione
armata cercano di eliminare Pierre Laval, loro avversario politico, e il loro
alleato e rivale Marcel Déat.
Il 27 Agosto 1941, in occasione
di una cerimonia di partenza di un contingente della LVF per il fronte russo, organizzano un doppio attentato, durante
il quale Laval e Déat rimangono feriti.
La battaglia di Stalingrado
inverte il corso degli eventi.
Ormai il Terzo Reich non è più invincibile.
André Bettencourt si riavvicina
al suo amico François Mitterand, che esercita diverse funzioni a Vichy e
condivide l’ufficio con Jean Ousset, responsabile del movimento giovanile della
Légion Française dei combattenti di
Joseph Darnand. Entreranno allora a far parte della Resistenza all’interno del Mouvement National des Prisonniers de Guerre
et Déportés [MNPGD].
Alla fine del 1942, André
Bettencourt è inviato da Eugène Schueller, che è divenuto uno dei maggiori
azionisti della Nestlé, in Svizzera.
Approfitta della trasferta per
incontrare Allen Dulles e Max Schoop dell’Office of Strategic Services [OSS].
Eugène Deloncle è assassinato.
Il 10 Giugno 1994, Jean Fillol
guida la divisione delle SS a
Ouradour-sur-Glane, che si macchierà di numerose atrocità.
Grazie alla testimonianza di
André Bettencourt e François Mitterand, Eugène Schueller verrà scarcerato con
la motivazione che aveva partecipato alla Resistenza.
L’Oréal diviene il rifugio dei vecchi amici.
François Mitterand è il
direttore della rivista Votre Beauté
e André Bettencourt è eletto direttore del gruppo.
Con l’aiuto dell’Opus Dei, Henri Deloncle, fratello di Eugène, ingrandisce l’Oréal-Spagna, dove assume
Jean Fillol.
Quanto a Jacques Corrèze,
diviene l’amministratore delegato della Cosmair [L’Oréal] negli Stati Uniti.
Nel 1950, André Bettencourt
sposa Liliane, l’unica figlia di Eugène Paul Louis Schueller.
André Bettencourt ha avuto una
brillante carriera.
Giornalista, ha fondato, nel
1945, il Journal agricole, per i
vecchi lettori de La terre française.
La sua carriera politica l’ha
condotto, più volte, in parlamento e al governo. Ha, dunque, potuto riprendere
le sue vecchie attività, divenendo segretario di Stato per l’informazione
[1954-55], posto creato dal suo amico François Mitterand, nel 1948.
Il
generale Roatta, Anfuso, Emanuele e Navale vennero tutti sottoposti a processo dopo la guerra:
Anfuso venne condannato alla fucilazione alla schiena e gli altri
all’ergastolo. L’appello sconvolse tutto: Anfuso e Roatta assolti con formula
piena, Navale e Emanuele per insufficienza di prove.
Ventuno
anni dopo l’assassinio dei fratelli Rosselli, nell’ottobre del 1958, il nome
dell’ex-maggiore dei carabinieri e agente del SIM Roberto Navale
riecheggiò nuovamente in un’aula di un palazzo di giustizia. Fu il Tribunale di
Pinerolo, città a 38 chilometri da Torino, a riesumarlo. Il 7 ottobre 1958, i
giudici, infatti, inflissero 13 mesi di reclusione, per il reato di ricettazione
fallimentare a Roberto Navale.
La condanna di Navale in quel processo per il fallimento del commerciante di
petroli Pietro Flogna, rammentò per qualche settimana, sui giornali, il ruolo
che l’ex-capo del centro SIM di
Torino aveva avuto nell’affaire
Rosselli. Non è l’unica sorpresa a emergere scavando tra i fascicoli di polizia
dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Tra le carte riguardanti l’ufficiale
dei carabinieri reali, che, nel giugno del 1941, era stato assunto alla FIAT, guidata da Vittorio Valletta, come
capo dei servizi di sicurezza, spicca una nota, che il Servizio Informazioni Speciali [SIS] della Polizia italiana, il 3
luglio 1950, trasmette alla Divisione affari riservati del ministero dell’Interno:
“Il
noto ex-maggiore dell’Arma Navale Roberto, già appartenente ai servizi
informativi militari, che tanto fece parlare di sé per l’uccisione dei
fuorusciti italiani Rosselli avvenuta in Francia durante il fascismo, comincia
a far riparlare di sé per una sua attività che egli svolgerebbe a Torino e in
Milano a favore di servizi stranieri.”
Era sospettato di essere al
soldo dei francesi, ma anche della CIA.
CARI ITALIANI CHE, OGGI, TEMETE UN RITORNO DEL FASCISMO, MA DOVE CREDETE CHE SIANO FINITI TUTTI I FASCISTI?
RispondiEliminaINGHIOTTITI, COME PER MIRACOLO, DALLA TERRA, IL GIORNO DELLA LIBERAZIONE?
O SONO DIVENUTI TUTTI PARTIGIANI DELL'ULTIMA ORA?
VE NE SONO STATI E VE NE SONO ANCORA... DI VIVI, SAPETE!
E SONO QUELLI CHE SEMBRANO PAVENTARLO DI PIU'...
E NON DA OGGI, GIA' DAI PRIMI VAGITI DELLA NOSTRA REPUBBLICA DEMOCRATICA...
A CONTARCI, SEMBREREBBE CHE SOLO BENITO MUSSOLINI E LA SUA FAMIGLIA CON CLARETTA PETACCI E QUALCHE ALTRO COMPAGNO, PARDON, CAMERATA DI MERENDE FOSSERO FASCISTI.
VI SIETE, MAI, CHIESTI PERCHE' I RESPONSABILI DI EFFERATI ASSASSINII ED ECCIDI NON SIANO, MAI, STATI ASSICURATI ALLA GIUSTIZIA, NONOSTANTE SI CONOSCESSE IL LORO NOME E IL LORO INDIRIZZO DI CASA?
IO NON SO ESATTAMENTE SU QUALI EVENTI SI CHIUDA IL PROGRAMMA DI STORIA NELLE SCUOLE, MA SAREI PRONTA A GIOCARMI QUELLO CHE NON HO - E SONO CERTA CHE NON LO PERDEREI! - CHE MOLTI TRA I GIOVANI - MA ANCHE TRA I MIEI COETANEI! - NON CONOSCANO LA STORIA DEL NOSTRO PAESE, CHE, SEPPURE, MILLENARIO, HA CONQUISTATO L'UNITA', SOLO GEOGRAFICA, IN VERITA', DA 150 ANNI CIRCA...
MOLTO POCO, IN VERITA', PER CREARE UNA COSCIENZA NAZIONALE... CHE SI TENTA DI FAR PASSARE PER RADICALISMO NAZIONALISTA.
IO NON LO TEMO UN RITORNO DEL FASCISMO E, MOLTO SEMPLICEMENTE, PERCHE' NON NE SIAMO, MAI, USCITI.
DEVO FARE I NOMI?
OGNUNO HA IL SUO MODO DI DIRE LE COSE.
VI E' CHI SI SENTE APPAGATO MANDANDO AFFANCULO QUESTO O QUEL POLITICO, PRIMA, DURANTE, DOPO, LONTANO DAI PASTI SU FACEBOOK, IO PREFERISCO DOCUMENTARMI E SCRIVERE - FORSE, SAREBBE PIU' GIUSTO DIRE RISCRIVERE, MA MI SEMBREREBBE UN ATTEGGIAMENTO ANCORA PIU' PRESUNTUOSO E ARROGANTE! - SULLA NOSTRA STORIA, IN PARTICOLARE, SUL FASCISMO, VISTO CHE E' UN TERMINE MOLTO USATO E ABUSATO ULTIMAMENTE PER TACITARE UN INTERLOCUTORE CHE NON CONDIVIDE IL NOSTRO PENSIERO.
E' UN PROGETTO CHE TENGO NEL CASSETTO, DA MOLTI ANNI, DI CUI AVEVO FATTO PARTECIPE IL NONNO, CHE AVREBBE POTUTO ESSERE PER ME UNA VERA FONTE MERAVIGLIOSA DI INFORMAZIONI DI PRIMA MANO...
AHIME', SE NE E' ANDATO PRIMA CHE POTESSIMO REALIZZARLO, MA IL PROGETTO RESTA E SI E', ANCHE MATERIALIZZATO CON IL MIO PRIMO SCRITTO SUI FRATELLI ROSSELLI...
QUANTO MI PIACEREBBE INTERROGARE CHI DICO IO SUI FRATELLI ROSSELLI PER SPIARNE L'ESPRESSIONE DEL VOLTO...
MA MAI DIRE MAI!
LA FINE DELL'ANNO SI AVVICINA E, CON ESSA, ANCHE LE FESTIVITA' NATALIZIE.
QUESTO ANNO, LE ASPETTO PARTICOLARMENTE CON ANSIA...
HO BISOGNO DI PRENDERMI UN LUNGO E MERITATO STACCO DA TUTTO E DA TUTTI...
POI, CON IL PROSSIMO ANNO, SI CAMBIA GENERE!
BASTA CON IL MONDO VIRTUALE...
EVVIVA IL MONDO REALE...
BUONA SERATA!
Daniela Zini