“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

mercoledì 18 marzo 2015

SOCIETA' SEGRETE III. I SAMURAI 1. LA SPADA E IL CILIEGIO di Daniela Zini



“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984

SOCIETA’ SEGRETE

“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt



Nos vies sont les fleuves
Daniela Zini

Je n’avais qu’une illusion: c’était une douce
Pensée: celle du fleuve qui voit la mer proche
Et voudrait un instant devenir eau dormante
Et se reposer à l’ombre de quelque vieux palmier.

Et mon âme disait: Je suis trouble et me fatigue
De courir les plaines et de sauter les digues;
La tourmente est passée; j’ai besoin de repos,
D’être bleu comme avant, et chanter à voix basse.

Et j’avais une seule illusion, si sereine
Qu’elle guérissait mes maux et allégeait ma peine
Avec le clair reflet du feu d’un foyer.

Et la vie me dit: Ame, reste trouble et seule,
Sans un lis sur la rive ni une étoile sur l’eau,
Va courir les plaines et te perdre dans la mer!



 

alla mia dolce Bestiolina, un vero Ronin
“[…]
Dare l’esempio, dare il modello; immedesimarsi, imitare — questa è la relazione fondamentale dell’insegnamento, anche se nelle ultime generazioni, con l’introduzione di nuove materie di studio, abbiano preso piede anche metodi d’insegnamento europei e vengano usati con innegabile intelligenza. Come si spiega il fatto che, malgrado l’iniziale entusiasmo per la novità, le arti giapponesi siano rimaste sostanzialmente immuni da queste nuove forme d’insegnamento?
Non è facile dare una risposta a tale domanda.
Eppure tenterò di farlo, e sia pure in modo sommario, per chiarire maggiormente lo stile dell’insegnamento giapponese e con esso il significato dell’imitazione.
L’allievo giapponese porta con sé tre cose: buona educazione, appassionato amore per l’arte da lui scelta e venerazione incondizionata del maestro. Fin dai tempi più antichi, il rapporto maestro-allievo fa parte dei legami fondamentali della vita e investe perciò il maestro di una grande responsabilità, che va molto al di là dei limiti della sua materia. All’inizio allo scolaro non si richiede che una coscienziosa imitazione di ciò che il maestro esegue davanti a lui. Alieno da lunghe istruzioni e spiegazioni, questi si limita a brevi cenni e non si aspetta che l’allievo ponga domande. Egli assiste tranquillamente agli incerti tentativi senza ripromettersi autonomia e iniziativa, e ha la pazienza di attendere la crescita e la maturazione. L’uno e l’altro non hanno fretta, il maestro non spinge e l’allievo non corre.
Ben lontano dal voler destare anzitempo nell’allievo l’artista, il maestro ritiene suo primo compito di fare di lui un esperto, che ha assoluta padronanza del mestiere. A questo intento l’allievo viene incontro con instancabile diligenza. Come se non avesse pretese più elevate, egli si lascia imporre la soma con cieca sottomissione, e solo nel corso degli anni l’esperienza gli proverà che le forme di cui è perfettamente padrone non lo opprimono più, ma lo liberano. Di giorno in giorno gli diventa sempre più facile seguire tecnicamente tutte le ispirazioni, ma anche lasciarsi ispirare dall’osservazione più scrupolosa. La mano che regge il pennello, nel momento stesso in cui lo spirito comincia a dare forma, ha già colto e compiuto ciò che esso intravede, e alla fine l’allievo non sa a quale dei due, lo spirito o la mano, è dovuta l’opera. Ma per arrivare al punto in cui l’abilità tecnica diventa “spirituale”, è necessaria, come nell’arte del tiro con l’arco, una concentrazione di tutte le forze fisiche e psichiche, della quale, come mostreranno altri esempi, non si può fare a meno in nessun caso. Un pittore all’inchiostro di China prende posto davanti agli allievi. Esamina i pennelli e li dispone lentamente per l’uso, macina accuratamente il colore, raddrizza la lunga e sottile striscia di carta che sta davanti a lui sulla stuoia, e finalmente, dopo essersi trattenuto un certo tempo in profonda concentrazione, in cui sembra irraggiungibile, con pennellate rapide e sicure traccia un’immagine che non richiede né tollera correzioni e che serve di modello agli allievi.
Un maestro dei fiori comincia la lezione sciogliendo con precauzione il legaccio che stringe i fiori e i rami fioriti, e dopo averlo arrotolato con cura, lo mette da parte.
Considera quindi i singoli rami, dopo ripetuto esame ne sceglie i migliori, dà a essi, piegandoli delicatamente, la forma che devono assumere secondo la loro funzione e finalmente li dispone in un vaso appositamente scelto. La composizione, al suo termine, appare come se il maestro avesse indovinato ciò che la natura sogna nei suoi sogni oscuri.
In questi due casi, a cui vorrei limitarmi, i maestri si comportano come se fossero soli.
Agli allievi non concedono neppure uno sguardo, tanto meno una parola. Compiono i preparativi calmi e assorti, si perdono, dimentichi di sé, nel processo creativo delle figure e delle forme, e ad ambedue esso appare, dalle operazioni preliminari all’opera compiuta, un accadimento in sé conchiuso. Ed esso è in realtà dotato di una tale potenza espressiva da agire sullo spettatore come un quadro.
Ma perché il maestro non fa eseguire da qualche allievo esperto i preparativi indispensabili, ma tuttavia assolutamente secondari? Se macina egli stesso il colore, se scioglie con tanta lentezza il legaccio invece di tagliarlo rapidamente e gettarlo via con noncuranza, questo stimola forse la forza della sua visione e della sua creazione artistica? E che cosa lo muove a ripetere questa serie di atti a ogni lezione con inesorabile insistenza e addirittura con pedanteria, senza ometterne alcuna parte, e a farlo imitare dagli allievi?
Egli si tiene alle usanze tradizionali perché i preparativi dell’opera, come sa per esperienza, servono a predisporlo alla creazione artistica.
Egli deve alla calma meditativa con cui li esegue quella necessaria distensione e quell’equilibrio di tutte le sue forze, quel raccoglimento e quella presenza dello spirito senza i quali non nasce alcuna opera valida.
Assorto nella sua azione, ma senza intervenirvi volontariamente, egli viene condotto verso il momento in cui l’opera, di cui ha un’intuizione vaga e ideale, si compie come da sola. Come nel tiro con l’arco i passi e le posizioni, qui, in forme diverse, altri preliminari hanno la stessa funzione. E soltanto là dove questo non è possibile, ad esempio per il danzatore sacro e l’attore, il raccoglimento e la concentrazione precedono l’entrata in scena.
Anche in questi esempi si tratta dunque innegabilmente, come nel tiro con l’arco, di cerimonie. Con una chiarezza che il maestro non potrebbe dare con le parole, l’allievo apprende da esse che si raggiunge il giusto atteggiamento spirituale dell’artista quando i preparativi e l’opera, il mestiere e l’arte, il materiale e lo spirituale, il soggettivo e l’oggettivo trapassano senza discontinuità l’uno nell’altro. E con ciò ha trovato un nuovo motivo d’imitazione. Ormai gli è richiesta la completa padronanza delle forme della concentrazione, della meditazione più profonda. L’imitazione, non più rivolta a contenuti oggettivi, che ciascuno con buona volontà riesce in qualche modo a riprodurre, si fa ora più libera, più mobile, più spirituale.
L’allievo si vede di fronte a nuove possibilità, ma nello stesso tempo apprende che la loro realizzazione non dipende più minimamente dalla sua buona volontà.
Ammesso che il suo talento gli permetta di raggiungere questo livello, un pericolo quasi inevitabile attende l’allievo nel suo cammino d’artista. Non il pericolo di consumarsi nel vano compiacimento di sé — l’uomo dell’Estremo Oriente non ha per natura alcuna disposizione a questo culto del proprio Io — ma piuttosto il pericolo di fermarsi a ciò che egli sa ed è, a ciò che il successo conferma e la fama celebra. Di comportarsi cioè come se l’esistenza artistica fosse una forma di vita a sé, e che ha in sé il proprio suggello e la propria giustificazione.
Il maestro lo prevede. Cautamente, e con la più sottile arte nella guida d’anime, cerca di prevenire a tempo il pericolo e di liberare l’allievo da se stesso. Vi perviene ricordandogli, senza insistervi e come se fosse un’osservazione occasionale, legata all’esperienza che l’allievo ha già fatto, che ogni creazione valida riesce soltanto nella condizione di schietto abbandono del proprio Io, nella quale chi opera non può più essere presente, come “se stesso”. Solo lo spirito è presente, una sorta di vigilanza che non presenta affatto la sfumatura dell’“io stesso”, e perciò penetra tanto più liberamente in tutte le lontananze e le profondità “con occhi che odono e con orecchi che vedono”.
[…]”
Eugen Herrigel [1884-1955], Lo Zen e il Tiro con l’Arco 


  Une carte du monde qui n’inclurait pas
 l’Utopie n’est pas digne d’un regard.
Oscar Wilde

Les utopies apparaissent comme bien plus réalisables qu’on ne le croyait autrefois. Et nous nous trouvons actuellement devant une question bien autrement angoissante: comment éviter leur réalisation définitive?
L’homme n’est homme que dans le mouvement qui le porte vers lui-même. « Utopie » rappelle aux hommes que le lieu parfait n’existe pas dans l’histoire, qu’il est ailleurs, irréductible à toutes les cités humaines, mais inconcevable en dehors d’elles, comme irréductible à tout autre est le lieu d’intériorité où les hommes s’affranchissent de leurs certitudes, s’indignent de leurs défaillances, renoncent au mirage du meilleur des mondes pour concevoir le projet d’un monde meilleur.

La tête et le genou ne me font mal que lorsque j’essaie de marcher.
Allongée, je n’éprouve aucune douleur.
Je reste donc au lit et je rêve les yeux ouverts.
Mon enfance se détache de plus en plus clairement dans ma mémoire, comme si les années s’accumulaient sur toutes les autres époques de ma vie, en n’épargnant que le commencement.
Tout est net au lointain.
J’avais l’initiative des évasions, les après-midi d’été quand tout le monde reposait dans la maison, les volets clos, enfouis dans la profonde fraîcheur des chambres. On m’obligeait à me coucher ou, au moins, à passer deux heures allongée, les jours de canicule. Moi, je faisais semblant de dormir et quand tout bruit avait cessé, je sortais par la fenêtre, en invitant Adèle à me suivre. Pieds nus, pour ne pas nous faire entendre, nous traversions en grimaçant de douleur la cour pavée dont les pierres chauffaient à blanc sous le soleil. Nous entrions dans le verger, par une porte en bois, qu’on ouvrait avec mille précautions car elle grinçait à vous casser les oreilles et pénétrions dans le royaume interdit. Le verger bruissait d’insectes et d’effluves, on le voyait mûrir presque et s’épandre au soleil comme un pain à la chaleur du four.
La première tentation était le figuier, tout au fond du verger où en grimpant sur les branches lisses nous faisions fuir les lézards. Nous choisissions toujours les figues larmoyantes, déjà piquées par la langue des lézards, et dont le jus formait en coulant une larme claire au bout inférieur du fruit. La douceur chaude me remplissait la bouche et toute ma vie se concentrait dans cette sensation de bonheur, de paix, de satisfaction suprême que j’allais retrouver plus tard dans l’Amour.
Nous abandonnions vite le figuier, car ses feuilles rares laissaient passer le soleil qui nous mordait la nuque. Nous passions donc, les paumes chargées de figues, sous les voûtes fraîches de la vigne, nous prenions les grappes mûres en les détachant d’un coup sec et précis, là où la tige formait une enflure, comme un nœud fragile, nous nous asseyions dans l’herbe pour croquer à l’aise, entre les dents, les grains savoureux.
Deux grains de raisins et une figue.
C’était la règle.
Puis deux figues et quatre grains, et ainsi de suite.
C’était un festin en proportion géométrique.
Nous n’en pouvions plus.
Le ventre pesait sur mon corps comme un poids qui ne m’appartenait pas.
Les cigales, ivres de chaleur, faisaient vibrer l’air élastique.
Nous parlions garçons, poésie, j’éblouissais mon Amie de mes connaissances.
Je trouvais des rimes à tout et j’inventais des histoires.
Elle admirait mes poésies et savait que j’aurais été l’une de celles qui, tôt ou tard, auraient choisi le chemin de la liberté. Elle ne me l’a jamais dit, mais je n’avais pas de peine à le lire dans son cœur.
Elle n’a pas changé.
La vie éternelle ne laisse pas de traces sur les visages! 
Ces deux heures paraissaient sans fin, tant elles coulaient lentement, sous le temps de l’enfance.
Nous sautions la palissade, au fond du verger et nous nous trouvions sur une place, peu fréquentée, déserte à cette heure, où poussait l’herbe parmi les pierres du pavé.
C. dormait dans le grande silence, bercée par le chant des cigales.
Nous étions les seuls êtres vivants au milieu d’un village qui nous appartenait.
L’enfance nous pesait comme une honte. Le temps qui nous séparait encore de l’âge des adultes nous semblait immense et insupportable.
J’avais envie de pleurer, de rage et de désir. 
Pythagore disait que la vie est divisée en quatre périodes:
 « L’enfance, jusqu’à vingt ans; l’adolescence, de vingt à quarante ans; la jeunesse, de quarante à soixante; et la vieillesse, de soixante à quatre-vingts. »
J’ai perdu ma jeunesse à vingt ans, au moment où, selon lui, elle ne fait que commencer.
Le soleil est encore haut dans le ciel.
Et moi, je sens la même ferveur, la même audace qu’un jeune général avant sa première bataille.

D
 


Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo! 

 

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA 1. LA CAMORRA
di Daniela Zini


SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA 2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini


SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini


SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini



SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria . Parte Prima -
di Daniela Zini


SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria . Parte Seconda -
di Daniela Zini


SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini


 
III. I SAMURAI
di
Daniela Zini
 HANA WA SAKURA GI
HITO WA BUSHI[2]
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
 
 

Sapere uccidere e sapere morire era il credo dei samurai. Per questa casta, la spada simboleggiava “l’anima dei samurai” e il fiore di ciliegio la disponibilità al sacrificio della vita. Il loro tramonto iniziò nel XVI secolo, quando l’arma bianca fu eclissata da nuove tecniche di guerra. Sono stati i kamikaze gli ultimi eredi dei samurai.

Invictus[3]
William Ernest Henley

Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.

In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.

Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.

It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.

 


“La memoria è come un coltello: ti potrebbe ferire.”
Murasaki Shikibu


L
a figura del samurai o bushi, l’aristocratico-guerriero giapponese, compare, nel secolo XII, e rimane, tuttora, emblematica della cultura, nel cui ambito si è andata plasmando. Emblematica nel senso che le virtù ritenute proprie del samurai riflettono valori, tenacemente radicati nella storia e nella cultura del Giappone: la lealtà politica e il senso dell’onore nazionale.   
Senza dubbio, fu la topografia montagnosa e insulare del Paese a favorirne la divisione in tante piccole comunità, che hanno, a lungo, conservato la loro identità feudale. Ma è, proprio, nel secolo XII, che si fissa quel processo storico, che, sotto certi profili, rende simile il Giappone all’Europa feudale; aumenta il peso dell’aristocrazia militare provinciale e si crea una specie di quartiere generale militare con notevoli poteri civili, lo shogunato, mentre la nobiltà di corte perde il potere e resta isolata nella torre di avorio imperiale. 



Si stabilisce, allora, più precisamente, quel rapporto tra signore e vassallo, sul quale si fonda l’esercizio reale del potere. Il signore compensa la fedeltà del vassallo, garantendogli il sostentamento, vale a dire, in sostanza, elargendogli un feudo. Da questo momento, la classe dei samurai ascende, lentamente, al comando, dapprima politico-militare; ma, poi, anche economico, benché solo nello shogunato Tokugawa [1603-1867][4] giunga a dominare l’intero Paese.
La trasformazione dell’aristocrazia provinciale in una casta militare è un processo lento, ma inarrestabile. E, poiché, per controllare le frequenti agitazioni nelle campagne, occorrevano, soprattutto, capacità militari, molte famiglie si addestravano nell’uso della spada e dell’arco e nell’arte della equitazione: l’esercizio della autorità, in sostanza, dipendeva dalla forza delle armi e della destrezza dei combattenti, e ciò rese sempre più autorevole l’intervento dei samurai.
Già, prima del secolo XII, in alcune regioni, si formano bande, costituite da famiglie di militari, che, durante le sommosse locali, si mettono al servizio degli aristocratici, inviati dalla corte imperiale a reggere le province. La famiglie, che, attraverso queste lotte, hanno aumentato il loro prestigio e il loro potere, non si limitano a difendere la pace, bensì esercitano pressioni per ottenere il potere alla corte imperiale di Kyoto.   
La guerra tra le due potenti fazioni dei Taira e Minamoto [1180-1185][5], che spazza l’intero Paese, contribuisce, in modo determinante, a consolidare il potere dei samurai. Le gesta dei samurai, impegnati in questa cruentissima guerra, sono state tramandate nella storia e idealizzate dalle generazioni successive fino a divenire la materia di numerosi drammi e racconti.
Quando Minamoto no Yoritomo[6], capo della stirpe dei Seiwa Minamoto, diviene shogun, vale a dire supremo comandante militare e proprietario di molte province, il sistema amministrativo che questi accentra, a Kamakura, finisce per sostituire gli organi del governo civile di Kyoto. Il nuovo sistema si fonda su rapporti di stretta dipendenza feudale.
Dopo il trionfo di Minamoto no Yoritomo, i samurai si occupano, essenzialmente, dell’amministrazione fondiaria, vivendo sulle terre loro assegnate. Curano molto il loro addestramento militare e attribuiscono una importanza capitale a qualità, quali la lealtà, il coraggio e la sobrietà.
I simboli fondamentali della loro casta sono la spada, l’anima del samurai, e il fiore di ciliegio. Quanto al fiore di ciliegio, che, propriamente, simboleggia la disponibilità da parte del samurai a sacrificare la virtù senza rimpianti, lo studioso Eugen Herrigel spiega:
“Come un petalo cade alla prima luce del mattino e scende con serenità alla terra, così il coraggioso si stacca dalla vita, in silenzio e intimamente tranquillo.”
Costretto a vivere una vita di privazioni, a rispettare le ferree leggi della disciplina militare, il samurai forgia il proprio carattere, abituandosi alla assoluta frugalità e disprezzando la vita comoda del cortigiano. L’antropologa Ruth Benedict[7], opportunamente, sottolinea:
“Non vi era nulla di più irritante, per un samurai, del prestigio sociale basato sulla ricchezza e sulla ostentazione”.   
Una prova della serietà e della correttezza di un samurai è la sua capacità di darsi la morte mediante il seppuku o harakiri[8], come preferiscono dire gli occidentali, quando il suo onore è macchiato. Questa scelta non può essere, correttamente, intesa, se non si tiene conto che il suicidio rituale viene considerato un estremo atto di risolutezza e coraggio, un privilegio, del quale i guerrieri giapponesi danno una valutazione del tutto positiva.
Per un samurai darsi la morte, squarciandosi il ventre, significa compiere un atto ragionevole, risolvere una situazione che, nell’ambito dei rigorosi obblighi, contemplati dalla etica feudale, non avrebbe altra via di uscita onorevole.
Il suicidio rituale può essere compiuto, anche, per mostrare la propria opposizione a un superiore e, quindi, in una situazione, nella quale, a rigore, il buon nome del suicida non è in gioco e il rispetto per l’ordine gerarchico non viene meno.

 
I valori morali, cui si ispira il samurai derivano dal fatto che questi è, innanzitutto, un combattente, e tale assioma vale anche nel periodo Tokugawa, quando le doti militari hanno meno possibilità di essere riconosciute delle doti amministrative. Con il passare del tempo, i samurai, consapevoli della importanza e della efficienza, raggiunte dalla loro casta, disprezzano i cortigiani e i mercanti ed esaltano il proprio ruolo come l’unico consacrato al benessere del Giappone: si tratta non solo di sapere morire, ma di restare fedeli a oltranza al codice cavalleresco feudale.
Tuttavia, il loro codice d’onore, il bushido, la “via del guerriero” – e il termine “via” va inteso in senso filosofico – giunge a una compiuta formulazione solo nel secolo XVII, sotto la influenza del confucianesimo. Tanto il buddismo quanto il confucianesimo hanno, infatti, concorso nel plasmare il bushido; ma dopo essere stati, a loro volta, filtrati attraverso la peculiare sensibilità religiosa giapponese.
Antico è il fascino esercitato dal buddismo sui samurai.
Nella società dei guerrieri gli ordini monastici forniscono gli uomini istruiti, in grado di aiutare i capi militari delle amministrazioni, e servono da rifugio a chi vuole coltivare le arti e le lettere. 
È verso la metà del secolo XIII, in pieno periodo Kamakura, che il buddismo diviene parte integrante della vita giapponese e acquistano particolare importanza le tecniche di meditazione Zen. Da un punto di vista politico generale, i rapporti tra lo shogunato e l’ordine monastico Zen si fanno più stretti, intorno all’anno 1200. L’insegnamento Zen, ostile a ogni genere di scolasticismo e rivolto a liberare l’uomo da ogni apprensione, attira, in modo particolare, i samurai, molti dei quali si ritirano nel clero Zen. Si viene, così, a stabilire un rapporto tra le dottrine Zen e l’uso della spada.
Il fabbro, capace di forgiare le resistenti e affilatissime lame delle spade, gode dei privilegi di un samurai e lavora, usando strumenti e formule rituali: si riteneva che la spada avesse un’anima e, per questo, la sua fabbricazione veniva accompagnata da cerimonie religiose di purificazione.
 


Alcune spade sono divenute, per così dire, individualmente celebri, e, ancora oggi, in Giappone, i grandi artisti che forgiarono le lame – soprattutto nel periodo Kamakura –, che crearono i vari accessori della spada, soprattutto la tsuba[9], o che costruirono le armature dei samurai, sono noti non meno degli autori di celebri dipinti.
Il samurai porta due spade, una più lunga, katana, e una più corta, wakizashi, che hanno avuto una loro evoluzione, attraverso i secoli. L’uso della spada è regolato da una precisa e minuziosa etichetta; non si può neppure mostrare una lama, a esempio, se non in determinate circostanze e rispondendo a una richiesta. Ma occorre, qui, rilevare che, in combattimento, l’uso della spada, e in particolare della classica katana, richiede eccezionale freddezza e prontezza di riflessi e che, proprio in questo senso, le dottrine Zen forniscono un impareggiabile apprendistato.
Daisetsu Teitaro Suzuki spiega:
“Naturalmente le istruzioni non vertono sulla tecnica dell’arte della scherma in sé, bensì sulla disposizione mentale di chi usa la spada.”
In altri termini, si tratta, ancora una volta, di raggiungere quello stato di abbandono del proprio io, di spontaneità, che sta al centro degli insegnamenti Zen. Ciò spiega, perché il monaco Takuan Soho, morto, nel 1645, raccomandasse a Yagyu Tajima no Kami, suo discepolo e maestro di scherma:
“Mentre tu indugi, pensi, e prendi una decisione, l’avversario è pronto ad abbatterti. Bisogna che tu non gli dia questa possibilità, che la tua mente reagisca liberamente, senza che tu prenda una decisione.”
I samurai hanno modo di mostrare le loro qualità, quando Kublay Khan, capo dei mongoli, tenta di invadere il Giappone, nel 1281, e le sue truppe vengono distrutte. Ma, ai fini della presente trattazione, acquista maggiore importanza la guerra Onin, che ha termine nel 1477, impegnando aspramente i samurai e portando alla creazione di un nuovo tipo di autorità, il daimyo, alla testa di piccoli principati. E, poiché i daimyo reclutano eserciti numerosi, nei quali hanno larga parte i fanti armati di picche, l’antica tecnica del combattimento corpo a corpo tende a scomparire; si parla, ormai, di eserciti con una forza oscillante tra i diecimila e i ventimila uomini, reclutati in una sola provincia. La “singolar tenzone” tende a diventare un anacronismo di fronte alle nuove tecniche militari.
La storia del secolo XVI segna l’ascesa dei daimyo, realizzata sui campi di battaglia e consolidata dal diffondersi dell’assolutismo locale. Nella battaglia di Nagashino [1575], uno degli scontri con i quali Oda Nobunaga inizia l’unificazione del Paese, vengono usate, per la prima volta, in considerevole qualità le armi da fuoco. L’archibugio portoghese, che, inizialmente, era solo una bizzarra innovazione dei “barbari” occidentali, cambia la tecnica militare.

 La Battaglia di Nagashino [1575]


Nel 1588, Hydeyoshi Toyotomi, continuatore dell’opera di unificazione iniziata da Oda Nobunaga, costringe i propri vassalli a giurare fedeltà anche all’imperatore e, così, riesce a vincolare le sorti della propria ascesa alla difesa del trono imperiale. Nello stesso anno, Hydeyoshi Toyotomi, ordinando una “caccia alle spade”, in tutto il Giappone, per disarmare la popolazione urbana e rurale e limitare l’uso della spada alla sola classe dei samurai, pone il rigido fondamento di un assetto sociale in cui quattro classi – samurai, contadini, artigiani, mercanti – hanno una loro distinta e ben specificata posizione giuridica.
Quanto agli sviluppi delle tecniche di guerra, occorre aggiungere che i daimyo si ritirano in città-castello fortificate, dove vengono acquartierati gli eserciti locali. Dopo le esperienze militari di Hydeyoshi Toyotomi, che, nel 1592, invade la Corea con un esercito di circa 200mila uomini, la spada giapponese tende ad aumentare di peso, a divenire più larga e pesante, e, quindi, a perdere la squisita eleganza di forme, propria delle spade del periodo Kamakura. Parallelamente, le armature dei samurai, formate da tante squame metalliche, ingegnosamente collegate tra loro con cordoncini di seta e stringhe di cuoio, aumentano di peso.
La politica conservatrice e feudale, instaurata dagli shogun Tokugawa, a partire dal 1600, isola il Giappone dagli altri Paesi; mentre il diffondersi di dottrine confuciane fornisce un fondamento razionale all’ideale di una società, formata da una gerarchia naturale di classi. E proprio in quanto fondamento di una codificazione etica, il confucianesimo fornisce modelli di comportamento – e relativi obblighi – per ogni classe sociale.
Ogni classe ha una sua via, do, e ai samurai spetta, appunto, di rispettare il bushido. Con l’orientamento umanistico del confucianesimo e con la crescente urbanizzazione la classe dei samurai si trasforma, gradualmente, in una casta burocratica; ma anche, essendo più numerose le possibilità di studiare, in una élite colta. Il samurai diviene un gentiluomo e un letterato, senza dimenticare di essere un uomo di armi, e, quindi, di godere del privilegio di portare due spade.
Naturalmente, gli individui, non chiaramente inseriti in un sistema classista così rigido, vengono sballottati quali sugheri in un mare in tempesta, come scoprono, a loro spese, i samurai rimasti senza un signore, gettati alla deriva dalle guerre civili e dai riordinamenti delle terre: questi sono i ronin – letteralmente, uomini onda – che sono causa di gravi disordini e preoccupano le massime autorità del Paese, soprattutto, dopo che, nel 1651, si scopre un loro complotto contro lo shogun. I Tokugawa compiono un notevole sforzo per non lasciare gruppi di samurai privi di un signore, ma il problema della sopravvivenza dei ronin resta grave, poiché il sacerdozio e l’insegnamento ne reinserisce solo una parte nella vita pacifica del Paese. Accade anche che l’usanza dei monaci Komuso di viaggiare per il Giappone, con la testa coperta da un cestello, che non lascia scorgere il volto del mendico, chiedendo l’elemosina e suonando il flauto, venga adottata da samurai, rimasti senza un signore e caduti nella miseria. Alla fine del secolo XVII, i samurai non sono più dei rozzi guerrieri, il cui ruolo è giustificato solo dalle necessità della guerra. Coerentemente con l’ideale confuciano, che insegna a governare con la persuasione, spetta, invece, ai samurai il compito di guidare il popolo con il loro esempio. Ma la complessità del nuovo ruolo comporta gravi contraddizioni: l’uomo di azione, erede delle tradizioni militari, non coesiste facilmente, nella stessa persona, con il saggio amministratore, custode della pace sociale, tanto più che i daimyo del periodo Tokugawa badano, di fatto, soprattutto agli ordinamenti civili. È un segno dei nuovi tempi che venga dichiarata illegale, nel 1663, la usanza di “seguire nella morte il proprio signore”, junshi. Riflesso sintomatico della situazione di disagio, nella quale si vengono a trovare i samurai, è la celebre storia della spedizione punitiva compiuta da quarantasette ronin[10] per vendicare un affronto subito dal loro signore.


Nel 1702, questi quarantasette ronin, realizzando un piano lungamente studiato, penetrano nella casa del responsabile della morte del loro signore, lo uccidono e portano la sua testa sulla tomba del nobile vendicato.

“Signore siamo venuti qui, oggi, per rendervi omaggio. Non avremmo osato presentarci di fronte a voi prima di aver portato a termine la vendetta da voi iniziata. Ogni giorno di forzata attesa ci è parso lungo come tre autunni. Ora, signore, abbiamo scortato Kira fin qui, davanti alla vostra tomba e vi riportiamo anche questa spada che tanto valore ebbe per voi, lo scorso anno, e che ci avete affidata. Vi preghiamo di impugnarla, per colpire, una seconda volta, la testa del vostro nemico, liberandovi così, per sempre, dal vostro odio.”

Le tombe dei quarantasette ronin, nel Tempio di Sengakuji, a Tokyo.

Si deve, allora, decidere, non senza imbarazzo delle autorità e dei dotti, se encomiarli per il loro coraggio e la loro dedizione o punirli per avere ordito, segretamente, una vendetta secondo l’etica dei samurai, ma contro la legge shogunale. Prevale la legge civile sul codice militaresco. I quarantasette ronin sono costretti a fare harakiri; ma divengono eroi nazionali e la serenità, con la quale accettano di morire, accresce, enormemente, la loro popolarità.
I samurai recalcitrano, dunque, di fronte alla prospettiva di stabilire rapporti del tutto impersonali con il potere shogunale, di ridurre le proprie funzioni a quelle di funzionari, stipendiati per meri servizi amministrativi, e intuiscono che la struttura della società feudale sta scricchiolando.
Mentre, un tempo, la selezione dei samurai era basata su criteri militari, e la nomina a una carica avveniva all’interno di una ristretta cerchia sociale, le esigenze della nuova burocrazia permettono anche alle persone dei ceti inferiori di qualificarsi per una carriera nei ranghi superiori. Inoltre, il governo, autoritario e tradizionalista, nei secoli XVIII e XIX è, in ogni caso, oberato dalle esigenze dei samurai, che, costituendo il cinque per cento circa della popolazione, sono troppo numerosi.
In realtà, il samurai lotta contro un assetto economico che fatti nuovi rendono irreversibile.
Dal momento che i samurai si concentrano nelle città-castello del daimyo, invano, si spera in un auspicato “ritorno alla terra”, che consoliderebbe l’antico equilibrio tra le classi sociali. L’aristocrazia feudale, che non si era, mai, occupata di danaro e di commerci, giudicando le attività economiche, in genere, indegne per i samurai, deve fare i conti con un mercato, nel cui ambito le forniture dei samurai dipendono, proprio, dai disprezzati mercanti. Per superare questa contraddizione, il sistema shogunale escogita la creazione di corporazioni monopolistiche, che permettano di stringere rapporti controllati e ufficiali tra samurai e mercanti.
Resta il fatto, tuttavia, che la classe mercantile si impadronisce, incontrastata, del dominio economico, e che sono le attività borghesi a imprimere l’impulso più dinamico alla società giapponese. Da una parte, l’avere rimesso nelle mani dei mercanti le stipulazioni commerciali accelera e, alla lunga, sancisce il declino del potere dei samurai; ma, dall’altra, l’ideale aristocratico viene, ancora, rispettato e sentito, e frequentare il “mondo caduco”, ukiyo – il mondo dell’intrattenimento e delle cortigiane –, viene considerato frivolo, appannaggio delle classi sociali urbane inferiori.
Anche nel secolo XIX, quando l’influenza europea diviene notevole in moltissimi campi dello scibile, i samurai tengono vivo l’ideale dell’aristocratico, versato tanto nelle arti militari quanto in quelle civili. Lo studio della scherma non esclude qualche proficua incursione nella astronomia o nella medicina occidentali. Ma, contemporaneamente, si sviluppa una tendenza, che auspica un ritorno alle fonti dello shintoismo, la religione nazionale e del “vero” Giappone, geloso delle proprie tradizioni e xenofobo.
Questo travagliato momento di confronto e contrasto con l’Occidente porta alla brusca svolta del 1868, ossia alla fine dell’egemonia Tokugawa e alla restaurazione di un governo imperiale.
Nel 1871, spodestati i daimyo, viene abolita la classe dei samurai e inizia la ricostruzione del Paese secondo criteri occidentali.
Occorre rilevare, a questo punto, che in molti capi della Restaurazione, eredi di una educazione militare, la sensibilità per i problemi della Nazione si accompagna all’abitudine di servire una autorità indiscutibile. Sono, in altri termini, uomini di armi consapevoli della crisi, che si sta per abbattere sulla classe dei samurai. È la creazione di un esercito nazionale, libero dai tradizionali vincoli di vassallaggio locale, a vibrare il colpo definitivo alla classe dei samurai. Nel 1873, viene, infatti, promulgata una legge, che abolisce la distinzione tra samurai e comuni cittadini e, contemporaneamente, viene imposta la coscrizione obbligatoria, seguendo modelli di reclutamento europei. Tanto i samurai, classificati piccola nobiltà, quanto i daimyo, classificati grande nobiltà, divengono “pensionati” dello Stato. Infine, nel 1876, viene dichiarata illegale l’usanza di portare la spada.    
Samurai che sfilano a Tokyo.

La tragica e rapida repressione delle rivolte scatenate in alcune località dai samurai dimostra quanto le loro forze siano inadeguate a contrastare l’organizzazione statale moderna e conferma il tramonto dei vecchi privilegi aristocratici.
Un ritorno clamoroso agli ideali dei samurai si è verificato durante il secondo conflitto mondiale. Senza rifarsi alla storia dei samurai sarebbe difficile comprendere i motivi che indussero tanti soldati giapponesi a preferire la morte al disonore della prigionia o l’abnegazione dei kamikaze – chiamati, così, dal nome del “vento divino” che, nel secolo XIII, aveva salvato il Giappone dalla invasione mongola –.
A partire dal 1945 il “culto del bushido” diviene, tuttavia, uno slogan, piuttosto screditato, di correnti politiche fanaticamente nazionalistiche e militaristiche.
A noi occidentali pare che l’epoca atomica abbia cancellato le ultime possibilità di sopravvivenza dell’autentico samurai, anche se l’etica dell’obbligo sociale e il rispetto per gli ordinamenti gerarchici restano, saldamente, radicati nello spirito del Giappone contemporaneo.


 
The Warrior’s Prayer[11]
Stuart Wilde


I am what I am.
In having faith in the beauty within me I develop trust.
In softness I have strength.
In silence I walk with the gods.
In peace I understand myself and the world.
In conflict I walk away.
In detachment I am free.
In respecting all living things I respect myself.
In dedication I honour the courage within me.
In eternity I have compassion for the nature of all things.
In love I unconditionally accept the evolution of others.
In freedom I have power.
In my individuality I express the God-Force within me.
In service I give of what I have become.
I am what I am:
Eternal, immortal, universal, and infinite.
And so be it.


Daniela Zini
Copyright © 17 marzo 2015 ADZ




[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[2] HANA WA SAKURA GI
HITO WA BUSHI
TRA I FIORI IL CILIEGIO
TRA GLI UOMINI IL GUERRIERO
Tale adagio ricorda la analogia tra il fiore di ciliegio, sakura, e il bushi: la eccellenza e la nobiltà dei due.
Il fiore di ciliegio è l’emblema radioso della primavera, il segno del ritorno della vita e della vittoria della dea solare.
La sua delicatezza esprime il non attaccamento; dopo avere annunciato la primavera, il fiore di ciliegio si lascia trasportare dal vento.
La vita del bushi è bella ed effimera come solo quella del fiore più bello sa essere.
La morte è come il vento che distacca i fiori di ciliegio dai rami per cospargerne i prati, le acque, i torrenti. Non vi è nulla di terribile nel vento di primavera: viene dall’azzurro e luminoso mistero del cielo, annuncia la vita.
Il bushi apprende a considerare la sua morte come il vento di primavera: va da mistero a mistero, da vita a vita ed è cosciente di questo andare nel suo breve passaggio primaverile sulla terra degli uomini.

[3] Invincibile
William Ernest Henley

Dal profondo della notte che mi avvolge,
Buia come un pozzo che va da un polo all’altro,
Ringrazio qualunque dio esista
Per l’indomabile anima mia.

Nella feroce stretta delle circostanze
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma indomito.

Oltre questo luogo d’ira e di lacrime
Si profila il solo Orrore delle ombre,
E ancora la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà senza paura.

Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.

[4] Il dominio dello shogunato Tokugawa ebbe inizio, ufficialmente, dal 1603, anno in cui Ieyasu Tokugawa venne nominato shogun dall’imperatore, e si concluse, nel 1868, quando l’ultimo shogun, Yoshinobu Tokugawa, fu costretto a dimettersi dopo la guerra Boshin.
La capitale dello shogunato era Edo e la famiglia Tokugawa risiedeva nel Castello Nijo.

[5] Con l’emergere, nel secolo XII della classe militare delle province e con le guerre intestine che ne seguirono, molte donne in armi si distinsero nelle azioni militari. Il conflitto più noto del periodo fu la guerra Genpei [1180-1185], tra i potenti casati dei Taira  e Minamoto. Lo Heike monogatari, Storia degli Heike [Taira], narra di Tomoe Gozen del clan Minamoto, al fianco del marito, nelle azioni militari contro gli assalti del nemico, il cugino Minamoto no Yoritomo:
“Bellissima, di pelle chiara, i capelli lunghi e qualità seducenti. Fu anche pregevole arcere e con la spada fu guerriero che ne valeva mille, pronta a confrontarsi con demoni o dei, a cavallo e a piedi. Sapeva cavalcare cavalli non domati con estrema perizia e poteva correre a rotta di collo per i più impervi pendii. Quando una battaglia si faceva imminente, Yashinaka se ne serviva come primo condottiero, equipaggiata di una pesante armatura, una spada possente ed un potentissimo arco: ed ella si lanciava in azioni di maggior valore di quelle di qualsiasi altro soldato.”
Tanta silografia di periodo Edo [1603-1867] le avrebbe, poi, destinato ritratti ideali. 
 
[6] Minamoto no Yoritomo era il terzo figlio di Minamoto no Yoshitomo, erede del clan Minamoto, e della sua moglie ufficiale, Fujiwara no Saneori, discendente dell’illustre clan Fujiwara; nacque a Heian, odierna Kyoto, allora capitale del Giappone.

[7] Ruth Benedict fu una delle prime donne a occuparsi di antropologia ed ebbe difficoltà a farsi accettare dall’establishment accademico, tanto che diversi suoi scritti non furono, mai, pubblicati.
Scrisse e pubblicò anche poesie, usando lo pseudonimo di Anne Singleton.

[8] Il seppuku è anche conosciuto come harakiri, taglio del ventre, ed è scritto con lo stesso kanji di seppuku, ma in ordine inverso con un okurigana.
Christopher Ross nota che:
“Di norma, si considera hara-kiri come un termine di uso volgare, ma si tratta di un malinteso. Hara-kiri è la lettura giapponese Kun-yomi dei caratteri; poiché divenne uso comune preferire la lettura cinese negli annunci ufficiali, negli scritti si impose l’uso del termine seppuku. Quindi, hara-kiri è un termine del registro parlato, mentre seppuku è un termine del registro scritto per indicare lo stesso atto.” [Christopher Ross, Mishima’s Sword]
La pratica di fare seppuku alla morte del proprio signore, nota come oibara o tsuifuku, segue un rituale simile.

[9] La tsuba è il termine indicante la guardia della spada giapoonese.

[10] La vicenda dei quarantasette ronin è stata, magistralmente, raccontata da Kuniyoshi Utagawa, uno dei grandi maestri dell’ukiyo-e, le stampe del mondo fluttuante. Kuniyoshi, infatti, creò una raccolta raffigurante tutti i protagonisti della vicenda e le loro storie.

[11] La preghiera del guerriero
Stuart Wilde

Sono quel che sono.
Avendo fede nella bellezza dentro di me, sviluppo fiducia.
Nella dolcezza ho forza.
In silenzio cammino con gli dei.
In pace comprendo me stesso e il mondo.
Nel conflitto mi allontano.
Nel distacco sono libero.
Nel rispettare ogni creatura vivente, rispetto me stesso.
In dedizione onoro il coraggio dentro di me.
In eternità ho pietà per la natura di tutte le cose.
In amore accetto incondizionatamente l’evoluzione degli altri.
In libertà ho potere.
Nella mia individualità esprimo la Forza Divina che è dentro di me.
In servizio do quel che sono diventato.
Sono quel che sono:
Eterno, immortale, universale e infinito.
E così sia.


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