“He who controls the past controls
the future.
He who controls the present controls
the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In politics, nothing happens by
accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt
Nos vies sont les fleuves…
Daniela Zini
Je
n’avais qu’une illusion: c’était une douce
Pensée:
celle du fleuve qui voit la mer proche
Et
voudrait un instant devenir eau dormante
Et
se reposer à l’ombre de quelque vieux palmier.
Et mon âme disait: Je suis trouble et me fatigue
De courir les plaines et de sauter les digues;
La
tourmente est passée; j’ai besoin de repos,
D’être bleu comme avant, et chanter à voix basse.
Et
j’avais une seule illusion, si sereine
Qu’elle
guérissait mes maux et allégeait ma peine
Avec le clair reflet du feu d’un foyer.
Et la vie me dit: Ame, reste trouble et seule,
Sans un lis sur la rive ni une étoile sur l’eau,
Va courir les plaines et te perdre dans la mer!
alla
mia dolce Bestiolina, un vero Ronin
“[…]
Dare l’esempio, dare il modello;
immedesimarsi, imitare — questa è la relazione fondamentale dell’insegnamento,
anche se nelle ultime generazioni, con l’introduzione di nuove materie di
studio, abbiano preso piede anche metodi d’insegnamento europei e vengano usati
con innegabile intelligenza. Come si spiega il fatto che, malgrado l’iniziale entusiasmo
per la novità, le arti giapponesi siano rimaste sostanzialmente immuni da queste
nuove forme d’insegnamento?
Non
è facile dare una risposta a tale domanda.
Eppure
tenterò di farlo, e sia pure in modo sommario, per chiarire maggiormente lo
stile dell’insegnamento giapponese e con esso il significato dell’imitazione.
L’allievo
giapponese porta con sé tre cose: buona educazione, appassionato amore per l’arte
da lui scelta e venerazione incondizionata del maestro. Fin dai tempi più antichi,
il rapporto maestro-allievo fa parte dei legami fondamentali della vita e
investe perciò il maestro di una grande responsabilità, che va molto al di là
dei limiti della sua materia. All’inizio allo scolaro non si richiede che una
coscienziosa imitazione di ciò che il maestro esegue davanti a lui. Alieno da lunghe
istruzioni e spiegazioni, questi si limita a brevi cenni e non si aspetta che l’allievo
ponga domande. Egli assiste tranquillamente agli incerti tentativi senza
ripromettersi autonomia e iniziativa, e ha la pazienza di attendere la crescita
e la maturazione. L’uno e l’altro non hanno fretta, il maestro non spinge e l’allievo
non corre.
Ben
lontano dal voler destare anzitempo nell’allievo l’artista, il maestro ritiene
suo primo compito di fare di lui un esperto, che ha assoluta padronanza del
mestiere. A questo intento l’allievo viene incontro con instancabile diligenza.
Come se non avesse pretese più elevate, egli si lascia imporre la soma con
cieca sottomissione, e solo nel corso degli anni l’esperienza gli proverà che
le forme di cui è perfettamente padrone non lo opprimono più, ma lo liberano.
Di giorno in giorno gli diventa sempre più facile seguire tecnicamente tutte le
ispirazioni, ma anche lasciarsi ispirare dall’osservazione più scrupolosa. La
mano che regge il pennello, nel momento stesso in cui lo spirito comincia a dare
forma, ha già colto e compiuto ciò che esso intravede, e alla fine l’allievo
non sa a quale dei due, lo spirito o la mano, è dovuta l’opera. Ma per arrivare
al punto in cui l’abilità tecnica diventa “spirituale”, è necessaria, come nell’arte
del tiro con l’arco, una concentrazione di tutte le forze fisiche e psichiche,
della quale, come mostreranno altri esempi, non si può fare a meno in nessun
caso. Un pittore all’inchiostro di China prende posto davanti agli allievi.
Esamina i pennelli e li dispone lentamente per l’uso, macina accuratamente il colore,
raddrizza la lunga e sottile striscia di carta che sta davanti a lui sulla
stuoia, e finalmente, dopo essersi trattenuto un certo tempo in profonda
concentrazione, in cui sembra irraggiungibile, con pennellate rapide e sicure
traccia un’immagine che non richiede né tollera correzioni e che serve di
modello agli allievi.
Un
maestro dei fiori comincia la lezione sciogliendo con precauzione il legaccio
che stringe i fiori e i rami fioriti, e dopo averlo arrotolato con cura, lo
mette da parte.
Considera
quindi i singoli rami, dopo ripetuto esame ne sceglie i migliori, dà a essi, piegandoli
delicatamente, la forma che devono assumere secondo la loro funzione e finalmente
li dispone in un vaso appositamente scelto. La composizione, al suo termine,
appare come se il maestro avesse indovinato ciò che la natura sogna nei suoi sogni
oscuri.
In
questi due casi, a cui vorrei limitarmi, i maestri si comportano come se
fossero soli.
Agli
allievi non concedono neppure uno sguardo, tanto meno una parola. Compiono i preparativi
calmi e assorti, si perdono, dimentichi di sé, nel processo creativo delle figure
e delle forme, e ad ambedue esso appare, dalle operazioni preliminari all’opera
compiuta, un accadimento in sé conchiuso. Ed esso è in realtà dotato di una
tale potenza espressiva da agire sullo spettatore come un quadro.
Ma
perché il maestro non fa eseguire da qualche allievo esperto i preparativi indispensabili,
ma tuttavia assolutamente secondari? Se macina egli stesso il colore, se scioglie
con tanta lentezza il legaccio invece di tagliarlo rapidamente e gettarlo via
con noncuranza, questo stimola forse la forza della sua visione e della sua
creazione artistica? E che cosa lo muove a ripetere questa serie di atti a ogni
lezione con inesorabile insistenza e addirittura con pedanteria, senza
ometterne alcuna parte, e a farlo imitare dagli allievi?
Egli
si tiene alle usanze tradizionali perché i preparativi dell’opera, come sa per
esperienza, servono a predisporlo alla creazione artistica.
Egli
deve alla calma meditativa con cui li esegue quella necessaria distensione e quell’equilibrio
di tutte le sue forze, quel raccoglimento e quella presenza dello spirito senza
i quali non nasce alcuna opera valida.
Assorto nella sua azione, ma senza intervenirvi
volontariamente, egli viene condotto verso il momento in cui l’opera, di cui ha
un’intuizione vaga e ideale, si compie come da sola. Come nel tiro con l’arco i
passi e le posizioni, qui, in forme diverse, altri preliminari hanno la stessa
funzione. E soltanto là dove questo non è possibile, ad esempio per il
danzatore sacro e l’attore, il raccoglimento e la concentrazione precedono l’entrata
in scena.
Anche in questi esempi si tratta
dunque innegabilmente, come nel tiro con l’arco, di cerimonie. Con una
chiarezza che il maestro non potrebbe dare con le parole, l’allievo apprende da
esse che si raggiunge il giusto atteggiamento spirituale dell’artista quando i preparativi
e l’opera, il mestiere e l’arte, il materiale e lo spirituale, il soggettivo e l’oggettivo
trapassano senza discontinuità l’uno nell’altro. E con ciò ha trovato un nuovo motivo
d’imitazione. Ormai gli è richiesta la completa padronanza delle forme della concentrazione,
della meditazione più profonda. L’imitazione, non più rivolta a contenuti
oggettivi, che ciascuno con buona volontà riesce in qualche modo a riprodurre,
si fa ora più libera, più mobile, più spirituale.
L’allievo si vede di fronte a nuove
possibilità, ma nello stesso tempo apprende che la loro realizzazione non
dipende più minimamente dalla sua buona volontà.
Ammesso che il suo talento gli
permetta di raggiungere questo livello, un pericolo quasi inevitabile attende l’allievo
nel suo cammino d’artista. Non il pericolo di consumarsi nel vano compiacimento
di sé — l’uomo dell’Estremo Oriente non ha per natura alcuna disposizione a
questo culto del proprio Io — ma piuttosto il pericolo di fermarsi a ciò che
egli sa ed è, a ciò che il successo conferma e la fama celebra. Di comportarsi
cioè come se l’esistenza artistica fosse una forma di vita a sé, e che ha in sé
il proprio suggello e la propria giustificazione.
Il
maestro lo prevede. Cautamente, e con la più sottile arte nella guida d’anime,
cerca di prevenire a tempo il pericolo e di liberare l’allievo da se stesso. Vi
perviene ricordandogli, senza insistervi e come se fosse un’osservazione
occasionale, legata all’esperienza che l’allievo ha già fatto, che ogni
creazione valida riesce soltanto nella condizione di schietto abbandono del
proprio Io, nella quale chi opera non può più essere presente, come “se
stesso”. Solo lo spirito è presente, una sorta di vigilanza che non presenta
affatto la sfumatura dell’“io stesso”, e perciò penetra tanto più liberamente
in tutte le lontananze e le profondità “con occhi che odono e con orecchi che
vedono”.
[…]”
Eugen Herrigel [1884-1955], Lo Zen e
il Tiro con l’Arco
“Une carte du
monde qui n’inclurait pas
l’Utopie n’est pas digne d’un regard.”
Oscar Wilde
Les utopies apparaissent comme bien plus
réalisables qu’on ne le croyait autrefois. Et nous nous trouvons actuellement
devant une question bien autrement angoissante: comment éviter leur réalisation
définitive?
L’homme n’est homme que dans le mouvement
qui le porte vers lui-même. « Utopie » rappelle aux hommes que le
lieu parfait n’existe pas dans l’histoire, qu’il est ailleurs, irréductible à
toutes les cités humaines, mais inconcevable en dehors d’elles, comme
irréductible à tout autre est le lieu d’intériorité où les hommes s’affranchissent
de leurs certitudes, s’indignent de leurs défaillances, renoncent au mirage du meilleur des mondes pour concevoir le projet d’un monde
meilleur.
La tête et le genou ne me font mal que
lorsque j’essaie de marcher.
Allongée, je n’éprouve aucune douleur.
Je reste donc au lit et je rêve les yeux
ouverts.
Mon enfance se détache de plus en plus
clairement dans ma mémoire, comme si les années s’accumulaient sur toutes les
autres époques de ma vie, en n’épargnant que le commencement.
Tout est net au lointain.
J’avais l’initiative des évasions, les
après-midi d’été quand tout le monde reposait dans la maison, les volets clos,
enfouis dans la profonde fraîcheur des chambres. On m’obligeait à me coucher
ou, au moins, à passer deux heures allongée, les jours de canicule. Moi, je faisais
semblant de dormir et quand tout bruit avait cessé, je sortais par la fenêtre,
en invitant Adèle à me suivre. Pieds nus, pour ne pas nous faire entendre, nous
traversions en grimaçant de douleur la cour pavée dont les pierres chauffaient
à blanc sous le soleil. Nous entrions dans le verger, par une porte en bois, qu’on
ouvrait avec mille précautions car elle grinçait à vous casser les oreilles et
pénétrions dans le royaume interdit. Le verger bruissait d’insectes et d’effluves,
on le voyait mûrir presque et s’épandre au soleil comme un pain à la chaleur du
four.
La première tentation était le figuier, tout
au fond du verger où en grimpant sur les branches lisses nous faisions fuir les
lézards. Nous choisissions toujours les figues larmoyantes, déjà piquées par la
langue des lézards, et dont le jus formait en coulant une larme claire au bout
inférieur du fruit. La douceur chaude me remplissait la bouche et toute ma vie
se concentrait dans cette sensation de bonheur, de paix, de satisfaction
suprême que j’allais retrouver plus tard dans l’Amour.
Nous abandonnions vite le figuier, car ses
feuilles rares laissaient passer le soleil qui nous mordait la nuque. Nous
passions donc, les paumes chargées de figues, sous les voûtes fraîches de la
vigne, nous prenions les grappes mûres en les détachant d’un coup sec et
précis, là où la tige formait une enflure, comme un nœud fragile, nous nous
asseyions dans l’herbe pour croquer à l’aise, entre les dents, les grains
savoureux.
Deux grains de raisins et une figue.
C’était la règle.
Puis deux figues et quatre grains, et ainsi
de suite.
C’était un festin en proportion géométrique.
Nous n’en pouvions plus.
Le ventre pesait sur mon corps comme un
poids qui ne m’appartenait pas.
Les cigales, ivres de chaleur, faisaient vibrer
l’air élastique.
Nous parlions garçons, poésie, j’éblouissais
mon Amie de mes connaissances.
Je trouvais des rimes à tout et j’inventais
des histoires.
Elle admirait mes poésies et savait que j’aurais
été l’une de celles qui, tôt ou tard, auraient choisi le chemin de la liberté.
Elle ne me l’a jamais dit, mais je n’avais pas de peine à le lire dans son
cœur.
Elle n’a pas changé.
La vie éternelle ne laisse pas de traces sur
les visages!
Ces deux heures paraissaient sans fin, tant
elles coulaient lentement, sous le temps de l’enfance.
Nous sautions la palissade, au fond du
verger et nous nous trouvions sur une place, peu fréquentée, déserte à cette
heure, où poussait l’herbe parmi les pierres du pavé.
C. dormait dans le grande silence, bercée
par le chant des cigales.
Nous étions les seuls êtres vivants au
milieu d’un village qui nous appartenait.
L’enfance nous pesait comme une honte. Le
temps qui nous séparait encore de l’âge des adultes nous semblait immense et
insupportable.
J’avais envie de pleurer, de rage et de
désir.
Pythagore disait que la vie est divisée en
quatre périodes:
« L’enfance, jusqu’à vingt ans; l’adolescence,
de vingt à quarante ans; la jeunesse, de quarante à soixante; et la vieillesse,
de soixante à quatre-vingts. »
J’ai perdu ma jeunesse à vingt ans, au
moment où, selon lui, elle ne fait que commencer.
Le soleil est encore haut dans le ciel.
Et moi, je sens la même ferveur, la même
audace qu’un jeune général avant sa première bataille.
D
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò
che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo
piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi
esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in
questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi
stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di
gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società
segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti.
La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li
obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e
mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy
tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di
New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra
Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più
pericoloso.
“[…] La
stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente
contrari alle società segrete, ai
giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso,
molto tempo fa, che i pericoli di
un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti
superino, di gran lunga, i pericoli che
vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno
alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche,
sociali, politiche o di clubs privati
riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono state, in
un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni
dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto
a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si
ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo
mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle
società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si
pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una
appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della
storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle
società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti
di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società
segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla
nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non
critico, che degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle società segrete
in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare,
ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini,
noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli
“eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere,
mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei
predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo
un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente
scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle
società segrete è che
le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le
società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo
ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde,
necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più
lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In
principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla
fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu
la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui
veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali
della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero
divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i
due poli della sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto
al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un
inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo
iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben
presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la
trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano
riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che
abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la
materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si
svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre
di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete
assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e,
soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra
svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario,
legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la
razionalità scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una
moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con
possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una
importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia,
versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono,
sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le
ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia
esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente,
legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne
ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su
Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema,
esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali,
basati sul controllo, il potere e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in
cui viviamo!
SOCIETA’
SEGRETE
I. LA
CAMORRA 1. LA CAMORRA
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
I. LA
CAMORRA 2. L’ANNORATA SOCIETA’
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA 1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA 2. LA ONORATA SOCIETA’
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria . Parte Prima -
di Daniela
Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria . Parte Seconda -
di Daniela
Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela
Zini
III. I SAMURAI
di
Daniela
Zini
HANA WA SAKURA GI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
Sapere uccidere e sapere
morire era il credo dei samurai. Per
questa casta, la spada simboleggiava “l’anima dei samurai” e il fiore di ciliegio la disponibilità al sacrificio
della vita. Il loro tramonto iniziò nel XVI secolo, quando l’arma bianca fu
eclissata da nuove tecniche di guerra. Sono stati i kamikaze gli ultimi eredi dei samurai.
William Ernest Henley
Out of
the night that covers me,
Black
as the pit from pole to pole,
I
thank whatever gods may be
For my
unconquerable soul.
In the
fell clutch of circumstance
I have
not winced nor cried aloud.
Under
the bludgeonings of chance
My
head is bloody, but unbowed.
Beyond
this place of wrath and tears
Looms
but the Horror of the shade,
And
yet the menace of the years
Finds
and shall find me unafraid.
It
matters not how strait the gate,
How
charged with punishments the scroll,
I am
the master of my fate:
I am
the captain of my soul.
“La memoria è come un coltello: ti
potrebbe ferire.”
Murasaki Shikibu
a figura del samurai o bushi, l’aristocratico-guerriero
giapponese, compare, nel secolo XII, e rimane, tuttora, emblematica della
cultura, nel cui ambito si è andata plasmando. Emblematica nel senso che le
virtù ritenute proprie del samurai riflettono valori, tenacemente
radicati nella storia e nella cultura del Giappone: la lealtà politica e il
senso dell’onore nazionale.
Senza dubbio, fu la topografia montagnosa e
insulare del Paese a favorirne la divisione in tante piccole comunità, che
hanno, a lungo, conservato la loro identità feudale. Ma è, proprio, nel secolo
XII, che si fissa quel processo storico, che, sotto certi profili, rende simile
il Giappone all’Europa feudale; aumenta il peso dell’aristocrazia militare
provinciale e si crea una specie di quartiere generale militare con notevoli
poteri civili, lo shogunato, mentre la nobiltà di corte perde il potere e resta
isolata nella torre di avorio imperiale.
Si stabilisce, allora, più precisamente, quel
rapporto tra signore e vassallo, sul quale si fonda l’esercizio reale del
potere. Il signore compensa la fedeltà del vassallo, garantendogli il
sostentamento, vale a dire, in sostanza, elargendogli un feudo. Da questo
momento, la classe dei samurai ascende, lentamente, al comando, dapprima
politico-militare; ma, poi, anche economico, benché solo nello shogunato Tokugawa
[1603-1867]
giunga a dominare l’intero Paese.
La trasformazione dell’aristocrazia provinciale in
una casta militare è un processo lento, ma inarrestabile. E, poiché, per
controllare le frequenti agitazioni nelle campagne, occorrevano, soprattutto,
capacità militari, molte famiglie si addestravano nell’uso della spada e dell’arco
e nell’arte della equitazione: l’esercizio della autorità, in sostanza, dipendeva
dalla forza delle armi e della destrezza dei combattenti, e ciò rese sempre più
autorevole l’intervento dei samurai.
Già, prima del secolo XII, in alcune regioni, si
formano bande, costituite da famiglie di militari, che, durante le sommosse
locali, si mettono al servizio degli aristocratici, inviati dalla corte
imperiale a reggere le province. La famiglie, che, attraverso queste lotte,
hanno aumentato il loro prestigio e il loro potere, non si limitano a difendere
la pace, bensì esercitano pressioni per ottenere il potere alla corte imperiale
di Kyoto.
La guerra tra le due potenti fazioni dei Taira e Minamoto
[1180-1185],
che spazza l’intero Paese, contribuisce, in modo determinante, a consolidare il
potere dei samurai. Le gesta dei samurai, impegnati in questa
cruentissima guerra, sono state tramandate nella storia e idealizzate dalle
generazioni successive fino a divenire la materia di numerosi drammi e
racconti.
Quando Minamoto no Yoritomo, capo
della stirpe dei Seiwa Minamoto, diviene shogun, vale a dire supremo
comandante militare e proprietario di molte province, il sistema amministrativo
che questi accentra, a Kamakura, finisce per sostituire gli organi del governo
civile di Kyoto. Il nuovo sistema si fonda su rapporti di stretta dipendenza
feudale.
Dopo il trionfo di Minamoto no Yoritomo, i samurai
si occupano, essenzialmente, dell’amministrazione fondiaria, vivendo sulle
terre loro assegnate. Curano molto il loro addestramento militare e attribuiscono
una importanza capitale a qualità, quali la lealtà, il coraggio e la sobrietà.
I simboli fondamentali della loro casta sono la
spada, l’anima del samurai, e il fiore di ciliegio. Quanto al fiore di
ciliegio, che, propriamente, simboleggia la disponibilità da parte del samurai
a sacrificare la virtù senza rimpianti, lo studioso Eugen Herrigel spiega:
“Come un petalo cade alla prima
luce del mattino e scende con serenità alla terra, così il coraggioso si stacca
dalla vita, in silenzio e intimamente tranquillo.”
Costretto a vivere una vita di privazioni, a
rispettare le ferree leggi della disciplina militare, il samurai forgia
il proprio carattere, abituandosi alla assoluta frugalità e disprezzando la
vita comoda del cortigiano. L’antropologa Ruth Benedict,
opportunamente, sottolinea:
“Non vi era nulla di più
irritante, per un samurai, del prestigio sociale basato sulla ricchezza e sulla
ostentazione”.
Una prova della serietà e della correttezza di un samurai
è la sua capacità di darsi la morte mediante il seppuku o harakiri,
come preferiscono dire gli occidentali, quando il suo onore è macchiato. Questa
scelta non può essere, correttamente, intesa, se non si tiene conto che il
suicidio rituale viene considerato un estremo atto di risolutezza e coraggio,
un privilegio, del quale i guerrieri giapponesi danno una valutazione del tutto
positiva.
Per un samurai darsi la morte, squarciandosi
il ventre, significa compiere un atto ragionevole, risolvere una situazione
che, nell’ambito dei rigorosi obblighi, contemplati dalla etica feudale, non
avrebbe altra via di uscita onorevole.
Il suicidio rituale può essere compiuto, anche, per
mostrare la propria opposizione a un superiore e, quindi, in una situazione,
nella quale, a rigore, il buon nome del suicida non è in gioco e il rispetto
per l’ordine gerarchico non viene meno.
I valori morali, cui si ispira il samurai
derivano dal fatto che questi è, innanzitutto, un combattente, e tale assioma
vale anche nel periodo Tokugawa, quando le doti militari hanno meno possibilità
di essere riconosciute delle doti amministrative. Con il passare del tempo, i samurai,
consapevoli della importanza e della efficienza, raggiunte dalla loro casta,
disprezzano i cortigiani e i mercanti ed esaltano il proprio ruolo come l’unico
consacrato al benessere del Giappone: si tratta non solo di sapere morire, ma
di restare fedeli a oltranza al codice cavalleresco feudale.
Tuttavia, il loro codice d’onore, il bushido,
la “via del guerriero” – e il termine “via” va inteso in senso filosofico – giunge
a una compiuta formulazione solo nel secolo XVII, sotto la influenza del
confucianesimo. Tanto il buddismo quanto il confucianesimo hanno, infatti,
concorso nel plasmare il bushido; ma dopo essere stati, a loro volta,
filtrati attraverso la peculiare sensibilità religiosa giapponese.
Antico è il fascino esercitato dal buddismo sui samurai.
Nella società dei guerrieri gli ordini monastici
forniscono gli uomini istruiti, in grado di aiutare i capi militari delle
amministrazioni, e servono da rifugio a chi vuole coltivare le arti e le
lettere.
È verso la metà del secolo XIII, in pieno periodo
Kamakura, che il buddismo diviene parte integrante della vita giapponese e
acquistano particolare importanza le tecniche di meditazione Zen. Da un punto
di vista politico generale, i rapporti tra lo shogunato e l’ordine monastico
Zen si fanno più stretti, intorno all’anno 1200. L’insegnamento Zen, ostile a
ogni genere di scolasticismo e rivolto a liberare l’uomo da ogni apprensione,
attira, in modo particolare, i samurai, molti dei quali si ritirano nel
clero Zen. Si viene, così, a stabilire un rapporto tra le dottrine Zen e l’uso
della spada.
Il fabbro, capace di forgiare le resistenti e
affilatissime lame delle spade, gode dei privilegi di un samurai e
lavora, usando strumenti e formule rituali: si riteneva che la spada avesse un’anima
e, per questo, la sua fabbricazione veniva accompagnata da cerimonie religiose
di purificazione.
Alcune spade sono divenute, per così dire,
individualmente celebri, e, ancora oggi, in Giappone, i grandi artisti che
forgiarono le lame – soprattutto nel periodo Kamakura –, che crearono i vari
accessori della spada, soprattutto la tsuba,
o che costruirono le armature dei samurai, sono noti non meno degli
autori di celebri dipinti.
Il samurai porta due spade, una più lunga, katana,
e una più corta, wakizashi, che hanno avuto una loro evoluzione,
attraverso i secoli. L’uso della spada è regolato da una precisa e minuziosa
etichetta; non si può neppure mostrare una lama, a esempio, se non in
determinate circostanze e rispondendo a una richiesta. Ma occorre, qui,
rilevare che, in combattimento, l’uso della spada, e in particolare della
classica katana, richiede eccezionale freddezza e prontezza di riflessi
e che, proprio in questo senso, le dottrine Zen forniscono un impareggiabile
apprendistato.
Daisetsu Teitaro Suzuki spiega:
“Naturalmente le istruzioni non
vertono sulla tecnica dell’arte della scherma in sé, bensì sulla disposizione
mentale di chi usa la spada.”
In altri termini, si tratta, ancora una volta, di
raggiungere quello stato di abbandono del proprio io, di spontaneità, che sta
al centro degli insegnamenti Zen. Ciò spiega, perché il monaco Takuan Soho,
morto, nel 1645, raccomandasse a Yagyu Tajima no Kami, suo discepolo e maestro di scherma:
“Mentre tu indugi, pensi, e
prendi una decisione, l’avversario è pronto ad abbatterti. Bisogna che tu non
gli dia questa possibilità, che la tua mente reagisca liberamente, senza che tu
prenda una decisione.”
I samurai hanno modo di mostrare le loro
qualità, quando Kublay Khan, capo dei mongoli, tenta di invadere il Giappone,
nel 1281, e le sue truppe vengono distrutte. Ma, ai fini della presente
trattazione, acquista maggiore importanza la guerra Onin, che ha termine nel
1477, impegnando aspramente i samurai e portando alla creazione di un
nuovo tipo di autorità, il daimyo, alla testa di piccoli principati. E,
poiché i daimyo reclutano eserciti numerosi, nei quali hanno larga parte
i fanti armati di picche, l’antica tecnica del combattimento corpo a corpo tende
a scomparire; si parla, ormai, di eserciti con una forza oscillante tra i
diecimila e i ventimila uomini, reclutati in una sola provincia. La “singolar
tenzone” tende a diventare un anacronismo di fronte alle nuove tecniche
militari.
La storia del secolo XVI segna l’ascesa dei daimyo,
realizzata sui campi di battaglia e consolidata dal diffondersi dell’assolutismo
locale. Nella battaglia di Nagashino [1575], uno degli scontri con i quali Oda Nobunaga
inizia l’unificazione del Paese, vengono usate, per la prima volta, in
considerevole qualità le armi da fuoco. L’archibugio portoghese, che, inizialmente,
era solo una bizzarra innovazione dei “barbari” occidentali, cambia la tecnica
militare.
La Battaglia di
Nagashino [1575]
Nel 1588, Hydeyoshi Toyotomi, continuatore dell’opera
di unificazione iniziata da Oda Nobunaga, costringe i propri vassalli a giurare
fedeltà anche all’imperatore e, così, riesce a vincolare le sorti della propria
ascesa alla difesa del trono imperiale. Nello stesso anno, Hydeyoshi Toyotomi,
ordinando una “caccia alle spade”, in tutto il Giappone, per disarmare la
popolazione urbana e rurale e limitare l’uso della spada alla sola classe dei samurai,
pone il rigido fondamento di un assetto sociale in cui quattro classi –
samurai, contadini, artigiani, mercanti – hanno una loro distinta e ben
specificata posizione giuridica.
Quanto agli sviluppi delle tecniche di guerra,
occorre aggiungere che i daimyo si ritirano in città-castello
fortificate, dove vengono acquartierati gli eserciti locali. Dopo le esperienze
militari di Hydeyoshi Toyotomi, che, nel 1592, invade la Corea con un esercito
di circa 200mila uomini, la spada giapponese tende ad aumentare di peso, a
divenire più larga e pesante, e, quindi, a perdere la squisita eleganza di
forme, propria delle spade del periodo Kamakura. Parallelamente, le armature
dei samurai, formate da tante squame metalliche, ingegnosamente
collegate tra loro con cordoncini di seta e stringhe di cuoio, aumentano di
peso.
La politica conservatrice e feudale, instaurata
dagli shogun Tokugawa, a partire dal 1600, isola il Giappone dagli altri
Paesi; mentre il diffondersi di dottrine confuciane fornisce un fondamento
razionale all’ideale di una società, formata da una gerarchia naturale di
classi. E proprio in quanto fondamento di una codificazione etica, il
confucianesimo fornisce modelli di comportamento – e relativi obblighi – per
ogni classe sociale.
Ogni classe ha una sua via, do, e ai samurai
spetta, appunto, di rispettare il bushido. Con l’orientamento umanistico
del confucianesimo e con la crescente urbanizzazione la classe dei samurai si
trasforma, gradualmente, in una casta burocratica; ma anche, essendo più
numerose le possibilità di studiare, in una élite colta. Il samurai
diviene un gentiluomo e un letterato, senza dimenticare di essere un uomo di
armi, e, quindi, di godere del privilegio di portare due spade.
Naturalmente, gli individui, non chiaramente inseriti
in un sistema classista così rigido, vengono sballottati quali sugheri in un
mare in tempesta, come scoprono, a loro spese, i samurai rimasti senza
un signore, gettati alla deriva dalle guerre civili e dai riordinamenti delle
terre: questi sono i ronin – letteralmente, uomini onda – che sono causa
di gravi disordini e preoccupano le massime autorità del Paese, soprattutto,
dopo che, nel 1651, si scopre un loro complotto contro lo shogun. I
Tokugawa compiono un notevole sforzo per non lasciare gruppi di samurai
privi di un signore, ma il problema della sopravvivenza dei ronin resta
grave, poiché il sacerdozio e l’insegnamento ne reinserisce solo una parte
nella vita pacifica del Paese. Accade anche che l’usanza dei monaci Komuso di
viaggiare per il Giappone, con la testa coperta da un cestello, che non lascia
scorgere il volto del mendico, chiedendo l’elemosina e suonando il flauto,
venga adottata da samurai, rimasti senza un signore e caduti nella
miseria. Alla fine del secolo XVII, i samurai non sono più dei rozzi
guerrieri, il cui ruolo è giustificato solo dalle necessità della guerra.
Coerentemente con l’ideale confuciano, che insegna a governare con la
persuasione, spetta, invece, ai samurai il compito di guidare il popolo
con il loro esempio. Ma la complessità del nuovo ruolo comporta gravi
contraddizioni: l’uomo di azione, erede delle tradizioni militari, non coesiste
facilmente, nella stessa persona, con il saggio amministratore, custode della
pace sociale, tanto più che i daimyo del periodo Tokugawa badano, di
fatto, soprattutto agli ordinamenti civili. È un segno dei nuovi tempi che
venga dichiarata illegale, nel 1663, la usanza di “seguire nella morte il proprio signore”, junshi. Riflesso
sintomatico della situazione di disagio, nella quale si vengono a trovare i samurai,
è la celebre storia della spedizione punitiva compiuta da quarantasette ronin
per vendicare un affronto subito dal loro signore.
Nel 1702, questi quarantasette ronin,
realizzando un piano lungamente studiato, penetrano nella casa del responsabile
della morte del loro signore, lo uccidono e portano la sua testa sulla tomba
del nobile vendicato.
“Signore
siamo venuti qui, oggi, per rendervi omaggio. Non avremmo osato presentarci di
fronte a voi prima di aver portato a termine la vendetta da voi iniziata. Ogni
giorno di forzata attesa ci è parso lungo come tre autunni. Ora, signore,
abbiamo scortato Kira fin qui, davanti alla vostra tomba e vi riportiamo anche
questa spada che tanto valore ebbe per voi, lo scorso anno, e che ci avete
affidata. Vi preghiamo di impugnarla, per colpire, una seconda volta, la testa
del vostro nemico, liberandovi così, per sempre, dal vostro odio.”
Le tombe dei quarantasette ronin, nel Tempio di Sengakuji, a Tokyo.
Si deve, allora, decidere, non senza imbarazzo
delle autorità e dei dotti, se encomiarli per il loro coraggio e la loro
dedizione o punirli per avere ordito, segretamente, una vendetta secondo l’etica
dei samurai, ma contro la legge shogunale. Prevale la legge civile sul
codice militaresco. I quarantasette ronin sono costretti a fare harakiri;
ma divengono eroi nazionali e la serenità, con la quale accettano di morire,
accresce, enormemente, la loro popolarità.
I samurai recalcitrano, dunque, di fronte
alla prospettiva di stabilire rapporti del tutto impersonali con il potere
shogunale, di ridurre le proprie funzioni a quelle di funzionari, stipendiati
per meri servizi amministrativi, e intuiscono che la struttura della società
feudale sta scricchiolando.
Mentre, un tempo, la selezione dei samurai
era basata su criteri militari, e la nomina a una carica avveniva all’interno
di una ristretta cerchia sociale, le esigenze della nuova burocrazia permettono
anche alle persone dei ceti inferiori di qualificarsi per una carriera nei
ranghi superiori. Inoltre, il governo, autoritario e tradizionalista, nei
secoli XVIII e XIX è, in ogni caso, oberato dalle esigenze dei samurai,
che, costituendo il cinque per cento circa della popolazione, sono troppo
numerosi.
In realtà, il samurai lotta contro un
assetto economico che fatti nuovi rendono irreversibile.
Dal momento che i samurai si concentrano
nelle città-castello del daimyo, invano, si spera in un auspicato
“ritorno alla terra”, che consoliderebbe l’antico equilibrio tra le classi
sociali. L’aristocrazia feudale, che non si era, mai, occupata di danaro e di
commerci, giudicando le attività economiche, in genere, indegne per i samurai,
deve fare i conti con un mercato, nel cui ambito le forniture dei samurai
dipendono, proprio, dai disprezzati mercanti. Per superare questa
contraddizione, il sistema shogunale escogita la creazione di corporazioni
monopolistiche, che permettano di stringere rapporti controllati e ufficiali
tra samurai e mercanti.
Resta il fatto, tuttavia, che la classe mercantile
si impadronisce, incontrastata, del dominio economico, e che sono le attività
borghesi a imprimere l’impulso più dinamico alla società giapponese. Da una
parte, l’avere rimesso nelle mani dei mercanti le stipulazioni commerciali
accelera e, alla lunga, sancisce il declino del potere dei samurai; ma,
dall’altra, l’ideale aristocratico viene, ancora, rispettato e sentito, e
frequentare il “mondo caduco”, ukiyo – il mondo dell’intrattenimento e
delle cortigiane –, viene considerato frivolo, appannaggio delle classi sociali
urbane inferiori.
Anche nel secolo XIX, quando l’influenza europea
diviene notevole in moltissimi campi dello scibile, i samurai tengono
vivo l’ideale dell’aristocratico, versato tanto nelle arti militari quanto in
quelle civili. Lo studio della scherma non esclude qualche proficua incursione
nella astronomia o nella medicina occidentali. Ma, contemporaneamente, si
sviluppa una tendenza, che auspica un ritorno alle fonti dello shintoismo, la
religione nazionale e del “vero” Giappone, geloso delle proprie tradizioni e
xenofobo.
Questo travagliato momento di confronto e contrasto
con l’Occidente porta alla brusca svolta del 1868, ossia alla fine dell’egemonia
Tokugawa e alla restaurazione di un governo imperiale.
Nel 1871, spodestati i daimyo, viene abolita
la classe dei samurai e inizia la ricostruzione del Paese secondo
criteri occidentali.
Occorre rilevare, a questo punto, che in molti capi
della Restaurazione, eredi di una educazione militare, la sensibilità per i
problemi della Nazione si accompagna all’abitudine di servire una autorità
indiscutibile. Sono, in altri termini, uomini di armi consapevoli della crisi,
che si sta per abbattere sulla classe dei samurai. È la creazione di un
esercito nazionale, libero dai tradizionali vincoli di vassallaggio locale, a
vibrare il colpo definitivo alla classe dei samurai. Nel 1873, viene,
infatti, promulgata una legge, che abolisce la distinzione tra samurai e
comuni cittadini e, contemporaneamente, viene imposta la coscrizione
obbligatoria, seguendo modelli di reclutamento europei. Tanto i samurai,
classificati piccola nobiltà, quanto i daimyo, classificati grande
nobiltà, divengono “pensionati” dello Stato. Infine, nel 1876, viene dichiarata
illegale l’usanza di portare la spada.
Samurai che
sfilano a Tokyo.
La tragica e rapida repressione delle rivolte
scatenate in alcune località dai samurai dimostra quanto le loro forze
siano inadeguate a contrastare l’organizzazione statale moderna e conferma il
tramonto dei vecchi privilegi aristocratici.
Un ritorno clamoroso agli ideali dei samurai
si è verificato durante il secondo conflitto mondiale. Senza rifarsi alla
storia dei samurai sarebbe difficile comprendere i motivi che indussero
tanti soldati giapponesi a preferire la morte al disonore della prigionia o l’abnegazione
dei kamikaze – chiamati, così, dal nome del “vento divino” che, nel
secolo XIII, aveva salvato il Giappone dalla invasione mongola –.
A partire dal 1945 il “culto del bushido”
diviene, tuttavia, uno slogan, piuttosto screditato, di correnti
politiche fanaticamente nazionalistiche e militaristiche.
A noi occidentali pare che l’epoca atomica abbia
cancellato le ultime possibilità di sopravvivenza dell’autentico samurai,
anche se l’etica dell’obbligo sociale e il rispetto per gli ordinamenti
gerarchici restano, saldamente, radicati nello spirito del Giappone
contemporaneo.
Stuart Wilde
I am what I am.
In having faith in the
beauty within me I develop trust.
In softness I have
strength.
In silence I walk with the
gods.
In peace I understand
myself and the world.
In conflict I walk away.
In detachment I am free.
In respecting all living
things I respect myself.
In dedication I honour the
courage within me.
In eternity I have
compassion for the nature of all things.
In love I unconditionally
accept the evolution of others.
In freedom I have power.
In my individuality I
express the God-Force within me.
In service I give of what I
have become.
I am what I am:
Eternal, immortal,
universal, and infinite.
And so be it.
Daniela
Zini
Copyright
© 17 marzo 2015 ADZ
President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April
27, 1961
Mr.
Chairman, ladies and gentlemen:
I
appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You
bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago
reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear
upon your profession.
You
may remember that in 1851 the New York Herald
Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its
London
correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are
told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and
undernourished, constantly appealed to Greeley
and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5
per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the
“lousiest petty bourgeois cheating.”
But
when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means
of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the
Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the
world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If
only this capitalistic New York
newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign
correspondent, history might have been different. And I hope all publishers
will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken
appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper
man.
I have
selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some
may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the
Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is
true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded
recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his
colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not
responsible for the press, for the press had already made it clear that it was
not responsible for this Administration.
Nevertheless,
my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called
one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any
complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor
is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential
press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000
Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so,
the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor,
finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy
which the press should allow to any President and his family.
If in
the last few months your White House reporters and photographers have been
attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the
other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be
complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf
courses that they once did.
It is
true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing
skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret
Service man.
My
topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want
to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The
events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some;
but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many
years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or
living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its
challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us
in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This
deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern
both to the press and to the President - two requirements that may seem almost
contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to
meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public
information; and, second, to the need for far greater official secrecy.
I
The
very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a
people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths
and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive
and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which
are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the
threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today,
there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions
do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need
for increased security will be seized upon by those anxious to expand its
meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do
not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of
my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military,
should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to
stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the
public the facts they deserve to know.
But I
do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to
reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s
peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in
an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures
to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that
even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s
need for national security.
Today
no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never
be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those
who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of
our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been
crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the
press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of
combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat
to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,”
then I can only say that the danger has never been more clear and its presence
has never been more imminent.
It
requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by
the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by
every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and
ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its
sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion
instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by
night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human
and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient
machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific
and political operations.
Its
preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not
headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned,
no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short,
with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless,
every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and
the question remains whether those restraints need to be more strictly observed
if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For
the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of
acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents
to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s
covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been
available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the
strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans
and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other
news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at
least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism
whereby satellites were followed required its alteration at the expense of
considerable time and money.
The
newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and
well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not
have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized
only the tests of journalism and not the tests of national security. And my
question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The
question is for you alone to answer. No public official should answer it for
you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I
would be failing in my duty to the nation, in considering all of the
responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those
responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge
its thoughtful consideration.
On
many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said
- that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and
self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and
comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that
those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt
from that appeal.
I have
no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow
of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of
security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have
posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the
members of the newspaper profession and the industry in this country to
re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of
the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger
imposes upon us all.
Every
newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I
suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national
security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen
and public officials at every level - will ask the same question of their
endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And
should the press of America
consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or
machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those
recommendations.
Perhaps
there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma
faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace,
any discussion of this subject, and any action that results, are both painful
and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no
precedent in history.
II
It is
the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second
obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform
and alert the American people - to make certain that they possess all the facts
that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the
purposes of our program and the choices that we face.
No
President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny
comes understanding; and from that understanding comes support or opposition.
And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the
Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing
and alerting the American people. For I have complete confidence in the
response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not
only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This
Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once
said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We
intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point
them out when we miss them.
Without
debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and
no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a
crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was
protected by the First Amendment - the only business in America specifically
protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to
emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what
it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our
opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate
and sometimes even anger public opinion.
This
means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer
far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to
improved understanding of the news as well as improved transmission. And it
means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to
provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits
of national security - and we intend to do it.
III
It was
early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent
inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the
printing press. Now the links between the nations first forged by the compass
have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming
the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together,
the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible
consequences of failure.
And so
it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his
conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance,
confident that with your help man will be what he was born to be: free and
independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik
HITO WA BUSHI
TRA I FIORI IL CILIEGIO
TRA GLI UOMINI IL GUERRIERO
Tale
adagio ricorda la analogia tra il fiore di ciliegio, sakura, e il bushi: la
eccellenza e la nobiltà dei due.
Il
fiore di ciliegio è l’emblema radioso della primavera, il segno del ritorno
della vita e della vittoria della dea solare.
La
sua delicatezza esprime il non attaccamento; dopo avere annunciato la primavera,
il fiore di ciliegio si lascia trasportare dal vento.
La
vita del bushi è bella ed effimera
come solo quella del fiore più bello sa essere.
La
morte è come il vento che distacca i fiori di ciliegio dai rami per cospargerne
i prati, le acque, i torrenti. Non vi è nulla di terribile nel vento di
primavera: viene dall’azzurro e luminoso mistero del cielo, annuncia la vita.
Il
bushi apprende a considerare la sua morte
come il vento di primavera: va da mistero a mistero, da vita a vita ed è
cosciente di questo andare nel suo breve passaggio primaverile sulla terra
degli uomini.
William Ernest Henley
Dal profondo della notte che mi avvolge,
Buia come un pozzo che va da un polo all’altro,
Ringrazio qualunque dio esista
Per l’indomabile anima mia.
Nella feroce stretta delle circostanze
Non mi sono tirato indietro né ho
gridato.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma indomito.
Oltre questo luogo d’ira e di lacrime
Si profila il solo Orrore delle ombre,
E ancora la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà senza paura.
Non importa quanto stretto sia il
passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.
Il dominio dello shogunato Tokugawa ebbe inizio, ufficialmente, dal 1603, anno
in cui Ieyasu Tokugawa venne nominato shogun
dall’imperatore, e si concluse, nel 1868, quando l’ultimo shogun, Yoshinobu Tokugawa,
fu costretto a dimettersi dopo la guerra Boshin.
La
capitale dello shogunato era Edo e la famiglia Tokugawa risiedeva nel Castello
Nijo.
Ruth Benedict fu una delle prime donne a occuparsi di antropologia ed ebbe
difficoltà a farsi accettare dall’establishment
accademico, tanto che diversi suoi scritti non furono, mai, pubblicati.
Scrisse e pubblicò anche
poesie, usando lo pseudonimo di Anne Singleton.
Il seppuku è anche conosciuto come harakiri, taglio del ventre, ed è scritto con
lo stesso kanji di seppuku, ma
in ordine inverso con un okurigana.
Christopher
Ross nota che:
“Di norma, si considera
hara-kiri come un termine di uso volgare, ma si tratta di un malinteso.
Hara-kiri è la lettura giapponese Kun-yomi
dei caratteri; poiché divenne uso comune preferire la lettura cinese negli
annunci ufficiali, negli scritti si impose l’uso del termine seppuku. Quindi,
hara-kiri è un termine del registro parlato, mentre seppuku è un termine del
registro scritto per indicare lo stesso atto.” [Christopher Ross, Mishima’s Sword]
La
pratica di fare seppuku alla morte
del proprio signore, nota come oibara o tsuifuku, segue un
rituale simile.
La
preghiera del guerriero
Stuart Wilde
Sono quel che sono.
Avendo fede nella bellezza dentro di me,
sviluppo fiducia.
Nella dolcezza ho forza.
In silenzio cammino con gli dei.
In pace comprendo me stesso e il mondo.
Nel conflitto mi allontano.
Nel distacco sono libero.
Nel rispettare ogni creatura vivente,
rispetto me stesso.
In dedizione onoro il coraggio dentro di
me.
In eternità ho pietà per la natura di
tutte le cose.
In amore accetto incondizionatamente l’evoluzione
degli altri.
In libertà ho potere.
Nella mia individualità esprimo la Forza Divina
che è dentro di me.
In servizio do quel che sono diventato.
Sono quel che sono:
Eterno, immortale, universale e infinito.
E così sia.
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