“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

mercoledì 25 marzo 2015

SOCIETA' SEGRETE IV. IL SOVRANO ORDINE DEI CAVALIERI DEL TEMPIO 1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO di Daniela Zini



“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984

SOCIETA’ SEGRETE

“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt


 A Mes Amis
Daniela Zini

Passer ses jours à désirer
Sans trop savoir ce qu'on désire

Au même instant rire et pleurer,
Sans raison de pleurer et sans raison de rire.

Voilà  ce qu'on se plaint de sentir quand on aime,
Et de ne plus sentir quand on cesse d'aimer.

Vous, Mes Amis, m’avez perdu ma solitude.
Vous, Mes Amis, m’avez arraché le drap.
Vous, Mes Amis, m’avez mis en fleurs mes cicatrices.



agli Amici vecchi e nuovi, reali e virtuali, sparsi in tutto il mondo
Innumerevoli sono le persone che vorrei ringraziare qui, giacché sono stati tanti coloro che mi hanno offerto con toccante generosità qualcosa di utile, a volte di prezioso.
Mi riferisco agli Amici vecchi e nuovi, reali e virtuali, sparsi in tutto il mondo, con cui ho scambiato, nel corso degli anni, una infinità di lettere e di mails, spesso, del massimo interesse per me.
Non posso, con grande rammarico, menzionarli tutti, a rischio di dimenticarne qualcuno; tuttavia, posso garantire che tutti sono e, sempre, saranno nel mio cuore.
Come me, ritengono questi “incontri” una occasione per conoscersi e per intrecciare rapporti umani con Esseri distanti, uniti da un interesse comune.
Tutto questo a dimostrazione che, su questo Pianeta, vi è, ancora, voglia di fare cultura con responsabilità sociale.
Oggi, sento il piacere di avere molti Amici sparsi per il Mondo... grazie a Facebook anche per questo.
Buona Pasqua a Voi e alle Vostre Famiglie!

D

La mia vita è una bella Fiaba, tanto ricca e felice!
Se bambina, quando mi apprestavo ad andare per il mondo,  avessi incontrato una potente Fata che mi avesse detto:
“Scegli la tua vita e il tuo destino e io ti proteggerò e ti guiderò, seguendo il tuo sviluppo spirituale, qualunque cosa accada in questo mondo.”,
il mio destino non avrebbe potuto essere più felice, la mia vita più equilibrata.
Sovente, molte Donne, Amiche e non, mi chiedono:
"E' difficile essere Donna e sola?"
In un passato, neppure tanto remoto, una Donna non sposata e senza figli non aveva status, era considerata un essere monco, incompleto, irrealizzato. Oggi, tutti gli psicologi, i guru, i filosofi e anche i giornali femminili ripetono, a oltranza, che per trovare la persona giusta e sedurre un Uomo ogni Donna dovrebbe apprendere a stare bene da sola e a vivere da sola, felicemente.
È un concetto che viene talmente ripetuto che anche la Donna più sprovveduta conosce... e qualcuno trova il tempo di farvi, perfino, dell'ironia... o considera con pesante scetticismo.
Io so, perfettamente, che quando si dice a una Donna di vivere la propria vita in serenità da sola e abituarsi a vivere da sola, in autonomia e con indipendenza, si rischia di farla adirare, di farla soffrire o di farla preoccupare.
Avete, mai, fatto caso che gli Uomini si godono, con grande piacere, la propria solitudine, ne sono orgogliosi e, molto spesso, la difendono con le unghie e con i denti?
Avete, mai, fatto caso che gli Uomini amano stare da soli, perché si sentono liberi di vivere la propria vita come preferiscono e sperimentare, in totale autonomia, le proprie avventure sentimentali, le proprie passioni, le proprie sfide professionali?
Non vi dà da pensare tutto ciò?
E allora perché io non dovrei poter vivere con piacere e, anche, con entusiasmo il fatto di essere sola?
Vi è un forte pregiudizio nella nostra società: un Uomo solo, autonomo e indipendente è un “figo”; mentre una donna sola, autonoma e indipendente deve avere, necessariamente, qualche "magagna" sotto...
Ebbene la mia "magagna" è scrivere...
Sono, semplicemente, uno scrittore, cui accade di essere Donna...
Desiderare legami forti e di valore con Altri è naturale... e, allo stesso modo, desiderare l’indipendenza e l’autonomia, vale a dire la capacità di vivere da sola, di cavarsela da sola e di essere felice da sola...
È stata mia Nonna a insegnarmi il coraggio.
Quando le sue Amiche le chiedevano se fossi fidanzata, lei rispondeva:
"No, mia nipote è diversa. Non tutte le scelte vanno bene per tutti."
Sentivo, già allora, la mia dipendenza dalla generosità degli Altri. Mi mancavano le cose più necessarie e, in certi momenti, mi assalivano pensieri cupi sul mio futuro; mentre, in altri, riacquistavo tutta la leggerezza della giovinezza. 
Ancora oggi, mi sento così... diversa.
Certo, conservo l'ideale dell'incontro della mia vita, ma proprio per questo non lo voglio a tutti i costi...
Vi sono storie da ascoltare e altre da raccontare.
Quella che segue è una storia che avrei voluto ascoltare.
Ma non sempre le cose della vita vanno come avevamo pensato, immaginato, sperato.
E, così, questa storia che avrei voluto ascoltare, la racconto, consapevole che, spesso, alcune storie – come questa qui affrontata – sfuggono al controllo della razionalità e si arroccano all’interno del mito, pur avendo, ognuna, una propria dimensione storica e una tradizione culturale molto precisa.
Parlare dei Cavalieri del Tempio è, sempre, rischioso, in quanto vi è il pericolo di essere annoverati tra i cacciatori di miti, disposti ad accettare le adulazioni dell’esoterismo e della leggenda, perdendo, così di vista, i razionali parametri della indagine storica.
La storia dei Templari ha attratto non pochi, affascinati da un sogno di occulti sapere e potere, posseduti da pochi privilegiati, forti di una acquisita conoscenza segreta dei principi delle cose e, proditoriamente, trucidati da autorità reazionarie che avevano compreso solo a metà il pericolo in cui li ponevano. Ma il mito dei Templari offre alla nostra considerazione anche aspetti meno intellettuali e pindarici. È, infatti, possibile guardare alla fine dell’Ordine come a una storia gotica di orrore, dotata di tutti gli elementi del romanzo nero: sadismo, perversioni sessuali del clero, scoperta di un tesoro, magia. Come gran parte dell’occultismo più intellettuale, il mito dei Templari pare sconfinare, agli estremi, nel folklore.
Il mito templare può, in parte, rientrare nelle invenzioni letterarie di gusto gotico; in parte, considerarsi un frutto della esperienza religiosa teosofica.
È sorto dallo stesso ambiente settecentesco, nel quale si è prodotto il racconto gotico e contiene, anche, una buona dose di quel sensualismo magico, così caro ai narratori di storie gotiche.
Come tutti i racconti gotici, il mito templare affonda le radici nel romanzo avventuroso, che si richiama, a sua volta, ai racconti cavallereschi del Medioevo.
Anche se i romanzi storici, che sono stati, specificamente, scritti intorno ai Templari, sono scadenti, più importante di qualsiasi opera del genere è la vaga e crescente convinzione del lettore comune dei primi del XIX secolo che i Templari fossero un argomento sinistro, di fastidioso interesse, in qualche modo, collegato alle origini della cavalleria medioevale.
Così, quando Joseph Hammer, in The Mystery of Baphomet Revealed, intreccia il mito templare con la leggenda del Graal, pone, inconsapevolmente, fine alla convenzione che aveva, fino ad allora, riservato alla privata contemplazione di pochi la leggenda templare. L’idea base che Hammer convoglia, vale a dire che i Cavalieri del Graal e i Cavalieri Templari fossero tutti, segretamente, manichei, si sposava, perfettamente, con molte altre idee correnti del suo tempo. Così, il Templarismo veniva portato alla attenzione degli studiosi dei romanzi di avventura medioevali oltre a quella dei primi teorici di antropologia del Medioevo cristiano. Ma entrava anche a fare parte dei ferri del mestiere dei teorici della cospirazione politica, ormai, diffusi tra i propagandisti politici della Sinistra e della Destra.
In alcuni casi, quali quello del cospiratore italiano Filippo Buonarroti, i radicali giunsero ad accettare i mitici gruppi segreti illuministi come modelli, che influenzarono tanto il loro vocabolario politico quanto il modo in cui organizzarono i propri gruppi cospiratori.
Nel quarto e nel quinto decennio del XIX secolo, i Templari simboleggiavano, ormai, agli occhi di molta gente, che si riteneva informata e illuminata, il concetto di persecuzione da parte di chi possedeva la straordinaria conoscenza nascosta. La presunta conoscenza custodita dai Templari poteva apparire efficace tanto in senso buono che cattivo, in rapporto al modo in cui si interpretava la letteratura della cospirazione.
Il disprezzo, manifestato da Karl Marx, per chiunque rimpiangesse l’Ordine feudale medioevale ci ha impedito di cogliere la nostalgia che molti radicali e socialisti del primo Ottocento hanno nutrito per il Medioevo.
Non sono stati soli i conservatori a sognare, ardentemente, il mondo gotico. Molti radicali hanno guardato indietro, pieni di desiderio, alla organicità e alla presunta armonia sociale del mondo degli artigiani medioevali: un sentimento che aveva preceduto di molto le News from Nowhere di William Morris.   
Ma, dal tardo secolo XIX in poi, il Templarismo recupera il proprio posto nell’immaginario della Destra. 
Il Templarismo non è morto!
Dà agli iniziati la sensazione di stare seguendo regole e miti, che gli ispiratori di altre regole e di altri miti non possono conoscere né comprendere e che questo è un gioco che loro possono giocare, ma che è vietato ad Altri.
Chi non ricorda il fascino di quei giochi di infanzia ai quali non si permetteva di prendere parte ai bambini meno favoriti?
Uno dei commenti fatti dai primi critici della Massoneria è che i massoni fossero dei bambini che volessero faire la chapelle, che ha il significato di “giocare alla Chiesa”, proprio come i bambini “giocano al dottore”.
Molta letteratura templarista, scritta per il mercato popolare, ha in sé questo senso di gioco: favole di tesori sepolti in castelli normanni e colline pirenaiche, astrologiche mappe, capaci di condurci ai segreti luoghi del Santo Graal, nel profondo della Foresta d’Oriente, sono altrettanti ritorni al mondo dei racconti fantastici di Charles Nodier. E Charles Nodier aveva, proprio, esordito come massone radicale e mistico, esperto in riti massonici.   
Per i moderni, il concetto di Crociata è combattere in difesa del diritto.
La croce colore rosso sangue sul petto di un Cavaliere Templare ne simboleggia la prontezza al martirio; il bianco mantello, su cui la croce è tracciata, ne esprime, invece, l’innocenza.
Meno conosciute sono le origini di questo semplice concetto della Crociata.
Nel Medioevo, i soldati cristiani “presero la croce”, prima di recarsi in pellegrinaggio armato in Palestina.
“Prendere la croce” era un atto legale; la parola “Crociata”, da croce, derivò da quell’atto.
Lo chiamarono viaggio, passaggio, verso la Terrasanta, e “prendere la croce” era, all’inizio, la promessa di recarsi in pellegrinaggio nei luoghi santi di Gesù e della storia ebraica che questi portò a compimento.
Ma, nel tardo Medioevo, l’idea di Crociata andò sempre più distinguendosi da quella di pellegrinaggio in Terrasanta.
La Crociata era monopolio di capi politici e religiosi, al punto da arrivare a includere anche tutta una serie di azioni militari, che, in molti casi, non avevano più nulla a che vedere con la Terrasanta e in cui gli uomini si impegnarono con l’approvazione ufficiale della Chiesa.
Quando, nel 1291, l’ultimo frammento di Stato crociato in Siria cadde in mano musulmana, il distacco tra pellegrinaggio e Crociata divenne definitivo.
Un Crociato non era più tenuto a recarsi in Terrasanta: poteva, come un Cavaliere di Geoffrey Chaucer, combattere gli infedeli in Egitto e in Nordafrica, in Lituania e in Spagna.
Un crociato poteva, anche, combattere contro cristiani dissidenti, quali i catari di Francia o gli hussiti di Boemia; o, perfino, opporsi ai cattolici ortodossi, che erano nemici politici del Papa.
Così, il passaggio o pellegrinaggio armato divenne qualcosa di obsoleto, e ciò che è sopravvissuto dell’idea di Crociata è il concetto di lotta ai miscredenti, nemici della verità e del diritto.
La guerra religiosa ha preceduto le Crociate ed è sopravvissuta alle Crociate.
“Paien unt tort e chrestiens unt dreit”,
recitava La Chanson de Roland, prima ancora che la Prima Crociata partisse alla volta della Siria.
Mezzo millennio più tardi, il poeta inglese Edmund Spencer si servì della stessa frase de La Chanson de Roland per descrivere, in The Faerie Queene, il combattimento tra il Saraceno e il Cavaliere Rossocrociato:
“L’uno combatte per il male, l’altro per il diritto.”
Le Crociate sono nate in quel recesso della mente umana, in cui i confini tra il reale e il metaforico, tra il concetto e l’azione, sono sfuggevoli e incerti.
Costituiscono una prova dell’idealismo umano, ma anche della sua crudeltà e follia: ci ricordano, come altri episodi nella Storia, che le metafore religiose possono trasformarsi in realtà politica mediante spargimento di sangue e terrore.
La eredità, che le Crociate hanno lasciato agli occidentali, è quella di una tradizione che, se, da un lato, può accenderli di idealistico orgoglio; dall’altro, può, anche, far provare un certo senso di colpa e di vergogna.
È ben noto che la presa di Gerusalemme da parte dei Crociati, nel 1099, provocò un terribile massacro dei suoi abitanti, durante il quale i Crociati, letteralmente, sguazzarono nel sangue.
Ed è su un singolo, triste episodio della storia delle Crociate che il mito templare si impernia: la storia del processo, della persecuzione e della caduta dei Cavalieri del Tempio.
In questo reportage ho cercato di dimostrare come un atto di ingiustizia politica medioevale sia divenuto una fantasia moderna.
E, poiché gli elementi magici, nelle originarie accuse contro i Templari, hanno fornito il materiale, da cui è nato il mito del Templarismo magico, si può affermare che è stata la caccia alle streghe medioevale a fungere da diretta antenata del moderno occultismo.
Ma ciò che, forse, maggiormente colpisce nella storia dei Templari, come pure nella storia della stregoneria occidentale in generale, è quanto i testi letterari possano influenzare le credenze.
Dall’Arcivescovo di Tiro del XII secolo ai filosofi ermetici del XVI secolo, via via fino ai nostri giorni, i Templari sono stati messi in falsa luce con la diffusione di testi errati o inventati.
È stato con tali mezzi che si è potuto trasformarli, dagli ignoranti, devoti servitori di un ideale tirannico, negli illuminati Maghi-Eroi della Libertà e della Conoscenza.
Può essere un miglioramento, ma i Cavalieri Templari non lo avrebbero, certo, né compreso né approvato.

Daniela Zini



  

Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!





SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA 1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA 2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria . Parte Prima -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria . Parte Seconda -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI 1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini
 


IV. IL SOVRANO ORDINE 
DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
 
  “Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam.”


Grandi Maestri 
del Sovrano Ordine dei Cavalieri del Tempio

Hugues de Payens [1118-1136]
Robert de Craon [1136-1147]
Everard des Barres [1147-1149]
Bernard de Tremelay [1149-1153]
André de Montbard [1153-1156]
Bertrand de Blanchefort [1156-1169]
Philippe de Milly [1169-1171]
Odo de Saint-Amand [1171-1179]
Arnold of Torroja [1181-1184]
Gérard de Ridefort [1185-1189]
Robert de Sablé [1191-1193]
Gilbert Horal [1193-1200]
Phillipe de Plessis [1201-1208]
Guillaume de Chartres [1209-1219]
Pedro de Montaigu [1218-1232]
Armand de Périgord [1232-1244]
Richard de Bures [1244/5-1247]
Guillaume de Sonnac [1247-1250]
Renaud de Vichiers [1250-1256]
Thomas Bérard [1256-1273]
Guillaume de Beaujeu [1273-1291]
Thibaud Gaudin [1291-1292]
Jacques de Molay [1292-1314]


1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO

di
Daniela Zini


Q
uesta è la storia di uno dei più clamorosi casi politici e giudiziari che la storia ricordi: il cosiddetto “affare dei Cavalieri del Tempio”, che tenne desta la attenzione dell’Europa, dal 13 ottobre 1307 al 18 marzo 1314.
Ma chi erano i Pauperes Commilitones Christi Templique Salomonis [Poveri Compagni d’Armi di Cristo e del Tempio Di Salomone], meglio noti come Cavalieri del Tempio o, semplicemente, Templari?

 
Il Sovrano Ordine dei Cavalieri del Tempio  era stato fondato, nel 1118, da Re Baldovino II di Gerusalemme, che gli aveva assegnato, nella Città Santa, l’Arca del Tempio di Salomone, dal quale prese il nome. Doveva costituire una sorta di milizia professionista, in difesa della Terra Santa, per disciplinare e aiutare in battaglia le orde confuse ed entusiaste dei Crociati. 
 



“Capelli rasati, barba ispida, sporca di polvere, neri di ferro e abbronzati dal sole.”,

come li descrive Saint-Bernard de Clairvaux [1090-1153][2], i Templari dovevano lottare senza quartiere per la difesa del Regno Cristiano di Gerusalemme e, presi prigionieri, non potevano pagare riscatto, come l’uso medioevale avrebbe loro consentito. Vivevano la vita pericolosa dei soldati, senza poterne condividere l’onore e la gloria delle insegne, e la vita ascetica dei monaci, senza poterne godere la pace e la tranquillità dei conventi.
Si muovevano a cavallo, su purosangue arabi, veloci e focosi, e si mostravano, croce rossa sull’ampio mantello bianco, nei momenti di maggiore pericolo, a proteggere i pellegrini e i piccoli distaccamenti militari dalle aggressioni improvvise dei musulmani. In cambio, erano loro accordati singolari privilegi. Innanzitutto, rispondevano dei propri atti solo al Papa, sfuggendo, in tale modo, alla giurisdizione dei sovrani, che chiedevano la loro opera. Questo, praticamente, voleva dire che non dipendevano da nessuno – troppo lontano il Papa e troppo preso dagli altri affari ecclesiastici – se non dalle maggiori autorità dell’Ordine stesso. Inoltre, vennero, ben presto, esentati da tributi di ogni genere e autorizzati a tenere per sé le terre conquistate. Aggiungendo a questi privilegi le numerose donazioni e i numerosi lasciti, è facile comprendere come, in breve tempo, l’Ordine venisse ad acquistare una importanza pari a quella di un grande Stato Sovrano e una ricchezza capace di fare concorrenza alle maggiori potenze economiche dell’epoca. Così, ogni giovane di nobile famiglia e di grandi ambizioni si sentiva attratto da quella prestigiosa bandiera che gli prometteva esaltanti avventure, lauti guadagni e gloriose opportunità.
Naturalmente, raggiunta una simile potenza, i Templari si erano, a poco a poco, allontanati dalle finalità iniziali, soprattutto quando – perduta, definitivamente, la Palestina e ridotte le Crociate a un pretesto, sempre meno frequente, per contatti commerciali con il Vicino Oriente – l’Ordine vide svanire le sue essenziali ragioni di essere. Le ultime imprese militari non avevano, sempre, avuto esito molto felice: ostacolati dalle accanite rivalità tra i grandi sovrani e impacciati da truppe più entusiaste che efficienti, i Templari subirono rovesci clamorosi e commisero errori palesi. 
 


Nel 1191, alla fine del Regno Cristiano di Gerusalemme, il Sovrano Ordine dei Cavalieri del Tempio possedeva ricchezze inaudite, cui era indispensabile trovare impiego. Si calcolano novecento castelli, sparsi in tutta l’Europa, centocinquantamila fiorini d’oro e quantità enormi di argento. Senza contare la casa madre di Parigi: un enorme quartiere, che ne porta, ancora oggi, il nome.  


Così, i Templari divennero banchieri: la più importante banca di Europa. Assumevano la amministrazione di intere province – per un secolo, perfino, l’Impero Romano di Oriente fu sottomesso alla loro autorità –; anticipavano il danaro necessario al riscatto dei prigionieri; prestavano su garanzia; muovevano somme sbalorditive, in un mondo, che, solo a loro, permetteva le più ampie libertà economiche. Quindicimila Templari, ben raramente costretti a partecipare a spedizioni militari, esercitavano funzioni amministrative, allontanandosi sempre più dagli scopi iniziali dell’Ordine e accumulando enormi ricchezze, sempre più difficilmente difendibili dallo scatenarsi degli appetiti dei più potenti signori dell’epoca. Questo fu uno dei motivi che provocarono, più tardi, il crollo improvviso dell’Ordine; ma le considerazioni di carattere economico, di per se stesse sufficienti a causarne la rovina, non potevano, nel Medio Evo, tramutarsi in provvedimenti efficaci senza un pretesto religioso. I lunghi soggiorni, in Oriente, avevano, certamente, favorito un contatto tra i Templari e i riti esoterici, tramandati dal cristianesimo primitivo o addirittura dalle antiche teologie orientali. A tale proposito, molti storici hanno favoleggiato  di dottrine misteriose e di complesse cerimonie di iniziazione, basate, tuttavia, su ben pochi documenti obiettivi. Di certo, è noto che il futuro Cavaliere del Tempio doveva, per essere ammesso, rinnegare Cristo, sputando sulla Croce, come a proclamare la propria indegnità di uomo, che solo il Tempio avrebbe potuto redimere. Il Tempio, dunque, finiva per assumere una straordinaria importanza, divenendo, in sostanza, un simbolo magico della divinità. Gli storici hanno, anche, discusso, lungamente, sulle cosiddette figure bafometiche[3], misteriosi idoli con teste di gatto, nonché su altri segni rituali di significato ignoto. Bastava anche meno alla Inquisizione medioevale, se opportunamente aizzata in tal senso, per accusare i Templari di idolatria, di pratiche diaboliche e di stregoneria, imputazioni più che sufficienti, allora, per mandare al rogo chiunque. Questo era, dunque, il Sovrano Ordine dei Cavalieri del Tempio, nell’ottobre del 1307: un enorme colosso dai piedi di argilla, una potenza gigantesca, esposta agli attacchi di nemici, decisi a tutto pur di carpirne quelle immense ricchezze. Primo tra tutti, il Re di Francia, Philippe IV [1268-1314], che, impegnato in una lotta accanita per esautorare il potere feudale e affermare la propria assoluta sovranità, non poteva vedere, favorevolmente, la presenza, nella sua stessa capitale, di una forza così smisurata e così assolutamente autonoma. Cercò, dapprima, di entrare a fare parte dell’Ordine, nell’intento di diventarne il Gran Maestro di Francia e di Oltremare, vale a dire la più alta autorità; ma il Capitolo dei Templari, presieduto dal Gran Maestro in carica, Jacques de Molay [1243-1314], aveva, subito, respinto la sua domanda, appellandosi allo statuto, che impediva di accogliere tra i Templari i Principi sovrani.  


Ritratto di Philippe le Bel - Jacob van Laethem [1470–1528] 
Philippe le Bel, il “Re di ferro” dalla gelida bellezza, fu insensibile agli affetti e a qualsiasi forma di pietà.

 

Giuramento dei Cavalieri del Tempio

Philippe le Bel non perdonò l’offesa e iniziò, immediatamente, una sorda campagna ai danni dei Templari. Tolse alla loro guardia il Tesoro del Regno – che aveva affidato all’Ordine, quando, qualche anno prima, una violenta sommossa popolare lo aveva costretto a chiedere loro rifugio – e fece diffondere tra il popolo notizie estremamente diffamatorie sul loro conto. 
 


I Cavalieri del Tempio erano accusati di diretta responsabilità nelle carestie che, periodicamente, affliggevano il Paese; di dedicare le proprie forze più all’accumulamento di beni materiali che alla riconquista del Sepolcro di Cristo; di bestemmiare e di praticare, su larga scala, abitudini contro natura. Poi, con il pretesto di mettere a tacere queste voci, Philippe le Bel ordinò una grande inchiesta in tutto il Regno. 

 
Donjon du Coudray a Chinon.

Il 12 ottobre 1307, Jacques de Molay partecipava, in posizione di onore, ai funerali della cognata del Re Philippe IV, Catherine de Courtenay [1274-1307], contessa de Valois[4]. L’indomani, un venerdì tredici, con una gigantesca retata, preparata con cura particolare, Philippe le Bel faceva arrestare, all’alba, tutti i Templari di Francia, accusandoli di eresia in nome dell’Inquisizione.



Guillaume de Nogaret [1260-1313], Guardasigilli di Francia, ben noto per aver partecipato, quattro anni prima, alla spedizione di Anagni, conclusasi con un sacrilego schiaffo, inferto da Sciarra Colonna[5] a Papa Bonifacio VIII, andò, personalmente, ad arrestare lo stesso Jacques de Molay e i centoquaranta cavalieri della casa madre.
Era Papa, allora, Clemente V[6], nato Bertrand de Got [1264-1314], che doveva la tiara a Philippe le Bel e che, per compiacere il suo protettore, aveva trasferito la Santa Sede da Roma a Poitiers. Tuttavia, non poteva accettare un simile sopruso. Si trattava, in pratica, di un conflitto di poteri; e il Pontefice aveva, inoltre, interesse a mantenere intatta una forza, come quella dei Templari, di cui avrebbe, sempre, potuto disporre. Così, disapprovò l’opera di Re Philippe IV e revocò l’autorità dei giudici ecclesiastici parigini, indispensabili alla Corona per poter condurre un processo per eresia.
 

Castello di Miravet [Spagna]
La inespugnabile Fortezza di Miravet, proprietà dell’Ordine del Tempio, fino dalla sua conquista, nel 1153, è formata da un doppio recinto fortificato, separato da un corridoio interno tra due fila di mura. Il perimetro di quelle esterne misura 600 metri circa, quello interno 290 metri.
Lo spazio interno integra corte d’armi e corpo di guardia, circondati da diverse dipendenze [dormitorio, scuderie, refettorio, magazzino, granaio e cantina]. Da segnalare, in particolare, il salone, al quale si accede, varcando una porta ad arco rialzato, e la Chiesa romanica dedicata a Sant Martí [XIII secolo], a navata unica con volta a botte a sesto leggermente acuto e abside semicircolare con volta a forno.
Lo spazio più esterno comprendeva altre scuderie, una cisterna e la Cappella di Sant Miquel.

Philippe le Bel promise, allora, al Papa di consegnare a lui i prigionieri, chiedendo in cambio di poter confiscare i beni del Tempio, a profitto del Tesoro di Francia, e di vedere, nuovamente, i giudici investiti della propria carica. Il Papa accettò la proposta e, subito, il Re ordinò, con una lettera del 24 agosto 1307, al Grande Inquisitore di Francia, Guillaume Humbert, un domenicano avverso ai Templari, anche per rivalità di Ordine, di iniziare gli interrogatori, valendosi di tutti i mezzi a disposizione della giustizia di quel tempo, torture comprese.
I risultati non si fecero attendere. In breve tempo, il Re ottenne ben centoquaranta confessioni, cui diede la più ampia pubblicità; poi, convocò a Tours, nel maggio del 1308, i cosiddetti Stati Generali, vale a dire una assemblea consultiva, in cui erano rappresentate le tre classi del Regno, nobiltà, clero e borghesia, ed espose loro le proprie vedute su questa importante questione, ottenendo unanimi approvazioni, anche nei confronti del Papa. Poi, per meglio convincere Clemente V, piombò a Poitiers e costrinse il Pontefice, praticamente suo prigioniero, a redigere una bolla in cui si invitava ogni Vescovo a giudicare secondo il diritto. La formula era vaga, ma autorizzava, ufficialmente, il rinvio a giudizio dei Templari.
L’Arcivescovo di Sens, dal quale dipendeva la diocesi di Parigi, venne incaricato dal Re Philippe le Bel di occuparsi di questo processo; mentre il Papa, che era riuscito a lasciare Poitiers e a rifugiarsi ad Avignone, città meno facilmente controllabile dalla Corona francese, nominò una commissione, presieduta dall’arcivescovo di Narbonne, Gilles Aycelin I de Montaigut [1252-1318], che mandò, immediatamente, a Parigi, per prendere in esame tutta la faccenda. Non era certo un compito facile: da una parte, il potere civile cercava di impedire, con minacce e torture, che si presentassero testimoni a discolpa; dall’altra, il potere religioso ostacolava, con tutti i mezzi, a sua disposizione, il normale svolgimento delle indagini. Molti Vescovi, a esempio, si rifiutavano di consegnare i Templari, catturati nella loro diocesi.
Finalmente, nel novembre dello stesso anno, la commissione iniziò l’interrogatorio di Jacques de Molay.
Il vecchio Gran Maestro difese, accanitamente, l’Ordine, respingendo le testimonianze, che l’accusa aveva raccolto, e proclamando la assoluta innocenza del Tempio. Andò, allora, a parlargli un inviato di Philippe le Bel e lo convinse a chiedere un rinvio di ventiquattro ore. Non ci è dato sapere cosa accadde, quel giorno; certo è che, l’indomani, Jacques de Molay interrompeva, bruscamente, la propria difesa, rimettendosi, interamente, alle decisioni del Pontefice.
 

Si arrivò, così, al 28 marzo 1310, quando la commissione pontificia riuscì a convocare ben centocinquantasei Cavalieri del Tempio, che si proclamavano tutti innocenti, Costoro incaricarono a rappresentarli un gruppo di delegati con il compito di respingere ogni accusa, di tacciare di apostasia tutti coloro che avevano confessato e di denunciare la giustizia del Re per averli, selvaggiamente, torturati. Queste dichiarazioni, subito, divulgate, suscitarono violente reazioni in tutti gli ambienti, tanto più che, fuori di Francia, i concili vescovili continuavano ad assolvere i Templari.
La situazione minacciava, dunque, di evolversi in senso assai poco propizio a Philippe IV. Ma il Re aveva fatto nominare Arcivescovo di Sens, Philippe Leportier de Marigny, fratellastro del Primo Ministro di Francia Enguerrand de Marigny [1260-1315], che, richiamandosi alla bolla del 1308, riunì un concilio provinciale, convocando i Cavalieri del Tempio.
Era il 10 maggio 1310.
I delegati dei Templari ribelli presentarono appello alla commissione pontificia, chiedendo di potere esporre le proprie ragioni anche davanti a quel tribunale. Ma l’Arcivescovo di Narbonne, Gilles Aycelin I de Montaigut, respinse questa richiesta, dichiarando di non avere alcuna giurisdizione sul tribunale presieduto da Philippe Leportier de Marigny e abbandonando, così, gli sciagurati Templari agli arbitri del Re.     
Le conseguenze di questa decisione non si fecero attendere.
Il 12 maggio, Philippe Leportier de Marigny condannava al rogo ben cinquantaquattro Templari, rei di aver ritrattato le precedenti confessioni e, benché la commissione pontificia elevasse, immediatamente, la sua protesta, fece eseguire, al più presto, la sentenza. Da quel momento, tutti i testimoni che dovevano deporre davanti alla commissione, legittimamente intimoriti dalle minacce, fin troppo implicite in questo clamoroso avvenimento, parlarono con assai minore coraggio, impedendo, praticamente, alla commissione di continuare i suoi lavori. Tanto più che Philippe de Marigny aveva, anche, respinto una richiesta di salvaguardia per i delegati ufficiali dei Templari.
L’11 giugno 1311, la commissione pontificia chiuse la propria attività, abbandonando la partita nelle mani dell’Arcivescovo di Sens, Philippe Leportier de Marigny, cui proponeva lo scioglimento dell’Ordine, la confisca dei beni e l’imprigionamento di tutti i Templari, esigendo soltanto che non venissero più sottoposti a torture.
Ma Philippe IV non aveva ancora vinto: gli mancava la adesione ufficiale del Papa, sola autorità competente a decretare una condanna definitiva. Minacciandolo di un processo alla memoria di Bonifacio VIII – processo che avrebbe posto in discussione la essenza stessa del Papato – costrinse Clemente V a riunire un Concilio a Vienne, nel Delfinato, per prendere una decisione definitiva sul dibattuto problema.
Era il 16 ottobre 1312; ma l’umore dei Vescovi non era, certo, favorevole a una condanna indiscriminata dell’Ordine. Così, Clemente V cercò di temporeggiare: impedì ai Templari di presentare la propria difesa, imprigionandone i delegati, e cercò di convincere, uno alla volta, tutti i prelati più pronti ad assolvere.
La cosa minacciava di durare troppo a lungo e Philippe le Bel aveva fretta di sistemare la questione.
Nella primavera del 1313, riuscì a impadronirsi di Lione, precedentemente governata da un Vescovo-Conte, e a minacciare di là il Concilio stesso, esigendo, al più presto, una decisione definitiva.
Il 3 aprile di quello stesso anno, Clemente V, riuniti a concistoro i Vescovi e i Cardinali più devoti ai suoi voleri, sciolse di autorità l’Ordine del Tempio, confiscandone i beni a profitto dei Cavalieri dell'Ordine dell'Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme [Cavalieri di Malta] e lasciando alla Corona di Francia la gestione temporanea dei beni stessi, una massiccia indennità e piena autorità sui Templari superstiti.


Ritratto di Papa Clemente V

Con questo atto di abdicazione di un Papa, troppo asservito alla Francia e troppo debole per potersi opporre agli interessi di quel Regno, per la prima volta, nella Storia un Ordine religioso veniva soppresso, esclusivamente, per volontà del potere civile, senza che potesse trovare nelle supreme autorità ecclesistiche né protezione né aiuto. 


Castello di Ponferrada [Spagna]
Il Castello templare di Ponferrada è una costruzione superba. Ospita la Biblioteca Templare e il Centro di Ricerca e Studi Storici di Ponferrada. In origine, fu un accampamento e, più tardi, una cittadella romana. Agli inizi del XII secolo, i Templari si impossessarono della fortezza, rafforzandola e ampliandola, per servire come palazzo abitabile e come protezione per i pellegrini, che si dirigevano verso Santiago di Compostela.

Una lunga serie di condanne tenne dietro a questo gigantesco processo, conclusosi, definitivamente, il 18 marzo 1314.
La mattina di quel giorno, i quattro superstiti – ufficialmente, si intende, perché molti Templari si erano sottratti alla giustizia del Re, lasciando la Francia o rifugiandosi presso Vescovi o Baroni a loro meno sfavorevoli – e, precisamente: il Gran Maestro, Jacques de Molay; il Visitatore di Francia, Hugues de Pairaud; il Precettore di Normandia, Geoffroy de Charny e il Precettore di Aquitania e Poitou, Geoffroy de Gonneville, vennero condotti dalla prigione al sagrato della Cattedrale di Notre-Dame, dove un delegato pontificio lesse loro la sentenza definitiva, come a manifestare, ancora una volta, la piena solidarietà della Santa Sede con la politica di Philippe le Bel.


Al momento della morte sul rogo, Jacques de Molay avrebbe dannato la casa di Francia “fino alla tredicesima generazione”, si è diffusa, così, la leggenda secondo cui l’esecuzione di Louis XVI durante la Rivoluzione Francese – che pose fine alla Monarchia Assoluta in Francia – sarebbe stata il coronamento della vendetta dei Cavalieri del Tempio. Alcuni storici dell’epoca riportarono la notizia che il boia Charles-Henri Sanson, prima di calare la ghigliottina sulla testa del sovrano, gli avrebbe mormorato:
“Io sono un Templare, e sono qui per portare a compimento la vendetta di Jacques de Molay.”
Sul luogo della esecuzione, ai piedi del Pont Neuf, vi è una lapide a ricordare il tragico evento.

Castello di Tomar [Portogallo]

Il Castello templare di Tomar è a poco più di cento chilometri da Lisbona. Fu costruito dopo la soppressione dell’Ordine Sovrano dei Cavalieri del Tempio, accusato di eresia e di idolatria. Principale responsabile della persecuzione dei Templari fu il Re di Francia, Philippe le Bel, che mirava al patrimonio templare, e, dopo il processo, riuscì a incamerarne una parte. Tuttavia, alcuni sovrani europei continuarono a dare sostegno ai Templari; uno di questi fu il Re del Portogallo, Dinis I, che li usò come alleati nella lotta contro i mori. Con il suo aiuto, i Templari sopravvissuti fondarono l’Ordine dei Cavalieri di Cristo e, nel 1357, scelsero Tomar come loro quartiere generale. Il castello, molto ben conservato, è, oggi, uno dei patrimoni mondiali dell’umanità dell’UNESCO.
La condanna era relativamente mite, il carcere a vita; ma Jacques de Molay e Geoffroy de Charny respinsero la accusa, proclamandosi innocenti e sostenendo che solo le torture avevano potuto costringerli a dichiararsi rei. La reazione del Re di Francia non si fece attendere: quella stessa sera, i due Templari furono mandati sul rogo.
Una curiosa leggenda narra che Jacques de Molay, prima di precipitare tra le fiamme, maledicesse i suoi principali persecutori, predicendone la morte entro un anno ed estendendo l’anatema ai discendenti del Re di Francia.
Non sappiamo, naturalmente, quale credito attribuire a questa leggenda. Certo è che, puntualmente, Papa Clemente V morì dopo un mese, il 20 aprile 1314, e il Re Filippo IV, il 29 novembre 1314, e che la Francia, estintasi rapidamente la dinastia dei Capetingi diretti, con la scomparsa dei tre figli di Philippe IV, fu, poi, sconvolta da una delle più terribili catastrofi della sua storia, una guerra di successione durata ben centosedici anni – anche se viene, comunemente, chiamata la Guerra dei Cento Anni – nel corso della quale le truppe d’Inghilterra percorsero il Paese da trionfatrici e inauditi disagi resero la vita dura agli infelici sudditi del Re di Francia.
 Toccò, dunque, a loro scontare le maledizioni che Jacques de Molay aveva scagliato sulle teste dei loro sovrani.
Poi venne Giovanna d’Arco.
Ma questa è un’altra storia.


Daniela Zini
Copyright © 25 marzo 2015 ADZ



[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[2] “Da qualche tempo si diffonde la notizia che un nuovo genere di Cavalleria è apparso nel mondo, e proprio in quella contrada che un giorno Colui che si leva dall’alto visitò essendosi reso manifesto nella carne; in quegli stessi luoghi dai quali Egli con la potenza della sua mano (Is, 10,13) scacciò i principi delle tenebre, possa oggi annientare con la schiera dei suoi forti seguaci di quelli, i figli dell’incredulit, riscattando di nuovo il suo popolo e suscitando per noi un Salvatore nella casa di David, suo servo. (Ef, 2, 2; Lc, 1, 69). Un nuovo genere di Cavalieri, dico, che i tempi passati non hanno mai conosciuto: essi combattono senza tregua una duplice battaglia, sia contro la carne ed il sangue, sia contro gli spiriti maligni del mondo invisibile. (Ef, 6, 12). In verità quando valorosamente si combatte con le sole forze psichiche contro un nemico terreno, io non ritengo ciò stupefacente né eccezionale. E quando col valore dell’anima si dichiari guerra ai vizi o ai demoni, neppure allora dirò che questo è segno di ammirazione, sebbene questa battaglia sia degna di lode, al momento che il mondo è pieno di monaci. Ma quando il combattente ed il monaco con il coraggio si cingono ciascuno con forza la propria spada e nobilmente si fregiano del proprio cingolo chi non potrebbe ritenere un fatto del genere davvero degno d’ogni ammirazione, per quanto finora insolito? E’ davvero impavido e protetto da ogni lato quel cavaliere che come si riveste il corpo di ferro, cos’ riveste la sua anima con l’armatura della fede (I Ts, 5, 8). Nessuna meraviglia se, possedendo entrambe le armi, non teme né il demonio né gli uomini. E nemmeno teme la morte egli che desidera morire. Difatti cosa avrebbe da temere, in vita o in morte, colui per il quale il Cristo è la vita e la morte un guadagno? (Fil, I, 21). Egli sta saldo, invero, con fiducia e di buon grado per il Cristo; ma ancor pià desidera che la sua vita sia dissolta per essere con Cristo (Fil, 1, 23): questa è infatti la cosa migliore. Avanzate dunque sicuri, cavalieri e con intrepido animo respingete i nemici della croce del Cristo! (Fil, 3, 18). Siate sicuri che né la morte né la vita potranno separarvi dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù. (Rm, 8, 38). E ripetete nel momento del pericolo, ben a ragione: sia che viviamo sia che moriamo apparteniamo al Signore. (Rm, 14, 8). Con quanta gloria tornano i vincitori dalla battaglia! Quanto beati muoiono i martiri in combattimento! Rallegrati o forte campione se vivi e vinci nel Signore: ma ancor più esulta e sii fiero nella tua gloria se morirai e ti unirai al Signore. Per quanto la vita sia fruttuosa e la vittoria gloriosa a giusto diritto ad entrambe è da anteporre la morte sacra. Se, infatti, sono beati quelli che muoiono nel Signore (Ap, 14, 13), quanto più lo saranno quelli che muoiono per il Signore?”
con queste parole Saint-Bernard de Clairvaux apre la sua celebre De laude novae militiae. Composta tra il 1128 e il 1136, l’opera costituisce, come lo stesso autore dichiara nel prologo, un “exhortatorius ad Milites Templi”, una esortazione ai Cavalieri del Tempio, ovvero i TempIari, divenuta con il tempo una sorta di Regola della Cavalleria.

[3] Tra i capi di accusa ascritti ai Templari spicca quello dell’adorazione sacrilega del Baphomet, o Bafometto. Una imputazione e un tema che merita un approfondimento, tanto l’argomento, affrontato, in passato, ripetutamente e a diversi livelli, finisce per fondere – e, a volte, confondere – insieme dati storici e leggenda.
Ma cosa o chi era il Bafometto?
È necessario, innanzitutto, partire da elementi attestati, quali i verbali dei procedimenti che coinvolsero i Templari. Le deposizioni e i vari resoconti degli atti giudiziari descrivono il Baphomet come un idolo – un busto o, più spesso, una testa – rappresentante un uomo barbuto dallo sguardo acceso; in altre occasioni, se ne evidenzia il colore rossastro della pelle e la lunga capigliatura [attributo, quest’ultimo, notevolissimo per il periodo, poiché tratto marcatamente non virile]. Vi sono, poi, le istruzioni che Filippo il Bello assegnò ai suoi balivi e siniscalchi [coloro che avrebbero proceduto alla cattura dei Templari]; in queste il Re francese definisce l’idolo “una testa d’uomo con una lunga barba, la quale testa essi baciano e adorano a tutti i loro Capitoli provinciali, ma ciò non è noto a tutti i fratelli, a eccezione del Gran Maestro e degli anziani”. Le note di Philippe IV ai suoi funzionari, dunque, testimonierebbero che il presunto culto blasfemo del Bafometto non sarebbe stato collettivo all’interno dell’Ordine. Fondamentale, a sostegno dell’accusa relativa all’adorazione del Baphomet, sarebbe stato il ritrovamento, nel corso del processo, di un busto in legno e cuoio, raffigurante un uomo barbuto. Il simulacro – forse, un reliquiario, poiché, al suo interno, stavano due frammenti di cranio umano – fu rinvenuto proprio nella casa madre di Parigi e andò a costituire una prova materiale per tutto l’iter giudiziale, a supporto delle varie credenze e dicerie dei detrattori dei Templari. Tali maldicenze, spesso interessate, sulle quali fu eretto il castello accusatorio, insistevano sulla sodomia e, più in generale, sull’omosessualità diffusa tra i confratelli – omosessualità alla quale veniva attribuito un preciso carattere rituale eretico, in quanto le pratiche illecite avevano luogo attorno all’idolo del Baphomet. E, a questo proposito, non va dimenticata la connotazione androgina dell’effigie, con i suoi capelli lunghi, chiaramente femminili.

[4] Catherine de Courtenay, figlia di Philippe de Courtenay e Beatrice di Angiò, nel 1301, sposò, a Saint-Cloud, Charles de Valois.

[5] Lo schiaffo di Anagni, talvolta citato anche come oltraggio di Anagni, fu un episodio occorso nella cittadina laziale di Anagni, il 7 settembre 1303, ai danni di Papa Bonifiacio VIII. Si tratta, in realtà, non tanto di uno schiaffo materialmente dato, quanto di un oltraggio morale, anche se la leggenda attribuisce a Giacomo Colonna, detto Sciarra, l’atto di schiaffeggiare il pontefice.
L’episodio fu cantato da Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, Purgatorio, XX, 85-90:

Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto,
Veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
E nel vicario suo Cristo esser catto.

Veggiolo un’altra volta esser deriso;
Veggio rinovellar l’aceto e ‘l fiele,
E tra vivi ladroni esser anciso.
 

[6] Barbara Frale ha rinvenuto, agli inizi degli 2000, negli Archivi Vaticani, un documento, noto come Pergamena di Chinon, che dimostrerebbe come Papa Clemente V intendesse assolvere i Templari dall’accusa di eresia, e limitarsi a sospendere l’Ordine piuttosto che sopprimerlo, per assoggettarlo a una profonda riforma.
“Chinon, 1308 agosto 17-20
In nome di Dio amen. Noi per misericordia divina Cardinali preti Berengario del titolo dei Santi Nereo e Achilleo, e Stefano del titolo di San Ciriaco in Therminis, e Landolfo, Cardinale diacono del titolo di Sant’Angelo, rendiamo noto a chiunque visionerà il presente e pubblico documento quanto segue.
Dopo che, recentemente, il Santissimo Padre e nostro Signore Clemente, per divina provvidenza Sommo Pontefice della sacrosanta e universale Chiesa di Roma, a causa di quanto riportato dalla pubblica voce e dalla accesa denuncia dell’illustre Re dei Franchi, e di prelati, Duchi, Conti, Baroni e altri nobili e non nobili del medesimo Regno di Francia fece istruire un’indagine contro alcuni frati, preti, cavalieri, precettori e sergenti dell’Ordine della Milizia del Tempio relativa a quei fatti che riguardano tanto i frati dell’Ordine quanto la fede cattolica e lo stato dell’Ordine medesimo, e per i quali fatti essi sono stati pubblicamente diffamati, lo stesso Pontefice, volendo e intendendo conoscere la pura, piena e integra verità sugli alti dignitari del detto Ordine, cioè il frate Jacques de Molay, Gran Maestro di tutto l’Ordine dei Templari, e i frati Raymbaud de Caron, precettore d’Oltremare, e i precettori delle magioni templari Hugues de Pérraud in Francia, Geoffroy de Gonneville in Aquitania e Poitou, Geoffroy de Charny in Normandia, ordinò e incaricò noi, con mandato speciale e impartito espressamente dall’oracolo della sua viva voce, affinché, accompagnati da notai pubblici e testimoni degni di fede, ricercassimo con attenzione la verità nei confronti del Gran Maestro e degli altri Precettori sopra nominati interrogandoli rigorosamente uno a uno.
Noi dunque, conformemente all’Ordine e all’incarico che ci sono stati impartiti dal predetto nostro Signore e Sommo Pontefice, abbiamo indagato sui menzionati Gran Mestro e Precettori, interrogando attentamente i medesimi sui fatti sopra esposti e, come segue qui appresso, abbiamo fatto scrivere dai notai che si sono segnati in calce, e in presenza dei testimoni sottoscritti, le cose dette dai medesimi Templari e le loro confessioni, ordinando altresì che queste venissero redatte in pubblica forma e che fossero rese ancora più valide dalla garanzia dei nostri sigilli.
Nell’anno millesimo trecentesimo ottavo dalla nascita del Signore, nella sesta indizione, il giorno diciassettesimo del mese di agosto e nell’anno terzo del Pontificato di nostro Signore Papa Clemente V, nel Castello di Chinon, diocesi di Tours, il frate Raymbaud de Caron, Cavaliere e Precettore d’Oltremare dell’Ordine dei Templari, costituitosi dinanzi a noi cardinali sopradetti giurò sui Santi Vangeli di Dio, toccando il libro, di dire la pura e piena verità tanto su di sé quanto su ogni singola persona e sui frati dell’Ordine, nonché sull’Ordine stesso, in particolare su quei temi che riguardano la fede cattolica e lo stato del detto Ordine, le altre persone singole e i frati dell’Ordine stesso; interrogato attentamente da noi sull’epoca e sulle modalità del suo ingresso nell’Ordine disse che, invero, sono circa quarantatre anni che divenne Cavaliere, e che fu accolto nel Tempio dal frate Roncelin de Fos, allora Pecettore della provincia di Provenza, nel luogo di Richarenches, nella diocesi di Carpentras o di Saint-Paul-Trois-Châteaux, nella cappella della magione templare di quel luogo. E, in quella occasione, il precettore non gli disse null’altro che bene; ma poco dopo la detta cerimonia di accoglienza sopraggiunse un certo frate sergente di cui non ricorda il nome, poiché è morto da molto tempo. Questi lo condusse in disparte portando una piccola croce sotto il mantello; dopo che gli altri frati si furono allontanati, appena lo stesso sergente e il deponente furono soli, il sergente gli mostrò una croce che, tuttavia, non ricorda se contenesse o meno l’immagine del Crocefisso, crede comunque che vi fosse, dipinta o scolpita. E quel frate gli disse: “Conviene che tu rinneghi questo.” E il deponente, non credendo di peccare, disse: “E io lo rinnego.” Allo stesso modo il sergente gli disse poi di mantenere la continenza ovvero la castità; tuttavia, qualora non vi fosse riuscito, sarebbe stato meglio che lo avesse fatto in segreto piuttosto che in pubblico. Disse, inoltre, che quel rinnegamento che fece, lo aveva fatto non con convinzione, ma a parole. Disse poi che il giorno successivo lo aveva rivelato al Vescovo di Carpentras, suo parente che si trovava in quel luogo, il quale gli disse che aveva agito male e che aveva peccato: per la qual cosa si confessò allo stesso Vescovo che gli ingiunse una penitenza che, a quanto ci ha detto, fece. Interrogato poi sul vizio di sodomia disse di non averlo mai praticato, in maniera né attiva né passiva, né sentì dire mai che i Templari praticassero quel vizio, tranne che tre soli tra essi, i quali, per quel vizio, erano stati condannati al carcere a vita nel Castello di Château-Pélerin. Interrogato se i frati vengano accolti nell’Ordine nello stesso modo in cui fu accolto egli stesso, disse di non saperlo, dal momento che non accolse né vide mai accogliere nessuno, tranne che due o tre frati, dei quali non sapeva se avessero negato il Cristo o meno. Interrogato sui nomi di questi frati accolti disse di uno il cui nome era frate Pietro, del quale non sa il cognome. Interrogato su che età avesse quando divenne frate nell’Ordine, disse che aveva circa diciassette anni. Interrogato relativamente allo sputo sulla croce e sull’idolo a forma di testa disse di non saperne nulla, aggiungendo che mai aveva sentito dire di questa testa finché non lo udì dire da nostro Signore Papa Clemente nell’anno testé trascorso. Interrogato sul bacio disse che frate Roncelin, quando lo aveva accolto come frate, lo aveva baciato sulla bocca; di altri baci disse di non saperne nulla. Interrogato se volesse rimaner fermo su questa sua confessione, se avesse detto la verità, e se vi avesse mescolato qualcosa di falso o avesse tralasciato qualcosa di vero, disse di volersi mantener fermo nella sua confessione ora rilasciata e di aver detto la verità, e che in quella non aveva mescolato alcunché di falso, né omesso verità alcuna. Interrogato se avesse confessato le cose appena dette su richiesta, per denaro, gratitudine, simpatia, paura o odio o istigazione di qualcuno ovvero per paura della tortura, disse di no. Interrogato se dopo che fu arrestato gli fossero state poste domande o fosse stato torturato disse di no. E, infine, lo stesso frate Raymbaud, inginocchiatosi e giunte le mani chiese dinanzi a noi il perdono e la misericordia per i fatti rivelati; e poiché era lo stesso frate Raymbaud a chiedere queste cose, abiurò nelle nostre mani la ora rivelata e ogni altra eresia e, per la seconda volta, toccando il libro, giurò sui santi Vangeli di Dio che egli stesso avrebbe obbedito ai precetti della Chiesa e avrebbe tenuto, creduto e osservato la fede cattolica che la Santa Romana Chiesa tiene, osserva, predica e insegna e ordina che sia osservata dagli altri, e che sarebbe vissuto e morto da fedele cristiano. Dopo tale giuramento noi Cardinali, in virtù dell’autorità specialmente concessaci dal Papa in questo luogo, abbiamo impartito allo stesso frate Raymbaud, che umilmente la chiedeva, il beneficio dell’assoluzione dalla sentenza di scomunica nella quale, per le cose prima rivelate, era incorso, riammettendolo nell’unità della Chiesa e restituendolo alla comunione dei fedeli e ai sacramenti ecclesiastici.
Allo stesso modo, lo stesso giorno, nel modo e nella forma predetti, costituitosi di persona, in presenza di noi e degli stessi notai e testimoni, il frate Geoffroy de Charny, Cavaliere, Precettore delle magioni del Tempio in tutta la Normandia, giurò in modo simile sui santi Vangeli di Dio, toccando il libro; attentamente interrogato sulle modalità del suo ingresso nell’Ordine disse che sono circa quarant’anni che fu accolto nella Milizia del Tempio dal frate Amaury de la Roche, Precettore di Francia, presso Étampes, nella diocesi di Sens, nella cappella della magione templare di quel luogo, presenti il frate Jean le Franceys, Precettore del Pédenac e circa nove o dieci confratelli che ora, a quanto crede, sono morti. E, in quell’occasione, terminato il rito d’ingresso, postogli sul collo il mantello dell’Ordine, il frate che lo aveva accolto lo trasse in disparte all’interno della cappella stessa e gli mostrò una croce sulla quale vi era l’immagine del Cristo: e gli disse di non credere in quello, anzi, di rinnegarlo. E allora, per ordine di quello, lo negò a parole ma senza convinzione. Disse anche che nel momento della sua accoglienza aveva baciato quel frate sulla bocca, sul petto, e sopra la veste, in segno di rispetto. Interrogato se i frati templari fossero accolti nell’Ordine nello stesso modo in cui egli stesso era stato accolto disse di non saperlo. Disse anche di aver accolto personalmente nell’Ordine un solo frate, secondo quella prassi per la quale egli stesso era stato accolto, e che in seguito accolse molti altri senza imporre loro il predetto rinnegamento e in modo corretto; disse anche che, per il rinnegamento del Crocefisso che egli stesso aveva subito durante la sua accoglienza e imposto in quella che fece fare, si confessò con l’allora Patriarca di Gerusalemme, e venne assolto da quello. Interrogato attentamente riguardo allo sputo sulla croce, ai baci e al vizio di sodomia e all’idolo a forma di testa, disse di non saperne nulla. Interrogato disse, inoltre, di credere che gli altri frati vengano accolti nell’Ordine nel modo in cui egli stesso vi fu accolto; disse, tuttavia, di non saperlo per certo, poiché quando avvengono tali cerimonie d’ingresso, gli accoliti vengono tratti in disparte in modo tale che gli altri fratelli che sono nella medesima magione non vedano né ascoltino cosa si faccia con essi in quell’occasione. Interrogato su che età avesse quando fece ingresso nell’Ordine, disse di avere avuto circa diciassette anni. Interrogato se avesse confessato le cose appena dette su richiesta, per denaro, gratitudine, simpatia, paura, odio o istigazione di qualcuno ovvero per paura della tortura, disse di no. Interrogato se volesse rimaner fermo su questa sua confessione, e se avesse detto la verità e se vi avesse mescolato qualcosa di falso ovvero se avesse tralasciato qualcosa di vero, disse che voleva rimaner fermo nella sua confessione appena detta, nella quale aveva detto ogni cosa per vera, e di aver detto la verità, e che in quella non aveva mescolato alcunché di falso, né omesso verità alcuna. Dopo ciò noi cardinali, secondo le modalità e le forme sopra scritte, ritenemmo che al medesimo frate Geoffroy, che nelle nostre mani abiurava quella appena rivelata e ogni altra eresia, e che giurava sui Santi Vangeli di Dio richiedendo umilmente anche il beneficio dell’assoluzione per questi fatti, fosse da impartire il beneficio dell’assoluzione secondo le forme della Chiesa, riaccogliendolo nell’unità della Chiesa e restituendolo alla comunione dei fedeli e ai sacramenti ecclesiastici.
Allo stesso modo, lo stesso giorno, costituitosi di persona, in presenza di noi, dei notai e dei testimoni sottoscritti il frate Geoffroy de Gonneville, attentamente interrogato sull’epoca e sulle modalità della sua accoglienza e sulle altre cose sopra menzionate, disse che sono circa ventotto anni che fu accolto come frate nell’Ordine dei Templari da Robert de Torville, Cavaliere e Precettore delle magioni templari in Inghilterra, presso Londra, nella cappella della casa templare di quella città. E in quell’occasione, il Templare che lo accolse, dopo avergli consegnato il mantello dell’Ordine, gli mostrò una croce dipinta su un certo libro e gli disse che era necessario che rinnegasse l’immagine di colui che vi era raffigurato; e siccome l’accolito non volle farlo, il precettore insistette assai che lo facesse. Poiché non voleva farlo in nessun modo, il templare, vedendo la sua resistenza, gli disse: “Mi vuoi giurare che, se io ti risparmierò dal farlo, dirai comunque di aver fatto questo rinnegamento se i confratelli te lo chiederanno?” Ed egli disse di sì, e promise che, qualora, fosse stato interrogato da chiunque dei confratelli, avrebbe detto di aver compiuto il rinnegamento; pertanto, a quanto ci ha detto, non negò nient’altro. Il Templare che lo accoglieva gli disse anche che era necessario sputare sopra la croce prima mostrata; e poiché egli non voleva farlo, il Templare posò la mano sopra la croce e gli disse: “Sputa, almeno, sulla mia mano!”. Temendo che il Templare togliesse la mano e parte dello sputo potesse cadere sopra la croce, non volle sputare sopra la mano, ma in terra, vicino la croce. Interrogato attentamente sul vizio di sodomia, sull’idolo a forma di testa, sui baci e altri fatti sui quali i Templari sono diffamati disse di non saperne nulla. Interrogato se altri frati dell’Ordine, sono accolti nello stesso modo in cui egli stesso fu accolto, disse di credere che, come avvenne a lui in occasione del suo ingresso già ricordato, così avvenga anche per gli altri. Interrogato se avesse confessato le cose appena dette su richiesta, per denaro, gratitudine, simpatia, paura o odio o istigazione di qualcuno ovvero forzatamente o per paura della tortura, disse di no. Dopo ciò noi Cardinali, secondo le modalità e le forme sopra scritte, ritenemmo che al medesimo frate Geoffroy de Gonneville, che nelle nostre mani abiurava la ora rivelata e ogni altra eresia e che giurava sui Santi Vangeli di Dio, richiedendo umilmente anche il beneficio dell’assoluzione per questi fatti, fosse da impartire il beneficio dell’assoluzione secondo le forme della Chiesa, riaccogliendo egli stesso nell’unità della Chiesa e restituendolo alla comunione dei fedeli e ai sacramenti ecclesiastici.
Allo stesso modo, il giorno diciannove del corrente mese, costituitosi personalmente in presenza di noi e dei medesimi notai e testimoni Hugues de Pérraud, Cavaliere, Precettore delle magioni del Tempio in Francia, toccando il libro, giurò sui Santi Vangeli di Dio nel modo e nella forma predetti. E il predetto frate Hugues, dopo che, come si è già detto, ebbe giurato, interrogato sul modo del suo ingresso nell’Ordine, disse di essere stato accolto in Lione, nella casa templare di quella città, nella cappella della medesima magione, passati già quarantasei anni più o meno, il giorno della festa della Maddalena prossimo passato; e lo accolse come frate dell’Ordine il frate Hubert de Pérraud, Cavaliere Templare e suo zio paterno, Visitatore delle magioni dell’Ordine in Francia e nel Poitou. Questi gli posò il mantello dell’Ordine sul collo; fatto ciò, un altro confratello di nome Giovanni, che poi fu Precettore di La Muce, lo prese da parte nella cappella, e mostratagli una certa croce nella quale era dipinta l’immagine del Crocefisso, gli ordinò di rinnegare l’immagine di colui che vi era rappresentato: questi, a quanto ci ha detto, per quanto poté, si oppose. Nondimeno, alla fine, atterrito dalle intimidazioni e dalle minacce di quel frate Giovanni, rinnegò l’immagine dipinta, ma una sola volta. Tuttavia, seppure il detto frate Giovanni gli avesse ordinato più e più volte di sputare sopra la detta croce, non volle farlo. Interrogato se avesse baciato il templare che lo aveva accolto disse di sì, ma solo sulla bocca. Interrogato sul vizio di sodomia disse che non gli fu mai imposto, né mai lo commise. Interrogato se avesse ricevuto alcuni nell’Ordine disse di sì: molte persone e in molti casi, più di qualsiasi altro Templare ancora in vita nell’Ordine. Interrogato sul modo con cui accolse altri disse che, dopo la cerimonia d’ingresso, consegnati i mantelli, imponeva a ciascuno degli accolti che negassero il Crocefisso e che baciassero lui sul fondo schiena, sull’ombelico e, in seguito, sulla bocca. Disse anche che li ammoniva di astenersi dai rapporti sessuali con le donne; e qualora non avessero potuto contenere il desiderio, di unirsi con i propri confratelli. Per suo giuramento disse anche che il rinnegamento che fece quando fu accolto nell’Ordine e le altre prescrizioni che impose a quelli che furono accolti da lui, le aveva fatte soltanto a parole e senza intenzione. Interrogato perché mai lo avesse fatto e perché mai se ne dolesse, dal momento che lo faceva senza intenzione, rispose che così prescrivevano gli statuti ossia le consuetudini dell’Ordine: e da sempre aveva sperato che quell’errore venisse rimosso. Interrogato se qualcuno tra gli accoliti si rifiutasse di sputare o fare le altre riprovevoli azioni da lui stesso menzionate poco prima, disse che in pochi si rifiutavano: ma alla fine lo facevano tutti. Disse anche che per quanto egli stesso imponesse ai frati che accoglieva nell’Ordine di unirsi sessualmente tra confratelli [se proprio non riuscivano ad astenersi da rapporti con donne], mai tuttavia gli accadde di farlo, né udì mai di qualcuno che avesse commesso quel peccato, tranne che di due o tre frati che in Terra d’Oltremare, per quel vizio, erano stati incarcerati nella fortezza di Château-Pélerin. Interrogato se sappia o meno se tutti i frati dell’Ordine siano ricevuti nel modo il cui egli stesso accolse gli altri, disse di non saperlo per certo, tranne che per se stesso e per quelli che aveva accolto personalmente, poiché i Templari vengono accolti nell’Ordine secondo una procedura talmente segreta che nulla si può sapere, se non attraverso quelli che sono presenti alla cerimonia d’ingresso. Interrogato se creda che gli accolti siano ricevuti in tal modo disse di credere che quella stessa prassi sia ancora mantenuta per accogliere altri, così come fu praticata per accogliere lui, e che egli stesso aveva osservato per quelli che aveva accolto. Interrogato sull’idolo a forma di testa, che si dice sia adorato dai Templari, disse che lo vide, mostratogli a Montpéllier dal frate Pierre Allemandin, Precettore di quel luogo; e quella testa rimase a frate Pierre. Interrogato su che età avesse quando fu accolto nell’Ordine disse che sentì dire da sua madre di avere avuto diciotto anni. Disse anche che già un’altra volta aveva confessato questi fatti, in presenza del frate inquisitore Guillaime de Paris o di un suo commissario; e che quella confessione era stata scritta per mano dello stesso Maestro che qui si sottoscrive, Amise d’Orléans, e di certi altri notai pubblici. E si attiene a quella confessione come vera, e in quella, e in tutto ciò che in questa concorda con quella, vuole rimaner fermo; e se nella medesima sua confessione fatta, come già detto, dinanzi all’Inquisitore o al suo commissario, vi sia qualcosa in più, lo ratifica, lo approva e lo conferma. Interrogato se abbia confessato le cose appena dette su richiesta, per denaro, gratitudine, simpatia, paura o odio o istigazione di qualcuno ovvero per paura della tortura, disse di no. Interrogato se dopo che fu arrestato gli fossero state poste domande o fosse stato torturato disse di no. Dopo ciò noi Cardinali, secondo le modalità e le forme sopra scritte, ritenemmo che al medesimo frate Hugues, che nelle nostre mani abiurava la ora rivelata e ogni altra eresia e che giurava sui Santi Vangeli di Dio, richiedendo umilmente anche il beneficio dell’assoluzione per questi fatti, fosse da impartire il beneficio dell’assoluzione secondo le forme della Chiesa, riaccogliendo egli stesso nell’unità della Chiesa e restituendolo alla comunione dei fedeli e ai sacramenti ecclesiastici.
Allo stesso modo, il venti del corrente mese, in presenza di noi e dei medesimi notai e testimoni, costituitosi di persona il frate Jacques de Molay, cavaliere e Gran Maestro dell’Ordine del Tempio, dopo che ebbe giurato, attentamente interrogato sulla forma e le modalità sopra riportate, disse che sono passati circa quarantadue anni dacché presso Beune, nella diocesi di Autun, fu accolto come frate dell’Ordine, per mezzo del Cavaliere Templare Hubert de Pérraud, allora Visitatore di Francia e Poitou, nella cappella della magione di quel luogo. E sulle modalità del suo ingresso nell’Ordine disse che quello che lo aveva accolto, prima di allacciargli il mantello, gli mostrò una certa croce, gli disse di rinnegare Dio la cui immagine era dipinta sulla croce stessa, e di sputarvi sopra: cosa che egli fece; e tuttavia non sputò sulla croce, ma per terra, a quanto disse. Disse inoltre che quel rinnegamento lo fece a parole, senza intenzione. Interrogato attentamente sul vizio di sodomia, sull’idolo a forma di testa e sui baci immorali disse di non saperne nulla. Interrogato se avesse confessato le cose appena dette su richiesta, per denaro, gratitudine, simpatia, paura o odio o istigazione di qualcuno ovvero per paura della tortura, disse di no. Interrogato se dopo che fu arrestato gli fossero state poste domande o fosse stato torturato disse di no. Dopo ciò noi Cardinali, secondo le modalità e le forme sopra scritte, ritenemmo che al medesimo frate Jacques, Gran Maestro dell’Ordine, che nelle nostre mani abiurava la ora rivelata e ogni altra eresia e che giurava sui Santi Vangeli di Dio richiedendo umilmente anche il beneficio dell’assoluzione per questi fatti, fosse da impartire il beneficio dell’assoluzione secondo le forme della Chiesa, riaccogliendo egli stesso nell’unità della Chiesa e restituendolo alla comunione dei fedeli e ai sacramenti ecclesiastici.
Nello stesso giorno 20 il già menzionato frate Geoffroy de Gonneville, costituitosi alla presenza di noi e dei medesimi notai e testimoni, ha ratificato, approvato e confermato spontaneamente e liberamente la sua confessione sopra riportata, lettagli pubblicamente nella sua lingua, dichiarando che intende rimaner fermo tanto in questa confessione quanto anche in quella che già un’altra volta ha dichiarato, su questi fatti, dinanzi all’Inquisitore o agli Inquisitori, dal momento che concorda con la detta confessione fatta dinanzi a noi e ai notai e ai testi ricordati, e che intende attenersi ad entrambe le confessioni; e se nella medesima confessione fatta, come è stato detto, dinanzi all’Inquisitore o agli Inquisitori, vi sia qualcosa in più, lo ratifica, lo approva e lo conferma.
Nel predetto giorno 20 il già menzionato frate Precettore Hugues de Pérraud, costituitosi in presenza di noi e dei medesimi notai e testimoni, in modo e forma analoghi, spontaneamente e liberamente ha ratificato, approvato e confermato la sua confessione sopra riportata lettagli pubblicamente nella sua lingua. A testimonianza di tutto questo, abbiamo ordinato che le confessioni e tutti i singoli fatti sopra riportati, dinanzi a noi e agli stessi notai e testimoni e da noi stessi resi come qui sopra sono contenuti, vengano scritti e, una volta redatti in pubblica forma da Robert de Condet, chierico della diocesi di Soissons e notaio per autorità apostolica, che fu presente insieme a noi e ai notai e testi sotto indicati, siano munite con il peso dei nostri sigilli.
Questi fatti si svolsero nell’anno, nell’indizione, nel mese, nei giorni, nel Pontificato e nel luogo sopra ricordati, in presenza di noi, presenti i notai pubblici per autorità apostolica Umberto Vercellani, Nicolò Nicolai di Benevento, il ricordato Robert de Condet e il Maestro Amise de Orléans detto le Ratif, e i testimoni appositamente convocati per questo: il religioso frate Raimondo, abate del Monastero di San Teoffredo dell’Ordine di San Benedetto nella diocesi di Annecy, e gli avveduti signori Bernardo da Boiano, arcidiacono di Troia, Raoul de Boset, penitenziere e canonico di Parigi, e Pierre de Soire, custode della chiesa di Saint-Gaugéry nella diocesi di Cambrésis.
E io il medesimo Robert de Condet, chierico della diocesi di Soissons, notaio pubblico per autorità apostolica, ho assistito a tutti i singoli fatti sopra riportati in presenza dei reverendi padri e già ricordati signori Cardinali, di me, e degli altri medesimi notai e testimoni, presente per grazia degli stessi Cardinali insieme ai ricordati notai e testimoni, e dietro ordine degli stessi signori Cardinali scrissi il presente strumento pubblico e, su richiesta, lo ho redatto in pubblica forma apponendovi il mio segno notarile.
E io sopra ricordato Umberto Vercellani, chierico di Béziers, notaio pubblico per autorità apostolica ho assistito alle confessioni e a tutti i singoli fatti sopra riportati in presenza dei signori Cardinali predetti e come sopra più ampiamente è riportato, presente per grazia di questi insieme ai notai e ai testimoni sopra menzionati e dietro ordine degli stessi signori Cardinali, a maggiore garanzia mi sono sottoscritto in questo strumento pubblico e lo ho autenticato con il mio segno notarile.
E io Nicolò Nicolai di Benevento, notaio pubblico per autorità apostolica sopra nominato, ho assistito alle confessioni e a tutti i singoli altri fatti sopra riportati in presenza dei signori Cardinali predetti e come sopra più diffusamente è riportato, presente per grazia di questi insieme ai notai e ai testimoni sopra menzionati e dietro ordine degli stessi signori Cardinali, a maggiore garanzia mi sono sottoscritto in questo strumento pubblico e lo ho autenticato con il mio segno notarile (ST).
E io Amise de Orléans detto le Ratif, chierico e notaio pubblico per l’autorità della sacrosanta Chiesa di Roma ho assistito alle confessioni ovvero deposizioni e a tutti gli altri singoli fatti in presenza dei padri e signori Cardinali predetti e come sopra è più diffusamente contenuto, fui presente insieme ai notai e testimoni sopra menzionati e dietro ordine degli stessi signori Cardinali a testimonianza di verità mi sono sottoscritto, su richiesta, in questo strumento pubblico e lo ho autenticato con il mio segno notarile.”

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