“He who controls the past controls
the future.
He who controls the present controls
the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In politics, nothing happens by
accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt
L’autore
tiene a ringraziare le persone che lo hanno incoraggiato a intraprendere la sua
inchiesta.
In
particolare, Lazzaro DIA, per gli ammaestramenti, che non ha, mai, mancato di
prodigarmi graziosamente, e per gli ammonimenti, che non ha, mai, mancato di
prodigarmi meno graziosamente.
Il mio
uomo, come lo definirebbe John Le Carré, ha preso non poche precauzioni allo
scopo di non dover confidare, unicamente, sulla mia discrezione per proteggersi
da indebite ricerche sulla sua persona e non mi ha permesso di sapere su di lui
più di quanto mi servisse per convincermi a portare a termine la stesura del
mio reportage.
Per le
stesse ragioni, non posso rendere nota l’identità di altre 6 persone, che, mi
limiterò a indicare con le lettere J, K, W, X, Y e Z, che non sono,
naturalmente, le iniziali dei loro nomi.
Sono
loro debitrice.
Dal
momento che questo reportage
solleverà, senza commenti, questioni in merito alle quali le opinioni non
sempre coincidono, ritengo sia giusto rendere nota al lettore la mia posizione
personale.
Come la
maggior parte degli individui, disapprovo il terrorismo a scopi politici.
Inoltre non credo nella cinica concezione, secondo cui chi per qualcuno è un
terrorista, par altri è un combattente per la Libertà.
I
terroristi non si definiscono in base ai loro obiettivi politici, ma ai mezzi
che utilizzano.
In pari
tempo, non mi sento di sottoscrivere il diffuso errore secondo cui il
terrorismo è privo di qualsiasi efficacia.
A mio
parere, una ipotesi del genere è solo un pio desiderio.
Se il
terrorismo, spesso, non riesce a conseguire gli obiettivi desiderati, lo stesso
vale per la guerra convenzionale, la diplomazia o qualsiasi altro evento
politico.
Alla
stessa stregua, si potrebbe ipotizzare che anche la guerra e la diplomazia
siano prive di efficacia!
È mia
opinione che il terrorismo sia un male, che raggiunga o meno gli scopi
prefissati.
Anche
l’antiterrorismo, tuttavia, comporta spargimento di sangue.
Non
tenterò neppure di affrontare e risolvere tale questione in questa sede.
Senza
dubbio alcuno, questa inchiesta sarà attaccata da alcuni e respinta da altri.
Non si pretende esaustiva, si vuole, semplicemente, onesta e obiettiva per quel
che si può fare in un brevissimo lasso di tempo.
E se ne
infischia delle cautele.
Ve ne
accorgerete subito!
Io
avrei potuto citare delle voci, dei “si dice”, delle maldicenze e anche dei
documenti, che circolano sia in Vaticano sia nelle sale di redazione italiane.
Me ne
sono astenuta nella misura in cui mi sembravano poco credibili.
Io ho
attinto, esclusivamente, a fonti “degne di fede”.
Questione
di buon gusto e di disposizione psichica.
La mia
deontologia è alla portata di tutti coloro che cerchino di penetrare, il più
naturalmente possibile, il luogo, per eccellenza, della delegazione del potere
divino.
In
questo tempo di onnipotenza dei media, il più arduo dei miei compiti è stato di
separare il grano dal loglio e di tenere conto del vero a fronte della
proliferazione dei bisbigli.
Io non
ignoro che una disinformazione più o meno machiavellica alimenti una nebbia di
leggende e di dicerie intorno allo Stato di Dio, al solo fine di perpetuarne
l’ermetismo. È qui che si inverte il buon senso euristico nella misura in cui
l’eccesso di contro-verità finisce per accreditare la tesi che non vi è fumo
senza fuoco né fuoco senza fumo.
Io non
ho neppure trascurato le testimonianze dirette.
La
Chiesa produce anche dei transfuga, che scelgono la libertà di credere e la
salvezza fuori della sua cinta millenaria.
Verso,
dunque, queste pagine nel dossier
della Storia della Chiesa che non ha finito, nella gloria e nella polvere, di
stupirci. Saranno considerate un attacco alle fede cattolica romana, in
particolare, e al cristianesimo, in generale.
Non sono
niente di tutto ciò e possono dare fastidio solo a chi si crede detentore
esclusivo di una Verità assoluta ed è privo, allo stesso tempo, di ogni
cognizione storica.
Sono
una inchiesta su una Chiesa che, dal Concilio Vaticano II, è alla ricerca di se
stessa.
Sono
una accusa contro uomini chiaramente identificati, che sono, dichiaratamente,
nati cattolici romani, ma, contrariamente, non sono, mai, divenuti cristiani.
Uomini
che hanno dimenticato che il Cristo ha cacciato i mercanti dal tempio,
senza preoccuparsi della loro potenza, e non ha temuto di fustigare i dignitari
della gerarchia religiosa, a rischio della propria vita.
Oggi,
sarebbe al fianco dei magistrati integri e dei cristiani convinti, che hanno
dichiarato guerra alla corruzione e alla incuria di una certa curia.
Che i
cristiani sinceri abbiano, dunque, la intelligenza di non prendere questo
lavoro per una impresa malefica.
Il
diavolo non è tra i miei Amici.
Non
sono la sola a pensare che si debba sloggiarlo dagli stessi scantinati del
Vaticano.
Chi di
loro riuscirà a passare per l’evangelica cruna dell’ago?
Voci di
rinnovazione della Chiesa si levano ovunque.
Lo
Spirito soffia dove vuole.
Si deve
lasciare soffiare questo vento.
Perché
non disperderebbe, alla luce del sole, tutti quei dossiers, pazientemente accumulati dalle commissioni di inchiesta,
nel corso degli scandali Michele Sindona, Roberto Calvi e consociati.
Uno dei più grandi processi del
dopoguerra su scala planetaria!
“1 Per ogni cosa c’è il suo momento, il
suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
2 C’è un tempo per nascere e un tempo
per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
3 Un tempo per uccidere e un tempo per
guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire.
4 Un tempo per piangere e un tempo per
ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare.
5 Un tempo per gettare sassi e un tempo
per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli
abbracci.
6 Un tempo per cercare e un tempo per
perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
7 Un tempo per stracciare e un tempo
per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare.
8 Un tempo per amare e un tempo per
odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
9 Che vantaggio ha chi si dà da fare
con fatica?”,
recita
l’Ecclesiaste.
Vi è un
tempo per le transazioni illecite e un tempo perché la legge degli uomini
sanzioni la loro illegalità, per non dire la loro incidenza criminale.
Un
tempo per chiudere gli occhi e gli orecchi e un tempo per aprire alla Verità.
Un
tempo per la credulità e la pseudo-innocenza e un tempo per una fede lucida,
senza accecamento né fanatismo.
“Molti
sono andati in rovina a causa dell’oro, il loro disastro era davanti a loro.”,
ammonisce
l’Ecclesiastico.
Io ho
voluto fare luce su uno dei più oscuri enigmi della Storia delle istituzioni
umane.
E,
forse, contribuirò a spianare le rovine!
Il
dedalo del Vaticano non è quello del Minotauro, ma quello del rappresentante di
Dio sulla Terra, guardiano pacifico della tradizione ecclesiale.
Sollecito,
dunque, indulgenza perché in quel circolo
vizioso di eventi contraddittori dalle molteplici interazioni come osare
definire ciò che è causa e ciò che è effetto!
E,
poiché nessuno di noi ha la Verità assoluta, ma tante piccole Verità unite
portano alla conoscenza, ben venga chi offrirà una analisi storica, anche
crudele, diversa.
Gliene
sarò grata, purché lo faccia con rispetto.
La
ricerca della Verità non è così semplice come potrebbe apparire!
Esistono
precise barriere nel mondo, forze oscure, ma potenti, che impediscono con tutti
i mezzi, che ci si avventuri alla ricerca di una qualsiasi Verità.
Esistono
personaggi molto influenti in grado di bloccare qualsiasi iniziativa legittima
nell’interesse della Giustizia degli uomini.
Questi
personaggi molto potenti vivono secondo leggi e codici che non sono le leggi e
i codici degli altri uomini.
Le
comuni leggi e i codici in vigore non hanno valore per loro e non si applicano
nei loro confronti.
Alla
base dell’associazionismo segreto vi è la volontà di una élite di distinguersi,
di agire alle spalle per produrre qualcosa che non si può condividere con la
massa.
Il
sociologo statunitense Edward Hopper sostiene:
“Gli
aderenti alle associazioni segrete hanno fondamentalmente tre punti in comune:
il desiderio di appartenere a una élite, il sentirsi adepti per diversificarsi
da tutti gli altri, avvolgendosi in un alone enigmatico, la certezza di essere
nella cerchia nobile di chi determina e costruisce qualcosa che produce cioè
qualcosa di inaccessibile alle masse.”
Tutte
le Società Segrete per loro natura sono estremamente selettive: mirano a
raccogliere individui “particolari” già in sintonia con la natura della società
in questione.
Come
scrive Heinrich Cornelius Agrippa von
Nettesheim nel
suo De Occulta Philosophia:
“Abbiamo trasmesso quest’arte in modo
che essa non rimanga occulta agli uomini prudenti e intelligenti, ma anche in
modo che non ammetta ai suoi arcani i malvagi e gli increduli, così che essi
restino a mani vuote sotto la meschina ombra della ignoranza e della
disperazione. Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo
scritto questa opera.”
Se uno
di noi, uno qualsiasi di noi, decidesse di essere iniziato a una Società
Segreta, che cosa avverrebbe?
Secondo
Mircea Eliade, verrebbe
modificata tutta la sua vita. Nel suo saggio Il sacro e il profano si legge:
“Generalmente l’iniziazione comporta una
triplice rivelazione: quella della morte, quella del sacro e quella della
sessualità. Il fanciullo ignora tutte codeste esperienze; l’iniziato le
conosce, le assume e le integra nella sua nuova personalità. Si aggiunga che il
neofita muore alla propria vita infantile, profana, non rigenerata, per
rinascere a una nuova esistenza santificata: rinasce anche a un modo di essere
che gli rende possibile la conoscenza, la scienza. L’iniziato non è soltanto un
nuovo nato, un resuscitato: è anche un uomo che sa, che conosce i misteri, che
ha ricevuto delle rivelazioni di ordine metafisico. Durante l’apprendistato
nella boscaglia egli impara i segreti sacri: i miti riguardanti gli dei e l’origine
del mondo, i veri nomi degli dei, l’uso e l’origine degli strumenti rituali
impiegati nelle cerimonie di iniziazione. L’iniziazione equivale alla maturità
spirituale e in tutta la Storia religiosa dell’Umanità troviamo, sempre, questo
tema: l’iniziato, colui che ha conosciuto i misteri, è diventato colui che sa.”
Quale
ragione spinge un gruppo di individui a costituire una Società Segreta?
La
ragione muove, principalmente, da scopi di tipo utilitaristico e materiale, che
portano a costituire una società di mutuo soccorso, nella quale trovare aiuto
da parte dei confratelli.
Daniela
Zini
“Chi tace e chi piega la testa muore ogni
volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone
ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine,
che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai
nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non
facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo
una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non
riuscire a provare!”
Daniela
Zini
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò
che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo
piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da Società Segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi
esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in
questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi
stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di
gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di Società
Segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti.
La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li
obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e
mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy
tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di
New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra
Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più
pericoloso.
“[…] La
stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente
contrari alle Società Segrete, ai
giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso,
molto tempo fa, che i pericoli di
un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti
superino, di gran lunga, i pericoli che
vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno
alle Società Segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche,
sociali, politiche o di clubs privati
riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono state, in
un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni
dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto
a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le Società Segrete si
ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo
mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle
Società Segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si
pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una
appassionante incursione nel cuore delle Società Segrete più celebri della
storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle
Società Segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti
di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le Società
Segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla
nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non
critico, che degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle Società Segrete
in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare,
ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini,
noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli
“eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere,
mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei
predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo
un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente
scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle
Società Segrete è che
le suddette Società Segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le
Società Segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo
ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle Società Segrete si perde,
necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più
lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In
principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla
fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu
la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui
veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali
della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero
divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i
due poli della sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto
al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un
inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto,
l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e,
ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la
trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni
abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O
che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la
materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si
svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre
di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le Società Segrete
assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e,
soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra
svolta: la proliferazione delle Società Segrete, che hanno, come corollario,
legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la
razionalità scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una
moltiplicazione di Società Segrete, in particolare nell’era di Internet, con
possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle Società Segrete ha una
importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia,
versione detta esoterica, che tiene conto delle Società Segrete, perché sono,
sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le
ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia
esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste Società Segrete sono, profondamente,
legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne
ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su
Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema,
esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali,
basati sul controllo, il potere e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in
cui viviamo!
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
3. SI UCCIDE UN MINISTRO CAMORRA SOTTO ACCUSA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
4. I RIFIUTI TOSSICI IN CAMPANIA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Terza -
Roma Caput Immondum
A. La Banca Romana
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO
VA E FA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
5. TURIDDU 65 ANNI DOPO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO
DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
3. CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI
CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI
CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini
Mausoleo Ossario
In
nessuno degli Stati italiani presistenti all’Unità sorsero tante Società
Segrete quante nel Regno delle Due Sicilie.
A
Palermo nacque, ai tempi di Francesco I [1777-1830], la setta dei Seguaci di Muzio Scevola,
cui aderirono anche molti ufficiali e sottufficiali dell’esercito borbonico e
preti. Mentre preparava un moto rivoluzionario, fu scoperta e mortalmente
colpita. Dieci adepti vennero giustiziati, tra i quali due preti e lo stesso
fondatore della setta, Salvatore Meccio.
In
Sicilia sorsero, anche, le sette dei Seguaci
di Bruto, dei Sette Dormienti,
dei Pellegrini
Bianchi, dei Veri Patrioti,
della Repubblica,
la quale, fondata dal prete Giovanni Krymi [1794-1754], varcò lo stretto e mise
radici a Reggio Calabria.
Di
non trascurabile importanza fu la setta palermitana Nuova Riforma,
che fece un serio tentativo di organizzazione, bruscamente troncato dalla
polizia: due dei suoi adepti finirono sulla forca e molti altri in carcere.
Ben
più pericolosa si mostrò un’altra setta, nata nelle carceri palermitane a opera
di un infaticabile agitatore politico, Giuseppe Abela. Aveva diramazioni al di
fuori delle prigioni e si proponeva di far saltare con una mina l’edificio
carcerario; liberare tutti i carcerati; assalire di sorpresa gli austriaci,
che, allora, presidiavano Palermo; impadronirsi dei forti e delle armi ivi
custodite e proclamare la libertà dell’isola. Ma la mina si rivelò troppo
fiacca: lo stabile resisté allo scoppio e i soldati, subito accorsi, resero
impossibile la rivolta. Abela venne condannato a morte e fucilato.
Nel
bagno penale di Favignana, una delle Isole Egadi, si costituì tra i detenuti una
società. Contavano di potere evadere dal bagno, sbarcare nella vicina Marsala,
marciare su Trapani, attirare a sé molta gente e, con il suo aiuto, scacciare
le guarnigioni austriache dalla Sicilia. Ma l’organizzazione fu scoperta prima
che passasse all’esecuzione del piano. Vi furono arresti, inquisizioni,
condanne: cinque congiurati vennero giustiziati.
Tra
le sette fondate sul territorio continentale del Regno va ricordata quella
leccese degli Edennisti,
di cui fece parte un famoso uomo politico, Liborio Romano [1793-1867],
destinato a rappresentare una parte di primo piano negli ultimi anni della
monarchia. Nel 1826, venne arrestato come edennista e passò un anno in carcere.
A
Barletta, nacque la società segreta Tomba
Centrale, il cui nome alludeva alla
tomba, in cui sarebbe stato sepolto il dispotismo borbonico.
A
Napoli, ebbe vita la setta dei Filadelfi,
la più attiva e pericolosa di tutte le sette minori. Di origine transalpina e
di ispirazione liberal-repubblicana, preparò la rivolta del Cilento del 1828,
durante la quale venne inalberata la bandiera tricolore e proclamata una
costituzione di tipo francese.
Altre
due sette nacquero nel Cilento, sotto Ferdinando II: la Propaganda
e la Fratellanza.
La prima ordì una vasta congiura, che venne scoperta nel 1837, e dette origine
a un colossale processo che popolò le carceri. La seconda, che aveva carattere
comunista, fu scoperta nel 1843: delle duecentosessantaquattro persone
processate un centinaio andò in prigione senza giudizio, undici furono relegate,
per sei anni, nelle isole e trenta mandate in esilio.
Ma
queste non erano che le Società Segrete di minore rilievo. Le più importanti
furono tre: la Carboneria,
la Giovane
Italia e l’Unità Italiana.
La
Carboneria
fu creata sul modello dell’analoga società francese. Giunse a diventare un vero
Stato nello Stato, che reclutava adepti in tutte le classi sociali, impartiva
loro una certa istruzione militare e giudicava le loro colpe in un tribunale
segreto, senza ricorrere alla giustizia ordinaria. Verso il 1820, il centro
principale della Carboneria
italiana fu creato proprio a Napoli, ove rimase per alcuni anni. Anche a
Napoli, la Carboneria
si presentò con le sue caratteristiche tradizionali: il mistero dei suoi riti,
il simbolismo dei suoi nomi, la sua complicata costituzione gerarchica. Vi si
iscrissero molte donne chiamate in gergo carbonaro “giardiniere”, le quali
riuscivano utilissime come messaggere, poiché la polizia sospettava di loro
molto meno che degli uomini.
Si
può dire che, per molto tempo dopo i moti del 1820, la maggior parte delle
rivolte scoppiate nelle Due Sicilie siano state fomentate dalla Carboneria
o comunque da essa favorite tramite sette minori dello stesso tipo. Ma il
fallimento di tutte quelle imprese provocò la sua decadenza.
Ne
approfittò Giuseppe Mazzini per soppiantarla con la Giovane Italia,
da lui stesso fondata, nel 1831, dopo aver accusato la Carboneria di essere
troppo individualista e, pertanto, incapace di inquadrare, organicamente, le
forze rivoluzionarie della Penisola. Grandi speranze sorsero nel Regno
Borbonico per l’azione mazziniana; ma appena le speranze entrarono in contatto
con la realtà sfumarono. Nessuna delle insurrezioni, fomentate, nelle Due
Sicilie, dalla Giovane
Italia, ebbe successo; furono tutte
soffocate nel sangue, compresa la maggiore, scoppiata a Cosenza, nel 1844.
Né
maggiore successo ebbe la terza delle tre grandi società: l’Unità Italiana,
costituita, nel 1848, da Silvio Spaventa [1822-1893], futuro deputato e
ministro del Regno d’Italia. Lo statuto e il programma dell’associazione furono
scritti da Luigi Settembrini [1813-1876]. Ma fino dagli inizi fu travagliata da
lotte intestine tra monarchici e repubblicani. Inutilmente Spaventa scongiurava
i compagni:
“Prima abbattiamo il Borbone e poi pensiamo
alla forma di governo.”
Non
fu ascoltato!
Così,
l’azione della società rimase completamente paralizzata. Nonostante ciò,
scoperta dalla polizia, subì un clamoroso processo, che durò otto mesi [giugno
1850 – gennaio 1851] e appassionò per la notevole personalità degli imputati
tutta l’Italia e l’Europa. Sul banco degli accusati, insieme a Spaventa e a
Settembrini, vi era anche Carlo Poerio [1803-1867], che era stato ministro di
Ferdinando II [1810-1859]. Ironia della sorte: era completamente estraneo all’associazione,
cui non aveva voluto iscriversi perché non credeva affatto nella sua utilità.
Il processo fu, attentamente, seguito da un giovane amico del rappresentante
diplomatico inglese a Napoli: William Ewart Gladstone
[1809-1898]. Figlio di un libero Paese rimase indignato dalla mostruosità del
processo, chiusosi con tre condanne a morte – di cui una sola, tuttavia, fu
eseguita –, molte condanne all’ergastolo e ad alquanti anni di reclusione.
Gladstone provò a visitare i condannati in carcere per assicurarsi della
veridicità di certi voci che riferivano che i prigionieri fossero trattati come
bestie, legati due a due con pesanti catene, costretti a vivere in tetre e
fetide celle, insieme a una decina di autentici criminali, e subissero,
talvolta, sevizie e torture, quali l’introduzione sotto le unghie di ferri
appuntiti o l’uso del borzacchino, uno stivaletto di ferro, in cui veniva
versata pece bollente. Riuscì nel tentativo e, nel bagno penale di Nisida, poté
parlare, soprattutto, con Poerio. Quello che vide e apprese superò le sue
stesse previsioni. Fu proprio l’orrore suscitato in lui da quelle carceri che
lo spinse a scrivere a un suo amico, lo statista inglese lord George Hamilton Gordon Aberdeen [1784-1860], le famose lettere di denuncia, in cui bollava di ignominia il regime
borbonico, chiamandolo “negazione di Dio”.
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano-Massoneria
- Parte
Terza –
“Et favere et pati fortia romanum est.”
ROMA CAPUT
IMMONDUM
“Possis
nihil Urbe Roma visere maius.”
Quintus Horatius Flaccus
Roma
capomunni
Nun fuss’antro pe ttante antichità
bisognerebbe nassce tutti cquì,
perché a la robba che cciavemo cquà
c’è, sor friccica mio, poco da dí.
Te ggiri, e vvedi bbuggere de llí:
te svorti, e vvedi bbuggere de llà:
e a vive l’anni che ccampò un zocchí
nun ze n’arriva a vvede la mità.
Sto paese, da sí cche sse creò,
poteva fà ccor Monno a ttu pper tu,
sin che nun venne er general Cacò.
Ecchevel’er motivo, sor monzú,
che Rroma ha perzo l’erre, e cche pperò
de st’anticajje nun ne pô ffà ppiú.
Giuseppe
Gioacchino Belli [1791-1863]
B. Il banchiere di Dio
Protagonista:
un ex-cassiere di Imola, che rastrella danaro, pagando interessi “folli”.
Scopo
“ufficiale”: finanziare, in Romagna, la costruzione di chiese, asili e
conventi.
Verità:
centinaia di persone truffate, il Governo verso la crisi.
Giulio Andreotti [1919-2013]
Luigi
Preti [1914-2009]
Nel luglio del 1958, Luigi
Preti fu nominato ministro delle finanze, nel secondo Governo Fanfani [1 luglio
1958 – 15 febbraio 1959], e dovette subito fronteggiare le accuse rivolte al
suo dicastero per il caso del “banchiere di Dio”, che sfociarono nella istituzione
di una apposita commissione parlamentare di inchiesta.
Agosto 1958: la prima estate
del boom.
Il
grande polverone politico, sollevato dalle elezioni politiche di maggio per il
rinnovo dei due rami del Parlamento,
si è, appena, diradato.
Milioni
di italiani hanno lasciato in massa le città per godersi, nel caldo di una
estate torrida, le ferie del primo benessere. Sulle spiagge della penisola le
radio tascabili, simbolo tangibile della nuova era, che sembra volere baciare
anche l’Italia, seguono con interesse le imprese del sommergibile atomico Nautilus, che naviga sotto i ghiacci del
Polo e il lancio di un razzo gigantesco da Cape Canaveral verso la Luna.
A riportare
tutti, bruscamente, alle vicende di casa è il ministro delle finanze Luigi
Preti, che, da Ferrara, con una conferenza stampa a sorpresa, denuncia,
pubblicamente, i traffici dell’Anonima Banchieri,
una organizzazione clandestina, che, da anni, raccoglie, abusivamente, danaro
da piccoli risparmiatori del Ferrarese e della Romagna, impegnandosi a pagare
interessi altissimi, anche del 70 o 100%.
Secondo
voci, che corrono nella Bassa, la formidabile catena di Sant’Antonio, messa in
moto a scopo benefico, per finanziare la costruzione di chiese, canoniche,
campanili e conventi, sembra si stia spezzando.
La
“banca senza sportelli” sarebbe sull’orlo di un colossale crack.
Il
ministro osa, anche, fare il nome del commendatore che ha ideato, impostato e
diretto, per anni, l’Anonima Banchieri,
moltiplicando i milioni come mai prima nessuno aveva fatto: il “grande
benefattore”, insomma, che qualcuno ha, già, definito “il banchiere di
Dio”.
È, così,
che scoppia l’affare Giuffrè, il più clamoroso e inestricabile scandalo di
costume, a sfondo religioso, degli anni 1950.
Un
singolare caso all’italiana, che, dapprima, solleva, impietosamente, i veli su
vicende di preti troppo desiderosi di rattoppare i muri delle canoniche; di
frati che credono, ciecamente, di avere trovato l’uomo della Provvidenza; di
centinaia di piccoli risparmiatori entrati in grande segreto nella “catena”,
con la maliziosa speranza di arricchire in fretta. E, poi, approda, come una
mina vagante, tra i banchi del Parlamento. Ed è così che il volto liscio,
rotondo, orlato da un candido pizzetto bianco del commendatore Gianbattista
Giuffrè, noto da anni nei caffè e nelle piazze della Romagna, diviene familiare
anche sulle prime pagine dei grandi giornali.
La
miccia è accesa!
Si
parla di un colossale giro di miliardi.
Vi è
materia in abbondanza, per fare scattare una inchiesta della polizia
tributaria. Si cercano le prove per colpire il responsabile della organizzazione.
Si spera che il filo della omertà, che avvolge in un alone di mistero tutto
l’affare, si spezzi. Ma chi ha versato un milione e ha, poi, incassato dieci
milioni, tiene la bocca chiusa. Chi ha versato, senza riscuotere alcun
interesse, non vuole fare la figura del fesso.
I nuovi
conventi, eretti dal commendatore, si chiudono nel silenzio.
Le
autorità religiose cercano di minimizzare, sostengono di avere, già, da tempo
sconfessato l’organizzazione del commendatore e mostrano, a riprova della buona
fede, una circolare della Sacra Congregazione Concistoriale, che, fino dal 1957,
proibiva in pratica di avere rapporti di affari con Giambattista Giuffrè.
Il
giorno 28, lo scandalo è, già, un fatto romano.
Semina
panico e veleno negli ambienti politici della capitale.
Minaccia
di diventare ancora più aggrovigliato e torbido di quello che già non sia.
Dai
banchi della opposizione partono pesanti bordate contro il Governo. Si chiede come
tutto questo possa essere avvenuto alla luce del sole. Come un “banchiere senza
licenza” possa avere messo in piedi una organizzazione del genere – che,
peraltro, in Romagna, era, da anni, sulla bocca di tutti – e agire
indisturbato.
Perché
il bubbone scoppia solo ora?
È vero
che, già, dal 1957, esisteva su questa “banca senza sportelli” un rapporto
della guardia di finanza di Ravenna e di Forlì, rimasto, tuttavia, ignorato?
“L’insufficienza della
legislazione non consentiva forme di intervento della pubblica autorità per
prevenire e reprimere fenomeni abnormi che possano recare nocumento
direttamente o di riflesso, alle normali attività delle aziende di credito o
turbare la fede pubblica.”
Quali
misteri, quali alti personaggi o alti prelati si celano dietro Giuffrè?
Possibile
che la polizia tributaria non riesca a raccogliere prove per mettere con le
spalle al muro uno che, a quanto pare, sia pure per costruire opere pie, abbia
raggirato molta gente?
Perché
il ministro del tesoro Giulio Andreotti non è intervenuto prima?
La
sortita del ministro delle finanze dà, in definitiva, il via a una serie di
accuse pesanti. Rischia di creare una grave spaccatura tra DC e PSDI, che
insieme formano, in quel momento, un Governo a due, presieduto da Amintore
Fanfani [1908-1999].
Ma è
contro Giulio Andreotti che
vengono lanciati gli strali più pericolosi. Il ministro del tesoro, da parte
sua, reagisce violentemente; si dichiara favorevole alla nomina di una
commissione di inchiesta parlamentare, che faccia piena luce sul caso Giuffrè.
Anche la stampa di sinistra si dichiara favorevole all’inchiesta:
“Il Governo
non può sottrarsi al giudizio del Parlamento.”
A
questo punto la mina vagante è, già, scoppiata.
Mentre
la polemica divampa nell’afa romana; mentre un memoriale anonimo circola nelle
redazioni; mentre Amintore Fanfani e Giuseppe Saragat [1898-1988] cercano di
smussare l’incidente creatosi tra DC e PSDI – alcune frecciate contro Andreotti
erano partite anche dai banchi del PSDI – e mentre le autorità ecclesiastiche
cercano di prendere sempre più le distanze, a Bologna; decine di inviati di
grandi giornali assediano il personaggio, che è al centro di tutto lo scandalo,
il “banchiere del presta e raddoppia” che, attorniato da sei avvocati di grido,
confessa con aria serafica la propria buona fede.
Sostiene
di avere agito sempre a scopo di bene, promette di pagare tutti i suoi
creditori fino all’ultima lira, minaccia di fare nomi grossi, di coinvolgere
ministri e vescovi. A spada tratta, Giambattista Giuffrè sostiene che nella sua
attività non vi è nulla di illecito, che la storia della “catena di
Sant’Antonio” è matematicamente ridicola.
“Chi
dice che non pagherò i crediti?
Prometto
di pagare a tutti gli interessi.”,
sentenzia
ai giornalisti.
“Sono
soddisfatto di ciò che ho fatto. Se ho commesso qualche errore è stato per il
bene dei poveri. E, poi, come si può chiamare scandaloso fare della
beneficenza?”
Giuffrè
diviene il personaggio del giorno.
Gli
italiani, che tornano dalle vacanze, seguono divertiti la vicenda, vogliono
sapere tutto di lui.
Chi è
questo signore con il cappello bianco e l’aureola di santo, che viene definito
“maniaco della beneficenza”, che sui ruoli della tributaria figura come
nullatenente e, invece, è al centro di un frenetico e oscuro giro di miliardi?
Come fa
a erigere conventi e, nello stesso tempo, a pagare interessi dieci volte più
alti di una banca normale?
È uno
speculatore o un benefattore?
Un
incosciente o l’inventore di una formula finanziaria capace davvero di
moltiplicare i milioni?
E
perché, se accusato di traffici illeciti, non viene arrestato?
Per
l’anagrafe Giambattista Giuffrè nasce a Castel San Pietro, vicino a Bologna,
nel 1901. Il padre siciliano, fa la guardia comunale. La famiglia abita a due passi
dalla chiesa dei cappuccini, primo rifugio del ragazzo, che, qui, matura la
decisione di andare a studiare in seminario a Imola e di farsi frate. Ma alla
fine delle scuole medie Gianbattista cambia idea: con una buona raccomandazione
dei frati entra in banca, diviene cassiere e, per trent’anni, puntuale e
zelante conta danaro dietro gli sportelli. A Imola è ben visto e lo conoscono
in molti. Si sposa e anche se non veste il saio, continua a frequentare il
convento. Si rivela, per la sua abilità professionale, un consigliere prezioso
dei cappuccini. Tra i più esposti risulteranno i cappuccini di Foggia, guidati
da frate Francesco Forgione, oggi, meglio conosciuto come padre Pio: si ritroveranno
con un miliardo di debiti, meno di un milione in cassa e i creditori alle
porte.
Padre
Pio [1887-1968]
Nel
1948, dopo uno scontro con il direttore del Credito
Romagnolo, Giambattista Giuffrè lascia, inspiegabilmente, il lavoro; chiede
la liquidazione; rinuncia alla pensione e si mette “in proprio”. In realtà, le
dimissioni erano state imposte dalla banca, che aveva riscontrato a carico del
suo cassiere gravi scorrettezze.
È
stimato dai frati ed è stimato in città.
Non gli
è difficile trovare clienti.
Nel
giro di pochi anni, Giuffrè diviene amministratore di alcuni conventi della
Romagna; decide di amministrare anche risparmi di privati e mette in moto il
suo vorticoso giro di affari.
Si
ritrova di nuovo cassiere, ma di una banca, che non ha alcuna insegna sulla
porta.
La
prima cliente che gli affida il suo “gruzzolo” da amministrare è una anziana
signora, proprietaria di un podere. Conosce Giuffrè fino dai tempi in cui
faceva il cassiere.
Poi, ne
arrivano altri.
Giuffrè
non solo amministra; ma raccoglie quanto più danaro può per finanziare, come
lui dice, la costruzione di opere pie.
Promette
e paga interessi favolosi.
Chi
versa danaro a lui, non solo fa un affare; ma fa, anche, un’opera buona.
Quando
i primi “correntisti” vanno a incassare gli interessi alla “banca senza
sportelli” non credono ai loro occhi.
La voce
si sparge nelle campagne.
Che il
“banchiere” sia solido, si tocca con mano: per bontà sua, in tutta la Romagna,
sorgono come funghi, nuovi conventi, chiese, asili e anche case coloniche.
Il giro
sotterraneo di depositi si allarga fino alle Marche e all’Abruzzo.
A bassa
voce, i primi beneficiati dal commendatore ne decantano l’abilità e la bontà.
L’ex-cassiere
divenuto, improvvisamente, “facchino di Dio”, chiede ai suoi clienti solo un
po’ di pazienza prima di incassare gli interessi ed esige l’osservanza di una
clausola precisa: per entrare nel suo giro bisogna farsi presentare dai
parroci.
Nel
frattempo, continua a tagliare nastri alle inaugurazioni ufficiali; stringe la
mano alle autorità; viene nominato commendatore; accumula attestati di
benemerenza.
Nei
conventi, eretti con il danaro che maneggia, spuntano lapidi in suo onore.
Nelle
piazze di alcuni paesi anche “mezzibusti”.
La
gente nei caffé si chiede:
“Come
fa?”
A un
vescovo, che si vede proporre la costruzione di un nuovo seminario e chiede da
dove provenga il danaro, il commendatore risponde:
“Il
danaro lo rubo di notte.”
Fioriscono,
così, le ipotesi sull’attività e l’abilità dell’amministratore dei preti. Giuffrè
terrebbe in piedi il suo colossale giro di affari in molti modi: speculazioni
in Borsa; compravendita di terreni; mutui facili; sovvenzioni varie; donazioni
di comunità religiose degli Stati Uniti e del Canada e anche, si mormora,
commercio di petrolio e contrabbando. Giuffrè metterebbe tutto in un gran
pentolone, con il suo geniale fiuto per gli affari, farebbe fruttare al massimo
il danaro.
A
bussare alla sua porta, in via Dante 8, a Imola arriva la gente più disparata.
Perfino comunisti con tanto di tessera, si dice in giro.
Tutto
procede nel silenzio e senza intoppi fino al giorno in cui nel Ferrarese si
diffonde la paura, il panico che “la banca senza sportelli” fallisca.
Centinaia
di piccoli “risparmiatori” non avrebbero, ancora, incassato alcun interesse.
Giuffrè
passa, così, bruscamente, dal silenzio dei conventi al clamore dello scandalo.
L’interrogativo
di fondo resta uno solo: perché Giuffrè, se ha fatto il “banchiere senza
licenza”, se ha truffato o sta truffando centinaia di persone, non viene
arrestato?
Dalle
conclusioni della commissione parlamentare di inchiesta che si è mossa in
grande fretta, risulta, indicativamente, che i capitali consegnati al
“banchiere” ammontino a 2 miliardi e 382 milioni di lire; che Giuffrè sarebbe
debitore di 3 miliardi e 497 milioni di lire; che avrebbe corrisposto per
beneficenza circa 240 milioni e che avrebbe costruito, con il danaro che gli è
passato per le mani, circa 200 opere.
L’inchiesta
tende a riportare l’affare entro i binari di un “insolito” fatto di costume; addebita
responsabilità a organi periferici della amministrazione statale; esclude
qualsiasi complicità di alti personaggi politici e si rivela, infine, dura con
il ministro che aveva sollevato i veli di questa vicenda:
Dal
punto di vista politico, il caso sembra chiuso.
Ma
Giuffrè, nonostante il crack e la sua
attività “illegale”, non può essere arrestato. Non esiste una legge – e, qui,
sta il primo grande paradosso di tutto l’affare – tra tutte quelle dello Stato
che possa mettere con le spalle al muro il “banchiere”.
Se Giuffrè
ha fatto incetta di danaro a fini di beneficenza, non è perseguibile.
Se non
paga i debiti, occorre una denuncia precisa.
Così,
tutto l’affare diviene ancora più indecifrabile e melmoso.
Si
moltiplicano le accuse, le insinuazioni, le smentite.
Si
grida allo scandalo, facendo sapere che vi sono forze che manovrano per coprire
lo scandalo.
Dall’altra
parte, si ribatte che si cerca ogni pretesto per speculare su un fatto di
malcostume e coprire di ridicolo parroci e ministri.
Il
nodo, che sembrava sciolto, arriva al pettine nella giornata del 23 gennaio
1959, quando la Camera, alla fine di una giornata di infuocati dibattiti, vota
una mozione di fiducia al Governo sul caso Giuffrè.
È un
momento delicato della vita politica, una fase di equilibri difficili, di
transizione.
Si
manovra per l’apertura a sinistra o centro-sinistra.
Esplodono
in seno alla DC le prime fucilate dei franchi tiratori, che mettono a disagio
il Governo e lo espongono all’agguato delle votazioni a scrutinio segreto.
Dagli
scranni del PCI partono accenni critici sul metodo di lavoro della commissione
di inchiesta. Si vuole sapere come il ministro dell’interno possa avere
ignorato un rapporto della guardia di finanza. Si accusa, decisamente, il Governo
di non avere fatto arrestare Giuffrè.
Il
ministro dell’interno Fernando Tambroni Armaroli [1901-1963], per parte sua,
sfida tutti a dimostrare che fosse a conoscenza del “caso”.
Il
presidente del consiglio, Amintore Fanfani, è altrettanto perentorio: rileva,
tra l’altro, che “l’inchiesta ha sgonfiato parecchi palloni propagandistici, e
particolarmente quello di una connivenza tra autorità religiose e autorità
civili”.
Il
“caso”, dichiarano i rappresentanti del Governo, è, ora, nelle mani
dell’autorità giudiziaria.
Alla
fine passa una mozione di fiducia con 279 voti contro 278, vale a dire per un
solo voto.
Un duro
e inatteso colpo, che se non mette in ginocchio il Governo, contribuisce ad
aprire la strada alla crisi.
Giuffrè,
nell’occhio del ciclone, è sempre più tallonato da vicino da guardia di
finanza, carabinieri, autorità giudiziarie e frotte di creditori.
Sta per
essere messo alle corde!
Ma
accade che, per iniziativa dei socialdemocratici, tredici creditori sporgano denuncia
contro di lui e facciano, così, scattare l’azione di fallimento.
È
l’aprile del 1959: Giuffrè, “quale imprenditore commerciale in stato di
insolvenza”, viene dichiarato fallito.
Il
“banchiere” presenta, immediatamente, ricorso in Corte di Appello.
Tutta
la vicenda si impantana in una procedura fallimentare lunghissima, che si
protrae per circa tre anni.
Il
“caso”, ormai lontano dai clamori politici della capitale, riempie, ora, le
aule dei tribunali, con fascicoli processuali, che si ingrossano a vista
d’occhio, passerelle continue di testimoni, piccoli colpi di scena, promesse, a
ogni seduta o intervista, di Giuffrè di sensazionali rivelazioni.
La
principale arma in mano ai difensori del commendatore è quella di invocare
quelle norme del Concordato, in base alle quali le autorità giudiziarie non
possono interferire nella amministrazione del diritto ecclesiastico.
Uno dei
fascicoli chiave della difesa contiene tutti gli attestati e i diplomi di
benemerenza, rilasciati al commendatore da enti o organizzazioni ecclesiastiche.
Giuffrè
all’inizio non si dà per vinto.
Interrogato
dai giudici dichiara di avere portato avanti la sua attività fino al 1957 – nel
1957, “fiutando il vento inido”, Giuffrè si era trasferito a Sesto Fiorentino –
e di avere pagato interessi alti o bassi secondo le circostanze o le persone,
di avere fatto girare il danaro investendo bene, trattando titoli azionari e
facendo altre operazioni.
Ai
giornalisti che vanno a trovarlo nel convento, in cui vive fuori Bologna,
Giuffrè, sofferente per una grave forma di tachicardia, confessa la sua
amarezza:
“Se
nessuno avesse turbato l’equilibrio finanziario che avevo dato al mio congegno,
non sarebbe accaduto nulla di spiacevole.”
L’ex-cassiere
suggerisce, perfino, un “piano” per sistemare, con un collegio di tecnici
operanti a San Marino, tutta la faccenda. Se necessario, vendendo terreni,
asili, conventi.
Nel
frattempo, affiorano i casi più patetici di tutta la vicenda: quello del cieco
che gli aveva affidato tutti i suoi risparmi; quello dell’onesto parroco di
campagna, morto di crepacuore, mentre pagava i debiti; quello dell’anziana
vecchietta marchigiana che si era uccisa.
Ma,
infine, il paravento di “sindaco apostolico”, vale a dire di amministratore di
opere pie, dietro cui si celava il “banchiere”, non basta più a proteggerlo.
Il 14
giugno 1962, il suo fallimento viene confermato anche in appello, perché, in
sostanza, secondo i giudici, la sua attività non può essere inquadrata
nell’ambito della beneficenza.
Giambattista
Giuffrè doveva prevedere che il meccanismo messo in moto lo avrebbe portato
prima o poi al dissesto.
Siamo
all’ultimo atto.
Per i
suoi 60 anni, a Giuffrè vengono risparmiate le manette e il carcere.
Gli
amici interessati di un tempo sono scomparsi.
papa Giovanni XXIII
[1881-1963] e Amintore Fanfani
La
lunga “offensiva della ingratitudine” – come lui ama definire la sua vicenda
giudiziaria – lo ha logorato anche dentro.
Giuffrè
finisce ospite in casa di un commerciante di Lugo, che, forse, in passato, era
stato “beneficiato”.
Si
sente tradito da tutti.
Si
consola, vantando che “le Opere parleranno in eterno”.
E l’11
giugno 1964 muore, con un saio addosso – come aveva voluto – e sulle spalle una
multa di 600 milioni per evasioni fiscali.
Se ne
va senza una lira, dopo avere maneggiato miliardi e dopo una esistenza da
certosino: un merito questo che nessuno può contestargli.
Il sacerdote,
che celebra la messa funebre, recita nell’omelia poche parole:
“Il
signore saprà pesare i tuoi atti.”
Dopo circa
dieci anni di clamore, il caso Giuffrè finisce, così, nel nulla.
Rimane
avvolto in quell’alone di mistero che, in fondo, l’aveva, sempre, circondato.
Quando
“il grande benefattore” scompare di scena, i giornali tirano le fila della
complessa vicenda.
L’inviato
de Il Giorno di Milano, scrive:
“L’affare
Giuffrè resterà un mistero nei suoi meccanismi affaristici, ma la sua trama
psicologica è elementare, anzi la somma dei luoghi comuni alla psicologia
italiana del dopoguerra: la voglia ossessiva di voltare le spalle alla povertà;
l’aiuto carismatico che viene dall’America; l’immunità e l’onnipotenza del
clero; la fiducia nelle soluzioni automatiche e miracolistiche.”
Il Corriere della Sera, invece, commenta:
“Il
caso Giuffrè fu lo scandalo di un’Italia nella quale si mise troppo tempo per
stabilire che la provvidenza non è mai una banalità. Le inchieste insabbiate,
la fantomatica banca che lavora per anni senza noie, i campanili e i conventi
che nascono con la pazzesca formula di Dulcamara, restano il simbolo degli Anni
Cinquanta.”
Sul
caso Giuffrè esprimerà un commento significativo Luigi Einaudi, riportato da Il Resto del Carlino, il 29 Gennaio
1959:
“Fa d’uopo ricordare, che non esiste nessuna
maniera, né semplice né misteriosa di fare denaro, e se eccezionalmente dovesse
accadere, a colui il quale ci riesce, non gli verrebbe mai in mente di elargire
parte dei guadagni sotto forma di interessi stravaganti ad altri.”
Vi è,
anche, chi scrive che Giuffrè ha gettato un ponte tra il bene e il male. Quello
che è certo è che Giuffrè si è portato nella tomba molti misteri, molti
interrogativi rimasti avvolti nella nebbia della Bassa o celati dietro manovre
politiche oscure, dietro personaggi rimasti nell’ombra, dietro situazioni
paradossali e omertà incomprensibili. Nel grande polverone sollevato, si
ritrovano, insomma, tutti gli ingredienti tipici delle più pure storie
all’italiana. Compresa beninteso la folla di “miracolati”, di gente semplice
messa nei guai e di furbi rimasti impuniti.
Anche se il tutto, questa
volta, è avvenuto a fini di bene…
Daniela
Zini
Copyright
© 16 febbraio 2016 ADZ
“15 Andarono intanto
a Gerusalemme. Ed entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano
e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei
venditori di colombe 16 e
non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio. 17 Ed insegnava loro
dicendo: “Non sta forse scritto: La
mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece
ne avete fatto una spelonca di ladri.”
18 L’udirono i sommi
sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti
paura di lui, perché tutto il popolo era ammirato del suo insegnamento. 19 Quando venne la
sera uscirono dalla città.”
Vangelo
secondo Marco 11,15-19
“12 Gesù entrò poi
nel tempio e scacciò tutti quelli che vi trovò a comprare e a vendere; rovesciò
i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe 13 e disse loro: “La
Scrittura dice: La mia casa sarà
chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri.”
14 Gli si avvicinarono
ciechi e storpi nel tempio ed egli li guarì. 15 Ma i sommi sacerdoti e gli scribi,
vedendo le meraviglie che faceva e i fanciulli che acclamavano nel tempio:
“Osanna al figlio di Davide”, si sdegnarono 16 e gli dissero: “Non senti quello che
dicono?” Gesù rispose loro: “Sì, non avete mai letto: Dalla bocca dei bambini e dei lattanti ti sei procurata una lode?”
17 E, lasciatili, uscì fuori
dalla città, verso Betània, e là trascorse la notte.”
Vangelo
secondo Matteo 21,12-17
“45 Entrato
poi nel tempio, cominciò a cacciare i venditori, 46 dicendo: “Sta
scritto: La mia casa sarà casa di
preghiera. Ma voi ne avete fatto una
spelonca di ladri!”
47 Ogni giorno insegnava nel
tempio. I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire e così anche i
notabili del popolo; 48 ma
non sapevano come fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue parole.”
Vangelo
secondo Luca, 19,45-48
“17Mentre
andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio
davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in
eredità la vita eterna?” 18Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono?
Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non
rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre.” 20Egli
allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia
giovinezza.” 21Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli
disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e
avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!” 22Ma a queste parole
egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti
beni.
23Gesù,
volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto è difficile, per
quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!” 24I
discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro:
“Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! 25È più facile
che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di
Dio.” 26Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: “E chi può
essere salvato?” 27Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse:
“Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio.”
28Pietro
allora prese a dirgli: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito.”
29Gesù gli rispose: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia
lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa
mia e per causa del Vangelo, 30che non riceva già ora, in questo
tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi,
insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà.”
Vangelo
secondo Marco, 10, 17-30
Ecclesiaste
o Qoelet, 3, 1-9
Libro
di Siracide o Ecclesiatico, 31, 6
Alchimista e mago, Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim [1486-1535] riuscì a
sfuggire all’Inquisizione. Nella sua opera più importante, De occulta
philosophia, scritta nell’arco di circa venti anni, dal 1510 al 1530: la
filosofia occulta è la magia, considerata “la
vera scienza, la filosofia più elevata e perfetta, in una parola la perfezione
e il compimento di tutte le scienze naturali”.
President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria
Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be
here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an
article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the
burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New
York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace
Greeley, employed as its London
correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone
broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing
editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per
instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest
petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx
looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating
his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the
cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism,
revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more
kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have
been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the
next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the
expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight
“The President and the Press.” Some may suggest that this would be more
naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my
sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat
from another country demanded recently that our State Department repudiate
certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply
that this Administration was not responsible for the press, for the press had
already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to
deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in
recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the
press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or
defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly
beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these
conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the
courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine
the proper degree of privacy which the press should allow to any President and
his family.
If in the last few months your White House reporters
and photographers have been attending church services with regularity, that has
surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire
service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green
privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do
to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did
he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to
publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in
the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to
illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have
loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the
future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping
either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our
security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere
of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two
requirements of direct concern both to the press and to the President - two
requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be
reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first,
to the need for a far greater public information; and, second, to the need for
far greater official secrecy.
I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and
open society; and we are as a people inherently and historically opposed to
secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long
ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent
facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today,
there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating
its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the
survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very
grave danger that an announced need for increased security will be seized upon
by those anxious to expand its meaning to the very limits of official
censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that
it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is
high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an
excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to
withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every
newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the
nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press
have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to
prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present
danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First
Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce
the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our
way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing
around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has
been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles
have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before
it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that
no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a
finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has
never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics,
a change in missions - by the government, by the people, by every businessman
or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by
a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for
expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on
subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on
guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has
conscripted vast human and material resources into the building of a tightly
knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic,
intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its
mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised.
No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It
conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would
ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary
restraints of national security - and the question remains whether those
restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of
attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s
foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they
would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage;
that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert
operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike;
that the size, the strength, the location and the nature of our forces and
weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in
the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign
power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning
a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at
the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal,
patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare,
they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of
open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of
national security. And my question tonight is whether additional tests should
not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public
official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints
against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in
considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means
at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to
your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your
newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every
citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every
citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common
good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper
business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of
War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms
of censorship or any new types of security classifications. I have no easy
answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I
had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the
industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider
the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of
self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every
story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the
interest of the national security?” And I hope that every group in America -
unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same
question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting
tests.
And should the press of America consider and recommend the
voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that
we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps
there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold
and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any
action that results, are both painful and without precedent. But this is a time
of peace and peril which knows no precedent in history.
II
It is the unprecedented nature of this challenge that
also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And
that is our obligation to inform and alert the American people - to make
certain that they possess all the facts that they need, and understand them as
well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices
that we face.
No President should fear public scrutiny of his
program. For from that scrutiny comes understanding; and from that
understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not
asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help
in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I
have complete confidence in the response and dedication of our citizens
whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your
readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its
errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until
you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our
errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration
and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the
Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from
controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment -
the only business in America specifically protected by the Constitution - not
primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the
sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to
arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our
crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public
opinion.
This means greater coverage and analysis of
international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand
and local. It means greater attention to improved understanding of the news as
well as improved transmission. And it means, finally, that government at all
levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible
information outside the narrowest limits of national security - and we intend
to do it.
III
It was early in the Seventeenth Century that Francis
Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the
compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations
first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes
and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one
world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate
limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder
of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we
look for strength and assistance, confident that with your help man will be
what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik
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