“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

venerdì 17 marzo 2017

100 ANNI FA LA FINE DEI ROMANOV "PANE E PACE!" di Daniela Zini



100 ANNI FA
LA FINE DEI ROMANOV
Non sono pronto a essere uno zar. Non ho mai voluto esserlo. Non so nulla su come si governa. Non ho la minima idea di come si parli ai ministri.”
zar Nikolaj II Aleksandrovic Romanov


Mille années ne suffisent pas toujours pour créer un Etat.
Il suffit d’une heure pour le faire tomber en poussière.
Lord George Gordon Noel Byron [1788-1824]

à J
Joyeux anniversaire!
Je vais écouter Sa voix qui me titille, juste derrière l’oreille:

“Propter pacem versus bellum.”

Sur toute la surface du globe nous nous trouvons en contact avec d’autres grandes Nations. Des questions surviennent et surgiront toujours qui exigent du tact, de la modération, des ménagements de notre part.
Nos hommes d’Etat doivent savoir quand il faut céder, quand il faut résister, et la Nation doit reconnaître l’homme d’Etat qu’elle doit soutenir.
L’histoire de l’homme nous a montré une succession de grands Empires qui sont tombés en poussière; l’Egypte, l’Assyrie, la Perse, Rome ont grandi et se sont abîmées. Pour qu’il nous soit donné d’éviter leur destin, il faut que nous évitons leurs fautes.
En ce qui concerne notre politique extérieure, c’est autant notre intérêt que notre devoir de conserver les relations les plus cordiales avec les autres Pays. Malheureusement les Nations se regardent souvent entre elles d’un œil hostile. Et pourtant un peu plus de lumière nous montre que toutes étant choses humaines, toutes devraient être Amies.
Mon Père confesseur, un Jésuite espagnol, faisait comprendre cette idée par une image simple, mais bien frappante. Il racontait qu’un jour se promenant, il vit sur une colline, en face, une forme monstrueuse; en s’approchant, il y découvrit un homme; quand il fut tout près, il reconnut son frère.
Les autres Peuples ne sont pas seulement des hommes, ce sont aussi nos frères, et de bien des façons nos intérêts sont les leurs. S’ils souffrent, il nous faut souffrir aussi et tout ce qui leur arrive d’heureux nous est aussi un bienfait.
Les guerres ont ébloui l’imagination de l’Humanité…
On nous parle de la pompe, de tout l’appareil glorieux de la guerre, on répète que chaque soldat porte un bâton de maréchal dans son havresac, mais nous sommes impuissants à imaginer les souffrances infinies qu’elle a causées à la race humaine.
Le carnage et la douleur qui proviennent de la guerre sont affreux, et c’est là un irrésistible argument en faveur de l’arbitrage. L’état de choses actuel est une honte pour l’espèce humaine. On peut excuser les Tribus primitives qui décidaient leurs querelles par la force de la massue; mais que des Nations civilisées emploient de semblables moyens, voilà qui répugne non seulement à notre sens moral, mais à notre sens commun.
Aujourd’hui l’Europe maintient 3.500.000 d’hommes sur le seul pied de paix; le pied de guerre monte à 10.000.000 d’hommes, et l’on se prépare à le faire monter à 20.000.000. Les dépenses nominales s’élèvent tous les ans à £200.000.000 mais les armées du continent étant presque toutes recrutées par la conscription, les dépenses réelles sont beaucoup plus grandes. Ajoutons que si ces 3.500.000 d’hommes étaient employés à un labeur utile, en estimant le produit de ce labeur à £50 par an, c’est de £175.000.000 qu’il faudrait augmenter les sommes indiquées plus haut, ce qui ferait monter la totalité des dépenses de guerre de l’Europe à £375.000.000 par an!
Certainement il y a des considérations plus grandes et plus graves que celles qui concernent l’argent; mais en somme l’argent représente de la vie et du labeur humains. Il est impossible de considérer de tels préparatifs militaires et maritimes sans concevoir les plus grandes inquiétudes.
S’ils ne nous mènent pas à la guerre, c’est à la banqueroute et à la ruine qu’ils nous conduiront un jour.
Les principaux Pays de l’Europe s’enfoncent de plus en plus dans la dette. Pendant les trente dernières années, la dette de l’Italie a passé de £483.000.000 à £530.000.000, celle de l’Autriche de £340.000.000 à £580.000.000, celle de la Russie de £340.000.000 à £850.000.000, celle de la France enfin de £500.000.000 à £1.600.000.000. Si l’on additionne les montants des dettes contractées par les Gouvernements du monde entier, on voit qu’ils atteignaient en 1870 le chiffre de £4.000.000.000, fardeau fabuleux, terrible, écrasant.
Que dirons-nous aujourd’hui?
Ces dettes réunies s’élèvent à plus de £8.000.000.000 et grandissent de jour en jour.
Le pis est que la plus grande partie de cette charge énorme, terrifiante, n’est représentée par aucune valeur réelle, n’a rien produit d’utile; purement et simplement on l’a gaspillée, ou, ce qui, au point de vue international, est plus triste, on l’a dépensée à faire la guerre ou à préparer la guerre. De fait, jamais, aujourd’hui, nous ne connaissons le véritable état de Paix; en réalité, nous sommes toujours en guerre, sans batailles, sans carnage, heureusement, mais non sans de terribles souffrances.
Même en Angleterre, un tiers du revenu national sert à préparer des guerres futures, un autre tiers à payer le prix des guerres passées, si bien qu’il ne reste qu’un tiers pour gouverner et administrer le Pays. Ses intérêts engagés sont énormes, et les intérêts de toutes les Nations sont si entremêles qu’aujourd’hui toute guerre est, de fait, une guerre civile. 
Bien que ma formule ne soit pas “la Paix à tout prix”, je n’ai pas honte de dire qu’elle est “la Paix presque à tout prix.
Evidemment il y a un certain nombre de questions vitales qu’on ne peut soumettre à l’arbitrage, mais le comte Bertrand Arthur William Russel, qui fait autorité, disait qu’il n’y a pas eu un seul cas de guerre, pendant les cent dernières années, que l’on n’eût pu régler sans avoir recours aux armes.
La dernières fois que je vis Monsieur X, nous causions de ce sujet, et il me dit avec la façon si vivante de s’exprimer qui lui était familière, que si les dépenses continuaient à marche du même pas, le jour arriverait où les Européens ne seraient plus qu’un peuple de mendiants devant une rangée de casernes. Depuis lors les dépenses n’ont pas continué du même pas: elles se sont accélérées.
On ne peut pas songer à l’Etat de l’Europe sans inquiétude.
La Russie est ruinée par le nihilisme; l’Allemagne a peur du socialisme; la France est terrorisée par la menace de l’anarchie et marche vite à la banqueroute. Certes, il n’y a rien qui puisse justifier, excuser les derniers crimes anarchistes, mais rien n’arrive en ce monde qui n’ait une cause. Sur le continent les ouvriers fournissent pour de bien pauvres salaires des heures de travail terriblement longues. Qu’on lise les rapports récemment venus d’Italie et l’on verra la misérable condition des travailleurs agricoles dans ce pays. En France et ailleurs la condition des petits propriétaires ne vaut guère mieux.
J’ai eu beaucoup de sympathie pour la cause de la journée de huit heures, mais les impôts nécessaires au maintien des armées et des marines obligent chaque homme et chaque femme, en Europe, à travailler au moins une heure de plus par jour.
En réalité la religion de l’Europe n’est pas le Christianisme: c’est le culte du Dieu de la guerre.
Bien des Pays travaillent aussi à se faire la guerre, et d’une façon tout aussi stupide, par des vexations financières.
William Cowper a dit:
La barrière des montagnes fait les haines des Nations, qui voudraient, autrement, comme les gouttes d’une même eau, se rejoindre et s’unir.
Mais, de fait, les pires barrières sont celles que les Nations ont élevées entre elles: barrières de douanes, de droits d’entrée, pis encore, toutes les jalousies, toutes les malveillances sans raison qui font que chacune attribue à l’autre de desseins hostiles, que nulle d’entre elles n’a jamais conçus peut-être.
Ce même esprit de jalousie et d’hostilité qui est si souvent au fond des relations internationales, aigrit aussi de la plus triste façon la politique intérieure. Mais insulter n’est pas discuter; c’est plutôt confesser sa faiblesse. On dit, il est vrai, que les révolutions ne se font pas à l’eau de rose. Et pourtant on a produit plus de changements dans la constitution du monde par la discussion que par la guerre, et même là où l’on s’est servi de la guerre, la plume a bien souvent dominé l’épée. Les idées sont plus puissantes que les baïonnettes. 
L’Humanité
a dit John Stuart Mill,
est encore trop peu avancée pour qu’un homme puisse sentir cette sympathie universelle avec tous les Autres, qui rendrait impossible tout désaccord dans la direction générale de toutes les vies; mais déjà celui en qui le sentiment social est réellement développé, ne peut songer au reste des êtres semblables à lui-même comme à des rivaux qui luttent contre lui pour gagner le bonheur, et qu’il doit désirer voir vaincus dans leurs efforts afin qu’il puisse réussir dans les siens.
Lord Henry Saint-John Bolingbroke, dans son essai intitulé De l’esprit de patriotisme, approuve en la citant une remarque de Socrate:
Quoique aucun homme n’ose entreprendre un métier qu’il n’a pas appris, même le plus humble, tout le monde cependant se croit compétent à faire le métier le plus difficile de tous, celui de gouverner.
Il parlait d’après l’expérience qu’il avait de la Grèce.
Il ne parlerait pas autrement s’il vivait en ce moment en Europe.
Nous avons en effet une variété très considérable de problèmes qui demandent une solution immédiate.
Nous essayons tous de donner une éducation à nos enfants, mais il est probable que personne ne serait d’avis que nous ayons trouvé un système parfait.
Les luttes entre le capital et le travail sont en train d’appauvrir notre commerce, de gêner l’essor de nos manufactures et, pour peu qu’elles durent, elles feront baisser les salaires en abaissant la demande.
La santé de nos grandes villes laisse encore beaucoup à désirer.
La science est encore dans son enfance.
D’ailleurs, toute question de progrès, à part la vie quotidienne de la communauté demande un perpétuel effort.
Les débats du Parlement, la direction des affaires locales, l’administration des bureaux de bienfaisance, bref, les affaires de la communauté tout entière exigent autant de soin et d’attention que celles des individus, et il y a une tendance croissante, que l’on peut approuver ou désapprouver, selon ses idées, vers une organisation autonome.
Et puis, nous avons toujours des pauvres parmi nous. Mais grâce en partie à nos nombreuses institutions charitables, à une sympathie de plus en plus grande entre les pauvres et les riches, et, en partie aussi, grâce à nos lois en faveur des pauvres, au libre échange et aux conditions physiques plus satisfaisantes dont nous jouissons: il y a une moindre disposition à l’anarchie et au socialisme que dans d’autres Pays.
L’enthousiasme est sans doute le levier qui fait mouvoir le monde, mais il est triste de penser combien de temps et d’argent on a gaspillé en de vaines expériences qui, coup sur coup, avaient avorté déjà. Elles ont été pires qu’inutiles, puisqu’elles ont fait du mal plutôt que du bien à ceux qu’elles devaient aider.
Venir efficacement en aide à Autrui est chose moins facile qu’on ne croit. Il y faut beaucoup de jugement et de clairvoyance, en même temps que beaucoup de bonté.
L’argent n’est pas la chose la plus essentielle.
En effet, une autorité en ces matières,  Margaret Sewell, a dit:
J’ai l’air de lancer un paradoxe, mais je crois vrai de dire que plus un quartier est pauvre, moins il est nécessaire que la charité s’y fasse avec de l’argent, du moins tout d’abord.
La sollicitude et l’amour valent mieux que l’or.
Ceux qui donnent leur temps donnent plus que ceux qui donnent leur argent.
D’ailleurs il est fort à craindre que l’argent et l’enthousiasme, sans l’expérience et la discipline, ne fassent plus de mal que de bien, car ce que l’on a mal fait peut nuire plus que ce que l’on a négligé de faire.
Il vaut mieux donner de l’espoir et de la force que des secours en argent. L’aide la plus efficace n’est pas de prendre pour soi les maux d’Autrui, mais bien d’inspirer aux hommes la confiance et l’énergie nécessaires pour qu’ils les supportent seuls, pour qu’ils apprennent à affronter courageusement les difficultés de la vie.
Il faut avoir soin de ne pas affaiblir le ressort de l’indépendance, dans notre désir de soulager la misère d’Autrui. Il y a toujours cette difficulté initiale, qu’en aidant les hommes, on leur enlève leur principal motif de travailler; on affaiblit leur sentiment d’indépendance: tous les êtres qui vivent aux dépens d’Autrui tendent à devenir de simples parasites. Par conséquent, ne donnez jamais un secours en argent; donnez seulement aux gens une occasion de se secourir eux-mêmes.
Nous devrions toujours nous demander si nous ne sommes pas en train de détruire chez le pauvre le sentiment de ses devoirs au lieu de lui donner les moyens de mieux les remplir. Les relations humaines sont choses si complexes que nous devons tous nécessairement beaucoup de choses à notre prochain; mais dans la mesure du possible, tout homme devrait s’efforcer de se tirer d’affaire seul.
Nous ne pouvons pas nous attendre à voir les Autres se conformer à notre idéal. Nous ne pouvons que les aider à réaliser ce qu’il y a de plus élevé dans le leur et les encourager dans tout effort de perfectionnement moral. Toutes les fois qu’on donne trop généreusement de l’argent, c’est pour se débarrasser de quelque responsabilité plutôt que par charité vraie. Cependant tout effort dépensé en vue du bien général attire invariablement une récompense. Aucun travail ne nous apporte plus de bonheur que celui que nous avons accompli dans un but désintéressé. Avoir travaillé pour Autrui, ajoute une dignité au travail le plus humble.
Les affaires publiques – commissions, élections et réunions électorales, discours, conseils municipaux ou généraux – voilà des choses peu romanesques sans doute, qui n’éblouissent pas l’imagination et ne font pas battre le cœur. Cependant un vote en temps de paix vaut un coup d’épée en temps de guerre, et son efficacité n’est pas moindre, bien qu’il ne soit point versé de sang et que la paix ne soit point troublée.
Le vote n’est pas un droit: c’est un devoir que nous devons tous nous préparer à remplir.
Méditons aussi les nobles paroles de Marc-Aurèle:
“Offre au gouvernement du Dieu qui est au-dedans de toi un être viril mûri par l’âge, ami du bien public, un Romain, un empereur, un soldat à son poste, comme s’il attendait le signal de la trompette, un homme prêt à quitter la vie dont la parole n’a besoin ni de l’appui d’un témoin ni du témoignage de personne.”
Gli ultimi anni del XIX secolo furono illuminati da una proposta meravigliosa che, poi, fu lasciata cadere completamente in oblio.
Nell’agosto del 1898, lo zar Nikolaj II Aleksandrovic Romanov invitò gli Stati Uniti d’America a incontrarsi per una conferenza destinata a garantire la pace tra le Nazioni e a mettere fine all’incessante aumento degli armamenti che impoverivano l’Europa.
Il messaggio del sovrano iniziava così:
“Il mantenimento della Pace generale e una eventuale riduzione degli armamenti eccessivi, il cui peso grava tutto sui Popoli, sono evidentemente, nelle attuali condizioni del mondo intero, l’ideale verso il quale tutti i Governi dovrebbero tendere i loro sforzi.”
Grandissime, certo, le difficoltà per giungere a un accordo del genere, ma non insuperabili a prima vista.
Alla Conferenza, riunita all’Aja [18 maggio-29 luglio 1899], sotto la presidenza del barone russo Egor Egorovic Staal, parteciparono 26 Stati [https://archive.org/stream/laconfrencedel00inteuoft/laconfrencedel00inteuoft_djvu.txt, http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/ISSMI/Corsi/Corso_Consigliere_Giuridico/Documents/81521_Aja1899.pdf].

Una piccola discussione tra lord Robert Arthur Talbot Gascoyne-Cecil Salisbury e l’americano Richard Olney mise in luce quale sarebbe stato il punto nevralgico della discussione.
Che cosa sarebbe accaduto se, nonostante la riprovazione da parte della Conferenza di questa o di quella guerra, una o più Nazioni avessero aperto le ostilità?
Come dare alla Conferenza il potere di far rispettare le sue deliberazioni?
Il dibattito durò per mesi, ma l’accordo sul disarmo, principale obiettivo della riunione, non venne raggiunto: furono, invece, firmate tre Convenzioni, due delle quali riguardavano la regolamentazione della guerra terrestre e marittima e una terza, la più importante, prevedeva la risoluzione pacifica delle controversie internazionali. A questo scopo fu creata la Corte Permanente di Arbitrato dell’Aia o Corte dell’Aia.
Quel programma di pace universale e l’iniziativa di quella Conferenza fanno vedere sotto una luce orrenda il massacro dello zar e ella sua famiglia, compiuto più tardi dai suoi sudditi in rivolta.

Europe, le 1er janvier 1900

D, une voyageuse européenne à l’aube d’un nouveau siècle 


“Compagno, come si fa la Rivoluzione?”
“Bisogna sognare!”
Lenin, pseudonimo di Vladimir Il’ic Ul’janov

L’8 marzo 1917 [23 febbraio, secondo il calendario giuliano], il malcontento secolare del Popolo russo, che fermentava, sotto la crosta del grande Stato teocratico e assolutista, esplose, improvvisamente, e Pietroburgo insorse in massa contro i soprusi di una corte corrotta e schiavista. Le operaie delle fabbriche tessili presero di assalto le panetterie, a loro si unirono circa 100mila scioperanti e, il giorno dopo, anche i soldati che erano stati mandati a sparare contro di loro. Il 15 marzo, lo zar Nikolaj II Aleksandrovic Romanov fu costretto ad abdicare. La Grande Russia si liberava, per sempre, dalle catene del servaggio zarista.

PANE E PACE!”
“Finché le donne non saranno chiamate, non soltanto alla libera partecipazione alla vita politica generale, ma anche al servizio civico permanente o generale, non si potrà parlare non solo di socialismo, ma neanche di democrazia integrale e duratura.”
Lenin, pseudonimo di Vladimir Il’ic Ul’janov

“Com’è potuto accadere questo “miracolo”: che in soli otto giorni – cioè entro il termine indicato dal signor Miljukov nel suo presunto telegramma a tutti i rappresentanti della Russia all’estero – sia crollata una monarchia che si era mantenuta per secoli e che, nonostante tutto, aveva resistito per tre anni, dal 1905 al 1907, alle grandiose battaglie di classe di tutto il popolo?”,
si chiedeva, il 20 marzo 1917, sulla Pravda, un certo Vladimir Il’ic Ul’janov, il quale si dava, anche una risposta:
e puntualizzava quali fossero queste condizioni:
“Senza le grandiose battaglie di classe del 1905-1907, senza l’energia rivoluzionaria di cui diede prova il proletariato russo in quei tre anni, una seconda rivoluzione tanto rapida, nel senso che la sua fase iniziale è stata portata a termine in pochi giorni, sarebbe stata impossibile. La prima rivoluzione [1905] aveva dissodato profondamente il terreno, sradicato pregiudizi secolari, ridestato alla vita e alla lotta politica milioni di operai e decine di milioni di contadini, rivelato le une alle altre e al mondo intero tutte le classi [e tutti i principali partiti] della società russa nella loro vera natura, nella connessione reale dei loro interessi, delle loro forze, dei loro scopi immediati e dei loro scopi futuri. La prima rivoluzione e il successivo periodo di controrivoluzione [1907-1914] hanno messo a nudo l’essenza della monarchia zarista, l’hanno spinta al “limite estremo”, hanno svelato tutta la sua putredine e infamia, tutto il cinismo e la corruzione della banda zarista capeggiata dal mostruoso Rasputin, tutta la ferocia della famiglia dei Romanov, di questi massacratori che hanno inondato la Russia del sangue degli ebrei, degli operai e dei rivoluzionari, di questi grandi proprietari fondiari, “primi tra eguali”, che possiedono milioni di desiatine di terra e sono pronti a commettere tutte le atrocità, tutti i delitti, a rovinare e strangolare un numero qualsiasi di cittadini, pur di conservare questa “sacra proprietà” loro e della loro classe.
Senza la rivoluzione del 1905-1907, senza la controrivoluzione del 1907-1914, sarebbe stata impossibile una così netta “autodeterminazione” di tutte le classi del Popolo russo e dei popoli che abitano la Russia, sarebbe stata impossibile una precisazione dell’atteggiamento di queste classi le une verso le altre e verso la monarchia zarista quale si è avuta negli otto giorni della rivoluzione del febbraio-marzo 1917. Questa rivoluzione di otto giorni è stata “recitata”, se è consentita la metafora, dopo una decina di prove parziali e generali; gli “attori” si conoscevano tra loro, conoscevano la loro parte, il loro posto e il palcoscenico in lungo e in largo, conoscevano fin nelle minime sfumature le tendenze politiche e i metodi di azione.” [https://www.marxists.org/italiano/lenin/1917/3/letterelontano.htm, https://www.marxists.org/francais/lenin/works/1917/03/vil19170320.htm]
Gli eventi dall’8 al 12 marzo, a Pietrogrado non sono stati rivoluzionari perché sono stati condotti da una direzione rivoluzionaria, ma perché hanno visto “l’irruzione violenta delle masse nel campo dove si regolano i loro destini” [Lev Trockij]. Parimenti, sei anni fa, il rovesciamento delle dittature di Zine El-Abidine Ben Ali e di Muhammad Hosni Sayyid Ibrahim Mubarak dalle masse tunisine ed egiziane ha segnato l’inizio di un processo rivoluzionario…
Tuttavia, una volta innescata una rivoluzione, il suo esito dipende da numerose circostanze, quali le forze politiche che riescono a prenderne la direzione nonché il loro programma, come ha dimostrato la Russia del 1917, dall’aprile all’ottobre, contrariamente alla regione araba, dalla fine del 2010. 

“Né voi, generale, né Sua Maestà avete capito quello che è accaduto a Pietrogrado in questi giorni. La Duma è stata costretta a prendere il potere nelle sue mani per impedire la completa anarchia. Lo zar deve abdicare a favore di suo figlio, lo zarevic Aleksej Nikolaevic, con la reggenza del granduca Michail Aleksandrovic. Quale presidente della Duma, sono costretto a nominare questa sera il nuovo governo.”,
esclamò spazientito Michail Vladimirovic Rodzjanko al generale Nikolaj Vladimirovic Russkij, che gli portava una missiva dello zar Nikolaj II Aleksandrovic Romanov.
Era il 14 marzo 1917.



Lo zar cercava di opporsi con la forza della sua autorità residua al movimento che, da sette giorni, sconvolgeva Pietroburgo e il colosso russo. Aveva abbandonato il quartiere generale sovietico di Mogilev per raggiungere la sua famiglia a Tsarskoe Selo, inquieto per le voci di disordini e di defezioni che lo avevano raggiunto. Era stato bloccato a Pskov e tentava di costituire un governo capeggiato da Rodzjanko, in contrapposizione al governo reclamato dai Soviet, dal Parlamento e dal Popolo.
Nikolaj II Aleksandrovic, ancora una volta, non aveva compreso il vento della Storia.
Il giorno dopo, era costretto ad abdicare.
L’atto di abdicazione fu antidatato di qualche ora, per  non dare l’impressione che lo zar avesse capitolato dinanzi alle pressioni della Duma.
“Una penosa sensazione, mi sentivo un sopravvissuto. Attorno a me tradimento, viltà e inganno.”
Cinquantasei anni prima, suo nonno, lo zar Aleksandr II Nikolaevic Romanov, aveva abolito la servitù della gleba affermando:
“È meglio che la servitù venga abolita dall’alto anziché ci sia imposta dal basso la sua soppressione.”
Il 16 marzo 1917, il granduca Michail Aleksandrovic Romanov, fratello dello zar, faceva tesoro degli insegnamenti del nonno e rinunciava al trono. 

Lo zar Nikolaj II Aleksandrovic Romanov e suo cugino il re George V.

Il granduca Michail Aleksandrovic Romanov [1878-1918], fratello minore dello zar Nikolaj II Aleksandrovic Romanov.
 

Aleksandr Fedorovic Kerenskij [1881-1970]

Il ministro degli esteri del governo provvisorio, formato il giorno prima, Pavel Nikolaevic Miljukov, il volto affaticato da una notte insonne, aveva esortato il granduca:
“Altezza, se voi rifiuterete il trono, sarà l’anarchia, il caos, il sangue!”


Nikolaj II Aleksandrovic Romanov [1868-1918] insieme alla moglie Aleksandra Fedorovna Romanova [1872-1918], alle granduchesse Ol’ga Nikolaevna Romanova [1895-1918], Marija Nikolaevna Romanova [1899-1918], Anastasija Nikolaevna Romanova [1901-1918] e Tat’jana Nikolaevna Romanova [1897-1918] e al figlio Aleksej Nikolaevic Romanov [1904-1918].


Ma il granduca Michail Aleksandrovic Romanov era perplesso. In una lunga perorazione, il nuovo ministro della giustizia, Aleksandr Fedorovic Kerenskij, esclamò:
“Io non ho il diritto di nascondere i pericoli cui andreste personalmente incontro se accettaste la corona.”
Il granduca Michail Aleksandrovic prese da parte il presidente del parlamento, Rodzjanko, monarchico e ben visto a corte, e gli chiese se potesse sperare di salvare la vita, qualora avesse accettato di succedere a Nikolaj II Aleksandrovic.
Rodzjanko rispose che tale garanzia “non avrebbe potuto dargliela che il cielo”.
Il granduca Michail Aleksandrovic Romanov rinunciò, allora, al trono.
“Altezza, voi siete un uomo nobile!
Dirò a tutti che siete un uomo nobile!”,
esclamò Aleksandr Fedorovic Kerenskij in un’onda di entusiasmo. E queste parole posero fine alla dinastia dei Romanov, che governava, esattamente, da 304 anni, dal giorno in cui, nel lontano 1613, lo zar Michail Fedorovic Romanov aveva riottenuto Velikij Novgorod, dopo un compromesso con gli svedesi.
La famiglia dello zar – che, per il momento poteva considerarsi salva – sarebbe stata trucidata, la notte tra il 16 e il 17 luglio 1918, a Ekaterinenburg.
Che cosa era accaduto nei fatali giorni intercorrenti tra l’8 e il 16 marzo 1917?
Schiacciato dalla miseria, dissanguato dal fallimento dell’offensiva di Aleksej Alekseevic Brusilov sul fronte tedesco, il Popolo russo aveva dato sfogo al suo malcontento secolare.
Nel corso di cinque secoli, la Russia aveva annesso enormi estensioni di terra, popolata da stirpi asiatiche, mentre la corte e la capitale si erano spostate all’estremo limite occidentale dello Stato, in quella fastosa Pietroburgo, dove si parlava francese e la nobiltà russa disputava alla nobiltà baltica il comando elettivo dell’unica leva efficiente dello Stato, l’esercito.
Ogni assimilazione dei popoli asiatici era stata, accuratamente, evitata. Nonostante l’abolizione della servitù della gleba, proclamata nel 1861, la grande proprietà agraria dettava legge sulla vita e sulla morte delle immense masse contadine. Il malcontento veniva alimentato dall’industrializzazione, che si svolgeva in una atmosfera quasi schiavistica, dalla fame di terra dei contadini e dalla miseria, aggravata dalla esosità fiscale.
Già, in passato, si erano avuti i segni di questo immane malcontento, che fermentava sotto la crosta del grande Stato teocratico e assolutista.
Nel 1881, venne assassinato  lo zar Aleksandr II Nikolaevic Romanov.
I nichilisti erano attivissimi e le condanne a morte e le deportazioni si susseguivano senza tregua.
L’ascesa al trono dello zar Aleksandr II Nikolaevic Romanov rappresentò un deterioramento rispetto all’epoca del potere del padre: slavofilo, autoritario e fanatico regnava con l’appoggio della Chiesa e dell’Ochrannoe otdelenie, la polizia segreta, cui nulla sfuggiva.
Alla sua morte, avvenuta nel 1894, gli era succeduto il figlio Nikolaj II Aleksandrovic Romanov. Bello, sportivo e, in fondo, ottuso, Nikolaj II Aleksandrovic continuò a reggersi con il pugno di ferro.
Ottimo cavaliere e grande giocatore di tennis, Nikolaj II Aleksandrovic non si rese mai conto che regnava su un barile di polvere da sparo, nonostante la sua vita fosse costellata di disavventure e di ribellioni, in Finlandia, in Polonia, in Ucraina e nelle regioni baltiche, compresa la sanguinosa rivoluzione del 1905, la cui repressione gli valse il soprannome di “sanguinario”.

La zarina Aleksandra Fedorovna Romanova [1872-1918] e la granduchessa Anastasija Nikolaevna Romanova [1901-1918].

La granduchessa Anastasija Nikolaevna Romanova [1901-1918].

Aleksej Alekseevic Brusilov [1853-1926].

Quando, nel 1905, gli avevano portato la notizia della distruzione della flotta russa, avvenuta a Tsushima, per opera dell’ammiraglio giapponese Togo Heihachiro, Nikolaj II Aleksandrovic stava giocando a tennis e aveva esclamato:
“Che tremenda disgrazia!”
Poi, ripresa la racchetta:
“Ready?
Play…”
E aveva continuato a giocare.
Il primo ministro Sergej Jul’evic Witte, così, lo giudicò:
“Lo zar non ama quelli che considera meno ottusi di lui.”

In altre parole, Nikolaj II Aleksandrovic non amava nessuno e cercava “sempre le vie indirette e queste lo portano sempre alla stessa meta, un pantano di fango e un pozzo di sangue”.
Questo severo giudizio di Witte fu confermato dall’asprezza con cui Nikolaj II Aleksandrovic ordinò la repressione della insurrezione del 1905, che culminò nella famosa “domenica di sangue”, quando la folla, condotta dal pope Georgij Apollonovic Gapon, si era recata dinanzi al palazzo imperiale per presentare una petizione. La polizia aveva aperto il fuoco causando migliaia di morti, provocando rivolte in tutta la Russia.
Negli anni successivi, la corte zarista continuò a regnare con la violenza e la sopraffazione, finché, nel marzo del 1917, il Popolo insorse di nuovo.
L’8 marzo 1917, a Pietroburgo, scoppiarono le prime agitazioni.

Lenin, pseudonimo di Vladimir Il’ic Ul’janov [1870-1924]

L’8 marzo, a Pietroburgo, un corteo di donne al grido di “Abbasso l’autocrazia!” venne al centro della città. Si unirono circa 100mila operai delle fabbriche. Vi fu qualche scontro incruento con la polizia. Il giorno seguente, la folla raggiungeva le 200mila persone. I soldati che bloccavano i ponti sulla Neva furono aggirati dalla massa che attraversò il fiume ghiacciato. Reparti di cosacchi inviati contro la folla si rifiutarono di sparare. Il 10 marzo, sulla Piazza Znamenskaja convenne una folla oceanica. La polizia sparò e i primi reparti di soldati risposero al fuoco dei gendarmi, affiancandosi al grande movimento popolare. Lo zar inviò al generale Sergej Semenovic Chabalov, comandante la piazza di Pietrogrado, un telegramma:
“Vi ordino di far cessare da domani ogni disordine nelle strade della capitale, inammissibile adesso che la Patria è impegnata nella difficile guerra con la Germania.”
Al presidente della Duma, Rodzjanko, che lo avvertiva “essere venuta l’ultima ora, in cui si decide il destino della patria e della monarchia”, lo zar non dette risposta.
“Quel grasso Rodzjanko mi scrive sciocchezze che non meritavano risposta.”,
si era lagnato lo zar con il conte Vladimir Borisovich Frederiks. Il giorno seguente, domenica 11 marzo, le sparatorie aumentarono. I soldati del reggimento Pavlovski tentarono di ribellarsi, ma furono ridotti alla ragione da truppe fedeli allo zar. A tarda notte, il principe Nikolaj Dmitrievic Golicyn, capo del governo, pensò di avere la forza di imporre una misura di autorità: sciolse la Duma. Con questo gesto fu spezzato l’ultimo collegamento possibile tra l’autocrazia e la popolazione. Il 12 marzo, i reggimenti si unirono agli operai. I soldati non vollero sparare sulla folla. Il sergente Timofey Kirpichnikov del reggimento di Volhynia, che era uno dei più disciplinati, uccideva il capitano Ivan Stepanovic Lashkevic, mentre leggeva il telegramma dello zar. La folla assediò il palazzo  dell’ammiragliato, dove si erano asserragliati gli ultimi sostenitori della monarchia e accerchiò il Palazzo di Tauride, sede della Duma. 

Timofey Kirpichnikov
Il “primo soldato della rivoluzione” dovette, anche lui, essere deluso, se, nei giorni della Rivoluzione di Ottobre, prese posizione a difesa del Governo Provvisorio di Aleksandr Fedorovic Kerenskij e, nel novembre, fuggì da Pietrogrado per unirsi ai volontari dell’esercito bianco sul Fiume Don. I Bianchi lo fucilarono e il suo cadavere fu lasciato a marcire in un fosso lungo la strada.

Palazzo di Tauride

I soldati entrarono in Parlamento e strapparono l’effigie dello zar, che campeggiava nell’aula.
La folla e i soldati dettero la caccia ai poliziotti.
Il regime zarista non esisteva praticamente più.
Esistevano uno zar e una monarchia che si appoggiava soltanto sulla vecchia aristocrazia che, ormai, era condannata.
Fino a questo momento, quelli che, in seguito, sarebbero stati chiamati i capi storici della rivoluzione sovietica non erano, ancora, apparsi sulla scena.
Una moltitudine di partiti e di frazioni aveva influenzato la vita russa fino dal 1905.
Dagli ottobristi, che si richiamavano al rispetto del Manifesto di Ottobre, lo schieramento politico passava attraverso i democratici costituzionali, i cosiddetti cadetti, i social-rivoluzionari piccolo borghesi, i social-democratici, nelle loro frazioni menscevica e bolscevica, con le ulteriori sottofrazioni dei menscevichi di destra e di sinistra.
Sia i menscevichi sia i bolscevichi si richiamavano all’insegnamento marxista, introdotto al Congresso di Voronezh, nel giugno del 1879, da un memorabile intervento di Georgij Valentinovic Plechanov; ma, in seguito, tra i due raggruppamenti si erano lamentate gravi scissioni, culminate nella decisione assunta a Ginevra dai menscevichi di accontentarsi di un tipo di rivoluzione democratico-borghese, mentre i bolscevichi, a Londra, avevano fissato i principi di uno Stato rivoluzionario che, tenendo, conto delle particolarità dello Stato russo, si fondasse sull’appoggio del proletariato industriale e dei contadini.
Lenin aveva sintetizzato il carattere di questo nuovo Stato, definendone la fase di transizione in questi termini:
“La democrazia socialista sovietica non è in alcun modo incompatibile con il regime e la dittatura di una sola persona: la volontà di una classe è meglio rappresentata dalla persona di un dittatore che, da solo, potrà conseguire maggiori risultati e di cui, frequentemente, si sente il bisogno.”
Con queste parole Lenin concludeva una serie di pluriennali polemiche su quella che sarebbe potuta e dovuta essere la futura società sovietica degli anni costruttivi.
“Se non siamo anarchici,”,
aveva detto in precedenza Lenin,
“dobbiamo ammettere che lo Stato, ossia la coercizione, è necessario per il trapasso dal capitalismo al socialismo.”
È facile immaginare quante fossero le divisioni esistenti tra i russi, quando si trattò di formare il primo governo provvisorio, dove gli elementi da scegliere variavano dal principe liberale Georgij Evgen’evic L’vov Lvov a Rodzjanko, considerato da Lev Trockij, un ciambellano dello zar, dall’onesto Pavel Nikolaevic Miljukov all’agile avvocato Aleksandr Fedorovic Kerenskij, agli elementi suggeriti dai Soviet, che, nel frattempo, erano stati ricostituiti in una dipendenza del Palazzo di Tauride, sede della Duma.

Iosif Vissarionovic Dzugasvili, conosciuto come Iosif Stalin  [1878-1953].

I menscevichi disponevano della maggioranza in seno ai Soviet, i quali erano stati allargati, il 12 marzo, e comprendevano gli operai e i soldati.
Nel primo comitato esecutivo, presieduto da Nikolaj Semenovic Ccheidze, troviamo Georgij Valentinovic Plechanov e Vjaceslav Michajlovic Skrjabin, che verrà, poi, conosciuto nel mondo con il soprannome di Vjaceslav Michajlovic Molotov. Fu il primo direttore della Pravda, dopo la sua ricostituzione, ed ebbe, allora, la sua prima lite con Stalin, appena giunto dall’esilio siberiano.
Nel primo Governo Provvisorio erano previsti due membri del Soviet: Ccheidze e Kerenskij.
Ma Ccheidze si rifiutò, perché il Governo era troppo colorato di conservazione sociale, mentre Kerenskij vi entrò, sigillando, così, il proprio destino.
Fu proprio Kerenskij, infatti, in veste di ministro della giustizia, a indurre il governo a incoraggiare il rientro dei vecchi bolscevichi in esilio, che, dal canto loro, avevano, già, iniziato ad affluire.
Dalla Siberia, dove si trovava confinato, Stalin era rientrato, il 25 marzo, insieme a Lev Borisovic Kamenev, Pavel Pavlovich Muratov e Jakov Michajlovic Sverdlov.
Non appena giunto a Pietroburgo, Stalin criticò, aspramente, la direzione della Pravda e fece sostituire Vjaceslav Michajlovic Molotov con Muratov, perché aveva assunto un atteggiamento negativo nei riguardi del Governo Provvisorio.
“Il Governo Provvisorio”,
scrive la Pravda del 29 marzo,
“per quanto mal disposto e con un’andatura titubante e malferma, si è assunto il compito di consolidare le conquiste delle masse rivoluzionarie. Non ci riuscirebbe di alcuna utilità forzare il corso degli eventi e accelerare il processo di espulsione degli elementi borghesi che dovranno in seguito abbandonare le nostre fila.”
Lo Stalin del 1917 ragionava, già, allora con quella spregiudicatezza che lo avrebbe portato a firmare, nel 1939, il patto con Adolf Hitler.
Quando, il giorno seguente, Vjaceslav Michajlovic Molotov criticò questo articolo e una proposta mirante ad attuare l’unificazione di tutti i partiti e le frazioni socialiste russe, perorata da Stalin e, in precedenza, respinta da Lenin, esclamò:
“Mi oppongo, non è possibile!...”
Ma Stalin si dimostrò eccezionalmente duttile:
“Non è il caso di anticipare e prevenire divergenze di opinioni. Quali membri di un unico partito,”,
disse,
“le nostre piccole divergenze debbono scomparire.”
Fu, allora, che ebbe inizio quella pluriennale amicizia che unì Stalin a Vjaceslav Michajlovic Molotov e che in quest’ultimo perdurò, nonostante le rivelazioni del XX Congresso del partito. Ma l’appoggio al Governo Provvisorio, voluto da Stalin, doveva durare poco. 

Stalin e Maksim Gor’kij, pseudonimo di Aleksej Maksimovic Peskov.

 Vjaceslav Michajlovic Molotov [1890-1986].

Lev Borisovic Kamenev [1883-1936].

Lev Trockij, pseudonimo di Lev Davidovic Bronstejn  [1879-1940].

Il 16 aprile, arrivò a Pietroburgo Vladimir Iljic Ulianov, detto Lenin.
l suo ritorno era atteso e paventato.
Veniva da Zurigo dove si trovava in esilio. La mattina del 13 marzo, un vecchio bolscevico di nome Mieczslaw Bronski-Warszawski era corso a casa sua:
“Compagno Lenin,”,
gli aveva annunciato,
“la rivoluzione è scoppiata.”
Dapprima Lenin non aveva voluto credergli, ma poi, si era convinto. Il problema da affrontare suonava: come entrare in Russia?
“Se fingessi di essere uno svedese sordomuto? Potrei passare la frontiera con un passaporto falso”,
aveva detto a Nadezda Konstantinovna Krupskaja, sua moglie.
“Non va, non funziona,”,
aveva risposto Nadezda,
“potresti sognarti di Miljukov e mandarlo al diavolo nel sonno. Scoprirebbero subito che non sei né sordomuto né svedese.”
Infine, gli venne un aiuto insperato da parte dello Stato Maggiore germanico, che avvalendosi di un suo agente, Aleksandr L’vovic Parvus, pseudonimo di Izrail’ Lazarevic Gel’fand, fornì i mezzi e un vagone chiuso per inviare Lenin a Stoccolma e, da qui, a Pietroburgo.
Si trattava di creare le maggiori difficoltà possibili alla Russia, il cui esercito continuava a combattere, nonostante l’Ordine n. 1, che istituiva i comitati elettivi nelle forze armate, avesse accresciuto il marasma.
Quando Lenin si avviò alla stazione di Zurigo, l’8 aprile 1917, molti amici erano a salutarlo. Ma anche molti oppositori, cosicché per poco non si venne alle mani. Finalmente, il treno si mise in moto. Nel valicare le Alpi, Lenin disse a Karpinskj, che lo accompagnava:
“Probabilmente queste montagne non le rivedrò più.”
Infatti, non le rivide.
Al suo arrivo a Pietroburgo, il presidente del Soviet Ccheidze gli diede il benvenuto.
“Compagni, operai e soldati!
Sono lieto di salutare in voi la rivoluzione russa vittoriosa, avanguardia dell’armata proletaria mondiale.”
rispose Lenin.
Da quel momento vi fu un cambiamento.
Lenin si recò, direttamente, dalla stazione alla sede del partito bolscevico, nella villa della attrice Matil’da Feliksovna Ksesinskaja, una ex-amante dello zar. Quindi, aggredì immediatamente Stalin e Kamenev per l’atteggiamento di collaborazione attendista che avevano assunto nei riguardi del governo provvisorio:
“Non dobbiamo dare nessun appoggio al Governo Provvisorio!”
La seduta si concluse con la pubblicazione delle cosiddette “tesi di aprile” che reclamavano “tutto il potere ai Soviet”.
Furono mosse critiche:
“Lenin e i suoi se ne tornino in Germania!”
“Pazzo, questa è l’illusione di un pazzo!”
“Lenin aspira al trono del grande anarchico Bakunin!”,
urlò il socialista Aleksandr Aleksandrovic Bogdanov.
Ma, ormai, la Storia si era messa in moto: Lenin prevalse in questa aspra polemica perché conosceva la storia e aveva fede nelle proprie idee.
 


Il Congresso di maggio del partito bolscevico vide tra i principali delegati, oltre Lenin, Stalin, Kamenev, Molotov, Jakov Michajlovic Sverdlov, Kliment Efremovic Vorosilov, Grigorij Evseevic Zinov’ev, Nadezda Konstantinovna Krupskaja.
Lev Trockij non era ancora rientrato dall’esilio, pur essendo atteso.
“È tempo di gettare via la camicia vecchia e sporca e di indossarne una pulita.”,
proclamò Stalin, nell’annunciare la propria completa adesione alle tesi leniniste.
Il Congresso si chiuse, il 12 maggio 1917, con la parola d’ordine:
“Tutto il potere ai Soviet!”

Le debolezze e gli errori degli avversari contribuirono almeno quanto la volontà dei bolscevichi alla preparazione della rivoluzione di ottobre e alla loro vittoria.


“Siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi ogni ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo: è la qualità più bella di un rivoluzionario.”
Che Guevara






Daniela Zini
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