“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

lunedì 20 marzo 2017

TERRORISMO II. IL TERRORISMO DEGLI ANNI '60 E '70 DIETRO LA STRAGE DI USTICA? - PRIMA PARTE - di Daniela Zini



DOSSIER TOP SECRET
TERRORISMO

“I terroristi, i kamikaze, non ci ammazzano soltanto per il gusto d’ammazzarci. Ci ammazzano per piegarci. Per intimidirci, stancarci, scoraggiarci, ricattarci. Il loro scopo non è riempire i cimiteri. Non è distruggere i nostri grattacieli, le nostre Torri di Pisa, le nostre Tour Eiffel, le nostre cattedrali, i nostri David di Michelangelo. È distruggere la nostra anima, le nostre idee, i nostri sentimenti, i nostri sogni.”

Oriana Fallaci

 
di
Daniela Zini


Pour transformer le monde, il n’est pas besoin pour toi de la pioche, de la hache et de la truelle et de l’épée. Mais il te suffit de le regarder seulement avec ces yeux de l’esprit qui voit et qui entend. 
Paul Claudel

à mon Père, le premier Homme de ma vie, qui a fait de moi un Homme.
Merci, Papa!

Qui aimerait être sourd et aveugle pour ne pas voir et entendre les atrocités de ce millénaire?
Grâce à une longue enquête qu’il a menée au Moyen-Orient, aux Etats-Unis, en Amérique latine et en Europe, l’écrivain ouvre les dossiers du terrorisme international. Au terme de son “voyage” à l’intérieur des mouvements subversifs, l’auteur, puisant aux sources les plus secrètes, tire de l’ombre les tueurs sans frontières. Il révèle les complicités dont ils bénéficient dans les Etats qui les protègent. Agents secrets, mercenaires idéalistes et responsables politiques se côtoient dans cette étude minutieuse.
L’idéologie rend sourds et aveugles.
Elle refuse d’écouter ce qui n’entre pas dans son univers sectaire.
La grande majorité des gens sont sourds et aveugles aux problèmes du monde!
Tant qu’ils ne sont pas directement concernés et que les fléaux ne leur tombent pas sur la tête, ils s’en moquent!
Ils ne voient même pas qu’une grande partie de ces problèmes ont une incidence directe sur leur vie.
La Liberté n’est pas une exigence que nous devrions attendre de la Société ou de l’Etat; elle est d’abord une exigence intérieure.
Quand les prisons de nos regards et les tombeaux des mots s’ouvrent, quand les barbelés de nos représentations sont arrachés, quand les écrans et les voiles de nos esprits sont déchirés et que les regard en miroirs sont brisés, alors les regards simples, pauvres et nus se lèvent et, sans appui, marchent à travers les murs. Comme les vitraux d’une cathédrale de lumière, ils dansent les mille couleurs des choses. Sur la montagne vide, par delà la grâce des mots et la lourdeur des choses, les mots se font silence-sonore, ténèbres-lumineuses, absence-présence.
Folie humaine ou sagesse divine?
C’est la douce folie des Enfants, des Artistes et des Saints qui nous invitent à vivre en poésie, accordés avec cet au-delà, qui se voile et se dévoile dans le silence des choses comme dans les secrets de nos histoires.
Ce qu’il y a de plus important dans la vie, c’est d’apprendre à vivre.
Il n’y a rien que les hommes se montrent plus désireux de conserver que la vie, et il n’y a rien qu’ils s’efforcent moins de bien diriger.
Y réussir est chose moins facile qu’on ne pense.
La vie
dit Hippocrate au commencement de ses Aphorismes médicaux,
est courte, l’art est long, l’occasion passagère, l’expérience trompeuse et le jugement difficile.
Le bonheur et le succès ne dépendent pas des circonstances, mais de nous-mêmes.
Plus d’hommes ont dû leur ruine à leurs propres fautes qu’à la malveillance des autres; plus de maisons et de villes ont été anéanties par l’homme que par des tempêtes et des tremblements de terre.
Parler aujourd’hui d’émerveillement peut sembler une folie, mais cette folie n’est-elle pas la plus grande sagesse devant la désespérance de ce monde?
Toute l’histoire de la philosophie, depuis les Pré-socratiques jusqu’à Martin Heidegger tourne autour de ce mystère de l’étonnement devant le sublime de la vie.
Avoir l’esprit philosophique,”,
écrit  Arthur  Schopenhauer,
c’est être capable de s’étonner des événements habituels et des choses de tous les jours.
Et Einstein nous assure:
Celui qui a perdu la faculté de s’émerveiller et qui juge, c’est comme s’il était mort, son regard s’est éteint.
Nous retrouvons chez tous les grands hommes cette illumination du regard. L’homme devient génial quand son moi ne fait pas écran entre le réel et la Vérité; par leur avoir, leur pouvoir, ou leur savoir, les hommes se rendent aveugles.
L’homme d’aujourd’hui tombe volontiers dans l’erreur de croire que tout peut être expliqué, qu’il n’y a plus de mystère. Et que l’émerveillement ne serait que l’effet de la nouveauté sur des esprits ignorants.
L’Humanité occidentale périt de cette perte du sens du merveilleux, qui est une confusion entre problème et mystère. Elle a perdu le sens du réel, en confondant réel, imaginaire et symbolique.
L’idolâtrie des choses ou des idées, et maintenant des images, est une vieille tentation de l’humanité!
S’étonner, c’est se laisser surprendre par les choses les plus simples de la vie.
Entre le choc de l’étonnement et la terre promise de l’émerveillement, il y a un long chemin d’exode, où notre esprit s’éveille et où notre regard se libère.
Il nous est dit au premier chapitre de la Genèse qu’à la fin du sixième jour:
Dieu vit tout ce qu’il avait fait et voici, tout était très bien.
Non seulement bien, mais très bien; et cependant combien peu d’entre nous savent apprécier l’admirable monde où nous vivons?
Plusieurs d’entre nous marchent à travers la vie comme des Fantômes: ils se trouvent dans le monde sans en faire partie. Nous avons des yeux pour ne point voir et des oreilles pour ne point entendre.
Pour voir, il faut regarder.
Regarder, c’est garder, c’est monter la garde, non pour prendre l’Autre en flagrant délit mais pour se laisser surprendre.
Regarder, c’est devenir gardien de l’être, c’est veiller dans l’attente d’une sensation vraie comme dit  Paul Cézanne.
Regarder est beaucoup moins facile que de ne pas regarder, et c’est un don précieux que d’être capable de voir ce qui passe devant nos yeux.
John Ruskin affirme :
Ce que l’esprit humain peut faire de plus grand en ce monde est de regarder et de raconter tout simplement ce qu’il a vu.
Je ne pense pas que les yeux de Ruskin soient meilleurs que les nôtres, mais comme il voit plus de choses avec les siens!
L’émerveillement naît d’abord du silence, et il conduit au silence. Ce silence de soi est la première condition de sa manifestation. Le silence est la trace en nous de l’émerveillement; et celui-ci est proportionnel au silence qu’il fait naître en nous. Quand l’œil écoute la musique du silence, l’esprit perçoit la mélodie secrète des choses. Le silence et l’émerveillement accomplissent ce miracle de nous introduire dans le dialogue avec un au-delà du visible et du lisible.
J’aime le silence.
Il permet d’entendre la mélodie de l’âme. Celle de l’Autre, lorsque je l’écoute se dire, ou la mienne lorsqu’elle murmure en paix.
Le silence me rapproche de l’état de nature, me rappelle que j’en suis un élément.

La nature qui fait toutes choses pour qu’elles répondent à une intention et une destination précises, comme ils le disent justement, n’a pas donné la sensation à l’animal simplement pour pâtir et sentir, mais parce que, entouré d’êtres dont les uns lui sont appropriés et les autres inappropriés, il ne pourrait survivre un seul instant, s’il n’apprenait à se garder des uns et à se mêler aux autres. Or, si la sensation fournit à chacun semblablement la connaissance des uns et des autres, les conséquences de la sensation, la saisie et la poursuite des choses utiles, le rejet et la fuite des choses funestes et pénibles, nul moyen qu’elles se rencontrent chez qui n’a pas reçu par nature la faculté de raisonner, juger, se souvenir et être attentif. Les êtres qu’on dépouillera de toute attente, de tout souvenir, projet ou prépara­tion, de l’espoir, de la crainte, du désir et de l’affliction, il ne leur servira de rien d’avoir des yeux ou des oreilles; et il vaut mieux être débarrassé de toute sensation et de toute imagination qui ne s’accompagnent pas de la faculté qui en fait usage, que d’éprouver peine, douleur et souffrance sans avoir les moyens de repousser ces maux. Et justement le physicien Straton démontre que sans l’intellection absolument aucune sensation ne se produit. Souvent en effet un texte que nous parcourons des yeux, des paroles qui frappent notre ouie nous échappent et nous fuient, parce que notre esprit est occupé à autre chose ; puis il revient: alors il change sa course et poursuit un à un chacun des mots qu’il a laissé échapper. C’est en ce sens qu’il a été dit c’est l’intellect qui voit, l’intellect qui entend: le reste est sourd et aveugle; car l’affection qui a pour siège l’oeil ou l’oreille ne produit pas de sensation sans la présence de la pensée. D’où la réponse du roi Cléomène: il assistait à un banquet où se faisait applaudir un chanteur dont on voulut savoir s’il ne semblait pas habile: Voyez vous-mêmes, demanda‑t‑il, pour moi j’ai l’esprit dans le Péloponnèse. Donc tous les êtres qui possèdent la sensation, nécessairement possèdent aussi l’intellection.
Porphyre, De l’Abstinence, 3, 21.5

Bien que nous ayons une ferme espérance dans les progrès de la race humaine, cependant individuellement, en avançant en âge, nous nous détachons de bien des choses qui, dans notre jeunesse, nous procuraient le plaisir le plus intense. Mais, d’un autre coté, si notre temps a été bien employé, si nous nous sommes prudemment chauffés les mains au foyer de la vie, il se peut que l’âge nous donne plus que nous ne perdons. A mesure que nos forces diminuent, nous sentons moins aussi la nécessité de l’exercice; l’espérance, peu à peu, fait place à la Mémoire.
Celle-ci ajoutera-t-elle à notre bonheur ou non?
Cela dépend de ce qu’aura été notre vie ici-bas.
Il y a des vies qui perdent de leur valeur à l’approche de la vieillesse; chaque jouissance se flétrit l’une après l’autre, et celles mêmes qui subsistent perdent peu à peu de leur saveur. D’autres, au contraire, gagnent en richesse et en paix au-delà de ce que le temps leur a dérobé.
Les plaisirs de la jeunesse peuvent l’emporter en intensité et en saveur, mais ils sont toujours mélangés d’anxiété et d’agitation, et ne peuvent égaler en plénitude et en profondeur les consolations que l’âge apporte comme la plus belle récompense d’une vie exempte d’égoïsme.
Il en est de la fin de la vie comme de la fin du jour: il se peut qu’il y ait des nuages, et cependant, si l’horizon reste clair, la soirée sera belle.
Emanuel Swedenborg suppose que dans le ciel les Anges avancent continuellement vers le Printemps de leur vie, si bien que plus ils ont vécu longtemps, plus ils sont jeunes en réalité.
N’avons-nous pas des Amis qui semblent réaliser cet idéal, qui ont gardé, du moins par l’esprit, toute la fraîcheur de l’enfance?
Voilà une histoire qui devrait faire prendre conscience de la difficulté à accepter la réalité telle qu’elle est.
C’est tellement plus simple de qualifier son contradicteur de fou, d’aliéné, de naïf ou d’imbécile!
Car, même si elle ne fait pas toujours plaisir, même si elle nous dérange dans notre confort et nos idées bien ancrées, même si elle chamboule le bon ordonnancement des choses, même si parfois elle fait peur, je crois qu’il faut pouvoir regarder et entendre la Vérité nue, sans fard et en faisant fi de nos croyances et de nos certitudes.
Et c’est bien là le plus complexe...

Le Bouddha raconta cette histoire à ses moines:
Un jeune veuf se dévouait à son petit garçon. Mais pendant qu’il était en voyage pour son métier, des bandits incendièrent tout le village, le laissant en cendres, et enlevèrent le petit garçon. Quand le père rentra, il ne retrouva que des ruines et en eut le coeur brisé. Voyant les restes calcinés d’un enfant, il crut que c’étaient ceux de son propre fils, prépara une crémation, recueillit les cendres, et les mit dans un sac qu’il emportait partout avec lui.
Un jour, son vrai fils parvint à échapper aux bandits et à retrouver le chemin de la maison, que son père avait reconstruite. Il arriva, tard dans la nuit et frappa à la porte. Le père demanda:
Qui est là?
C’est moi, ton fils. S’il te plait fais-moi entrer!
Le père, qui portait toujours les cendres avec lui, désespérément triste, crut qu’il s’agissait d’un misérable qui se moquait de lui. Il cria:
Va-t-en!
Son enfant frappait et appelait sans cesse mais le père lui faisait toujours la même réponse. Finalement le fils partit pour ne plus jamais revenir.
Après avoir terminé ce récit le Bouddha ajouta:
Si vous vous accrochez à une idée comme à une Vérité inaltérable, quand la Vérité viendra en personne frapper à votre porte, vous ne serez pas capable d’ouvrir et de l’accepter.
[tiré de l’Udana Sutta]



II. Il terrorismo degli anni ‘60
e ‘70 dietro la Strage di Ustica?
- Prima Parte -
“Vi sono momenti nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre.”
Oriana Fallaci 



Il primo uomo che fa del terrorismo un metodo è, forse, Hassan ibn Al-Sabbah, un personaggio sanguinario e affascinante che, intorno al 1090, fonda, in Persia, una consorteria: gli Assassini, i cui costumi e le cui credenze li rendono abominevoli sia ai buoni cristiani sia ai buoni musulmani”.
E, a farne le spese, saranno i Crociati e i cristiani residenti in Terra Santa.
Il termine Assassini compare, per la prima volta, nelle cronache dei Crociati, per designare gli affiliati di una setta musulmana, guidata da un misterioso Vecchio della Montagna. È il rapporto di un emissario, in Egitto, dell’Imperatore Barbarossa, recante la data del 1175, che ne fa menzione:
“[…] esiste una certa razza di saraceni che, nel loro dialetto, si chiamano Heyssessini, e in romano, Segnors de Montana. Questi uomini vivono senza leggi; mangiano carne di maiale, inosservanti alla legge dei saraceni, e dispongono di tutte le donne, senza distinzione, comprese le proprie madri e le proprie sorelle. Vivono sulle montagne e sono, di fatto, invincibili perché trincerati in castelli ben fortificati. […] Hanno un Maestro che terrorizza, enormemente, tutti i Principi saraceni vicini o lontani, come pure i vicini Signori cristiani, perché è solito ucciderli in modo stupefacente. […] in questi palazzi, fa venire, fin dalla loro infanzia, molti figli di contadini. Fa loro apprendere diverse lingue, quali la latina, la greca, la romana, la saracina e molte altre ancora.
[…] si insegna ai giovani a obbedire a ogni ordine e parola del Signore della loro terra, che darà loro le gioie del paradiso perché ha potere su tutti gli Dei viventi. […] Il Principe dà allora a ognuno di loro un pugnale d’oro e li manda a uccidere qualche Principe di sua scelta.”
Più tardi, il cronista Guglielmo di Tiro menziona la setta in poche righe:
“Il legame di sottomissione e di obbedienza che unisce questi individui al loro capo è così forte che non vi è compito così arduo, difficile o pericoloso che ciascuno di loro non accetti di adempiere con il più grande zelo quando il questi lo ordini. […] La nostra gente come i saraceni li chiama Assassini; l’origine di questo nome è sconosciuta.”
Secondo minuziose ricerche effettuate da Bernard Lewis, è, nel 1192, che la setta punisce la sua prima vittima cristiana: Corrado di Monferrato, Principe di Gerusalemme.
L’assassinio ha grande eco nella comunità cristiana di Oriente, portando l’attenzione di molti cronisti su questa strana e pericolosa setta di fanatici.
Il cronista Arnold di Lubecca riferisce le voci di alcuni testimoni:
“Quel vecchio, con la sua magia, ha, talmente ottenebrato le menti degli uomini del suo Paese che non venerano né adorano altro Dio al di fuori di lui. Li adesca, in modo strano, con tali aspettative e con la promessa di tali piaceri, in una gioia eterna, che preferiscono morire piuttosto che vivere. Molti di loro sono anche pronti, a un suo ordine o a un suo semplice gesto, a gettarsi dall’alto di una muraglia e a morire di una morte atroce, fracassandosi il cranio. I più fortunati sono coloro che versano sangue umano e che, in contropartita, trovano loro stessi la morte. […] [Il vecchio] fa vedere loro, con la sua magia, certi sogni fantastici, pieni di delizie e di piaceri, piuttosto con una impostura, e promette loro il possesso eterno di tali beni come ricompensa a tali azioni.”
Queste tre testimonianze rivelano un aspetto importante del mito degli Assassini: quello che colpisce l’immaginazione dei cristiani delle Crociate è il carattere fanatico del loro metodo più che l’assassinio in sé!
Si noti che il rapporto all’Imperatore Barbarossa è più ricco di informazioni rispetto alle altre testimonianze, che sembrano, unicamente, registrare la dimensione fanatica degli Assassini.
Il testo, infatti, li accusa di rapporti incestuosi con le proprie madri o/e le proprie sorelle: è un’accusa che si trova in molti processi per stregoneria e dell’Inquisizione.
Questa testimonianza è attendibile o riflette una volontà dell’autore e, dunque, del potere imperiale del Sacro Impero – di demonizzare questa setta, utilizzando un lessico, abitualmente, riservato agli eretici?
Comunque sia, molto più tardi, un prete di nome Brocardus [ancora un cittadino del Sacro Romano Impero Germanico!] redige un trattato per il Re di Francia Filippo IV, nell’intento di illuminarlo sull’impresa crociata che intende intraprendere. Grande viaggiatore, il prete mette in guardia il sovrano da molti pericoli, quali:
“[…] i maledetti Assassini che si debbono evitare. Vendono se stessi, hanno sete di sangue umano, uccidono innocenti dietro compenso e non si preoccupano né della vita né della salvezza dell’anima. Come demoni, si trasformano in Angeli di Luce, assumendo gesti, abiti, lingue, costumi e azioni di diversi popoli e nazioni; così, coperti di pelli di pecora, subiscono la morte appena sono riconosciuti.”
Si osservi come l’avvertenza del prete Brocardus al re di Francia risenta di una influenza inquisitoria.
Si è visto, infatti, nel rapporto all’Impertore Barbarossa, che gli Assassini apprendevano usi e costumi dei loro nemici per meglio infiltrarsi e sorprenderli. In bocca a Brocardus, questo “talento” si trasforma in una stregoneria con l’indubbio scopo di assimilarli agli eretici.
Appena più tardi, il fiorentino Govanni Villani racconta di un cospiratore che aveva mandato al suo peggiore nemico “i suoi assassini venuti dalle montagne dell’Oriente”.
Guglielmo di Tiro riferisce di un incontro tra Templari e Assassini. Per ottenere l’alleanza dei Cavalieri del Tempio, il Vecchio della Montagna non aveva esitato a sacrificare i suoi uomini …
Il veneziano Marco Polo, che avrebbe attraversato la Persia, intorno al 1273, dà una testimonianza abbastanza precisa dei costumi degli uomini di Alamut; ma la controversia che circonda il personaggio di Marco Polo vieta di prenderlo in considerazione come le fonti citate. Tuttavia, anche se Marco Polo non avesse effettuato il suo famoso viaggio, fosse stato, semplicemente, imprigionato in Oriente e avesse compilato le testimonianze dei suoi compagni di sventura, non si potrebbe non essere sconvolti dalla veridicità della descrizione che fa della setta:
“Lo Veglio è chiamato in loro lingua Aloodin. Egli avea fatto fare tra due montagne in una valle lo piú bello giardino e 'l piú grande del mondo. Quivi avea tutti frutti [e] li piú begli palagi del mondo, tutti dipinti ad oro, a bestie, a uccelli; quivi era condotti: per tale venía acqua a per tale mèle e per tale vino; quivi era donzelli e donzelle, li piú begli del mondo, che meglio sapeano cantare e sonare e ballare. E facea lo Veglio credere a costoro che quello era lo paradiso.
[…] E quando lo Veglio vuole fare uccidere alcuna persona, fa tòrre quello che sia lo piú vigoroso, e fagli uccidire cui egli vuole. E coloro lo fanno volontieri, per ritornare al Paradiso; se scampano, ritornano a loro Signore; se è preso, vuole morire, credendo ritornare al Paradiso.”
Da allora il terrorismo si è evoluto in una società divenuta sempre più vulnerabile, ma i metodi utilizzati dai terroristi sono gli stessi: marchiare gli animi, colpendo, vigliaccamente, innocenti sotto gli occhi di tutti!



Rovine di Alamut


Se esiste da secoli è, tuttavia, soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale, che il terrorismo ha preso una ampiezza considerevole ed è divenuto una preoccupazione internazionale.
Tra il 1968 e il 1974, su 2 200 manifestazioni violente nel mondo, 717, vale a dire il 33%, sono opera di terroristi; nel bilancio della violenza, la responsabilità dei terroristi passa dal 18%, nel 1968, al 49% nel 1974.
Contribuiscono, in modo determinante, a elevare questa percentuale i palestinesi e i membri dell’Irish Republican Army [IRA].
E sorge una domanda:
“Esiste in tutto il mondo una “Iternazionale del Terrore”?”  
Una “Internazionale del Terrore”, che raggruppi tutti coloro che, dall’Irlanda al Giappone, passando per la Palestina, i Paesi Baschi, l’America del Sud e gli Stati Uniti, fanno scoppiare bombe, mettono a fuoco grandi magazzini, praticano il rapimento e l’assassinio politico.
Gli specialisti su questo punto sono concordi e categorici: una “Internazionale del Terrore” non esiste, almeno nel senso di una organizzazione strutturata, con uno stato maggiore e una gerarchia. Nondimeno, non vi è dubbio alcuno che i terroristi, sia che lottino contro un regime o un occupante, sia che combattino per fini nazionalisti o rivoluzionari, pratichino, spesso, l’assistenza reciproca e abbiano contatti tra loro.

 

Bloody Sunday


Atteniamoci ai fatti!
Esistono, a esempio, prove di relazioni tra separatisti bretoni e separatisti baschi, una minoranza di 2 milioni e mezzo di persone e uno dei popoli più antichi d’Europa.
Esiste la prova che, nel corso dell’estate del 1972, esponenti baschi dell’Euzkadi Ta Askatasuna [ETA], Patria E Libertà, ed esponenti dell’IRA si siano incontrati, nella regione parigina, per accordarsi circa lo scambio di informazioni, la fornitura di armi e di esplosivi e l’assistenza reciproca dei loro esponenti clandestini operanti “in trasferta”.


Andreas Baader e Ulrike Meinhof


E, ancora, i servizi israeliani hanno la certezza della esistenza di legami tra organizzazioni palestinesi e raggruppamenti di terroristi dell’Argentina, dell’Uruguay, del Perù, del Venezuela e del Nicaragua.
È, anche noto che, nel febbraio del 1972, vi sia stata a Santiago del Cile una riunione tra i capi terroristi argentini, cileni, brasiliani e uruguaiani.
Sono, egualmente, noti i legami tra l’Armata di Liberazione Popolare Turca [TPLA], sezione terroristica del movimento clandestino marxista maoista in Turchia, e organizzazioni palestinesi; legami che hanno portato all’addestramento di terroristi turchi nei campi palestinesi in Siria e in Libano.
In un altro settore “caldo” del mondo, è stato possibile accertare che il Fronte di Liberazione Eritreo [FLE] ha avuto rapporti con Al-Fatah, il Fronte Popolare di Hasbash e il Sak, il movimento di liberazione palestinese con sede in Siria.
Da queste sintetiche constatazioni nasce una prima osservazione.
A dispetto delle loro rivalità politiche, le relazioni tra i vari movimenti palestinesi si estendono, collettivamente, attraverso il mondo ad altri gruppi terroristi.
Si sa, così, da Carlos Yarur – arrestato dai servizi israeliani nell’aeroporto di Lod, a Tel Aviv, il 20 marzo 1973 – di legami tra il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina [FPLP] e terroristi cileni; e si sa, anche, che Andreas Baader e Ulrike Meinhof – i Bonnie & Clyde del terrorismo tedesco – sono vissuti, tre mesi, nei campi di addestramento di Al-Fatah in Giordania e in Siria.
 
 
 

In breve, un movimento terrorista non può essere impiantato e durare senza complicità esterne, che gli permettano di pagare i mercanti di armi, di portare il materiale bellico sul posto e di provvedere alla sicurezza, alla clandestinità e al mantenimento dei propri corrieri clandestini.
A questo punto, sorgono non poche domande.
Da dove provengono le armi usate dai terroristi?
Da chi le acquistano?
Che tipi di armi usano?
Come viaggiano queste armi?
Anche in questo caso, bisogna attenersi ai fatti e, per una ragione molto semplice: se, infatti, per quel che riguarda le cifre del commercio “ufficiale” di armi, si cerca di stendere un velo di reticenza; se per il traffico “semiufficiale” di armi da parte dei vari mercanti, ovviamente, si conosce poco; è chiaro che, per le stesse caratteristiche clandestine del terrorismo, dati sicuri esistono ancora meno.
Iniziamo, quindi, partendo da dati sicuri.
Per quel che riguarda, a esempio, i terroristi irlandesi dell’IRA, tra il 1969 e il dicembre del 1974, gli inglesi sono riusciti a sequestrare 192 fucili mitragliatori; 1903 carabine; 1982 pistole; 530 fucili; 18 lanciarazzi; 30 razzi; 297 mortai; 257 bombe da mortaio; 725 029 cartucce per varie armi; 165 570 libbre di esplosivo, commerciale o “fatto in casa”.
Tra le armi sequestrate vi erano molti leggendari, ma pesanti e imprecisi mitra Thompson, e così pure l’obsoleto Lee Enfield 303, il Garrard semiautomatico e, infine, efficienti carabine americane M1.
Bene!
Per questi quantitativi sequestrati, quanti altri erano in possesso degli uomini dell’IRA?





Cairo, 27 settembre 1970: il leader del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina [FPLP], Yasser Arafat [a sinistra], il presidente egiziano Gamal Abd El-Nasser [al centro] e il re Husayn di Giordania [a destra].



Leila Khaled


Per quel che riguarda il Sud America, per conoscere la pistola Mitchell WerBell, una pistola automatica che è un vero e proprio lanciarazzi tascabile di grande precisione, bisognava essere un intenditore di armi, oppure avere viaggiato a lungo nelle zone del Caribe, dove “non passa giorno che non si spari”.
Ma queste, negli anni ’60 e ’70, sono armi perfezionate, modernissime.
Ai terroristi, come abbiamo visto nel caso dell’IRA, andava bene qualsiasi arma.
Come il Mannlicher-Carcano, il vecchio fucile italiano con il quale venne ucciso il presidente americano John Fitzgerald Kennedy, una tra le armi portatili vendute dal governo italiano come eccedenze, per un totale di 125mila, il 30 settembre 1960, alla Adam Consolitated Industries con sede a New York.
E dei Mannlicher-Carcano, a esempio, sono stati trovati anche in Sud America.
Secondo Dominik De Fekete von Altabach und Nagyraoth, un ex-ufficiale dell’esercito ungherese, trasferitosi, alla fine della guerra, in Sud America e divenuto celebre come mercante di armi:
“I migliori acquirenti sono, in genere, i ribelli, perché non vanno tanto per il sottile; acquistano quello che trovano. Soltanto che le consegne sono difficili.”





Quanto poteva costare, in quegli anni, un’arma venduta ai terroristi?
Facciamo un calcolo!
Una pistola non modernissima, ma ancora efficiente, poteva costare al mercante che ne imbarcava molte migliaia a Bruxelles – forse, il maggior centro di smistamento in Europa – circa 60mila lire.
Se arrivavano a Belfast, il prezzo di 200mila lire non era esagerato.
Quanto al Sud America, un fucile lanciagranate americano, l’M79, veniva pagato oltre 2 milioni di lire, un vecchio fucile anche 300-400mila lire. Ma i terroristi dove trovavano i soldi per acquistare armi vendute a prezzi così alti?    
Nel caso del Sud America, ricorrendo, in genere, a rapimenti, per poi incassare il prezzo del riscatto.
Nel caso dell’IRA – che stando alle forze di sicurezza inglesi avrebbe acquistato il 75% delle sue armi negli Stati Uniti – grazie soprattutto, all’aiuto finanziario – calcolato, sempre, dagli inglesi, in una cifra tra il milione e i 2 milioni di dollari – dei numerosi irlandesi che risiedevano nella Repubblica stellata ed erano simpatizzanti della causa irlandese.
Una delle armi preferite dal terrorista era la pistola mitragliatrice cecoslovacca Skorpion, lunga solo 27 centimetri, dunque, un’arma facile da nascondere, ma anche un’arma che vuota un caricatore di 20 pallottole in venti secondi.
In Irlanda, era apprezzato il lanciarazzi anticarro RPG-7, di fabbricazione sovietica, un lanciarazzi che, se distribuito parsimoniosamente ai soldati della Armata Rossa, è stato, spesso, utilizzato in Vietnam e nel Vicino Oriente.
Si può dire che nell’equipaggiamento del terrorista figurassero armi di tutto il mondo, dalle belghe alle ungheresi.
Vi era, tuttavia, un ma.
Non ci si poteva fidare molto delle indicazioni di origine: a esempio, i bulgari vendevano pistole fabbricate dagli ungheresi, che riproducevano, con estrema esattezza armi belghe e portavno, perfino, la menzione “fabriqué en Belgique”.
Sempre in Ungheria, si fabbricavano dei Parabellum, perfettamente riprodotti, e sono stati trovati, in Palestina e in Irlanda, dei mitra russi Kalashnikov, ma che portavano incisi caratteri cinesi.
Nel corso degli anni 1970, i terroristi passano dalla pistola e dal mitra al missile.
Più preoccupanti delle armi, diciamo “tradizionali”, sono, infatti, i missili Sam-7 Strela, di fabbricazione sovietica. Questi missili, sono capaci di abbattere a una distanza di chilometri un aereo in procinto di atterrare o decollare. Si tratta di ordigni che pesano solo 12 chili e che possono essere, secondo gli esperti, “utilizzati anche da un bambino”. In effetti, non vi è bisogno di mirare all’obiettivo, dato che è la testa del missile, attirata dalla fonte del calore costituita dal reattore dell’aereo, a cercare da sé la sua preda. 
Il 5 settembre 1973, il controspionaggio del SID [l’Ufficio D, diretto dal generale Gian Adelio Maletti], grazie alle informazioni fornite dal Mossad, riesce a individuare e a intercettare una cellula palestinese, catturando, in un appartamento di Ostia, cinque presunti terroristi: Ali Al-Tayeb Al-Fergani; Ahmed Ghassan Al-Hadithi; Amin El-Hindi, numero due dei servizi di sicurezza di Al-Fatah e braccio destro di Abu Iyad; Gabriel Khouri e Mohammed Nabil Mahmoud Azmi Kanj[1]  [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/10/09/dodici-anni-di-terrorismo-arabo-in-italia.html]. I 5 arrestati, che progettavano di abbattere, con un missile Sam-7 Strela, un aereo della compagnia di bandiera israeliana EL AL, in decollo da Fiumicino, sono in possesso di passaporti di diversi Paesi: Libia, Iraq, Siria, Giordania, Egitto.
Tre mesi dopo, il 17 dicembre[2], a Fiumicino, avviene la strage firmata da Settembre Nero e uno dei 5, Gabriel Khouri, dichiara:

“Rinneghiamo l’attentato criminale compiuto a Fiumicino, non abbiamo nulla in comune con coloro che hanno incendiato il Boeing e dirottato l’aereo tedesco. L’atto terroristico costituisce un gesto di barbarie che nuoce alla causa araba e gli autori sono nostri nemici. Vogliamo essere processati subito, anche perché abbiamo fiducia che il tribunale non si lascerà influenzare dalla forte pressione di alcuni giornali: anche se riteniamo il rinvio dell’udienza, deciso il giorno della strage di Fiumicino, sia da mettersi in collegamento con l’attentato.”

Il 20 dicembre, a Parigi, la Direction de la Surveillance du Territoire [DST] sgomina un commando di terroristi, composto da 10 turchi, 2 palestinesi e un algerino che, in una villetta di Villiers-sur-Marne, custodisce un arsenale.

L’episodio è l’occasione, in Francia, per denunciare un “lodo” segreto, che i governi di oltralpe avrebbero concluso, adottando atteggiamenti favorevoli ai Paesi arabi, dietro l’assicurazione che i palestinesi non avrebbero utilizzato sul territorio francese loro covi o sezioni terroristiche. 

Ma come è stato possibile fare entrare, in Italia, missili Sam-7 Strela?

Per i servizi segreti italiani, erano entrati tramite qualche valigia diplomatica irachena o siriana; per altri inquirenti, i missili, molto più semplicemente, erano arrivati via mare: l’Italia, infatti, come l’Irlanda, ha, per chilometri e chilometri, tratti deserti di costa.

E dai missili alla bomba atomica!
Vi era, infatti, chi – anche, con non poca esagerazione – diffondeva voci su bombe atomiche “tascabili”, che i terroristi potevano portare, in una normalissima valigia, su auto, treni, navi, aerei.
Il primo annuncio è della Ford Foundation.
Un timore, forse, esagerato, ma anche un campanello di allarme, se, come scriveva George Thayer, in The War Business, entro il 1979, l’atomica sarebbe divenuta merce normale, seppure costosissima.
Per i Fedayyn, la maggioranza delle loro armi proveniva dai Paesi dell’Est e dalla Cina, direttamente, attraverso i Paesi arabi. Giacché beneficiavano della simpatia di tutta la comunità araba, era evidente che non incontrassero problemi, sia per rifornirsi di armi sia per rifornirsi di danaro. Per gli altri terroristi i problemi erano, di certo, maggiori.
Si può, dunque, tranquillamente affermare che le armi viaggiassero di preferenza sulle navi, giacché i controlli esistevano solo nei porti di imbarco ed erano controlli, spesso, relativi. Queste armi potevano divenire per la dogana “macchine agricole”, “generatori”, “caldaie”… e, anche, “rottami bellici inutilizzabili”.


 
Ilich Ramírez Sánchez, meglio conosciuto come Comandante Carlos, Carlos lo Sciacallo o semplicemente Carlos. 

È il caso della carabina Armalite, un’arma leggera, maneggevole, precisa, ottima per il terrorismo urbano, disegnata in America, fabbricata sotto licenza in Giappone, quindi, esportata negli Stati Uniti. E proprio negli Stati Uniti ne viene venduto un certo quantitativo al prezzo di circa un milione e 200mila lire al pezzo, a “sportivi”: sono sportivi di un genere del tutto particolare, se, di qui, vennero, poi, trasportati via mare in Irlanda.
Un caso clamoroso è il caso Claudia.
Il 28 marzo 1973, lo steamer Claudia, registrato a Cipro, dopo avere lasciato Tripoli, è intercettato, poco lontano dalla costa irlandese, da tre vascelli da guerra della marina irlandese, su segnalazione dei servizi segreti inglesi, che avevano saputo di un accordo tra l’IRA e Muammar Gheddafi per la fornitura di 100 tonnellate di armi e dopo che un sottomarinio inglese aveva “filato” il battello da Gibilterra fino in Irlanda.
A bordo le autorità trovano 5 tonnellate di materiale bellico – pistole, fucili, mine anticarro, esplosivi – e, anche, alcuni leaders dell’IRA, sul cui capo pende una taglia, quali Joe Cahill.
Certo, la preda è, indubbiamente buona, ma dove erano finite le altre 95 tonnellate di armi?
È ovvio che solo l’IRA sarebbe in grado di rispondere!
Come, facilmente, si deduce dal caso Claudia, tra i Paesi che appoggiavano il terrorismo vi era la Libia.
E che la Libia  si interessasse all’IRA e, più in generale, a ogni movimento insurrezionale che potesse indebolire l’Occidente, è dimostrato anche da un’altra testimonianza supplementare: l’arresto, avvenuto presso Châtellerault, nell’agosto del 1972, di un basco, che portava con sé documenti comprovanti le sue relazioni con un trafficante di armi tedesco, con l’IRA e con la Libia.
In quei documenti, inoltre, vi era la prova di una consegna, già eseguita, di 400 pistole e l’attesa di un’altra consegna di 200 pistole mitragliatrici e 2 tonnellate di plastico, oltre a uno stock di granate.
Disgiuntamente dagli acquisti, i terroristi cercano di trovare sul posto una parte dei loro rifornimenti, rubando dagli arsenali o assaltando caserme.
Per il terrorista, infatti, questo è, in teoria, il sistema ideale per armarsi, visto che è a portata di mano e non costa nulla.
Lo provano gli assalti dei terroristi dell’ETA a caserme della Guardia Civil e gli analoghi assalti a caserme della polizia e dell’esercito dei Tupamaros, il nome che si erano dati i terroristi dell’America del Sud, – primi tra loro gli uruguaiani –, ispirandosi ai nomi di due grandi capi Incas che lottarono contro gli spagnoli.
A parte gli assalti, a parte il traffico via mare, vi è, anche, il trasporto via cielo.
Ovviamente, è più esposto ai rischi e può fornire, a viaggio, meno materiale.
È il caso del Charlie Tango Kyle, il nome dato a un DC-6, che fu intercettato all’aeroporto di Amsterdam-Schiphol. Oltre a un solo passeggero, un certo Koenig, un veterano del Biafra, nell’aereo vi erano 276 casse zeppe di armi cecoslovacche, fucili, bombe, mitragliatrici. Erano state vendute, tramite un venditore americano, dalla Omnipol di Praga all’IRA, rappresentata in quella occasione da David O’Connell e Maria McGuire, inviati in Europa, nel tardo settembre del 1971, con 20mila sterline per acquistare 4 tonnellate e mezzo di armi.
Quell’aereo doveva atterrare a Londra, sede di una ditta – che poi sarebbe risultata “fantasma” – incaricata di reperire materiale bellico per un Paese dell’Africa Occidentale.
Ma l’Interpol aveva scoperto che una piccola nave era in attesa di imbarcare il carico, all’indomani dell’atterraggio a Londra, destinazione, appunto, l’Irlanda, e non l’Africa.
Per le armi scoperte all’aeroporto di Amsterdam, quante altre non sono, mai, state scoperte?
Un altro particolare: quelle armi facevano parte di uno stock di armi “invendute”, destinate al Biafra.
A tale proposito, si sa, anche, che circa 40 tonnellate di armi, acquistate da Chukwuemeka Odumegwu Ojukwu, siano state in diversi Paesi dell’Africa Occidentale e che l’ex-leader biafrano abbia cercato, tramite i “buoni uffici” di mercanti di armi francesi e inglesi, di rivendere ad alto prezzo ai rivoluzionari queste armi.
Almeno per lui, la guerra era finita!
Che fine hanno fatto queste armi o parte di esse? 
Come si è detto, il traffico aereo rappresenta una percentuale minima dell’intero traffico per rifornire i terroristi; è, spesso, una specie di “pronto soccorso” per chi ha bisogno urgente di armi, come ha detto un italo-americano, Pet Denard, pilota d’aereo, i cui voli charter sono serviti tanto bene in Congo quanto in Palestina, quando a interpretare la parte di terroristi erano gli ebrei palestinesi e lo Stato di Israele non esisteva, ancora.    




DOSSIER TOP SECRET
TERRORISMO
I.                  IL TERRORISMO UTILE di Daniela Zini    
  

Daniela Zini
Copyright © 20 marzo 2017 ADZ






Il 30 ottobre 1973, due degli arrestati, Ali Al-Tayeb Al-Fergani e Ahmed Ghassan Al-Hadithi, ottengono, su cauzione, la libertà provvisoria. Vengono ospitati in un appartamento messo a disposizione del SID, a Roma, e, il giorno successivo, dopo essere stati accompagnati a Ciampino vengono imbarcati e trasportati, segretamente, in Libia su un aereo militare, un bimotore Dc3 Dakota “Argo 16”, in uso alla struttura segreta Gladio. Ad accompagnare i terroristi vi sono 4 ufficiali del SID: il colonnello Giovan Battista Minerva, il capitano Antonio Labruna, il colonnello Stefano Giovannone e il tenente colonnello Enrico Milani.
Gli altri tre sono, invece, trattenuti in carcere.


[2] 
Il 17 dicembre, nell’aula del tribunale, mentre iniziano a giungere le prime notizie dell’attentato a Fiumicino, un funzionario della Questura di Roma, Domenico Spinella rilascia una dichiarazione, riportata dall’ANSA: 
“Testimoniando oggi al processo contro i cinque arabi trovati ad Ostia in possesso di armi… [Spinella] ha riferito che circa due mesi fa era venuto a conoscenza attraverso alcune voci dell’eventualità di un clamoroso atto terroristico che doveva avvenire probabilmente a Roma. L’attentato sarebbe stato fatto per ottenere la liberazione degli arabi imputati nell’attuale processo. Il piano terroristico, secondo le informazioni riferite dal dottor Spinella [che ha, così, confermato quanto aveva detto in istruttoria] era denominato “Operazione Hilton” ed era stato affidato ad un uomo di nome Wadi Haddad, chiamato anche Abu Hani, residente in Jugoslavia.”
 


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