“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

venerdì 14 febbraio 2014

I FOLLI D'AMORE I. La nostalgia della perfezione di Daniela Zini



Ebbene sì, lo confesso, io soffro di quel male incurabile
che Rumi chiama nostalgia della perfezione!

Le neuroscienze sono, ormai, in grado di rivelare la specificità dell’esperienza spirituale, distinta dalle forme patologiche della relazione con il divino. Per una umanità divenuta folle per mancanza di Amore, la Follia d’Amore potrebbe ben essere la via innovatrice dell’estrema intelligenza del cuore.
Una fiaba di Jean de La Fontaine [1621-1695] porta in scena L’Amour et la Folie [1685]. “Una disputa scoppia” e la Follia, dalla rabbia, acceca l’Amore. Gli dei condannano “la Follia a servire da guida all’Amore cieco”. Attraverso una retorica figurativa, il favolista ricorda che l’Amore e la Follia sono inseparabili.
Tout est mystère dans l'Amour,
Ses flèches, son carquois, son flambeau, son enfance:
Ce n'est pas l'ouvrage d'un jour
Que d'épuiser cette science.
Je ne prétends donc point tout expliquer ici:
Mon but est seulement de dire, à ma manière,
Comment l'aveugle que voici
(C'est un dieu), comment, dis-je, il perdit la lumière;
Quelle suite eut ce mal, qui peut-être est un bien
J'en fais juge un Amant, et ne décide rien.
La Folie et l'Amour jouaient un jour ensemble:
Celui-ci n'était pas encor privé des yeux.
Une dispute vint: l'Amour veut qu'on assemble
Là-dessus le conseil des Dieux;
L'autre n'eut pas la patience;
Elle lui donne un coup si furieux,
Qu'il en perd la clarté des cieux.
Vénus en demande vengeance.
Femme et mère, il suffit pour juger de ses cris:
Les Dieux en furent étourdis,
Et Jupiter, et Némésis,
Et les Juges d'Enfer, enfin toute la bande.
Elle représenta l'énormité du cas;
Son fils, sans un bâton, ne pouvait faire un pas:
Nulle peine n'était pour ce crime assez grande:
Le dommage devait être aussi réparé.
Quand on eut bien considéré
L'intérêt du public, celui de la partie,
Le résultat enfin de la suprême cour
Fut de condamner la Folie
A servir de guide à l'Amour.
Tutta una letteratura dell’Amore-Follia e dell’Amore-Passione, da Fedra a Nadja, mostra che le frontiere tra la Follia e l’Amore sono permeabili – ciò che ci ricorda la vita.
Follia e Amore hanno in comune allucinazioni, premonizioni, telepatia, dialogo delle voci interiori che tengono viva, in modo ossessivo, nella mente l’Essere Amato. Con l’Amore alla Follia, si toccano i limiti molteplici della ragione, che sono il cuore, l’inconscio, l’immaginario, il sogno. È in questo campo contiguo alla logica che l’Amour fou di André Breton scatena automatismi psichici puri, che danno libero corso alla onnipotenza dell’inconscio, del sogno, del desiderio e dell’erotismo.
Questa forma di Amore-Nevrosi ha ispirato allo psichiatra di origine franco-algerina, Paul Sidoun, un libro poco comune sul soggetto, Désirs, amours et autres destins noirs. Non è un romanzo, tanto meno un trattato scientifico. Sono Études de cas d’une psychiatrie de l’Amour, come indica il sottotitolo. Perché l’Amore fa disastri in salute mentale. La nostra società, caratterizzata da una ricerca sfrenata di emozioni, fabbrica, secondo questo medico, dei folli di intensità. Le coppie si disfano non  appena l’intensità si allenta. A rischio di apparire retrogrado, Sidoun sostiene di credere nel matrimonio, nell’impegno, nell’unione a lungo termine. Sostiene, altresì, che le società, in cui i valori morali sono più solidi, generano meno individui infelici, feriti dalle loro pene d’Amore.
Ma che prescrive alle vittime di Cupido?
“Ça dépend des cas. Il y a des remèdes contre la dépression majeure ou d’autres maladies de l’âme. Et il existe une multitude d’approches thérapeutiques. Mais l’Amour dévorant, ravageur, a certainement des causes sociales. Et la morale ne dépend pas de la psychiatrie.
Secondo il medico, la vita è fatta di lunghi momenti di calma e di serenità, durante i quali non si dovrebbe avere altra preoccupazione che guardare crescere i fiori.
Le persone felici non hanno, dunque, storia?
E dopo? 
“On a tué une sensibilité aux petites choses, au quotidien, pour des rêves de géants absolument inaccessibles. Regardez les magazines, la pub, le cinéma et dites-moi ce qu’on vend. Tout est intense. C’est trop!
Il risultato?
Non si è mai tanto sofferto di dolore morale.

I FOLLI D’AMORE
Essenza dell’Amore 
nella Poesia Mistica Persiana
al mio Amico Invisibile
“Si deve avere un Amico Invisibile, cui parlare nelle ore silenziose della notte e durante le passeggiate nei parchi.”
Khalil Gibran

Si associa, sovente, il primo Amore a un Amore romantico e senza concessioni.
E, se questo Amore finisce, la pena d’Amore sembra insormontabile… almeno per un certo periodo di tempo!
Poi, i ricordi si trasformano e tendono a mitigare i momenti spiacevoli a tutto beneficio di quelli piacevoli. Il primo Amore si nobilita fino a divenire una sorta di ideale di perfezione che non  si potrà mai più rivivere.
Come ritrovare nella realtà la purezza di una prima emozione?
Sembra una impasse.
La nostra memoria autobiografica ci priva, infatti, dei momenti senza interesse che il primo Amore ci ha, egualmente, recato. Quei momenti senza emozioni non hanno lasciato traccia, alcuna traccia mnesica. La memoria deforma il ricordo, e può, anche, in certi casi, creare falsi ricordi. Il primo Amore non è più un Essere in carne e ossa, ma piuttosto una ricomposizione, sovente, mitizzata. Assume il ruolo di un fossile vivente che unisce il ricordo del passato all’istante presente. Si ritrovano il suo nome, il colore dei suoi occhi, la sua casa, il suo ex-liceo, tutto ciò che permette di ritrovare l’emozione.
Si è qui e là, allo stesso tempo.
Noi non abbiamo, veramente, dimenticato, ma la restituzione dei ricordi è molto facilitata da elementi esterni, come afferma Marcel Proust in A l'ombre des jeunes filles en fleurs:
La meilleure part de notre mémoire est hors de nous, dans un souffle pluvieux, dans l'odeur de renfermé d'une chambre ou dans l'odeur d'une première flambée, partout où nous retrouvons de nous-même ce que notre intelligence, n'en ayant pas l'emploi, avait dédaigné, la dernière réserve du passé, la meilleure, celle qui quand toutes nos larmes semblent taries, sait nous faire pleurer encore. Hors de nous? En nous pour mieux dire, mais dérobée à nos propres regards, dans un oubli plus ou moins prolongé.”
Da dove origina la nostalgia del primo Amore?
Perché, con il tempo, le nostre esperienze sembrano non cancellare il ricordo del primo Amore?
Era la prima volta.
E, come ogni prima volta, non sono possibili riferimenti, non sono possibili paragoni tra il qui e il là, tra l’ora e l’allora.
Tutto ciò rappresenta un rito iniziatico che si vive, frequentemente, nell’adolescenza.
Vi è un prima e vi è un dopo.
In Premier amour di Sophie Tasma, si può leggere:
Je suis allé dans la cuisine. Quelque chose avait changé dehors, la fenêtre était devenue blanche, brumeuse. J’ai compris que c’était déjà le début du jour.
Qui, la tappa del primo Amore è descritta con la metafora del giorno che viene. È una caratteristica dell’Amore romantico proiettare sulla natura i sentimenti umani.
I colori hanno un senso per noi e sono legati alle nostre emozioni, ma la percezione dei colori è, anche, frutto della nostra cultura e del nostro linguaggio. La memoria può influenzare la stessa percezione dei colori. Se, a esempio, si ricorda un momento intenso, che si è verificato in una giornata poco luminosa e senza contrasti, si può ricordare il cielo di un azzurro più ricco, la sabbia più bianca, l’acqua di un azzurro più profondo, una notte dalla profondità di uno zaffiro, il sangue di un rosso più vivo, un raggio di sole che danza in un bicchiere…
I colori dei ricordi sono più vivi, più saturi, più contrastati. Sono anche legati al contesto del nostro ricordo. Si potrebbe dire che il colore del ricordo non è il verde, ma l’erba. Vi è una nuance di verde diversa per ogni filo di erba. La vivacità dei colori del ricordo è una ricostruzione del nostro cervello. Questi colori non esistono nella realtà. Si sarà, sempre, alla ricerca del mare di quell’azzurro che si è visto con il primo Amore o di quell’arcobaleno così luminoso che ha colpito il nostro occhio in un cielo di nera tempesta…
I colori del ricordo non cambiano ciò che noi vediamo, ma possono orientare le nostre preferenze. I fotografi e i registi regolano certi colori per stimolare sensazioni più o meno piacevoli.
La temperatura di colore ne è un eccellente esempio.
Ricordare il primo Amore è una ispirazione che illumina la vita, che ne compone la sua intensità.
È un mollare la presa!
Può rievocarci il buon tempo andato, catapultarci indietro.
I social networks permettono, sovente, queste occasioni. Rileggere un nome induce una reviviscenza del ricordo.
Vi sarebbe pressoché una nostalgia euforica, molto tempo dopo il travaglio del lutto, quando si prende piacere a ricordare gli istanti felici.
Questa nostalgia del primo Amore mantiene viva una fantasticheria per coloro che amano sognare, evadere, qualche istante, in un immaginario poetico, lontano dalla vita reale…
In tale caso, l’incontro non è auspicato, perché rischierebbe di degradare l’immagine ideale ricomposta.
I ricordi sono, spesso, diversi nell’Altro e non possono che, raramente, essere condivisi..
Coloro che si innamorano sono, sovente, forse, anche dei grandi sognatori!

I. La nostalgia della perfezione

di
Daniela Zini


La nozione di straniero è, senza dubbio, universale. Ma molto diffusa è anche quella di Patria innata: l’uomo si sente straniero, si sente separato dalla sua origine, una origine che gli ha dato l’avant-goût della felicità, dell’unione, un ressenti di Amore assoluto.
Il sentimento oceanico, di cui si è parlato in psicologia, nel XX secolo, è molto emblematico di questa esperienza originaria. Vi si vede, al minimo, il ricordo istintivo del benessere della vita in utero [vita, che, come, oggi, sappiamo, non è tutta felicità, perché il feto avverte le sofferenze di sua madre e ha,  anche, le sue forme di sofferenza]. Ma filosofi, mistici fanno partire questo sentimento da una esperienza ben più vasta e trasparente: la Patria dell’Anima è il Mondo di Luce e di Amore che è la Fonte Divina, origine di ogni Essere.
Senza andare troppo lontano dalle tradizioni, che sono nel nostro orizzonte culturale, da diversi secoli, penseremmo a Platone e ai neo-platonici, in particolare, a Plotino [203/205-270], Proclo Licio Diadoco [412-485], a Pseudo-Dionigi l’Areopagita [IV-V secolo], ma anche alle diverse espressioni del pensiero gnostico. La gnosi o lo gnosticismo è un vastissimo insieme, che si è espresso in diverse lingue, in diverse religioni e filosofie del bacino mediterraneo dall’Antichità e, più ancora, dalla tarda Antichità. Gli gnostici sono dualisti e pensano che l’uomo, dalla sua origine nel Mondo della Luce, che è interamente bontà e conoscenza, sia caduto nell’oscurità della materia.
Qui, è in esilio.
È prigioniero.
Ha gli occhi chiusi, i suoi sensi sono i guardiani della sua prigione e se si tormenta per la sua Patria è segno che aspira a risvegliarsi dal sonno in cui è caduto. Il sentimento di essere straniero su questa terra, di essere in esilio è, dunque, un primo passo verso il risveglio, l’inizio di un processo di ritorno verso la nostra origine, verso quel mondo di Luce Divina che è la nostra vera Patria.
Unitamente alla religione mazdea e alla sua riforma zoroastriana, che sono propriamente persiane, la vasta area iranica ha conosciuto fino dall’Antichità tradizioni molto diverse: il buddismo è penetrato molto prima in Iran, a iniziare dall’attuale Afghanistan [ricordiamo tutti i giganteschi Buddha di Bamiyan, che i talebani bombardarono, nel 2001]; la cultura greca ha lasciato il suo segno indelebile, per secoli, con Alessandro e i suoi successori; il cristianesimo è stato molto attivo; poi, il manicheismo, che è nato in Iran e si è diffuso di là verso Ovest [dalla nostra parte] e verso Est [fino in Cina]. Solo, da ultimo, è arrivato l’islam con la conquista araba, nella seconda metà del VII secolo, ma ha impiegato secoli prima di radicarsi, definitivamente, ovunque.
Va, anche, detto che la corrente persiana dell’islam è molto specifica: non è, del resto, UNA, ma DIVERSA. Tutto ciò che ha preceduto l’islam ha lasciato una traccia profonda, in particolare, il pensiero greco e lo gnosticismo, i cui molti testi sono stati diffusi in greco, ma anche in tutte le lingue del bacino mediterraneo e di ben oltre. Numerosi autori persiani ne sono stati consapevoli e lo hanno, nettamente, dichiarato nei loro scritti, nei loro insegnamenti. Mi riferisco, qui, principalmente, agli autori di orientamento mistico, che siano mistici in senso proprio o che siano poeti e filosofi di ambizione mistica. Ma queste distinzioni non sono, francamente, pertinenti, perché si intersecano e si sovrappongono il più sovente: i mistici si sono espressi, sovente, in versi e sono stati, sovente, filosofi o, più esattamente, teosofi. Quanto agli autori letterari, io, sinceramente, non ne conosco che siano esenti da un orientamento spirituale più o meno implicito o affermato.
Non citerò che due esempi – molto conosciuti in Occidente, e, beninteso, anche in Oriente – Jalal ad-Din Rumi [1207-1273] e Khouajeh Shams ad-Din Mohammad Hafez-e Shirazi [1315/1317–1389/1390], grandi autori persiani che hanno messo l’accento sul tema dello straniero, ma è bene intendersi che ciò è presente, in secondo piano, quasi ovunque.
Celeberrimo l’inizio del Masnavi, una raccolta di insegnamenti di Rumi:
Odi la canna del flauto come implora,
E geme delle separazioni subite
“Da quando dal mio canneto mi hanno recisa – confida –,
Uomini e donne, con il mio lamento, muovo al pianto.
Cerco un cuore dilaniato dalla separazione,
Per rivelargli il dolore della mia nostalgia,
Perché chi è strappato dalla propria radice
Rievoca il tempo in cui a essa era unito.
L’inizio di questo lungo prologo è la summa di tutta la mistica dell’Amore, che è al centro dell’islam persiano ma anche, a prescindere dalla religione, al centro della letteratura persiana fino all’epoca contemporanea. Il motivo centrale è questa canna strappata al suo canneto, che spande le sue flebili note ed è il simbolo dell’anima mistica, che piange il perduto Mondo Celeste e anela tornarvi.
Suona per i buoni e per i cattivi, per i profani e per gli iniziati, e tutti gioiscono delle sue note, ma quanti vi sentono dentro il richiamo ai misteri oltremondani?
Solo un cuore turbato dalla separazione dell’Essere Amato è veramente sensibile ai gemiti del flauto; solo un’anima sorella comprende un’anima anelante a ricongiungersi a Dio. Nel lamento del flauto spira, appunto, questo segreto anelito, ma molti orecchi rimangono sordi, molti occhi restano ciechi alla Luce. Con la sua musica nostalgica [il suono del ney, il flauto persiano, è, infatti, lamentoso e nostalgico], il flauto è l’Amico di tutti gli Amanti rimasti soli, di tutti coloro che piangono la lontananza dell’Essere Amato. Il simbolo di questo Amore, ‘eshq, è l’Amico, l’Amato, iar; l’esiliato, l’Amante, asheq.
Altro motivo centrale è il viaggio, la via, rah, cammino o pellegrinaggio, che riconduce il viandante, salek, o pellegrino alla sua Patria, alla nostra origine, la cui nostalgia alberga in noi irrimediabilmente. Chi sa come avanzare è l’‘aref, colui che conosce le tappe e il come della via.
L’Amore e il viaggio animano tutta la poesia persiana e anche la mistica. Si aggiunga l’ebbrezza, in senso figurato, almeno nella mistica, vale a dire la Follia d’Amore perché:
Il flauto narra della via piena di sangue
E racconta le storie d’Amore del Folle.
Il confidente di questa assennatezza è solo chi non ha assennatezza,
Come l’unico avventore della lingua è l’orecchio.
Questa breve introduzione ci mette in presenza dei temi fondamentali, ma anche del lessico di base della mistica persiana. 
La nostalgia, la pena dello straniero, dell’esiliato, sono la molla di questa visione dell’uomo e del suo destino. La pena e, soprattutto, la pena d’Amore, che è la condizione necessaria del risveglio, del cammino e della rifusione:
Il regno dell’unione con te fu, fin dal principio, la dimora del cuore.
Fino a quando lascerai, tu, in esilio questo cuore vagabondo?
Uno dei ghazal del Divan-e Shams, una raccolta di 22mila distici, composti da Rumi, dopo la perdita del suo Amico e Maestro spirituale Shams-e Tabrizi [1185-1248], scandisce il refrain “Torna, infine, all’origine della tua origine” per tutto il suo svolgimento:
Anche se in apparenza tu sei figlio della terra
Tu sei figlio delle perle della certezza.
Tu sei il guardiano fedele del tesoro della Luce Divina.
Torna, infine, all’origine della tua origine.
Se celebre è l’esordio del Masnavi di Rumi, non meno celebre è l’inizio del Divan di Hafez. Hafez visse a Shiraz, nel XIV secolo, e molti dei suoi ghazal sono cantati. Per molti iraniani il Divan di Hafez è il Corano dell’iraniano.
Nel cuore del primo ghazal, questi due distici:
Per me, quale sicurezza di una vita felice, alla tappa dov’è l’Amato,
Allorché, a ogni istante, le campanelle lanciano questo appello: “Attaccate le lettighe!”
Notte scura, fragore delle onde, vortice così terrificante!
Come comprenderebbero ciò che proviamo,
Coloro che, sulla riva prendono tutto alla leggera?
La situazione, molto concreta, del primo di questi distici è quella della carovana: vi sono tappe, dove tutti si fermano. Ma queste possono essere molto brevi, così brevi che, appena vi si sosta, le campanelle, attaccate alle lettighe, riprendono a tintinnare, avvertendo, di nuovo, della partenza imminente. L’idea è che non vi è alcun riposo sulla via dell’Amore: l’Amante è, incessantemente, sul chi vive, incessantemente, in viaggio.
La situazione del secondo distico è quella del viaggiatore in mare: ”Notte scura, fragore delle onde, vortice così terrificante”, l’Amante esiliato rischia la propria vita, a ogni istante. È, per natura, uno straniero sospinto dalle onde, è terrificato, allorché i sedentari, quelli che restano “sulla riva” sono tranquilli e non portano, loro, che “carichi leggeri”: le parole sono molto concrete, anche in questo caso.
Vi sono, chiaramente, due categorie di uomini: quelli che dormono tranquilli nella materialità, soddisfatti della loro condizione, inconsapevoli della loro vera natura e della loro vera destinazione e quelli che hanno preso coscienza, che si sono messi in viaggio, per i quali non vi sarà riposo. Ma gli uni come gli altri sono stranieri su questa terra: gli uni lo sanno, gli altri lo ignorano. Tra questi esiliati, gli uni sono divenuti “innamorati, ebbri e folli d’amore”, gli altri sono solo degli “ubriachi, inebetiti, ciechi e sordi”.   
Felice il giorno in cui lascerò questa tappa rovinosa!
Io cerco il riposo dell’anima e partirò sulle tracce dell’Amato.
Io so che lo straniero non giunge in nessun luogo, tuttavia,
Io partirò, attirato dalla fragranza di quei capelli in disordine.
[…]
Se devo camminare sulla testa come il calamo, sulla sua via
Andrò il cuore a brandelli e gli occhi in lacrime.
Ho fatto voto che, se un giorno guarirò da questa pena,
Andrò alla porta della taverna, declamando ghazal.
Per Amor suo, danzando al modo dell’atomo di polvere,
Giungerò fino al limitare della fonte del sole splendente.
“Questa tappa rovinosa” è il nostro mondo. Lo straniero è votato all’erranza, anche se sa CHI cerca: non vi è posto, in nessun luogo, per lui e mai è “giunto”. La “taverna”, dove ha fatto voto di andare, è il luogo dell’ebbrezza, dove si riuniscono i compagni, tutti coloro che sono consapevoli e impegnati sulla via dell’Amore, è il luogo dei Folli d’Amore, che si votano alla celebrazione dell’Amato nella danza sacra [sama], la recitazione del nome dell’Unico, la meditazione cantata. L’immagine dell’ultimo distico è molto celebre in tutta la poesia persiana, soprattutto in Rumi: ciascuno di noi è come un atomo, un piccolo atomo di Luce, staccatosi dal Sole Divino, che danza nel raggio di Luce, consapevole o no che il suo viaggio di ritorno ascensionale è iniziato.
“Questa tappa rovinosa”, questa tappa di esilio nella quale noi siamo, sarebbe per se stessa malvagia, come per gli gnostici?
No, perché tutto ciò che È, proviene da LUI:
I due mondi sono l’unica Luce del suo volto.
Io te o dissi apertamente, egualmente in segreto.
I due Mondi, vale a dire questo Mondo – Mondo miscelato, fatto di Acqua e di Fango, di Luce e di Oscurità, di Bene e di Male – e quel Mondo – Mondo di Luce, Mondo che è pura espressione divina – sono entrambi la Luce del suo volto: non vi è nulla che non provenga da Lui, ciò è, al tempo stesso, professione di fede [“Io te lo dissi apertamente”] dell’islam ed esperienza mistica [“egualmente in segreto”, perché, nell’esperienza ineffabile dell’unione, l’unicità abolisce tutti i contrari].
Così, ciò che fa di noi degli stranieri, non è il luogo dove noi siamo, ma lo stato di coscienza che è il nostro.
Sappiamo chi siamo?
È tutto qui!
Se noi lo sappiamo, sappiamo che noi siamo intimi dell’Essere Divino, perché noi siamo stati creati a sua somiglianza:
“Colui che si conosce, conosce il suo Signore”,
come dice un noto adagio islamico.
L’Essenza di TUTTO ciò che È, l’Essenza Divina per eccellenza, è l’Amore.      
E, ora, lasciamo, attraverso il calamo di Rumi, l’ultima parola allo stesso Amato:
Io sono venuto a prenderti per mano
Per privarti del tuo cuore e di te stesso e porti nel cuore e nell’anima.
Io sono venuto […] per cingerti con le mie braccia e stringerti.
Io sono venuto per conferirti, in questa dimora, la Luce.
Grazie all’Amore, la Patria è, infine, ritrovata: dimora della Luce!


Le traduzioni dal persiano sono di Daniela Zini
Daniela Zini
Copyright © 10 gennaio 2013 ADZ




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